Indios, i nodi vengono al pettine – Speciale BRASILE

Fuga e resistenza

Si fugge sempre quando assale il «terremoto»…
In Brasile gli indios non hanno il tempo di capire, ma solo di reagire a cose fatte. Fin dall’inizio, con l’attestarsi dei conquistatori portoghesi sulle coste atlantiche (dal bacino del Rio delle Amazzoni a São Paulo), gli indigeni reagiscono trasferendosi all’interno del paese, cambiando territorio e invadendo quello altrui.
La fuga è una soluzione che, fino a quando è possibile, accompagna tutta la storia dei rapporti fra indios e invasori. Sotto l’incalzare dei bandeirantes, per esempio, non resta altra soluzione che rifugiarsi in luoghi inaccessibili.
È quanto accade anche nel secolo XX in risposta all’invasione delle multinazionali: solo che, a differenza dei bandeirantes (già terribili), i nuovi invasori hanno mezzi e armi sofisticati (elicotteri e defoglianti) e fuggire è una misera soluzione.
Ma non tutti gli indios fuggono. Fra quelli che restano, molti resistono alla conquista. Quasi tutte le tribù (non completamente distrutte) attraversano periodi di lotta contro gli aggressori: lottano per ritardae l’avanzata o per dissuaderli dal continuare.
Nel secolo XVI i tupí creano un movimento di resistenza, riunendosi nella confederazione detta «tamoios»; ma non ha grande esito per la violenta controffensiva dei portoghesi. Maggiore successo riscuotono le etnie tatuias nel nord-est: queste, alleatesi, per circa 50 anni (XVII secolo) impediscono l’avanzata distruttiva dei portoghesi.
Pertanto, fin dagli inizi della conquista dei bianchi, gli indigeni brasiliani oppongono resistenza… Nel 1788 è la volta degli indios del Rio Branco: parecchie tribù karibe (tra cui i macuxí) si ribellano, distruggendo un forte portoghese e mantenendo la zona per alcuni anni. Ma l’impossibilità di creare una struttura socio-politica apposita impedisce la continuazione della rivolta.

si decide di morire

Dalla conquista ad oggi, alcune tribù si lasciano sconvolgere dall’impatto con il bianco, rifiutando però l’integrazione. Diverse etnie, trasferite con la forza nelle riserve, costrette alla sedentarietà, perdono il «gusto di vivere» e cadono in una abulia senza rimedio. Un esempio.
Kosó, capo dei kaapor, dopo aver perso la moglie e l’unico figlio, vittime di un’epidemia, cadde in grande prostrazione. Un giorno, tornato dalla caccia, avrebbe raccontato di essersi incontrato con il padre defunto. Questi gli disse: «Vieni, Kosó. Dove siamo noi si sta bene». Kosó, dopo il racconto, si gettò sull’amaca e non parlò più. Il giorno seguente era morto. La gente del villaggio disse che Kosó era stanco e non voleva più vivere.
Accanto a simili reazioni personali, occorre ricordae altre rivolte, questa volta, contro la propria prole. Si tratta del rifiuto esplicito della vita nella comunità: o non nascono più bambini o vengono eliminati (aborto e infanticidio). La donna accetta il suicidio culturale.
È la terribile azione di una società che decide di morire, piuttosto che deculturarsi e integrarsi nella società dei conquistatori.

I risultati
della «civiltà cristiana»

«Fra gli indios, dove non si portò la morte violenta, fu imposta la distruzione della coscienza, della storia e della volontà di masse di uomini, senza nulla recare in cambio. Nulla significa nulla: sfumare, precisare e chiarire significa tradire i concetti». Così lo studioso J. C. Mariategui.
Parlando di distruzione, si evidenzia quella socio-culturale e la volontà del sistema occidentale di rifiutare il «diverso» perché fonte di fastidio.
«Il problema indio» nasce dall’economia dei bianchi, che affonda le radici nella proprietà individuale, che tende ad usurpare le terre indigene, a privatizzare i beni comunitari e a mutare in modo violento i meccanismi di produzione. Questi tre elementi generano influenze deleterie fra la cultura «forte» occidentale e quella «debole» india, e cioè: spopolamento del territorio, degrado ambientale e degenerazione degli individui.
Varie le imposizioni dei «forti»:
1) concentramento degli aborigeni in grandi agglomerati rurali;
2) imposizione del vestiario europeo;
3) opposizione al matrimonio secondo la tradizione indigena (missionari);
4) applicazione della legge penale europea a presunti delitti di immoralità;
5) soppressione del sistema di proprietà comunitaria e dell’autorità dei capi.
Questi tratti culturali, imposti più o meno con la forza da coloni e missionari, comportano in 500 anni di conquista quasi lo sfacelo socio-culturale degli indios.
Tuttavia il Brasile, prima dell’arrivo dei portoghesi, non è un paradiso: le guerre tra gruppi etnici sono frequenti; a determinarle è l’esigenza di sopravvivenza dei gruppi. I bianchi sfruttano le inimicizie fra i nativi.

Civilizzarli. E come?

«Gli indios vivono come bestie. Occorre vestirli, educarli, civilizzarli» dice qualche bianco. «Non esistono più indios – aggiungono altri -, ma soltanto loro discendenti che sono brasiliani come noi». Questo problema si impone con forza all’opinione pubblica brasiliana.
Oggi in Brasile, dei 5-6 milioni di indios del 1500, sopravvivono circa 330 mila persone: appartengono a 215 popoli e parlano 180 lingue differenti.
Per tanti decenni latifondisti (fazendeiros) e cercatori d’oro (garimpeiros) hanno invaso le terre indigene. La scoperta di un giacimento minerario, la possibilità di sfruttare una foresta, la presenza di campi per allevare bovini… sono diventate valide giustificazioni per condannare gli indios a morte.
Sulla rivista di Rio de Janeiro Fatos e fotos nel 1968 si leggeva: «Un piccolo aereo aveva compiuto alcuni voli sul villaggio. Gli indios, impauriti, correvano in casa; donne e bambini piangevano nel cortile senza saper dove andare. D’improvviso un’esplosione fa volare in aria paglia, legna, terra e corpi di persone. Il rombo del motore copriva il rumore degli spari, ma dal finestrino dell’aereo si scorgeva il braccio di un uomo che sparava con un mitra. Mentre la gente scappava in foresta… tutti furono uccisi. E fu sterminata una tribù di Cintas Largas nel Mato Grosso».
Misfatti del genere sono avvenuti in ogni angolo del Brasile, restando quasi sempre impuniti.

Il problema della terra

È «il» problema. La terra è indispensabile anche per la sopravvivenza culturale degli indios… Nel 1973 il governo brasiliano, con la legge 6.001, decide di demarcar i territori indigeni: tempo cinque anni. La legge rimane lettera morta.
Il bestiame dei bianchi continua ad invadere le coltivazioni degli indios e a distruggere tutto. Nel frattempo gli indigeni vivono in fazendas, recintate da filo spinato: non possono più cacciare e pescare; sono obbligati a lavorare nei latifondi del bianco come manodopera quasi gratuita. Spesso ricevono solo acquavite o addirittura alcornol puro: obbligati a bere veleno in cambio di lavoro nelle loro ex proprietà.
L’invasione risponde ad un chiaro piano governativo: concentrare le terre nelle mani di chi può sfruttarle «più razionalmente per il bene dell’economia brasiliana». Si conia uno slogan per giustificare l’operazione: «La terra senza uomini (l’Amazzonia) agli uomini senza terra (i brasiliani nordestini)». Si aprono le strade transamazzoniche, perché «i poveri coloni emigrati» possano avere un po’ di terra da lavorare.
Ma il sogno dei piccoli coloni dura poco. Infatti il governo dichiara: finora la transamazzonica ha aiutato il piccolo colono; «ma ora dobbiamo entrare nella fase delle grandi imprese».
Per realizzare ciò, si vende il Brasile a ditte straniere e a prezzi irrisori. Indios e coloni (anche i secondi hanno versato lacrime e sangue) lottano fino a morire. Vince l’interesse dei potenti.
L’Amazzonia ci rimette oltre un milione di chilometri quadrati (negli stati di Mato Grosso, Rondonia, Goiàs, Acre, Pará, Roraima). Gli indios, minacciati dall’invasione genocida dei bianchi, sono: yanomami, macuxí, wapixana, ingarikò, taurepang, deni, suruí, guajé…
Orecchi da mercante

Il 19-12-1973 il presidente brasiliano Medici firma lo «statuto dell’indio», che dovrebbe tutelare i diritti delle minoranze etniche della nazione. Però la legge penalizza gli indios. Lo stesso presidente dichiara senza mezzi termini: «Lo scopo fondamentale dello statuto è la rapida e salutare integrazione dell’indio nella civiltà».
Nell’ottobre del 1978 la situazione peggiora ancora. Il ministro degli interni Reis consegna al presidente Geisel un decreto-legge sull’integrazione obbligatoria di quasi tutti gli indios.
L’iniziativa suscita una tenace opposizione in vari settori della società: chiesa e università. Gli indios rifiutano con forza il progetto genocida e, il 19 aprile 1979, inviano a tutti i brasiliani il seguente messaggio: «Riuniti in un’assemblea nazionale, siamo portavoce anche dei gruppi indigeni che non sono potuti intervenire. Sono nostri fratelli di sangue che aspettano, come noi, di vedere i loro problemi risolti, specialmente il problema della terra… Stiamo forse chiedendo integrazione ed emancipazione nella società dei bianchi? No. Noi vogliamo solo il riconoscimento e il rispetto della nostra integrità fisica e culturale».
Le richieste trovano orecchi da mercante.

Di male in peggio?

«È in corso una guerra non dichiarata, ma calcolata e sporca: da una parte il governo brasiliano e i centri di potere economici e militari vogliono sfruttare le immense ricchezze del sottosuolo amazzonico; dall’altra la diocesi di Roraima, con la chiesa cattolica del Brasile e le associazioni filantropiche e ambientaliste, cerca di impedire il genocidio di 100 mila indios, la distruzione della flora e fauna amazzonica, l’inquinamento dell’atmosfera e dei fiumi».
È la denuncia dei missionari della Consolata di Roraima del 16 febbraio1988. Investe tutto il Brasile.
Nel paese vige la «nuova repubblica»: una dittatura (con una facciata democratica), dove operano potenti forze economiche brasiliane e multinazionali, appoggiate da settori militari. Si impone un modello di sviluppo neo-colonialista, peggiore dei precedenti: il saccheggio delle risorse forestali e minerarie dell’Amazzonia è perpetrato in modo caotico, incontrollato; provoca l’ennesimo sterminio di migliaia di indios. Secondo il piano governativo, le culture indigene devono scomparire, le comunità integrarsi nella società brasiliana e la maggior parte delle terre è da sottrarsi agli indios, per sfruttare i minerali ritenuti necessari allo sviluppo del Brasile.
Chi crede nel valore della «diversità» dell’indio insorge. I missionari della Consolata si appellano alle Nazioni Unite lanciando una campagna internazionale…
Nell’ottobre del 1988 c’è la nuova costituzione brasiliana. Si ritorna a sperare, perché si avallano i diritti degli indios: alla cultura, alla lingua, alla terra e all’usufrutto delle sue risorse. Si riconoscono 594 territori indigeni e 279 vengono registrati. La registrazione totale dovrebbe completarsi nel 1993.
Ma, nel presente 2000, non sono ancora stati delimitati 315 territori. Le terre indigene continuano ad essere depredate. Sembra davvero che in Brasile, o maior do mundo, non ci sia posto per il «diverso».

Francesco Beardi




Speciale BRASILE – Da Cabral a Cardoso

1500 Pedro Álvarez Cabral «scopre» il Brasile.
1501 Amerigo Vespucci esplora le coste brasiliane.
1530 Martim A. de Sousa fonda Peambuco, São Vicente, Piratininga.
1533 Istituzione di 12 capitanie: inizia la colonizzazione.
1539 Prima domanda ufficiale di importare schiavi dalla Guinea.
1548 Giovanni III nomina Tomé de Sousa governatore generale.
1549 Arriva Tomé de Sousa con sei gesuiti. Fondazione di Bahia.
1550 La tratta degli schiavi diventa sistematica.
1551 Erezione della prima diocesi brasiliana: São Salvador de Bahia. Primo vescovo è mons. F. Sardinha (muore nel 1556 divorato da cannibali).
1554 Padre Anchieta fonda São Paulo. Martirio di Pedro Correa e João de Sousa.
1567 La colonia di calvinisti francesi viene cacciata dalla baia di Rio de Janeiro.
1570 Canna da zucchero coltivata su larga scala: importazione massiccia di schiavi.
1576 Inizia l’evangelizzazione degli indios: per loro sono costruite chiese e scuole.
1576 Creazione della prelatura apostolica di São Sebastião, Rio de Janeiro.
1580 Arrivano carmelitani, benedettini e francescani, che aprono conventi e scuole.
Il regno del Portogallo passa sotto la corona spagnola; vi rimarrà fino al 1640.
1595 Seconda colonia francese si stabilisce nel Maranhão e fonda São Luis (1612).
1624 Gli olandesi iniziano l’occupazione del nord-est. Saranno cacciati nel 1654. Negli stessi anni arrivano cappuccini francesi e mercedari spagnoli.
1650 Lotta dei coloni e autorità locali ai gesuiti, espulsi da una parte del territorio.
1676-1677 Creazione di tre diocesi: São Sebastião, (già prelatura), Olinda e São Luis do Maranhão (1677).
1694 Distruzione del quilombo di Palmares.
1695 Zumbi, capo del quilombo di Palmares, è catturato: la sua testa viene esposta sulla piazza di Recife.
1696 Scoperta dell’oro in Minas Gerais.
1720-1750 La febbre dell’oro accelera il traffico negriero.
1759 Pombal espelle tutti i gesuiti (428) dalla colonia.
1800 Molti schiavi vengono affrancati: la debolezza dell’economia non ne consente il mantenimento.
1808 João VI di Portogallo si stabilisce a Rio de Janeiro.
1818 Apertura delle porte agli immigrati cattolici europei (Italia, Spagna, Germania, Polonia, Russia, Armenia, Libano).
1819 João VI torna in Portogallo; reggenza del figlio Pedro.
1820 Esplode la coltivazione del caffè.
1822 Dom Pedro proclama l’indipendenza del Brasile dal regno del Portogallo e viene coronato imperatore.
1831 Abdicazione di Pedro I in favore del figlio Pedro II.
1840 Inizia il regno di dom Pedro II: seguono 50 anni di pace e sviluppo.
1846 I gesuiti tornano in Brasile, seguiti dai lazzaristi e congregazioni femminili.
1850 Finisce la tratta negriera; ma comincia il contrabbando illecito di schiavi.
1865-1871 Guerra del Brasile contro il Paraguay.
1871 È promulgata la «legge del ventre»: tutti i nascituri da madre schiava sono liberi.
1880 Inizia la febbre del caucciù in Amazzonia; durerà fino al 1912.
1888 Abolizione definitiva della schiavitù.
1889 Cade la monarchia e viene proclamata la repubblica.
Migliorano le relazioni tra chiesa e stato; ciò permette l’entrata nel paese di molti ordini religiosi: salesiani, verbiti, spiritani, francescani tedeschi, cappuccini italiani, benedettini belgi…
1891-1895 Insurrezione dello stato di Rio Grande do Sul.
1916 Organizzazione del Fronte dei neri brasiliani.
1930 Golpe militare porta al potere Getulio Vargas.
1937 Con un nuovo colpo di stato Vargas impone la sua dittatura.
1943 Il Brasile entra in guerra a fianco degli alleati contro il nazifascismo.
1945 Pronunciamento militare costringe Vargas a dimettersi.
1950 Vargas si fa rieleggere presidente.
1954 Vargas è costretto dall’opposizione a lasciare il potere e si uccide.
1964 Un colpo di stato militare impone come presidente Castelo Branco (1964-67).
1974 Fine della dittatura e ripresa delle libertà democratiche.
1990 Con l’elezione del presidente Feando Collor trionfa il neoliberismo.
1994 Viene eletto presidente Feando Henrique Cardoso, che continua la politica neoliberista. Rieletto nel 1998, è il primo presidente a ottenere due mandati consecutivi con libere elezioni.

Benedetto Bellesi




SPECIALE BRASILE – Tra farsa e disprezzo – Introduzione generale

Si è vista prima la nave di Cabral o la terra su cui è sbarcato? Ha visto, per primo, il portoghese o l’indio? È certo che gli indigeni erano già sulla costa di Porto Seguro quando i portoghesi riuscirono a scorgerla.
Però non è importante sapere chi fu il primo a vedere la nuova realtà. Fondamentale è conoscere l’«altro lato» della storia non scritta, tanto più quando si è in presenza di visioni antagoniste, cristallizzate nella frattura socio-nazionale del Brasile. I vinti di ieri sono gli esclusi di oggi. Rappresentano la stragrande maggioranza, resa però minoranza senza voce.
La perplessità è presente nella storia del Brasile fin dal principio. «Perplessità» è la parola che meglio riassume la sensazione degli indios quando i portoghesi conquistarono la loro terra. Chi aveva incontrato, prima di allora, individui… così pelosi, così pallidi, così carichi di vestiti? Uomini senza donne, parlano una lingua incomprensibile, guidano «case» sulle acque come fossero canoe. Chi sono e cosa vogliono?
La perplessità e i suoi sottoprodotti (curiosità, sfiducia, paura) segnarono i primi incontri nel 1500. La diffidenza era reciproca. Indios e portoghesi non sfuggirono alla regola seguente: quando persone o gruppi forestieri si vedono per la prima volta, non si mettono a giocare abbracciandosi uno con l’altro. Non fu quindi un incontro idilliaco.
Seguì lo spavento, allorché gli indios, accanto alla propria schiavitù, videro anche quella degli uomini neri portati a forza dall’altra parte del mare con il sequestro e lo stupro delle donne. Poi nacquero i mulatti, che furono aggregati al sistema con violenza…
La conquista fu un cataclisma per gli uomini e la natura. Il mondo non era più lo stesso. I bianchi annientarono la cultura indigena. L’oppressione costante, le separazioni lancinanti delle persone, i demoni dei missionari… si installarono in un clima di terrore. Quelli che non riuscirono a fuggire all’invasore bianco sprofondarono in uno stato di rassegnazione e resistenza muta, paralizzati per il disgusto, resi schiavi dalla paura.
Seguirono 500 anni di disperata pazienza, inframezzata da rivolte. Si fece silenzio. La sua eco è arrivata fino a noi, oggi, attraverso l’umiliazione della gente contadina senza terra.

N el festeggiare il quinto centenario del Brasile, lo stato, abituato al disprezzo del popolo, non ha accettato il confronto con la storia. Celebrando «la portoghesità» e non «la brasilianità», ha agito come i colonizzatori e i loro eredi. Per rendere più concreta l’impostura ha creato un «museo aperto», la cui definizione tecnica è spregevole.
Ma la contestazione non si è fatta attendere. L’attacco è stato diretto contro «la portoghesità». Si sa che, dal punto di vista europeo, la «trovata» portoghese non esiste: infatti Colombo ha preceduto Cabral nel 1492 e nel 1498, quando ha individuato il continente americano. Qualunque altra «scoperta» è subordinata a quella spagnola.
Il popolo brasiliano scopre, perplesso, che i 500 anni della sua storia si appoggiano su una farsa. La storia del suo paese comincia con una scoperta che non c’è stata.
Infine come mettere insieme una nazione, tronfia di una scoperta, che esclude la maggior parte della popolazione? Come far progredire un paese la cui storia ha per base l’irrazionalità e perpetua il mal governo?

C inquecento anni dopo la conquista-colonizzazione, il Brasile è un paese ancora diviso e deturpato, dove gli eredi dei colonizzatori continuano a sfruttare i discendenti dei colonizzati. Il popolo vive nella miseria, ed è quotidianamente discriminato ed umiliato. La cordialità e la democrazia razziale, che si accreditano al brasiliano, sono solo simulacri segnati dall’esclusione sociale.
Come la conquista è avvenuta nell’ambito di tribù che si distinguevano anche per caratteri biologici, l’intero processo di colonizzazione si è avvalso del tribalismo, sfruttandolo e sovrapponendolo ai problemi economici. L’odiea esclusione sociale ha pertanto basi etniche: ne fanno le spese indios, neri, contadini senza-terra.
I mali del paese non sembrano avere soluzioni, perché le classi dirigenti, i partiti, gli intellettuali e persino la sinistra fingono di non conoscere questa dolorosa realtà. Ma come è possibile estraniarsi? Come si può vivere dentro un’apartheid senza vederla? Si può parlare a nome del popolo brasiliano e, nello stesso tempo, identificarsi con i conquistatori? È quanto sta accadendo in Brasile.
La situazione stagnante ha impressionato il mondo intero: il Brasile è probabilmente il paese più disuguale del pianeta.
Ma il quinto centenario della storia del Brasile può offrirci l’opportunità di un cambiamento. Abituato al disprezzo per il popolo, il governo si tradisce. L’abito del disprezzo condanna i tiranni. Nel Brasile la cosa non sarà diversa.
Allora il paese uscirà dalla perplessità, dalla sudditanza, dell’esclusione. E incomincerà finalmente ad esistere nella storia.

Celene Fonseca




Se Gesù avesse incontrato i musulmani

L’islam e il rapporto tra cristiani e musulmani in Italia e nel mondo sono temi rilevanti di Missioni Consolata. Nel 1989 uscì il numero monografico «Allah il più grande». Seguirono vari dossiers e articoli.
Nel 1999 pubblicammo testimonianze di cattolici italiani convertiti all’islam. Lo facemmo con spirito critico, per mettere sul «chi va là» i superficiali, pronti a mettersi sotto la «sharia» del corano. Scrivemmo allora: «Quanti presunti cristiani, che abbandonano la loro religione, hanno veramente sperimentato che Gesù Cristo, figlio di Dio, è la via, la verità, la vita? È lui “il” salvatore di tutta l’umanità. Lo affermiamo con fede e coraggio».
L’articolo di Michel Barin «La moschea nel convento» (Missioni Consolata, giugno 2000) presenta un’altra esperienza: in alcuni locali affittati, presso un istituto di suore della Valle d’Aosta, si tengono lezioni di arabo e si celebrano festività islamiche. Le lettere seguenti commentano il fatto. Qualcuno contesta duramente Michel Barin.

Non scherziamo,
per favore!

Rabbia, tristezza e delusione sono stati i nostri sentimenti dopo aver letto l’articolo «La moschea nel convento», pubblicato su Missioni Consolata di giugno 2000. Poco è servito a consolarci la provocazione finale di Michel Barin, che risponde riportando le verità che sembrano non essere prese in considerazione da un sedicente ecumenismo.
Ecumenismo, parola ambigua per molti. Si pensa che il cristiano d’oggi debba non solo accettare le varie religioni, ma anche approvarle, a scapito della propria fede. Ma l’ecumenismo non deve danneggiare il proprio credo.
Noi pensiamo che il rispetto per chi aderisce ad una religione non cristiana significhi aiutare chi è nel bisogno: se ha fame, dargli da mangiare; se ha sete, dargli da bere, ecc. E, se un musulmano si prostra a terra per pregare Allah, è rispetto non impedirglielo. Il suo è un diritto, che però non deve calpestare il nostro. Perché non possiamo dichiarare che Maria è madre di Dio? Perché dobbiamo dire che è solo madre dell’uomo-Gesù? Solo per non far arrabbiare i musulmani, che ritengono Gesù-Dio una bestemmia? Ma scherziamo! Si insegni pure l’arabo, la cultura e religione islamica… purché ciò faciliti il dialogo vero, che permetta di accettare l’altro per quello che è, ma non violi le verità trasmesseci da Gesù e dalla chiesa.
Come cattolici ci sforzeremo sempre di aiutare chi è nel bisogno, senza alcuna distinzione: Gesù ce l’ha dimostrato. Ma quanto avviene ora non è ecumenismo. Noi, ad esempio, non vogliamo collaborare con fondi affinché si ergano qua e là moschee (è già avvenuto), perché solo così saremmo cristiani. Altro che evangelizzazione! Questa è islamizzazione!
Se le crociate di ieri sono oggi condannate, non commettiamo il peccato inverso. Sì, riteniamo peccato permettere che la nostra fede venga deformata… per non dispiacere a qualcuno e non apparire anti-ecumenici. È una presa in giro dei missionari, che rischiano la vita proprio nei paesi islamici. Soprattutto è un’offesa a Colui che ha dichiarato di essere il compimento delle scritture, che Lui solo è la via, la verità, la vita. E nessun altro.
Non vogliamo mettere in bocca a Dio i nostri pensieri. Ma dubitiamo molto che Gesù, se avesse incontrato i musulmani, li avrebbe lasciati nei loro errori o addirittura esortati a continuare, solo perché rispettoso dell’uomo. Gesù è morto per essersi dichiarato figlio di Dio e per amore della verità. E noi dovremmo trovare un compromesso falsificando la verità fatta uomo! Stiamo forse perdendo la nostra identità cristiana?
Davide e Anna – Maranello (MO)

Fate bene, amici, a non mettere in bocca a Dio i vostri pensieri, specialmente in campo teologico. Egli infatti potrebbe rispondere: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55, 8).

Siamo figli, non schiavi

È curioso che un nemico dei vecchi «imprimatur» cattolici, quale io sono, si trovi ad essere sugli spalti dell’ortodossia insieme a Michel Barin. Condivido in pieno il suo articolo: si parla del «buonismo cattolico davanti all’integralismo del corano». La cultura occidentale si è liberata dall’integralismo. Siamo lontani anni luce dal taglio della mano, dalla fustigazione, dalla lapidazione e da altre sconcezze. Sulla lapidazione dell’adultera Gesù è stato molto chiaro. Altrettanto sul ripudio della moglie…
Il dialogo presuppone apertura mentale e approfondimento delle posizioni della controparte. Quale approfondimento del cristianesimo mostrano le persone che pensano che Gesù non sia morto in croce e che la Trinità sia formata da Padre, Figlio e Madonna?
Ricordo pure che nel vangelo ci viene detto che non siamo schiavi di Dio, ma figli: un concetto lontano dai musulmani, i quali, nonostante la loro religione sia più giovane della nostra, sono rimasti fermi a qualche millennio fa (al Dio di Abramo e Isacco).
Carlo May – Milano

Vi sono pure musulmani aggioati, con i quali il dialogo è fruttuoso.

Non lasciarsi abbagliare

Concordo con Michel Barin. È indubitabile che il movimento migratorio (e, in particolare, l’invasione islamica) sia un fenomeno irreversibile che non possiamo né frenare né demonizzare. Bisogna però saperlo gestire. Il pericolo maggiore non proviene solo dall’invasione di tanti musulmani, quanto piuttosto dall’ignoranza religiosa di troppi cristiani. Questi sono «solo» battezzati, ma non conoscono quasi nulla della loro religione; perciò non l’amano e sono pronti a passare anche all’islam!
A tale preoccupante situazione non si può rimediare solo con corsi di cultura islamica, come sembra illudersi il giornale diocesano di Aosta. Uno pseudo irenismo reca pessimi frutti. Non è questo il dialogo di cui parla il papa. Che teologi e specialisti approfondiscano la conoscenza dell’islam va bene. Più ci si conosce e più si potrà sperare di convivere in pace. Ma i nostri cristiani comuni hanno bisogno, prima di tutto, di istruirsi nella loro religione. Altro che istruirsi sull’islam!
Come possono i cristiani vedere i punti di divergenza fra Gesù e Maometto, se non conoscono la loro religione? Si lasceranno facilmente attrarre dai lati positivi dell’islam, che li abbaglieranno, e finiranno di pensare (per lo meno) che una religione vale l’altra. Alla presenza massiccia dell’islam, il migliore antidoto è intensificare lo studio della nostra religione.
Margherita Massaia
Vicoforte (CN)

Gli immigrati musulmani in Italia, all’inizio del 1999, erano 436.000, su un totale di 1.250.000 stranieri legali. I termini «invasione» e «presenza massiccia» non sono appropriati.
Le crociate «alla Barin»

Gentile direttore, le comunico il mio disappunto e quello della congregazione delle suore di San Giuseppe in riferimento a «La moschea nel convento». Dall’articolo emergono punti contraddittori sul reale contenuto dell’intervista che ho rilasciato. Nei locali occupati dalla cornoperativa «La Sorgente» non viene insegnato il corano, ma l’arabo, così come vengono insegnate altre lingue utili per l’inserimento in Italia di stranieri.
È decisamente errata l’affermazione (attribuitami) che le suore di San Giuseppe non sono missionarie. Per non parlare dell’accostamento grottesco di alcune affermazioni, con il chiaro intento di non stimolare una riflessione ecumenica, ma di dar luogo, probabilmente, ad uno sfogo personale.
Sono certa che lei saprà chiarire ai suoi lettori che, nella nostra comunità, non vi è alcun nesso tra «moschea» e «convento».
sr. Consolata Tonetti – Aosta

Sono il direttore del Corriere della Valle d’Aosta e scrivo in merito all’articolo di Michel Barin. È una clamorosa montatura. Le accuse, lanciate alla nostra collaboratrice Carla Jacquemod e al settimanale da me diretto, sono totalmente infondate, sfiorano il ridicolo.
Signor direttore, sarei ancora al mio posto se il nostro giornale facesse propaganda per l’islam? Aprire un dialogo con le religioni monoteistiche non mi autorizza a propagandare la religione musulmana attraverso lezioni di corano o a proporre un islam bonario…
Non era più prudente telefonare al vescovo della nostra diocesi per capire come fosse possibile una simile follia?… A volte si pensa che più la cosa è incredibile più è vera.
Il modus operandi del vostro collaboratore è molto discutibile e, per questo, vi invio il nostro articolo incriminato. Barin potrebbe rendere più giustizia alla sua causa se vi raccontasse i suoi contatti con l’islam e tutte le problematiche che ne sono nate, piuttosto che esprimere certe idee sul mondo islamico mettendo in mezzo un giornale che ha 50 anni di storia e ci tiene alla propria reputazione. Le crociate alla Barin contro «infedeli» e «ipotetici collaborazionisti» appaiono poco utili ad affrontare il serio problema dell’islam.
Chiedo la pubblicazione della mia lettera e penso che siano d’obbligo le scuse verso le persone diffamate dal vostro giornale.
Fabrizio Favre – Aosta

Lettera che ne raccoglie altre due, ossia la protesta di Carla e Riccardo Jacquemod, citati da Michel Barin.
Missioni Consolata non indaga sulla vita privata dei suoi articolisti. Ma non sposa le idee di tutti. Però tutti possono dire la loro (anche sbagliando), e tutti possono replicare.
Se uno scritto ci pare unilaterale, lo facciamo notare: o affiancandogli un altro con una tesi diversa o affermandolo. Così è stato anche per Barin. Il suo articolo, da noi definito «molto critico» verso l’apertura all’islam, copre 3 pagine in un dossier di 20. «Una» voce accanto ad «altre». La verità non è mai tutta da una parte.

aa.vv.




Un’allibita e una “rompiscatole”

Sono rimasta allibita da «I terroristi di S. Tommaso» (Missioni Consolata, giugno 2000). L’articolista non si rende conto che le frasi «chi intraprende la lotta armata non si percepisce come terrorista», «la scelta della violenza rappresenta un mezzo obbligato per raggiungere un fine superiore»… si applicano a tutti i terrorismi? Ed è semplice constatare che furono le «idee» che animarono, in Italia, le Brigate rosse.
Il resto dell’articolo, anche se nota che «un uomo non ha diritto di scegliere quale sia il bene degli altri», è tutto sbilanciato sull’«ideale» dei terroristi e sul loro avvicinarsi a concezioni messianico-cristiane (per cui si ha la verità in tasca e si può imporla agli altri). Non una parola sui dolori, sulle tragedie e sui morti che il terrorismo in Perú (e non solo) ha provocato. Questa è una tendenza fanatica, a cui portano certe commistioni tra politica e religione.
Luciana Gallino – Torino

Gentili amici, sono la solita rompiscatole, che vuole, precisare e mettere i puntini sulle «i». Capisco di essere molesta. Ma, leggendo l’articolo «I terroristi di S. Tommaso», ho sentito l’impulso a scrivervi.
Dice l’articolista che in Colombia un movimento rivoluzionario è stato fondato da un sacerdote, Camillo Torres, che ha avuto tra le sue file diversi religiosi con incarichi di responsabilità… In Perù molti cattolici sono vicini alla teologia della liberazione: il tutto come se fosse la cosa più normale ed ortodossa.
Una volta per tutte, per non confondere le idee dei lettori, vogliamo dire con chiarezza che la teologia della liberazione applica alla realtà l’«analisi marxista», fa di Cristo un «liberatore» alla Che Guevara ed è stata sconfessata dalla chiesa? Vogliamo dire chiaramente che Gesù Cristo non era un rivoluzionario che tendeva a sovvertire ordinamenti sociali ingiusti, ma veniva a liberarci dal peccato, dalla morte e a rivelarci il Padre?
Vogliamo dire (una volta per sempre) che la lotta violenta, l’uccisione dei nemici non è cristiana? Che cambiare struttura e vertici non porta a nulla di meglio dell’esistente, come ha dimostrato l’esperienza nei paesi comunisti?
Siamo capaci di dire a chiare lettere che il cambiamento avverrà quando ogni uomo prenderà coscienza della sua dignità di figlio di Dio e, in solidarietà con altri, lotterà pacificamente per la propria libertà? Che nel lungo e difficile cammino di liberazione non sono ammesse «scorciatornie violente»?
Io non chiedo che gli articoli in sintonia con la teologia della liberazione non siano pubblicati, ma è obbligatoria una parola di chiarificazione e commento.
Con tutto ciò aderisco allo spirito della «campagna» di solidarietà verso i carcerati del Perù (Missioni Consolata, giugno 2000). Ho già l’indirizzo di una «terrorista», con cui desidero iniziare uno scambio epistolare, nel pieno rispetto delle sue convinzioni.
Giulia Guerci – Castellazzo B.da (AL)

Dunque mettiamoli i puntini sulle «i».
L’analisi marxista (non il marxismo) è un metodo di studio: se, di fronte ai mali sociali, provoca un impegno per la giustizia e l’uguaglianza, tale analisi è positiva, soprattutto se avviene dove la differenza tra ricchi e poveri è abissale.
n La vera teologia della liberazione non presenta un Gesù rivoluzionario alla Che Guevara, bensì i volti di Gesù malato, nudo, assetato, forestiero, incarcerato… che attende la «liberazione» (cfr. Mt 25, 35-36). E, di fronte a moltitudini che muoiono di fame, non è fuori luogo rispondere alla domanda: «Queste sono state affamate da chi?».
n Al cospetto di tanti «poveri cristi», resi schiavi dai «faraoni» del comunismo o del capitalismo, dalle multinazionali, dalla new economy, dai servizi segreti, dall’usura…, Dio dichiara sempre a qualche Mosé: «Ho visto l’oppressione del mio popolo. Ora va’ e libera il popolo mio» (cfr. Es 3, 7-10). Ecco la teologia della liberazione.
n Gesù non esita a definire «volpone» lo spregiudicato e potente Erode (cfr. Lc 13, 31).
n Il peccato non è solo un male personale. Esistono anche «strutture di peccato». In alcuni imperialismi modei si nascondono forme di idolatria: del denaro, del potere, della pubblicità, della tecnologia. «Si tratta di un male morale, frutto di molti peccati, che portano a strutture di peccato – scrive Giovanni Paolo II -. Diagnosticare così il male significa identificare esattamente il cammino da seguire per superarlo (Sollicitudo rei socialis, 37).
n Sul no alla violenza, pienamente d’accordo.

Luciana Gallino e Giulia Guerci




“Sandali al vento”

Carissimo padre Benedetto Bellesi, con gioia ti dico il mio «contento» per Missioni Consolata di luglio-agosto. Hai magnificamente descritto i 2 mila anni di «avventura missionaria», avviata dal Signore Gesù e giunta al nostro oggi.
Il testo che hai steso, dal titolo spigliato
Sandali al vento,
sottende una fatica greve per precisare tempi, situazioni e persone, con calore ma senza enfasi, e con una gran voglia di affascinare il lettore e indurlo a riflessioni adeguate. Nel districarti fra numerosi eventi, spesso drammatici, non ti stanchi mai di evidenziare la fiducia nella missione e nel regno di Dio.
Il domani che apre al 3000 è appena iniziato, con scambio di doni tra le chiese in occidente e quelle nel sud del mondo. Sarà un domani splendido, tutto da vivere. Sia davvero la primavera profetica di cui ha parlato il pontefice venuto da lontano!
Padre Benedetto, da anziano-giovane non mi resta che dirti «grazie» e pregare per te e per tutta Missioni Consolata.
p. Giuseppe Mina
Alpignano (TO)
Padre Giuseppe sta per vivere la «primavera» dei 90 anni. La sua lettera ci è giunta via e-mail, grazie all’apporto di padre Giuseppe Villa, un altro «anziano giovane» della comunità missionaria di Alpignano.

Leggo sovente Missioni Consolata, esprimendo talora anche delle critiche. Ma mi è doveroso dire che ho trovato assolutamente perfetto il numero di luglio-agosto. Più che un numero di rivista, è un libro avvincente, che ci parla dell’entusiasmante storia missionaria della chiesa nel corso di 20 secoli.
dott. Renzo Mattei
Genova

Giuseppe Mina e Renzo Mattei




Finalmente una “shara”

Cari missionari,
ho trovato molto interessante, su Missioni Consolata di giugno, la lettera della signora Shara Bocchetta di Melfi (PZ). L’interesse deriva dal fatto che ho riscontrato delle eloquenti somiglianze tra l’esistenza della signora e la mia.
Shara scrive: «Nel 1942-43 mio fratello partì a 17 anni per la guerra». Anche mio fratello maggiore nel 1944, a 18 anni, partì per la guerra; però combatté sul fronte opposto…
Poi scrive: «Finita la guerra, cadde in un esaurimento nervoso. Venne ricoverato nella casa di cura di Collegno (TO)». Dopo la guerra, anch’io ebbi un esaurimento nervoso, ma fui ricoverata in un centro di Londra. Però oggi abito a Collegno, non lontano dalla ricordata casa di cura.
Leggo ancora: «La madre partì per Collegno… si fermò in una bellissima cappella, chiese conforto alla Madonna… Quella Madonna era la Consolata». Ebbene, anche la mia parrocchia è dedicata alla Consolata. Oltre alla modea chiesa, c’è una bella cappella, dedicata a sant’Elisabetta, che fu la prima sede parrocchiale. Questa chiesetta fa parte del «villaggio Leumann» e fu costruita dall’imprenditore svizzero Napoleone Leumann. Ogni domenica vi partecipo alla messa: mi attira molto perché Leumann era un cristiano protestante, come me.
Però l’importante non è l’essere tutti sulla stessa strada, cristiani e credenti in altre religioni; l’importante è che le strade, anche partendo da punti diversi, siano «buone», che portino alla stessa meta, cioè a nostro Signore Gesù: qui sulla terra o nell’eternità. Ma forse il fatto ancora più importante non è la «strada buona» (ogni via può essere tale), quanto il verificare se stiamo andando «avanti» o «indietro» su quella strada.
Un’altra cosa strana è che la mia prima nipotina fu chiamata Shara, un nome assai raro per la sua ortografia (in inglese è Sarah e in italiano Sara). Dopo sette anni di ricerca, ho finalmente trovato nella signora Bocchetta un’altra «Shara». Mi auguro che possa leggere questa lettera, con i miei saluti.
Divisi e su fronti opposti in guerra e in chiesa, troviamo però l’unità in Colui che sa e può tutto, tramite una bimba di sette anni.
Sheila Warren
Leumann (TO)

La signora Sheila è una cara amica. Alcuni missionari della Consolata le devono riconoscenza, quale loro insegnante d’inglese.

Sheila Warren




Utopia e realtà

Spettabile redazione,
ho letto con molto interesse la riflessione di padre Giacinto Franzoi sul problema della cioccolata e dei suoi risvolti sui paesi poveri, in modo particolare in Colombia dove il missionario lavora.
Sicuramente, qui da noi, i consumatori più consapevoli devono fare promozione, meglio se organizzati, evidenziando le diseguaglianze e cercando di costringere a miti consigli le multinazionali che spadroneggiano.
Ma anche in loco (e mi riferisco particolarmente al dramma africano nella fascia equatoriale, per mancanza d’acqua e presenza di guerre) occorre creare una rete di «auto- aiuto», puntando su cultura e informazione tramite radio locali, più facilmente gestibili, e operando con cornoperative.
Queste possono nascere anche in Italia e poi trasferirsi dove necessario: ad esempio, per realizzare pompe solari che potrebbero essere volano di progetti più complessi.
Forse la mia è solo utopia; ma occorre aiutare la popolazione africana a camminare con le sue gambe, perché l’aiuto del nord, salvo eccezioni (leggi «missionari»), è troppo interessato a mantenere le diseguaglianze anziché colmarle.
Giorgio Tagliavini
Milano

«Utopia» significa «non luogo»: cioè una realtà o un ideale che non esiste, perché non ha trovato spazio o accoglienza. Ma potrebbe trovarli e, quindi, esistere. Il compito del missionario e delle persone di buona volontà (come Giorgio) è anche questo: passare dall’«utopia» all’«esistenza».
Un passaggio realizzabile, nonostante le difficoltà, anche in Africa. Specialmente se si opera «organizzati» o «in rete», come raccomandiamo da qualche tempo.

Giorgio Tagliavini




Speciale Brasile – Non tornare indietro

Non è «il più grande del mondo». Quanto a superficie, Russia, Canada, Cina e Stati Uniti lo superano. Ma tant’è. Il brasiliano dirà sempre: «Dio è grande, ma il Brasile è ancora più grande». Se poi vince il campionato mondiale di calcio, tutti scattano in piedi per proclamare: «Anche Dio è brasiliano».
Il Brasile è grande soprattutto per i contrasti. Ad esempio, in rapporto alla popolazione, è il quarto produttore al mondo di cibo, ma si dibatte nella denutrizione, preceduto solo da India, Bangladesh, Pakistan, Filippine, Indonesia. E 36 milioni di bambini si dibattono nella miseria. Perché?
Un’amica brasiliana ha risposto con una favola. «Dio, nel creare il mondo, disse ad un angelo: “Fa’ scorrere fiumi maestosi in Brasile. Scarica terremoti e gelate in Europa, ma pianta alberi meravigliosi in Amazzonia e riempi la sua terra di minerali preziosi…”.
L’angelo interruppe: “Scusa, Signore! Perché al Brasile doni solo cose belle e agli altri cose brutte?”. “Ma tu non sai – replicò il Padreterno – che razza di politici goveeranno il paese!”».
Il problema del Brasile non è la povertà,
ma l’ingiustizia.

«o maior do mundo»,
numero speciale di Missioni Consolata sui 500 anni del Brasile, coglie la triste verità:
n ripercorrendo la storia, mentre «la telenovela
continua»;
n analizzando le questioni sociali, dove «i nodi
vengono al pettine»;
n seguendo il cammino della chiesa, che presenta
«un vangelo
dai tanti volti».
I diversi volti del Brasile (dall’indio al piccolo proprietario, dal nero all’ex emigrato italiano) dovrebbero essere accomunati dalla frateità. Essa è soprattutto spirituale; ma reale, visibile, storica. Non basta la comunione fra spiriti. L’indio, il nero e il bianco non sono fratelli: infatti appartengono a genitori, paesi e culture differenti. Eppure sono fratelli spirituali se vivono nella reciproca accettazione e condivisione dei loro beni, sapendo di appartenere tutti alla stessa famiglia umana, che è la famiglia di Dio.
E poiché l’uomo, più che fratello, è «lupo dell’uomo», da sempre si lotta per la liberazione da se stessi e dalle strutture oppressive.
È necessario spezzare le schiavitù, specialmente quando «i faraoni» e i loro lacché hanno «il cuore indurito» (cfr. Es 10, 1). Anche Gesù di Nazaret soffre con le folle che accorrono a lui a piedi da ogni città, perché «sono pecore senza pastore» (Mc 6, 33-34).
In Brasile le masse di senza-terra, che partecipano a qualche romaria da terra (marcia-pellegrinaggio), si accodano alle folle cui Gesù Cristo rende giustizia con la liberazione.
Con buona pace di chi vorrebbe imprigionarlo nel tabeacolo, fra lini dorati.
La chiesa, dopo il Concilio ecumenico Vaticano II, «se torna indietro», sbaglia.
Parola di non pochi vescovi.
Francesco Beardi

Francesco Beardi