Missionari e indios di Roraima nella bufera – Speciale BRASILE
La testa sul vassoio
Testimonianza di un vescovo
Sono stato vescovo di Roraima
dal 1975 al 1996, in uno degli stati più «caldi» del Brasile, con scontri tra bianchi e indios. Durante i 20 anni di servizio, politici, giornali e radio locali hanno giocato al tiro a segno contro la chiesa di Roraima, scagliando contro il vescovo e i missionari della Consolata le critiche più velenose e le calunnie più spudorate.
L’apice della tensione si raggiunse nel 1993. Un sicario, telefonando ad una radio, si offrì di uccidere il vescovo, porre la sua testa su un vassoio e deporla ai piedi del monumento al garimpeiro (cercatore d’oro) di Boa Vista. La telefonata, ripresa da altre radio, fu udita da tutti e causò grande spavento.
Decisi di ricorrere a Brasilia, capitale federale, per presentare il caso al Ministero di giustizia e chiedere aiuto alla Conferenza episcopale (Cnbb). I vescovi promossero un giorno di mobilitazione, il 16 aprile 1993. La manifestazione si svolse a Boa Vista, con la partecipazione del presidente e vicepresidente della Cnbb, di altri vescovi, del Consiglio indigenista missionario (Cimi), della Commissione pastorale per la terra e di alcuni deputati. Il Ministero di giustizia inviò alcuni poliziotti per difendere la casa del vescovo.
Da allora la televisione di Roraima ha ignorato l’azione della chiesa: non più attacchi, ma neppure interviste. Il programma, che tenevo ogni venerdì, fu abolito.
Contro le accuse e discriminazioni la chiesa ha quasi sempre risposto col silenzio e perdono, mentre spiegava con lettere e messaggi il suo comportamento. Però una volta ha denunciato due radio (1993), ma le autorità hanno lasciato di proposito che il caso cadesse in prescrizione.
Potrei sintetizzare i miei 20 anni di episcopato
parafrasando san Paolo: una volta ho rischiato di avere la casa devastata dai garimpeiros; in tre occasioni ho avuto la polizia federale schierata davanti alla casa a protezione della mia vita; la chiesa di Roraima, accusata di ogni misfatto, è stata per due volte (1989-9O) indagata da due commissioni d’inchiesta, senza trovare la minima prova a carico; per tanti anni i missionari e il sottoscritto siamo stati spiati dalla polizia, senza mai trovare la minima illegalità nel nostro comportamento. Poi innumerevoli denunce di essere seminatori di zizzania.
Uno degli ultimi casi capitò nel 1995. Un delegato della polizia federale fu incaricato di indire il processo su un episodio di violenza contro gli indios macuxí; prima ancora di ascoltare le deposizioni delle vittime, il delegato accusò la chiesa di essere l’istigatrice dell’accaduto. La notizia rimbalzò su tutti i mass media nazionali, con le false testimonianze per provare l’accusa. Naturalmente eravamo estranei alla vicenda. E il caso si sgonfiò come una bolla di sapone.
Mentre certi settori della società e del governo
si scagliavano contro la chiesa di Roraima, questa riceveva onorificenze nazionali e inteazionali. Il 9 agosto 1990, a Brasilia, il presidente della camera e deputati di vari partiti elogiarono in assemblea il mio operato… Nel giugno 1994, a Rio de Janeiro, mi fu consegnato il premio «Alceu Amoroso Lima» per il lavoro a favore degli indios. Il 31 dicembre 1994 lo stesso governo di Roraima riconobbe i meriti della chiesa, concedendomi il grado di «grande ufficiale dell’ordine di Forte São Joaquim».
Ebbene, come spiegare il comportamento schizofrenico? Era chiaro che gli attacchi venivano da un ristretto gruppo di politici, detentori del potere, per i quali il bene della nazione s’identificava con i vantaggi personali, testardamente ostinati a negare i diritti della popolazione indigena.
Inoltre una parte dell’élite di Roraima (e del Brasile) conserva ancora una mentalità colonialista. In tempo di elezioni, il governo federale sfrutta tale mentalità, usando gli indios come merce di scambio e ricatto, per ottenere l’appoggio delle classi potenti.
Nel decennio 1975-85 i potenti erano contrari a qualsiasi demarcazione delle terre indigene. Negli ultimi anni qualcosa è cambiato: il diritto degli indios all’identità culturale e al possesso della terra fa parte della nuova costituzione; la demarcazione delle terre, destinate alle varie etnie, è stata fissata sulle mappe catastali, anche se non sono state soddisfatte tutte le aspettative degli interessati. Ma talora si ha la netta sensazione di essere «ritornati indietro».
A questo punto un chiarimento.
Contrariamente a quanto alcuni vogliono far credere, la demarcazione delle terre non ha affatto lo scopo d’isolare gli indios dalla società bianca e mantenerli nella povertà, ma garantire loro uno spazio geografico e sociale in cui crescere senza traumi e organizzarsi secondo la propria identità culturale.
La chiesa di Roraima ha cercato di aiutare i nativi a progredire in tutti i settori, senza fare tabula rasa dei valori culturali. Inoltre essa è convinta che uno dei meccanismi più importanti per lo sviluppo dei popoli sia il confronto con altre culture e l’assorbimento di nuovi modelli; ma è pure consapevole che, quando un gruppo culturalmente «debole» (come gli indios) viene inserito con violenza in una cultura «forte», il debole viene annichilito.
Proponendo alle comunità indigene di richiedere la demarcazione delle terre e appoggiando le loro aspirazioni, la chiesa non intende creare fratture sociali tra indios e bianchi, ma vuole promuovere una cooperazione rispettosa tra le diverse identità storiche e culturali della popolazione di Roraima. L’errata interpretazione di tali obiettivi spiega in parte l’ostilità incontrata in questi anni. Ma la vera causa è di natura economica e politica.
I risultati provano la validità delle scelte fatte: gli indios hanno riconquistato la fiducia in se stessi e lottano per occupare un posto degno nel contesto sociale di Roraima; i capi indigeni hanno preso coscienza delle proprie responsabilità; le comunità hanno imboccato la strada dell’autosostentamento. I ripetuti interventi per salvare i yanomami sono il fiore all’occhiello dell’azione della chiesa. La testimonianza dei missionari ha reso credibile il messaggio evangelico. Il progetto «una mucca per l’indio» è stato un miracolo, una benedizione.
Ma la strada da percorrere è ancora molto lunga.
Aldo Mongiano
La sfida del Nano
O di padre Giorgio Dal Ben
L’ansia e la fretta lo consumano.
Ecco perché, più che camminare, trotta. Anche il suo linguaggio è spumeggiante: una raffica di pensieri che rotolano su ogni dove con una logica che logica non è. E l’altro ascolta, ascolta, ascolta. Il ragionamento è una spirale che gira e rigira interminabile. Quando l’«oratore» finalmente si concede una sosta, l’ascoltatore ha capito poco, ma quanto basta. E cioè:
– che la situazione degli indios yanomami, macuxí, wapixana, ingarikó e taurepang è drammatica;
– che demarcar le loro terre è questione di vita o morte;
– che a luta continua: uno scontro tra nani e giganti.
Nano è un po’ anche lui, perché non supera i 160 centimetri di altezza.
Scriviamo di padre Giorgio Dal Ben,
da oltre 30 anni missionario della Consolata nella surriscaldata terra di Roraima. È forse il missionario italiano più europeo, perché è noto non solo nella nostra penisola, ma anche in Spagna, Portogallo, Inghilterra, Germania, Francia, Belgio. Quando parla in questi paesi i suoi discorsi sono pure interminabili, avvolgenti.
Ma tutti capiscono che padre Giorgio si impegna fino allo spasimo: perché gli indios non si vergognino più di essere tali e parlino la loro lingua; perché i tuxawa (capi) riprendano il loro ruolo di guide sociali e culturali insieme agli sciamani; perché i bambini vadano a scuola e imparino a scrivere anche in macuxí oltre che in portoghese.
Bisogna soprattutto – martella padre Giorgio – spezzare la dipendenza economica dal bianco e dalla sua cachaça (acquavite). Il progetto «una mucca per l’indio» (che ha affascinato persino Giovanni Paolo II e il cardinale Ersilio Tonini) mira a riconquistare le terre indigene usurpate dai fazendeiros e crea autosostentamento. Così pure i piccoli allevamenti di maiali e polli.
Con uma vaca para o indio, il missionario ha varcato i cancelli del palazzo di vetro delle Nazioni Unite, imponendo all’attenzione del mondo i problemi indigeni.
Giorgio non è come il biblico Davide,
piccolo e solo davanti al gigante Golia; è un po’ nano, sì, ma un nano «lillipuziano» contro «il mostro Gulliver»: le sue «fiondate», grazie ad una vasta cerchia di collaboratori, piovono da ogni parte sugli sfruttatori degli indios.
Numerosi missionari della Consolata, che a Roraima hanno sposato la causa indigena, vivono nell’occhio del ciclone: minacce da parte dei bianchi e dei loro manutengoli, calunnie e attentati sono stati e sono pane quotidiano. Ma l’aggressività nei confronti di padre Giorgio Dal Ben non ha paragoni. È accusato di ledere la sovranità del Brasile: è a capo di un esercito di 2 mila indios, comanda azioni di guerriglia contro i cercatori d’oro, invade le proprietà altrui, circola armato, si traveste da donna, sfrutta gli indios in miniere d’oro e diamanti, preziosi che poi vengono inviati in Italia. Lo ha scritto la rivista Istoé, maggio 2000.
Ma una «rete lillipuziana», composta da tanti amici, ha subito fatto quadrato attorno al missionario con stima ed affetto. A Roraima la Commissione «giustizia e pace» dei missionari della Consolata, il 2 maggio scorso, ha denunciato la rivista Istoé, i giornalisti Pedrosa e Stuckert, il governatore di Roraima Campos, il deputato Feijão e il fazendeiro Bezerra di attaccare padre Giorgio e i popoli indigeni con «affermazioni false e perverse».
«L’aggressione – scrivono padre Lirio Girardi e suor Giuseppina Morelli – vuole impedire la demarcazione della terra indigena di Raposa Serra do Sol, demarcazione in linea con il decreto n. 820, sottoscritto dal ministro della giustizia Calheiros l’11 dicembre 1998… I responsabili dell’attacco non temono di ricorrere a mezzi turpi, fino a minaccia di morte, per aizzare l’opinione pubblica contro gli indios, dividere i loro capi e spaventare i loro alleati».
Non sono mancati pistoleros pronti a sparare. Finora padre Giorgio Dal Ben e i colleghi missionari sono scampati alla morte, spesso fuggendo. Ma i rischi aumentano.
Tuttavia la spada di Damocle pende soprattutto sugli indios. Anzi si è già abbattuta seminando numerose vittime. Incursioni a mano armata nei villaggi indigeni, malattie mortali provocate, incendi criminali, garimpeiros predoni… hanno decimato i popoli indigeni.
Inoltre, nell’arco di alcuni anni, centinaia di migliaia di chilometri quadrati di foresta amazzonica sono stati selvaggiamente disboscati, molti fiumi inquinati e intere aree sommerse artificialmente con la costruzione di grandi centrali idroelettriche.
«L’indio perde sempre: nel riconoscimento del proprio territorio, nei progetti agricoli, nell’assistenza sanitaria, nella dotazione di scuole per i nostri bambini e i nostri giovani, che continuano a sperare in una preparazione per il futuro». Lo sostiene Aniceto Cacique, indio xavante del Mato Grosso. Sarà sempre così?
Gli indios di Roraima continuano a gridare: «Noi vogliamo vivere».
Francesco Beardi
finalmente La veritÀ
Sul massacro di padre Giovanni Calleri
«Giovanni Calleri, missionario della Consolata,
nel 1968 fu scelto dal governo brasiliano a dirigere la spedizione di pacificazione di una tribù indigena per la sua esperienza tra gli indios yanomami, ma anche per la sua ricca personalità. Un dirigente governativo, Verìssimo da Silveira, ne rimase conquiso al primo incontro. “Era una figura che impressionava – testimoniò -. Bello, alto, forte, spiritoso, estroverso, con una carica che ispirava fiducia a prima vista. Le persone che lo incontravano per strada o in una riunione lo definivano uno sportivo o un artista. E vedevano giusto»…
«Nel 1965 padre Calleri partì per il Brasile e raggiunse il territorio di Roraima. Le sue lettere del 1966-67 rivelano un uomo determinato e metodico, che riesce a convivere con gli indios imparandone la lingua e instaurando un buon rapporto. Scrisse: “Quando giunsi in Brasile non mi importava di morire. Ora no, voglio vivere per amore degli indios. Mie compagne sono a volte la fame, e sempre tanta solitudine”»…
«L’organizzazione della missione del Catrimani mise in luce un missionario con una straordinaria sensibilità. I suoi piani grandiosi non sempre furono approvati dai superiori locali. Sarà il superiore generale ad assecondare le iniziative del focoso missionario»…
Sono alcuni capoversi del libro «Massacre».
Ne è autore padre Silvano Sabatini, missionario della Consolata pioniere in Brasile. «Massacre» descrive la spedizione diretta da padre Giovanni Calleri, che aveva lo scopo di pacificare gli indios waimiri-atroari. L’avventura culminerà in un eccidio. Padre Giovanni aveva 34 anni.
«Massacre» non è di facile lettura. Scritto in portoghese, racconta una tragedia nell’impervia foresta amazzonica, intersecata da fiumi grandi e piccoli dai nomi più strani; coinvolge gli indios, che intendono vivere alla loro maniera e si ribellano alla costruzione della strada BR-174; l’autore sembra giocare a nascondino con l’inesperto lettore nell’immensa foresta, andando a zig zag nel tempo e nello spazio.
Di più: la raccolta di documentazione e testimonianze avviene «con le pinze» per gli indios che partecipano all’eccidio (waimiri-atroari e wai wai) e con «i grimaldelli» per i forzieri del potere politico brasiliano, allora in mano ai militari, tutti presi dalla «sicurezza nazionale». Ancora: le testimonianze sono estratte dalle «pozzanghere» della Missione evangelica dell’Amazzonia (Meva), legata agli Stati Uniti, troppo interessata (come protestante) che la spedizione diretta da un prete cattolico fallisse.
L’intento dell’autore è di scoprire mandanti
ed esecutori dell’eccidio a 30 anni di distanza. Procedendo in ordine logico e cronologico, le cose andarono in questo modo. Il massacro della spedizione, costituita da dieci persone (comprese due donne), avvenne nella foresta il 1° novembre 1968 e fu sempre attribuito agli indios. Lo scopo della spedizione risulta chiaro. Al governo interessava pacificare gli indios che si opponevano alla costruzione della strada BR-174 che, attraverso la foresta dell’Amazzonia, doveva collegare Manaus e Boa Vista a Caracas (Venezuela). I lavori, iniziati nel 1964, terminarono nel 1971.
Pure chiare le ragioni che spingevano il governo brasiliano ad intersecare l’Amazzonia di strade: integrare la vasta regione al paese, valorizzandone le immense ricchezze sulle quali gli Stati Uniti erano interessati (esportazione clandestina di oro e diamanti, vendita di terreni, ecc.). Né mancavano motivi militari, poiché l’Amazzonia a nord confina con sei nazioni in rapporti non sempre pacifici.
Per attuare il programma occorreva, però, fare i conti con gli indios che si ritenevano, a diritto, padroni della regione e non intendevano rinunciare al loro sistema di vita.
Chi è padre Calleri?
Perché la scelta di dirigere la spedizione cadde su di lui? «Massacre» risponde bene e con passione a queste domande.
La spedizione venne preparata seriamente e il piano fu presentato al governo che l’approvò. Il piano consisteva nell’adottare una tattica di «avvicinamento indiretto»: cioè accostare prima indios non irritati contro i bianchi, per farli mediatori presso gli altri sul piede di guerra, perché vicini allo sconquasso prodotto dai lavori della strada. Il piano, perché indiretto, fu ritenuto da qualcuno troppo lento: per non fermare i lavori, bisognava confrontarsi subito con i ribelli waimiri-atroari, che in quanto ad imboscate sapevano il fatto loro.
All’ultimo momento il piano fu accantonato e padre Calleri dovette accettare, anche sotto minacce, di portare la spedizione su un altro luogo. È l’aspetto più misterioso della faccenda, perché con il cambiamento i rischi di fallimento e di morte risultavano enormemente aumentati.
La spedizione dovette essere ricomposta anche nei membri: venne inserito come elemento principale Alvaro Paulo da Silva, espertissimo della foresta, ma ambiguo e senza scrupoli, legato alla missione protestante Meva, con residenza in Guaiana, interessata a sua volta a far fallire la spedizione guidata da padre Calleri.
Va detto che l’azione della Meva, diretta dal pastore statunitense Robert Hawkins, nella doppia attività di evangelizzazione e ricerca di miniere, non coinvolge nelle sue brutture le altre chiese protestanti, specie per l’attività criminale dello statunitense Claude Leawitt.
La tesi sostenuta da padre Sabatini
con innumerevoli testimonianze (l’autore si avvale di 300 ore di registrazioni) è che la spedizione-Calleri fu massacrata da alcuni indios waimiri-atroari e wai wai, istigati però da un manipolo di bianchi, in particolare da Alvaro Paulo (l’unico che sfuggì al massacro) e da Claude Leawitt. I due poi imposero agli indios, sotto terribili minacce, un assoluto silenzio.
Nel 1987 padre Sabatini, dopo una grave malattia, giurò a se stesso di far luce su fatti e persone che la Commissione d’inchiesta sul «caso Calleri» non svolse. Il quadro che ne risulta è fosco. Contro gli indios, prima e dopo il 1968, furono commessi crimini orribili: i waimiri-atroari, circa 3 mila nel 1968, nel 1982 erano ridotti a qualche centinaio. Padre Sabatini sostiene, con una denuncia sferzante, che la BR-174 fu condotta a termine, dopo il massacro della spedizione, con la decimazione degli indios.
«Massacre» vuole essere, oltre che una denuncia profetica (e i profeti non scherzano), anche «una risposta al trionfalismo dei 500 anni dalla scoperta del Brasile». Non fu una scoperta, ma un’invasione imbrattata di sangue.
Igino Tubaldo
(traduttore in italiano ad usum privatum di «Massacre»)
Aldo Mongiano