L’immondezzaio di Elena

Strada Manaus-Itacoatiara, chilometro 10. Fino a qualche tempo fa c’era soltanto un immondezzaio. La puzza, acuita dal calore, era percepibile a chilometri di distanza. Gli urubú (avvoltorni) volteggiavano sulla discarica, attratti dalle sostanze organiche in decomposizione. Il personale tecnico del vicino aeroporto era preoccupato, perché i rapaci (che volano altissimi) erano risucchiati dalle turbine delle aeronavi causando danni irreparabili e persino tragici incidenti.
Attoo alla discarica, enorme, si stabilirono alcuni individui: sopravvivevano raccogliendo bottiglie, pezzi di metallo, mobili vecchi, carta stagnola. Quando le autorità locali si resero conto della situazione, circa 2 mila famiglie, provenienti dall’interno dell’Amazzonia, si erano già insediate presso il grande letamaio. Era sorto un paese, battezzato Nuovo Israele.

Tutto è improvvisato.
Non ci sono strade, fognature, acqua, elettricità. La miseria, tipica dell’interno dell’Amazzonia, si è riprodotta anche qui, ma con una differenza: prima era possibile procurarsi pesce, farina di manioca e acqua non inquinata; ora si muore di fame, se nessuno della famiglia trova lavoro. Poiché la maggioranza sa solo pescare e piantare manioca, si possono comprendere i problemi dei… profughi.
«Perché non siete rimasti nell’interno?» domando. «Perché si è lontani da tutto. Non ci sono né medici né medicine. Per non parlare della scuola!».
«Ma, invece di affrontare questa terribile situazione a Manaus, non sarebbe stato meglio restare nei luoghi di origine?». «No. Qui almeno c’è la speranza che le cose migliorino. Là neppure questo. Qui la gente può darci una mano, mentre nell’interno eravamo isolati e soli. Dal luogo dove abitavo io, ci volevano tre giorni di viaggio, in canoa, per giungere al primo centro abitato e trovare qualcosa!».

A Nuovo Israele
le case sono simili più a pollai che ad abitazioni umane: si aggrappano al terreno scosceso come muli testardi. Su pochi pali e alcune assi poggia la casa, ricoperta da foglie di palma e sacchi di plastica o, per i ricchi, da lastre zincate. È necessario avere almeno un bugigattolo, altrimenti si viene cacciati. In seguito si può diventare proprietari di quel palmo di terra.
Vicino alla casa, una fossa per i servizi igienici. Sul fondo del terreno collinoso e ricco di acqua, a causa delle abbondanti piogge, si scavano altri buchi (cacimbas): sono il bagno, la lavanderia per i vestiti e la fonte d’acqua per uso domestico.
È uno spettacolo deprimente vedere donne, bambini e anziani arrampicarsi sui sentirneri, verso le proprie case, carichi di recipienti d’acqua, sbuffando al cocente sole. Ci ho provato anch’io, con una tanica d’acqua in spalla: arrivato in cima, le gambe non mi reggevano più. Loro quei sentirneri li fanno decine di volte a stomaco vuoto!

In questa città da incubo
rivolgo ad un tale l’ingenua domanda se, una volta a casa, avrebbe filtrato o fatto bollire l’acqua. La risposta mi colpisce come una sberla in faccia: «Il povero filtra l’acqua in pancia!». Avrei voluto scomparire all’istante, tanta è stata la vergogna nell’avere offeso, sia pure involontariamente, la sensibilità di un povero.
Avvicinatomi ad una casupola, vi trovo quattro bambini. Una bambina di sette anni si prende cura degli altri tre, più piccoli, mentre i genitori sono a cercare un po’ di cibo. Il giorno prima si erano accontentati di chibé (farina di manioca, rammollita in acqua calda e sale); oggi non hanno neppure una goccia d’acqua da bere.
Eppure questa gente è ancora capace di sorridere. Forse per inerzia. O per fede.

C’è anche una missionaria.
Nera come il carbone, i capelli crespi e brizzolati, suor Elena è chiamata da tutti «angelo nero». Originaria dell’isola di Barbados (Antille), la religiosa vive come la gente occupandosi dei più miseri e abbandonati. Se qualche povero ha bisogno di legalizzare la proprietà o di una visita medica, è sempre lei che si fa in quattro.
Ha costruito una cappella di legno che serve da scuola, centro di assistenza sociale e luogo di culto alla domenica. Nelle rivendicazioni sociali lei è sempre in testa. Per questo è stata arrestata varie volte e anche bastonata dalla polizia. Ma Elena non si ferma, sorretta soprattutto da Colui che ha detto: «Beati i perseguitati per amore della giustizia».
A Nuovo Israele incontro anche un giovanotto. Dice di essere cattolico, però non praticante; prega, ma vive lontano dalla chiesa, perché – dichiara – troppo distante dai poveri. E prosegue: «A Nuovo Israele e in situazioni simili la chiesa deve scendere dal piedestallo e fare molto di più per chi vive nella miseria».
Penso a suor Elena.
p. Paulo Gomes

Paulo Gomes

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