Fuga e resistenza
Si fugge sempre quando assale il «terremoto»…
In Brasile gli indios non hanno il tempo di capire, ma solo di reagire a cose fatte. Fin dall’inizio, con l’attestarsi dei conquistatori portoghesi sulle coste atlantiche (dal bacino del Rio delle Amazzoni a São Paulo), gli indigeni reagiscono trasferendosi all’interno del paese, cambiando territorio e invadendo quello altrui.
La fuga è una soluzione che, fino a quando è possibile, accompagna tutta la storia dei rapporti fra indios e invasori. Sotto l’incalzare dei bandeirantes, per esempio, non resta altra soluzione che rifugiarsi in luoghi inaccessibili.
È quanto accade anche nel secolo XX in risposta all’invasione delle multinazionali: solo che, a differenza dei bandeirantes (già terribili), i nuovi invasori hanno mezzi e armi sofisticati (elicotteri e defoglianti) e fuggire è una misera soluzione.
Ma non tutti gli indios fuggono. Fra quelli che restano, molti resistono alla conquista. Quasi tutte le tribù (non completamente distrutte) attraversano periodi di lotta contro gli aggressori: lottano per ritardae l’avanzata o per dissuaderli dal continuare.
Nel secolo XVI i tupí creano un movimento di resistenza, riunendosi nella confederazione detta «tamoios»; ma non ha grande esito per la violenta controffensiva dei portoghesi. Maggiore successo riscuotono le etnie tatuias nel nord-est: queste, alleatesi, per circa 50 anni (XVII secolo) impediscono l’avanzata distruttiva dei portoghesi.
Pertanto, fin dagli inizi della conquista dei bianchi, gli indigeni brasiliani oppongono resistenza… Nel 1788 è la volta degli indios del Rio Branco: parecchie tribù karibe (tra cui i macuxí) si ribellano, distruggendo un forte portoghese e mantenendo la zona per alcuni anni. Ma l’impossibilità di creare una struttura socio-politica apposita impedisce la continuazione della rivolta.
si decide di morire
Dalla conquista ad oggi, alcune tribù si lasciano sconvolgere dall’impatto con il bianco, rifiutando però l’integrazione. Diverse etnie, trasferite con la forza nelle riserve, costrette alla sedentarietà, perdono il «gusto di vivere» e cadono in una abulia senza rimedio. Un esempio.
Kosó, capo dei kaapor, dopo aver perso la moglie e l’unico figlio, vittime di un’epidemia, cadde in grande prostrazione. Un giorno, tornato dalla caccia, avrebbe raccontato di essersi incontrato con il padre defunto. Questi gli disse: «Vieni, Kosó. Dove siamo noi si sta bene». Kosó, dopo il racconto, si gettò sull’amaca e non parlò più. Il giorno seguente era morto. La gente del villaggio disse che Kosó era stanco e non voleva più vivere.
Accanto a simili reazioni personali, occorre ricordae altre rivolte, questa volta, contro la propria prole. Si tratta del rifiuto esplicito della vita nella comunità: o non nascono più bambini o vengono eliminati (aborto e infanticidio). La donna accetta il suicidio culturale.
È la terribile azione di una società che decide di morire, piuttosto che deculturarsi e integrarsi nella società dei conquistatori.
I risultati
della «civiltà cristiana»
«Fra gli indios, dove non si portò la morte violenta, fu imposta la distruzione della coscienza, della storia e della volontà di masse di uomini, senza nulla recare in cambio. Nulla significa nulla: sfumare, precisare e chiarire significa tradire i concetti». Così lo studioso J. C. Mariategui.
Parlando di distruzione, si evidenzia quella socio-culturale e la volontà del sistema occidentale di rifiutare il «diverso» perché fonte di fastidio.
«Il problema indio» nasce dall’economia dei bianchi, che affonda le radici nella proprietà individuale, che tende ad usurpare le terre indigene, a privatizzare i beni comunitari e a mutare in modo violento i meccanismi di produzione. Questi tre elementi generano influenze deleterie fra la cultura «forte» occidentale e quella «debole» india, e cioè: spopolamento del territorio, degrado ambientale e degenerazione degli individui.
Varie le imposizioni dei «forti»:
1) concentramento degli aborigeni in grandi agglomerati rurali;
2) imposizione del vestiario europeo;
3) opposizione al matrimonio secondo la tradizione indigena (missionari);
4) applicazione della legge penale europea a presunti delitti di immoralità;
5) soppressione del sistema di proprietà comunitaria e dell’autorità dei capi.
Questi tratti culturali, imposti più o meno con la forza da coloni e missionari, comportano in 500 anni di conquista quasi lo sfacelo socio-culturale degli indios.
Tuttavia il Brasile, prima dell’arrivo dei portoghesi, non è un paradiso: le guerre tra gruppi etnici sono frequenti; a determinarle è l’esigenza di sopravvivenza dei gruppi. I bianchi sfruttano le inimicizie fra i nativi.
Civilizzarli. E come?
«Gli indios vivono come bestie. Occorre vestirli, educarli, civilizzarli» dice qualche bianco. «Non esistono più indios – aggiungono altri -, ma soltanto loro discendenti che sono brasiliani come noi». Questo problema si impone con forza all’opinione pubblica brasiliana.
Oggi in Brasile, dei 5-6 milioni di indios del 1500, sopravvivono circa 330 mila persone: appartengono a 215 popoli e parlano 180 lingue differenti.
Per tanti decenni latifondisti (fazendeiros) e cercatori d’oro (garimpeiros) hanno invaso le terre indigene. La scoperta di un giacimento minerario, la possibilità di sfruttare una foresta, la presenza di campi per allevare bovini… sono diventate valide giustificazioni per condannare gli indios a morte.
Sulla rivista di Rio de Janeiro Fatos e fotos nel 1968 si leggeva: «Un piccolo aereo aveva compiuto alcuni voli sul villaggio. Gli indios, impauriti, correvano in casa; donne e bambini piangevano nel cortile senza saper dove andare. D’improvviso un’esplosione fa volare in aria paglia, legna, terra e corpi di persone. Il rombo del motore copriva il rumore degli spari, ma dal finestrino dell’aereo si scorgeva il braccio di un uomo che sparava con un mitra. Mentre la gente scappava in foresta… tutti furono uccisi. E fu sterminata una tribù di Cintas Largas nel Mato Grosso».
Misfatti del genere sono avvenuti in ogni angolo del Brasile, restando quasi sempre impuniti.
Il problema della terra
È «il» problema. La terra è indispensabile anche per la sopravvivenza culturale degli indios… Nel 1973 il governo brasiliano, con la legge 6.001, decide di demarcar i territori indigeni: tempo cinque anni. La legge rimane lettera morta.
Il bestiame dei bianchi continua ad invadere le coltivazioni degli indios e a distruggere tutto. Nel frattempo gli indigeni vivono in fazendas, recintate da filo spinato: non possono più cacciare e pescare; sono obbligati a lavorare nei latifondi del bianco come manodopera quasi gratuita. Spesso ricevono solo acquavite o addirittura alcornol puro: obbligati a bere veleno in cambio di lavoro nelle loro ex proprietà.
L’invasione risponde ad un chiaro piano governativo: concentrare le terre nelle mani di chi può sfruttarle «più razionalmente per il bene dell’economia brasiliana». Si conia uno slogan per giustificare l’operazione: «La terra senza uomini (l’Amazzonia) agli uomini senza terra (i brasiliani nordestini)». Si aprono le strade transamazzoniche, perché «i poveri coloni emigrati» possano avere un po’ di terra da lavorare.
Ma il sogno dei piccoli coloni dura poco. Infatti il governo dichiara: finora la transamazzonica ha aiutato il piccolo colono; «ma ora dobbiamo entrare nella fase delle grandi imprese».
Per realizzare ciò, si vende il Brasile a ditte straniere e a prezzi irrisori. Indios e coloni (anche i secondi hanno versato lacrime e sangue) lottano fino a morire. Vince l’interesse dei potenti.
L’Amazzonia ci rimette oltre un milione di chilometri quadrati (negli stati di Mato Grosso, Rondonia, Goiàs, Acre, Pará, Roraima). Gli indios, minacciati dall’invasione genocida dei bianchi, sono: yanomami, macuxí, wapixana, ingarikò, taurepang, deni, suruí, guajé…
Orecchi da mercante
Il 19-12-1973 il presidente brasiliano Medici firma lo «statuto dell’indio», che dovrebbe tutelare i diritti delle minoranze etniche della nazione. Però la legge penalizza gli indios. Lo stesso presidente dichiara senza mezzi termini: «Lo scopo fondamentale dello statuto è la rapida e salutare integrazione dell’indio nella civiltà».
Nell’ottobre del 1978 la situazione peggiora ancora. Il ministro degli interni Reis consegna al presidente Geisel un decreto-legge sull’integrazione obbligatoria di quasi tutti gli indios.
L’iniziativa suscita una tenace opposizione in vari settori della società: chiesa e università. Gli indios rifiutano con forza il progetto genocida e, il 19 aprile 1979, inviano a tutti i brasiliani il seguente messaggio: «Riuniti in un’assemblea nazionale, siamo portavoce anche dei gruppi indigeni che non sono potuti intervenire. Sono nostri fratelli di sangue che aspettano, come noi, di vedere i loro problemi risolti, specialmente il problema della terra… Stiamo forse chiedendo integrazione ed emancipazione nella società dei bianchi? No. Noi vogliamo solo il riconoscimento e il rispetto della nostra integrità fisica e culturale».
Le richieste trovano orecchi da mercante.
Di male in peggio?
«È in corso una guerra non dichiarata, ma calcolata e sporca: da una parte il governo brasiliano e i centri di potere economici e militari vogliono sfruttare le immense ricchezze del sottosuolo amazzonico; dall’altra la diocesi di Roraima, con la chiesa cattolica del Brasile e le associazioni filantropiche e ambientaliste, cerca di impedire il genocidio di 100 mila indios, la distruzione della flora e fauna amazzonica, l’inquinamento dell’atmosfera e dei fiumi».
È la denuncia dei missionari della Consolata di Roraima del 16 febbraio1988. Investe tutto il Brasile.
Nel paese vige la «nuova repubblica»: una dittatura (con una facciata democratica), dove operano potenti forze economiche brasiliane e multinazionali, appoggiate da settori militari. Si impone un modello di sviluppo neo-colonialista, peggiore dei precedenti: il saccheggio delle risorse forestali e minerarie dell’Amazzonia è perpetrato in modo caotico, incontrollato; provoca l’ennesimo sterminio di migliaia di indios. Secondo il piano governativo, le culture indigene devono scomparire, le comunità integrarsi nella società brasiliana e la maggior parte delle terre è da sottrarsi agli indios, per sfruttare i minerali ritenuti necessari allo sviluppo del Brasile.
Chi crede nel valore della «diversità» dell’indio insorge. I missionari della Consolata si appellano alle Nazioni Unite lanciando una campagna internazionale…
Nell’ottobre del 1988 c’è la nuova costituzione brasiliana. Si ritorna a sperare, perché si avallano i diritti degli indios: alla cultura, alla lingua, alla terra e all’usufrutto delle sue risorse. Si riconoscono 594 territori indigeni e 279 vengono registrati. La registrazione totale dovrebbe completarsi nel 1993.
Ma, nel presente 2000, non sono ancora stati delimitati 315 territori. Le terre indigene continuano ad essere depredate. Sembra davvero che in Brasile, o maior do mundo, non ci sia posto per il «diverso».
Francesco Beardi