A vevo appena terminato di celebrare la messa, nella città di Goiania, proprio nel cuore del Brasile; mi restava solo il tempo contato per prendere la corriera verso S. Paolo. Mi stavo ancora togliendo i paramenti liturgici, quando una signora, dall’aria borghese, mi avvicinò. «Dom Pedro, ho bisogno di parlare con lei!». Le spiegai la mia fretta; tentai anche di combinare un incontro successivo pensando si trattasse di un problema di coscienza.
La signora sbottò: «Sono dell’UDR e ci sono molti altri dentro questa chiesa che sono dell’UDR. Basterebbe che lei parlasse di terra e la chiesa si svuoterebbe…».
«Io credo – le risposi, tentando di mostrarmi paziente e persino sorridente – che lei non dovrebbe essere dell’UDR. E poi, per non parlare di terra, dovremmo svuotare la Bibbia intera. Dalla prima all’ultima pagina la Bibbia non parla che della terra!».
La UDR è una prepotente organizzazione di latifondisti, nemica della Riforma Agraria e di tutti coloro che la propugnano – lavoratori della terra, sindacalisti, una certa Chiesa impegnata con il Popolo. Ha preso la sigla dalla UDR francese, un raggruppamento della destra, ma ha trasformato la R finale da «repubblicana» a «ruralista», un aggettivo cui non attribuisce un valore propriamente bucolico. Oggi in Brasile costituisce l’organismo reazionario più potente e pericoloso.
dom Pedro Casaldaliga
in «Liberazione nella terra degli afflitti» (Emi, 1988)
E rede delle capitanerie, il latifondo massacrò indios, importò schiavi, espulse posseiros e impose, su 600 milioni di ettari, il privilegio della proprietà di pochi sul diritto alla vita di immense moltitudini.
Dio, tuttavia, non dette nessun diritto, non firmò nessun contratto al latifondo. Creò la terra per tutti. Da questa coscienza nacque l’indignazione e, da essa, la reazione.
Scacciati dalla terra, gli agricoltori si rifiutarono di ingrossare il cinturone di favelas che circondava le città. Si riunirono in accampamenti, promossero occupazioni, costituirono insediamenti. Il diavolo vide crescere le sue possibilità. Divenne capataz, corruppe giudici, evase imposte, elesse deputati, strappò sovvenzioni, armò pistoleros, inviò polizie contro i senza-terra, i senza-tetto, i senza-libertà.
Frei Betto
I l colonnello Horàcio era stato esaltato come uno dei fazendeiros più prosperi dell’intera regione, come un uomo dabbene che non solo aveva fatto costruire la cappella di Ferradas, ma aveva già messo mano a fare erigere la chiesa di Tabocas, e come un cittadino ossequente alle leggi.
Come si poteva muovere a un uomo simile l’accusa di un nefando delitto? Tutti sapevano benissimo, invece, ch’egli lo aveva commesso. Era stato per via di un contratto di cacao. Il negro Altino con suo cognato Orlando ed un compare chiamato Zacarias avevano piantato a cacao un terreno di Horàcio, dopo aver stipulato un regolare contratto. (…) Un bel giorno Altino si fece coraggio e andò a parlargliene: «Vossignoria mi perdoni, signor colonnello, ma noialtri vorremmo sapere quando si firma l’atto notarile del terreno».
Horàcio, in sulle prime, se l’ebbe a male: quella era una prova di mancanza di fiducia. Ma dopo le scuse di Altino spiegò d’aver già dato gli ordini affinché il suo legale, l’avvocato Rui, si occupasse della cosa. Pazientassero un altro po’, di lì a poco, li avrebbe fatti chiamare per andare a Ilhéus a concludere l’affare. Passò altro tempo, dalle zolle cominciarono a spuntare le pianticelle di cacao, semplici sterpi ancora, che fra non molto, però, sarebbero diventati alberi. Altino, Orlando e Zacarias li guardavano con amore. Era cacao di loro proprietà, piantato con le loro mani, nella loro terra che avevano dissodato. Crescevano e non avrebbero tardato a produrre frutti gialli come l’oro, danaro contante. Dell’atto notarile non si ricordavano nemmeno più. Soltanto il negro Altino, a volte, ci pensava. Da un pezzo conosceva il colonnello Horàcio, e ne diffidava. Ciò nonostante rimase anche lui esterrefatto il giorno in cui seppero che la fazenda Colibrì era stata venduta al colonnello Ramiro, e che la loro piantagione era compresa nel contratto. Decisero di parlarne al colonnello Horàcio. Orlando rimase a prender cura della piantagione, vi si recarono gli altri due, ma il colonello quel giorno era andato a Tabocas. Ritornarono il giorno dopo, e il colonnello era a Ferradas. Allora Orlando decise che a trovare il colonnello ci sarebbe andato lui. Per lui quel pezzo di terra era tutto al mondo, non se lo sarebbe lasciato portar via. Alla fazenda gli dissero che il padrone era andato a Ilhéus. Egli fe’ cenno di sì col capo, ma senza por tempo in mezzo infilò l’uscio della casa padronale e trovò il colonnello che mangiava in sala da pranzo. Horàcio lo guardò e, con la sua vocetta secca, disse:
«Vuol far colazione con me, Orlando? Senza complimenti…».
«Signor no, grazie».
«Che cosa fai da queste parti. C’è qualche novità?».
«Una gran brutta novità, sissignore. Il colonnello Ramiro è capitato nella piantagione, dice che la piantagione è sua, che l’ha comperata da Lei, colonnello».
«Se lo dice il colonnello Ramiro, dev’esser vero. Non è uno che racconta frottole…».
Orlando rimase a guardare il colonnello che aveva ripreso a mangiare. Ne guardava le grosse mani callose, il volto chiuso. Alla fine parlò.
«Vossignoria glie’ha venduta?».
«Questo è affar mio…».
«Ma non si ricorda che quel tratto di foresta lo ha venduto a noi? Per il danaro del contratto del cacao?».
«Avete l’atto notarile, voialtri?» e Horàcio riprese a mangiare.
Orlando fece girare fra le mani l’ampio cappello di paglia. Aveva piena coscienza della sventura che colpiva lui e i suoi compagni. Sapeva anche che, per le vie legali, non avrebbero potuto lottare col colonnello. Capiva che ormai essi non possedevano più terra, né piantagione, né niente. (…)
Quella medesima sera giunse d’improvviso coi suoi uomini alla piantagione contestata. Circondò la capanna, dicono che uccidesse egli stesso i tre uomini e che dopo, cavato di tasca il coltello da sbucciare la frutta, tagliasse la lingua a Orlando, poi le orecchie, il naso e, alla fine, strappatigli i calzoni, lo castrasse facendo quindi ritorno alla fazenda coi suoi uomini. Quando uno di questi fu arrestato per ubriachezza dalla polizia e lo denunciò, egli scoppiò in una risata. Fu assolto.
I suoi jaguncos dicevano che egli era un uomo in gamba e che mettevano conto di lavorare per un padrone come lui. Non avrebbero mai permesso che nessuno di loro andasse a finire in gattabuia e una volta s’era perfino scomodato a uscir di casa apposta per trae uno fuori dalla prigione di Ferradas. E dopo averlo rimesso in libertà aveva stracciato gli atti del processo sotto il naso del cancelliere del tribunale.
Jorge Amado
in «Terre del finimondo» (Bompiani, 1942)
aa.vv.