I neri, ancora incatenati – Speciale BRASILE
Il conto è presto fatto: tre secoli
di schiavitùe uno di libertà, fanno
quattrocento anni di sfruttamento. Cosìi neri brasiliani riassumono la loro storia… in attesa di riscatto.
AFRICA ADDIO
All’inizio sono gli indios a essere costretti a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero. Poi qualche colono importa illegalmente alcuni schiavi neri. Forti e muscolosi, danno risultati eccellenti. Le poche gocce diventano un diluvio.
Nel 1539 è inoltrata a Lisbona la richiesta di schiavi africani. Nel 1550 la tratta dei neri diventa sistematica, con tutti i timbri dell’ufficialità. Nel 1570 inizia l’importazione in massa.
A mano a mano che si sviluppano industria zuccheriera e coltivazione del tabacco, industrie minerarie e piantagioni di caffè, il traffico negriero aumenta di anno in anno con un crescendo vertiginoso. In tre secoli arrivano in Brasile quasi 4 milioni di africani. Nella tabella seguente sono riportate le cifre più attendibili, calcolate per difetto.
Africa-Bahia, viaggio diretto, ma terribile: metà degli schiavi periscono in alto mare. Solo i più giovani e forti sopravvivono alle burrasche della traversata, con poco cibo e acqua rancida. «Ne muoiono troppi sulle navi negriere. Sotto sotto non ci sarà un imbroglio?» si lamentano i sovrani portoghesi; non per compassione, ma perché riscuotano le tasse per ogni nero che sbarca vivo.
I neri sbarcati in Brasile appartengono a due gruppi principali: bantu e sudanesi. Il primo proviene dal Mozambico (angico), Congo e Angola (cabinda, bakongo, benguela). Il secondo è composto da etnie e regni affacciati sul Golfo di Guinea: minas, jeje, ewe, nagô (di lingua youruba, Nigeria), haussá e tapa. Gli ultimi tre gruppi sono islamizzati, per cui sono detti muçulmis o più comunemente malês.
Portati al mercato, gli schiavi sono subito sottoposti al processo di distruzione d’identità e memoria storica: i preti li battezzano per farli cristiani; i compratori li dividono: marito dalla moglie, genitori dai figli; quelli di una stessa cultura sono mescolati in altri gruppi etnici; così non avranno la possibilità di fare combutta e ribellarsi.
A SUON DI FRUSTA
Una certa letteratura brasiliana parla di «schiavitù soave» e «signori buoni». La schiavitù è crudele per natura; se cessa di esserlo, non è perché il padrone diventa migliore, ma perché il servo si rassegna all’annullamento della sua personalità. Di fatto la giornata non ha nulla di «soave» per i neri brasiliani: lavorano dalle quattro del mattino fino a tarda sera. Toati alla senzala trovano altri lavori da sbrigare. Alle nove vanno a dormire: le porte sono chiuse; chi ha grilli per la testa viene incatenato.
Disobbedienza e impertinenza sono pagate a colpi di chicote (frusta). Legati al pelourinho (palo della gogna), i colpevoli vengono fustigati in pubblico, perché gli altri schiavi imparino la lezione. A volte essi vengono consegnati al calabouço, luogo di tortura istituzionale, dove altri fanno il lavoro sporco: il padrone deve solo stabilire il numero di frustate e avrà la coscienza a posto.
Se il servo alza la mano contro il padrone o un familiare, gli può essere tagliata una o tutte e due le mani, o subire torture ancor più sadiche, secondo le Ordenações Filipinas (1603). Un editto reale del 1741 ordina che lo schiavo fuggitivo sia marchiato con una grande F sulle spalle, impressa con un ferro rovente; di tagliargli un orecchio se recidivo.
Di fatto il signore ha sullo schiavo potere assoluto, compreso quello di vita o di morte. Lo può vendere, torturare o liberare. La legge lo protegge in ogni caso. Agli schiavi, invece, considerati come cose o bestie da soma, non è riconosciuto alcun diritto; neppure quello di fondare una famiglia. La proibizione di separare i coniugi e le madri dai figli minorenni arriverà solo nel 1871, 17 anni prima dell’abolizione della schiavitù.
Naturalmente tutto dipende dal buon cuore del padrone. In generale, però, i signori sono pomposi e ignoranti; spesso più ignoranti di certi schiavi, come i malês: poliglotti e matematici, contabili maliziosi, essi tengono i conti e fanno da precettori ai figli del padrone.
RESISTENZE
Molti neri portati in Brasile sono guerrieri e figli di re: nessun castigo può piegare la loro fierezza. La maggioranza fa finta di sottomettersi; ma poi, lontana dall’occhio del padrone, estrae dalla memoria riti e feticci per riaffermare la propria cultura e gettare il malocchio sugli oppressori.
Le forme di resistenza alla schiavitù sono molte e variegate: dall’assassinio del padrone e suoi attendenti al suicidio individuale e collettivo, al banzo, tragica nostalgia che approda alla morte. Con la propria fine lo schiavo sa di privare il padrone di un importante capitale.
La forma di protesta più frequente, però, è la fuga per rifugiarsi nei quilombos: villaggi fondati nel cuore della foresta per riconquistare la propria libertà. Ne sorgono a migliaia, dappertutto e di ogni dimensioni. Spesso vi confluisce tutta la gamma degli oppressi della società schiavista: indios, meticci, bianchi impoveriti, giovani che fuggono il servizio militare. Nei villaggi più consistenti i neri organizzano tutti gli aspetti della vita: sociale, politica, economica, religiosa e militare, soprattutto per respingere i tentativi di riportarli in cattività.
Il quilombo più famoso è quello di Palmares. Iniziato prima del 1600, tra i monti della Serra Barriga, nell’attuale stato di Alagoas, raggiunge il massimo splendore verso il 1630, quando gli olandesi occupano Peambuco. Palmares si organizza in repubblica confederale di 18 villaggi, presieduta da un capo, chiamato «re», e da un consiglio. Lo sviluppo agricolo permette di vendere il surplus ai bianchi circostanti.
Espulsi gli olandesi (1654), per quasi 70 anni il governo di Peambuco e i signori dello zucchero cercano inutilmente di distruggere Palmares. Nel 1695 il quilombo viene spazzato via da un’armata di 11 mila uomini, il più grande esercito organizzato in periodo coloniale.
Nella resistenza si distingue il capo Zumbi. Nato libero a Palmares, egli rifiuta di barattare la libertà e indipendenza del suo popolo col perdono e terre, offertegli dal governatore di Peambuco e dallo stesso re del Portogallo, a patto che cessi di difendere la causa degli schiavi.
Tradito dai collaboratori, Zumbi è catturato e decapitato a Recife il 20 novembre 1695. Oggi egli è una bandiera per tutti gli emarginati brasiliani, simbolo di lotta per la libertà e la costruzione di una nazione senza padroni e senza schiavi.
Intanto le rivolte dei neri si propagano anche alle città. Le più note scoppiano a Salvador de Bahia: nel 1807, 1809, 1813 si ribellano gli haussás islamizzati; nel 1826-30 si rivoltano i nagôs, che finiscono in un bagno di sangue; nel 1835 ancora gli haussás: sono massacrati tutti, dai bambini appena nati ai vecchi cadenti. Non minore sconcerto suscita la rivolta di Tupá (São Paulo, 1813), dove 600 neri attaccano tutte le proprietà della regione e vengono eliminati senza misericordia.
PADRONI «LIBERATI»
Nel secolo XIX la condizione disumana degli schiavi è denunciata con veemenza in tutto il mondo. Le motivazioni umanitarie si mescolano a quelle di pura convenienza. José Bonifacio de Andrada, «padre dell’indipendenza» del Brasile, dimostra come la schiavitù sia un’assurdità economica e causa di corruzione sociale: «Venti schiavi richiedono 20 zappe, che si possono risparmiare con un solo aratro… Colui che vive del sudore degli schiavi, vive nell’indolenza e l’indolenza porta al vizio».
Sotto le pressioni intee e inteazionali, nel 1850 il Brasile proibisce la tratta degli schiavi (legge Eusebio de Queiroz). Questi vengono importati di contrabbando; ma i prezzi sono proibitivi. Inoltre, nell’economia capitalista, il lavoro salariale è ormai più conveniente della schiavitù, che comporta il mantenimento di africani tristi e ribelli, di «merce» improduttiva come vecchi e bambini.
Ci pensa il governo a «liberare» i padroni dal mantenere tante bocche «inutili»: nel 1871 la «legge del ventre libero» affranca tutti i nati dopo tale data; nel 1885 è la volta degli schiavi sessantenni. Nel 1888, quando la regina Isabella firma la «legge aurea», che abolisce definitivamente la schiavitù, appena il 5,6% della popolazione nera beneficia di tale evento. Ormai di veri schiavi ne sono rimasti pochi: molti sono già affrancati, altri si sono liberati da soli, con la fuga.
RAZZISMO ALLA BRASILIANA
La «legge aurea» introduce il Brasile nel consesso delle nazioni civili; ma non cambia nulla per i neri. A suo tempo José Bonifacio aveva suggerito come procedere all’affrancamento: «Fate dei neri degli uomini liberi e fieri; offrite loro incentivi, proteggeteli, ed essi si riprodurranno e diventeranno cittadini preziosi».
I neo-liberti, invece, restano senza casa, né terra, né famiglia (0,8% di sposati). Per loro non c’è nessuno degli incentivi concessi agli immigrati. Analfabeti al 99%, buttati senza alcuna preparazione nel mondo competitivo del capitalismo, i neri costituiscono da subito un serbatornio di manodopera usa e getta, in balia del mercato del lavoro e della miseria più nera: cessano di essere schiavi e diventano «il problema» del Brasile, da rimuovere al più presto.
La società brasiliana pensa di risolvere «il problema» con lo «sbiancamento» della popolazione, favorendo l’entrata massiccia di immigrati europei dalla pelle più chiara possibile. L’idea è bene illustrata da Roosvelt, presidente Usa, in visita al paese nel 1914: «In Brasile l’ideale principale è la scomparsa del nero, gradualmente assorbito nella razza bianca. L’enorme immigrazione europea tende, decenni dopo decenni, a rendere il sangue nero un elemento insignificante in tutta la nazione».
Qualcuno calcola il tempo necessario per completare tale processo di sbiancamento. Così scrive, e prega, Afrânio Peixoto nel 1923: «Forse impiegheremo 300 anni per mutare l’anima e sbiancare la pelle… per depurare questo immane miscuglio umano. Avremo albumina sufficiente a raffinare tutta codesta scoria? Dio ci assista, se è brasiliano».
La preghiera è rimandata al mittente: i brasiliani di pelle nera aumentano di anno in anno, fino a formare oggi il 70% della popolazione del paese; e non hanno intenzione di sbiancarsi, né di continuare a essere dominati.
Per spezzare le catene dei meccanismi di oppressione e rivendicare i loro diritti, i neri si organizzano: nel 1931 nasce il Fronte brasiliano nero e promuove una forte presa di coscienza economica e politica. Il dittatore Vargas lo sopprime nel 1937.
Negli anni ’70 sorgono altri movimenti di «coscientizzazione» della gente di colore e della società brasiliana in generale: Unione e coscienza nera, Movimento nero unificato, gruppi di agenti pastorali neri… Arriva qualche risultato: i primi deputati neri entrano in parlamento; a scuola, radio, televisione e nei giornali vengono dibattuti i problemi della popolazione di colore.
Matura così una duplice presa di coscienza: la popolazione nera, da una parte, riacquista la memoria del ruolo storico giocato nello sviluppo del paese e rivendica il proprio posto nella situazione presente. Dall’altra parte, i brasiliani nel loro insieme prendono coscienza che, senza i neri, il Brasile non sarebbe il Brasile.
Da decenni si parla di «democrazia razziale»; a cento anni dall’abolizione della schiavitù il paese ha riscritto la costituzione, affermando che «la pratica del razzismo costituisce un crimine imprescrittibile, soggetto alla pena di reclusione»; ma il nero continua a essere discriminato in tutti i campi della vita sociale, politica, economica e religiosa.
«Il Brasile resta uno dei paesi più razzisti del mondo – afferma José de Souza Martins, docente di sociologia -. È un razzismo diverso da quello nordamericano; non si vede; la gente tace, ma discrimina. I ghetti sono sempre neri. Nelle università pochi neri e tanti bianchi; il rapporto si rovescia nelle prigioni. E quando un nero ce la fa, diventa campione di calcio o re del samba, ripetono quello che dicevano di Pelé: “Ha tanto buonsenso che sembra un bianco”».
Benedetto Bellesi