Dal Pentagono a St. Patrick

Nato a Filadelfia da una famiglia
di origini irlandesi,
a lungo cappellano della U.S. Navy,
John O’Connor ha guidato
la diocesi di New York per 16 anni.
Con determinazione
e piglio da leader.

John O’Connor è stato tumulato in una cripta della cattedrale di S. Patrizio lunedì 8 maggio, accanto a quella dove riposa Pierre Toussant, lo schiavo haitiano che due secoli fa si distinse in opere pie e per il quale lo stesso O’Connor aveva avviato in Vaticano la causa di beatificazione.
Una folla di 3.500 persone gremiva la cattedrale, compresi 15 cardinali, 150 vescovi e 800 sacerdoti. Tra i politici spiccavano il presidente Clinton e la moglie, il vice Gore e la moglie, l’ex presidente Bush, il governatore Pataki, il sindaco Giuliani. Il cardinale Angelo Sodano, rappresentante del papa, ha celebrato la messa; il cardinale Beard Law, amico intimo di O’Connor, è venuto da Boston per rivolgere la omelia.
Il cardinale Sodano ha ricordato ai presenti che O’Connor, con i suoi 80 anni, era il più anziano tra i vescovi americani in attività. Dal 1984 guidava l’arcidiocesi di New York e dal 1985 era stato nominato cardinale da papa Giovanni Paolo II. O’Connor era ritenuto molto vicino al pensiero e all’apostolato di papa Wojtyla, dal quale si era recato in visita a Roma per l’ultima volta lo scorso febbraio.
Tra gli altri oratori, il presidente Clinton ha esaltato la forza d’animo non comune e il coraggio e la fede dimostrati nella malattia. L’associazione degli ebrei americani ha sottolineato che O’Connor ha avuto un merito notevole nel costruire un ponte fra ebrei e cattolici. Per il candidato alla Casa Bianca, George Bush, gli Usa hanno perso una voce eloquente a favore dei diritti umani e della dignità dell’uomo. E per il sindaco Rudolph Giuliani il cardinale è stato una bussola morale, ammirato da tutti i newyorkesi, credenti e non credenti.

L’ultima volta che avevo incontrato il cardinale era stata la prima domenica di quaresima (in coincidenza con l’inizio del giubileo della città di New York) nelle cattedrali di S. Patrizio e di S. Giacomo. I sacerdoti, i religiosi, le suore e i fedeli avevano riempito le navate che, in occasione delle celebrazioni, hanno esibito a caratteri cubitali il grande motto «Aprite le porte a Cristo».
Le parole del cardinale e dei vescovi, il canto delle litanie dei Santi, l’invocazione della benevolenza divina su tutti coloro che abitano questa grande metropoli e lo scambio della pace, come dono di responsabilità e di coinvolgimento, avevano fatto della celebrazione un significativo atto penitenziale-giubilare.
«Noi come chiesa saremo sempre con le vittime dell’ingiustizia e della violenza – avevano detto i prelati – e ci impegneremo a garantire a tutti i mezzi necessari per vivere in modo dignitoso e in un ambiente di ascolto e fratea accoglienza».
La frase evangelica più eloquente che il cardinale aveva voluto consegnarci era stata: «Io sono con voi fino alla fine dei tempi». E l’aveva spiegata così: «Queste parole di Gesù ci assicurano che nell’annunziare e vivere il vangelo della carità non siamo soli. In questo anno speciale del giubileo Gesù invita tutti a tornare al Padre, che ci aspetta a braccia aperte, per trasformarci in segni viventi ed efficaci del suo amore misericordioso».
Il ritorno al Padre per il cardinale O’Connor coincideva con la salvaguardia di ogni diritto umano. «Osteggiando il Padre – aveva scritto sul Catholic News, il settimanale della diocesi di New York – tutto viene sconvolto, scatenando necessariamente una serie di fattori negativi, deleteri per la dignità, la vita e la vera realizzazione della persona umana».
Nell’articolo, tra i fattori più negativi, il cardinale aveva citato la tragedia della criminalità che avvelena il vivere civile, lo sfascio e l’infelicità delle famiglie, le ideologie massificatrici, le rivoluzioni sanguinarie, le dittature e gli estremismi di qualunque matrice, i regimi polizieschi, i genocidi e le pulizie etniche, con i relativi campi di sterminio e i foi crematori.
Poche settimane prima di morire, il cardinale John O’Connor era stato premiato della medaglia d’oro del Congresso, l’onore civile più alto della nazione, per la sua battaglia in favore della giustizia economica, le condizioni dei lavoratori e, in generale, per tutte le persone nella città, nello stato e nel paese che hanno bisogno di aiuto.
Nel ricevere la prestigiosa onorificenza, il cardinale aveva ribadito il suo impegno nel difendere, a qualunque costo, la sacralità della vita umana, dal sorgere fino al tramonto, di qualunque persona, di qualsiasi colore, razza, religione o non religione essa appartenga. «Per questa causa mi sono sempre battuto e mi batterò fino all’ultimo mio respiro», aveva detto il cardinale, ancora debole e convalescente per l’operazione al cervello.
Nella storia la medaglia d’oro del Congresso è stata aggiudicata a 250 persone, tra cui spiccano George Washington, Wright Brothers, Madre Teresa di Calcutta. A chi gli aveva ricordato che la prima onorificenza era stata consegnata ai patrioti della rivoluzione americana di Bunker Hill, il cardinale aveva risposto: «È meraviglioso! Anch’io sono stato militare». Infatti O’Connor era stato cappellano della U.S. Navy (la marina militare statunitense) durante la guerra in Vietnam e in Corea.
In quell’occasione, anche il presidente Clinton aveva inviato un messaggio, dichiarando: «Per più di 50 anni O’Connor ha servito la chiesa cattolica e la nostra nazione con costanza e impegno». Nel suo messaggio, il presidente aveva ricordato i primi giorni di operato parrocchiale di O’Connor a Filadelfia, sua città natale, il servizio come cappellano militare e i 16 anni a capo dell’arcidiocesi di New York.
«Sia quando è stato soldato in campo di battaglia sia con i malati di Aids – aveva continuato il presidente – il cardinale ha operato con spirito gentile e amorosa dedizione. Fin dall’inizio, O’Connor è stato un protettore per i poveri, un campione per i lavoratori, e fonte di ispirazione per milioni di persone».
Vari vescovi erano candidati a succedere ad O’Connor alla guida di una diocesi che è solo la terza come popolazione negli Usa (dopo Los Angeles e Chicago), ma è sicuramente la più importante sul piano della visibilità, e del peso politico. Il Vaticano ha scelto Edward Michael Egan, vescovo di Bridgeport. Stimato intellettuale, conosce e parla quattro lingue, ed è un abile amministratore.

Al Barozzi




Testimoni coraggiosi

Il 10 giugno il cardinale Angelo Sodano ha inaugurato la grande mostra multimediale missionaria.
Ai pellegrini che giungono a Roma per il Giubileo
è offerta una suggestiva panoramica sull’opera
di evangelizzazione della chiesa e uno stimolo
per continuare la missione di Cristo nel mondo d’oggi.

A llestita presso l’abbazia delle Tre Fontane, luogo del martirio di s. Paolo, l’Expo Missio 2000 racconta, in un percorso realizzato con mezzi multimediali, i fondamentali dinamismi della missione: ricerca di Dio, incontro con Cristo e missione in mezzo agli uomini. È quindi un coinvolgente itinerario di spiritualità, che sollecita il visitatore a compiere un suo personale cammino missionario e suscita in lui una domanda, oltre a fornire una risposta, sul significato della missione universale di Cristo e dei cristiani, come dono, appello e mistero. In un luogo di altissima spiritualità, qual è l’abbazia, ai visitatori è offerta una serie di suggestioni e contenuti lungo un itinerario in cui storia, geografia, antropologia, ispirazione artistica, riflessione teologica e soprattutto fatica missionaria di uomini e donne, consacrati per tutta la vita all’evangelizzazione dei popoli s’intrecciano, si spiegano e si completano a vicenda.
LA RICERCA
Expo accompagna i visitatori lungo tre passaggi fondamentali. Il primo, all’aperto, immette gradualmente nel fluire continuo della storia umana, con le sue bellezze e tragedie, slanci di carità, giustizia, solidarietà e ingiustizie. Un’umanità contrassegnata comunque da un impulso comune a tutti i popoli: la ricerca di Dio. Quest’ansia istintiva della trascendenza si manifesta nella grande varietà di religioni e fedi, riti e simboli, e nel mistero dei libri sacri su cui molte religioni si fondano.
L’idea centrale di questa prima parte dell’esposizione è che il primo missionario è Dio stesso: tutto parte da lui e dal suo amore per l’uomo, a cominciare dalla creazione, per continuare in un dialogo ininterrotto con ogni singola persona e con ogni popolo, cultura e religione, nonostante peccati, errori, tradimenti.
L’INCONTRO
Il secondo passaggio conduce a incontrare la risposta di Dio a questa ricerca, secondo la fede cristiana: Gesù di Nazaret. Il suo volto è il volto di Dio. All’interno della chiesa abbaziale, viene proposto un intenso momento di meditazione intitolato «dal volto ai volti»: una sacra evocazione dell’immagine di Cristo così com’è stata accolta, vissuta e rappresentata nelle culture del mondo. Essa consiste nella proiezione di gigantesche immagini integrate da testi, musiche, effetti di luce. Le icone sono tratte da opere d’arte cristiana di Africa, America, Asia, Europa e Oceania, ed evocano aspetti e momenti diversi della figura di Gesù: bambino, amico, maestro, giornioso, sofferente, glorioso.
Il fascino della rappresentazione è accentuato dal movimento lento e continuo delle immagini della vita di Gesù, che si dilatano sull’enorme schermo e percorrono i diversi piani della chiesa, disegnandovi un cangiante e fascinoso affresco virtuale.
All’uscita dalla basilica, i pellegrini sono invitati a entrare nella chiesa dedicata al martirio di s. Paolo per un momento di silenzio e preghiera. Questa sosta nel luogo del martirio dell’apostolo delle genti, il primo, grande testimone-missionario della fede cristiana, è un invito a riflettere su cosa comporta annunciare Cristo e il suo vangelo: il rischio sempre presente del martirio, del dover sacrificare la vita per testimoniare in prima persona l’amore ai fratelli.
LA MISSIONE
Il terzo passaggio dell’esposizione vuole essere un percorso nella storia e nelle realtà e forme attuali della missione. S’inizia con l’annuncio: in una specie di «giardino missionario» vengono presentate le tappe fondamentali di 20 secoli di evangelizzazione, insieme a una schiera di volti noti o sconosciuti di missionari, fino a quelli che operano oggi in tutto il mondo.
Entrando nel contesto attuale della missione, il visitatore è invitato a una partecipazione non solo ideale e di principio, ma gli viene offerta l’occasione di un gesto concreto di solidarietà con i poveri: egli può partecipare a comporre un gigantesco puzzle (4×20 metri), acquistando una o più tessere e contribuendo così a realizzare alcuni progetti di cooperazione internazionale in varie parti del globo.
Di fronte al grande puzzle sono allineate una serie di tende, alternate a grandi tele che, in più lingue, sintetizzano i grandi bisogni delle popolazioni con le quali i missionari condividono la loro vita: armonia, vangelo, pace, acqua, cibo, salute, scuola. Ci sono le tende degli istituti missionari, che cambieranno periodicamente. C’è la tenda della giustizia e pace, in cui il visitatore può firmare, su un rotolo di carta di tre quintali, e aderire alla campagna per la remissione del debito estero dei paesi più poveri.
Nella tenda della vocazione, attraverso l’interpretazione in chiave missionaria delle beatitudini evangeliche, i pellegrini possono scoprire il fascino della chiamata che Dio rivolge a uomini e donne di ogni continente, perché siano partecipi della missione di Cristo con tutta la loro persona e per tutta la vita.
Nella tenda del dialogo interreligioso, una mostra audiovisiva illustra l’impegnativo cammino che porta gli uomini di religioni diverse a incontrarsi nel rispetto reciproco e collaborazione, operando insieme per il bene. Un’atmosfera carica di luce e di pace invita a pregare in dialogo con altre esperienze religiose.
Al termine del percorso le tende dell’ascolto e dell’incontro: i pellegrini possono ascoltare dalla voce dei missionari le loro esperienze, per comprenderne meglio fatiche e speranze e rimanere contagiati dalla loro fede ed entusiasmo.

Beppe del Colle




Quando le genti non balbettano più

Qual è per la chiesa l’eredità più ricca del secolo appena trascorso?
Senz’altro il Concilio ecumenico Vaticano II.
Il Concilio è una grazia anche per il 2000.
«Missioni Consolata»
ne ricorda il decreto sull’attività missionaria,
aggiornato da altri significativi documenti.
E sorge spontanea
la domanda:
dopo 35 anni
di «Ad gentes»,
i missionari
sono in crescita?

R icordo ancora il libro di Piero Gheddo Concilio e terzo mondo del 1964. Dal titolo se ne intuiva già il contenuto; ma più espliciti erano la copertina e il suo retro, che riportavano foto di vescovi e cardinali provenienti soprattutto dal sud del mondo. Così pure la «seconda» e la «terza» di copertina. Complessivamente si contavano 30 prelati con tricorno, zucchetto, colbacco, fez o altri copricapo.
Il libro attirò la mia attenzione anche perché, tra le foto, spiccava quella di Carlo Cavallera, missionario della Consolata, vescovo sui verdi altopiani di Nyeri e, poi, nel deserto di Marsabit (Kenya). Con lui trascorsi alcuni mesi a Roma durante il Concilio ecumenico Vaticano II.
«Nell’aula conciliare – confidò un giorno monsignor Cavallera – c’è battaglia tra noi missionari e gli altri vescovi: vogliono liquidare in fretta il problema delle missioni, facendone un’appendice di qualche altro tema. Ma noi insistiamo per un documento a parte, perché il futuro della chiesa si gioca soprattutto nel terzo mondo. Eppoi: la chiesa è o non è missionaria?».
Vinsero la battaglia i padri conciliari missionari, ma sul filo di lana. Ecco perché il decreto su «l’attività missionaria della chiesa» fu approvato «in zona Cesarini», cioè il 7 dicembre 1965, ad un solo giorno dalla chiusura del Concilio.
Barbari, pagani e Genti
Il documento sulle missioni è noto come «Ad gentes», le due parole latine di inizio: un’espressione che si è imposta specialmente fra i missionari. «Ad gentes» significa «alle genti».
E chi sono le «genti»? Il termine ricorre nelle lettere di san Paolo, che si definisce «apostolo delle genti», mentre san Pietro è «apostolo dei giudei» (cfr. Gal 2, 8). Nella concezione di Israele, «popolo eletto», l’umanità è divisa in «ebrei» e «genti».
Esisteva anche un’altra distinzione: «greci» e «barbari». Questa era etnocentrica: esprimeva un giudizio tutt’altro che positivo sui «barbari». Infatti barbaròs, secondo l’etimologia greca, era colui che (parlando una lingua straniera) balbettava; significava pure rozzo, incivile e crudele.
«Genti», invece, era un termine neutro e, forse, più rispettoso sotto il profilo culturale; ma non nella valutazione dell’ebraismo, perché «le genti» praticavano l’idolatria, sinonimo di peccato… Fu un merito di san Paolo, il più grande missionario di tutti i tempi, l’essersi dedicato all’evangelizzazione dei «non ebrei» e avere imposto alla chiesa nascente l’apertura a tutti i popoli.
Accanto a «genti» e «barbari», ricorreva anche «pagani». Era una parola innocua: definiva semplicemente gli abitanti dei villaggi di campagna. Ma, a partire dal quarto secolo, «pagani» assunse un significato negativo, in contrapposizione a «cristiani». Il messale romano, edito dal papa Pio V e riformato da Pio X, conteneva una Missa contra paganos, in cui si invocava Dio «affinché i popoli pagani, che confidano nella loro ferocia, siano schiacciati».
Oggi, caduto l’uso di «pagani», resta quello di «gentes», che designa coloro a cui non è stato annunciato il vangelo. È da sottolineare l’«ad» gentes. La preposizione ad significa «verso»: suggerisce attenzione, disponibilità e comprensione verso i popoli da evangelizzare.
Dunque: non «contra», ma «ad» gentes.
«Sembra strano (però ce lo dobbiamo pur dire) – commentava a Torino il cardinale Anastasio Ballestrero – che qualche volta facciamo i missionari con spirito di conquista, di dominio, per contare le nostre vittorie e i nostri trionfi».
Al contrario, la chiesa non deve mirare ad ambizioni politiche, sociali o religiose; non è mandata per giudicare, ma per salvare e servire.
Non basta un tocco
di vernice
Già prima del Concilio ecumenico Vaticano II, alcuni missionari illuminati avevano parlato di «adattamento» alle culture dei popoli. Poi il decreto Ad gentes ha richiesto che, nei paesi di missione, la vita cristiana fosse «commisurata al genio e all’indole di ogni civiltà» (n. 22). Si è auspicato un cristianesimo più rispettoso delle culture: quindi adattato nello stile delle chiese e nelle celebrazioni liturgiche, con la valorizzazione di canti, ritmi e danze locali. Ma era un modo di evangelizzare ancora superficiale.
Pertanto dall’«adattamento» si è passati all’«inculturazione», cioè all’incarnazione del messaggio evangelico in una cultura non cristiana e non europea. È un problema complesso. Ci si dibatte tutt’oggi.
Il nocciolo della questione è il seguente: l’accoglienza del vangelo deve sfociare nella nascita di nuove espressioni cristiane. Ebbene: sono state composte orazioni eucaristiche particolari e manuali di preghiere che accolgono elementi tradizionali. Ma non basta. Si richiedono elaborazioni teologiche «dal» sud del mondo.
Incombe però un rischio: quello del miscuglio, della confusione, del sincretismo. Ciò crea sconcerto e (fatto assai più negativo) divisione. Ecco perché nell’esortazione apostolica del 1975, Evangelii nuntiandi, Paolo VI insistette sull’evangelizzazione delle culture: «Occorre evangelizzare, non in modo decorativo, a somiglianza di vernice superficiale, la cultura e le culture dell’uomo, partendo dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra loro e con Dio» (n. 20).
Tuttavia i pericoli, insiti talora nelle novità, non devono comportare il riflusso verso posizioni teologiche stantie. Si camminerebbe fuori della storia. Il servizio dell’evangelizzazione deve continuare con coraggio, «anche quando bisogna seminare nelle lacrime». Parole di Paolo VI.
un «Ad gentes» in crescendo
Il decreto sull’attività missionaria della chiesa Ad gentes è da completarsi con altri documenti conciliari: specialmente la costituzione dogmatica sulla chiesa Lumen gentium, il decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, la dichiarazione sulle relazioni della chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis umanae, la costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes.
Sono testi che sollevano problemi cruciali per il missionario: si pensi alla Nostra aetate nel contesto del Sudan, dove i cristiani sono perseguitati dal regime islamico. Anche il rapporto con il fondamentalismo induista è spigoloso. Giovanni Paolo II l’ha sperimentato nel suo recente viaggio in India.
Traumatico per alcuni missionari (che fino a ieri predicavano che «fuori della chiesa non c’è salvezza») può essere il tema della libertà religiosa. Al che il cardinale Ballestrero rilevava: «Purtroppo i pavidi che rifiutano quel testo ci sono ancora, eppure esso è intriso dell’audacia dello Spirito e va letto in questa prospettiva e con questa sensibilità. La chiesa, proprio perché missionaria, non è mai sulla difensiva e non deve esserlo. Non siamo mandati a difendere una cittadella, ma a servire il mondo con il messaggio della parola che salva».
Il messaggio del Concilio sull’Ad gentes va aggiornato pure con i successivi documenti che ne sviluppano i problemi. Ho già ricordato l’Evangelii nuntiandi.
Nel 1967 appariva l’enciclica Populorum progressio. In essa Paolo VI sottolineava lo sviluppo integrale di tutto l’uomo come un aspetto fondamentale dell’evangelizzazione. Inoltre il documento sensibilizzava i cristiani sui problemi nel sud del mondo e stimolava la solidarietà verso i fratelli impoveriti da poteri nazionali e inteazionali.
L’ultima charta magna sull’evangelizzazione dei popoli è l’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptoris missio (1990). Ha riaffermato l’urgenza della missione ad gentes, anche di fronte alla penuria di vocazioni sacerdotali in Europa. Però il problema della scarsità di sacerdoti non si supera chiudendo i cancelli delle diocesi, affinché nessun prete «scappi».
«La fede (in crisi) si rafforza donandola» (n. 2).
N el 1976, ritornato in Italia dalla missione in Tanzania, mi capitò tra mano una rivista missionaria, di cui non ricordo la testata. Mi colpì, come nel libro di Gheddo, la copertina: ritraeva un ragazzo che scriveva sulla lavagna: «Anch’io sono missionario».
Da questa affermazione, in perfetta sintonia con l’Ad gentes del Vaticano II, ci si sarebbe aspettati una crescita di vocazioni missionarie. Ma la dichiarazione del ragazzo è stata «una» rondine che… non fa primavera. In compenso, sono cresciuti i laici impegnati. Gli istituti missionari (che lamentano la mancanza di vocazioni) non dovrebbero forse fare i conti con i volontari, ripensando i propri comportamenti e regole? Però i laici, missionari part time, non sostituiscono gli evangelizzatori full time.
Allora «udii la voce del Signore che diceva: “Chi invierò? E chi andrà?…”. Io risposi: “Eccomi, manda me”» (Is 6, 8-9).

Francesco Beardi




MOZAMBICO – Protetti persino da una suora

P adre Filipe Couto, mozambicano e missionario della Consolata, è l’attuale rettore dell’università cattolica del Mozambico (Ucm). Sorta per volontà dell’episcopato del paese e inaugurata a Beira il 10 agosto del 1996, l’università, nonostante le non poche difficoltà, è in continua espansione, come ci rivela questa breve intervista.

Lo scorso agosto, l’università cattolica del Mozambico ha inaugurato una facoltà di scienze bio-mediche nella provincia di Sofala, a Beira. Come mai?
Volevamo iniziare una scuola superiore di medicina, anche se esiste già una facoltà nella nostra capitale (Maputo). Però la chiesa e il ministero della sanità hanno compreso la necessità di avee un’altra per formare più medici che potranno curare i malati nelle varie province e distretti.
Abbiamo pochissimi medici mozambicani e il nostro paese è molto esteso; troppi studenti non possono uscire dal centro e dal nord del paese per andare nella capitale. Inoltre, è necessario incominciare una scuola superiore di medicina con un tipo di istruzione molto più adeguato alle necessità. Il tirocinio accademico e pratico dovrà essere svolto tenendo conto dei bisogni degli ammalati dell’Africa Australe: Sudafrica, Botswana, Namibia, Zimbabwe, Malawi, Zambia, Tanzania…

Chi vi assiste nell’esecuzione del progetto?
Dalla scuola superiore di medicina dell’Università di Wittwatersrand (Johannesburg – Sudafrica) due professori (Peter Gray e Adriano G. Duse) si sono impegnati a foirci un’assistenza. Essi cornordineranno tutto il progetto: l’anno preparatorio, il ciclo pre-clinico e clinico; accompagneranno anche il lavoro che stiamo facendo per trasformare l’ospedale centrale della città di Beira in clinica di insegnamento per gli studenti di medicina.
Attraverso i due medici, avremo anche l’assistenza di due professori della Scuola di medicina dell’Università di West Virginia (Stati Uniti).
L’attuale ministro della sanità in Mozambico, Francisco Ferreira Songane, quando era direttore dell’ospedale centrale, aveva lavorato insieme a noi per organizzare il programma. Adesso, da ministro, si sente impegnato ad appoggiare l’inizio e lo sviluppo del progetto. Anche la facoltà di medicina dell’Università statale «Eduardo Mondlane» collabora con noi.

Disponete di mezzi finanziari per iniziare, sviluppare e continuare il progetto?
Abbiamo un credito da un banchiere tedesco, senatore e console onorario del Mozambico in Germania, nella Baviera, Siegfried Lingel. La sua banca (Merkur Bank) ci ha concesso un prestito. Questo ha dato la possibilità di incominciare. Alcuni istituti missionari ci hanno appoggiato: la provincia italiana dei missionari della Consolata, la direzione generale delle missionarie della Consolata, la regione italiana dei missionari comboniani, una parrocchia della diocesi di Milano (il cui parroco, don Antonio Colombo, ha una sorella missionaria della Consolata che lavora in Mozambico). Inoltre, contiamo sul sostegno di un gruppo di Casatenovo (LC), costituito dalla famiglia e amici della dottoressa Graziella Fumagalli, trucidata in Somalia (dove era volontaria della Caritas e responsabile di un ospedale).
L’Organizzazione mondiale della sanità (Who) in Mozambico ci ha dato un piccolo sussidio per pagare i consulenti che vengono da fuori.
Quanto al futuro: l’Ucm è opera di Dio. Confidiamo soprattutto nella provvidenza di Dio, della Madonna Consolata, di san Giuseppe e tutti i santi: includendo una suora benedettina tanzaniana, deceduta nel 1950 e sepolta a Songea (Tanzania), suor Beadette Mbawala; questa suora ha protetto e continua a proteggere l’Ucm, specialmente la rettoria.
In secondo luogo, contiamo sulle tasse scolastiche degli studenti. Ognuno dovrà pagare annualmente il corrispondente di 1.000 dollari americani. La Facoltà di scienze bio-mediche riuscirà ad automantenersi nella misura in cui riusciremo a sviluppare un sistema di tasse scolastiche che, pur non avendo intenzioni lucrative, esiga il pagamento delle spese ordinarie.
Stiamo cercando dei crediti per compensare quello che, per il momento, non riusciamo ad avere con le nostre forze: ci sono delle banche locali e inteazionali disposte a dare dei crediti bonifici, rimborsabili a lunga scadenza e con interessi non troppo alti. Stiamo dialogando con diverse fondazioni ed istituzioni bancarie per ottenere altri fondi.

Oggi si parla del condono del debito ai paesi in via di sviluppo e… voi di debiti volete fae ancora!
La faccenda del condono del debito è complessa. Noi non potremo iniziare le nostre attività senza ricorrere ai crediti. Abbiamo avuto esperienze positive con la Facoltà di agricoltura dell’Ucm, che già stà funzionando da due anni nella provincia del Niassa, a Cuamba.

Con quanti studenti e docenti avete iniziato?
Ci sono circa 100 studenti nell’anno preparatorio. Quanto ai docenti: ho già menzionato i professori di Wittwatersrand e West Virginia. Avremo anche due medici missionari comboniani: il medico-prete Elias Arroyo e la medico-suora Donata Pacini; entrambi hanno un’esperienza di molti anni nel campo sanitario in Mozambico. Dall’università del paese vicino (lo Zimbabwe) avremo altri docenti.
La Vso (Voluntary Service Overseas) dell’Inghilterra invia tre docenti e il Dog (Dienst Over Grenze) dell’Olanda altri due. Dal Ministero della sanità, dall’ospedale centrale di Beira e dall’università statale «Eduardo Mondlane» provengono dei mozambicani, che lavoreranno con gli esperti venuti da fuori.

Non sarebbe stato meglio incominciare, più modestamente, con una Scuola superiore di infermieri e agenti di sanità pubblica?
In Mozambico ci sono già degli istituti per la formazione di infermieri; ne abbiamo uno persino qui a Beira, nel recinto dell’ospedale centrale. Abbiamo anche istituti di sanità pubblica a Maputo e a livello provinciale, con corsi particolari.
Una nota: il nostro progetto si chiama «Facoltà di scienze bio-mediche». La denominazione significa che, in questa facoltà, l’approccio dell’istruzione ha componenti fondamentali di sanità pubblica. Durante i corsi alcuni studenti potranno cambiare e decidere di formarsi come infermieri. Comunque la facoltà di scienze bio-mediche dell’Ucm punta sulla formazione di medici.
Purtroppo in Mozambico ci sono moltissimi ammalati senza assistenza medica.

Giacomo Mazzotti




ETIOPIA – In questo paese benedetto da Dio

Non mancano
nella storia i filosofi
che cercano l’elemento primo dell’universo.
Aria, fuoco, acqua, terra?… L’articolista,
partendo da questi elementi comuni,
offre altre considerazioni.

TERRA
«Riempite la terra, soggiogatela e dominate…» (Gn 1, 28).
In questo paese «da te benedetto», hai un bel coraggio, caro nostro buon Dio, a chiedere alla gente di soggiogare la terra!
Sono loro, credo, ad essere sottomessi all’acqua, al fuoco e al suolo che calpestano. Passano la giornata chinati, zappando, pulendo sterpaglie, preparando la semina. Sono gente che aspetta la pioggia, perché questa irrighi il suolo e faccia crescere le messi.
Aspettano a lungo. Troppe volte, perché non ha piovuto, le sementi si sono perse. Il sudore, versato per il lavoro, non è stato sufficiente a far crescere qualcosa. Tutto è stato inutile, fatica sprecata!
I soldi pagati al padrone del terreno, i semi acquistati con tanto sacrificio sono andati persi per mancanza d’acqua.
Cosa mangeranno, caro buon Dio?
È rimasto niente, la terra è riarsa. Avevano speranza di raccogliere i frutti, ma anche questa è morta per mancanza di pioggia! Hanno i piedi sporchi di polvere nera:
perché non ti fai vivo, o Cristo,
e li lavi come facesti un giorno?
Toa ancora a farlo!
Tutti i loro sforzi sono stati spesi su terra di altri, pagando per l’uso.
Aspettavano un raccolto abbondante, sufficiente per tutti… ma non rimane nulla, neanche la terra!
Essendo affittata, è pronta per altri, loro non potranno pagarla di nuovo.
Questa terra ingrata, dopo avere accettato il lavoro delle loro mani, non ha dato frutto: ha «rubato» ai poveri, ha distrutto la speranza!
Hai un bel coraggio, caro nostro buon Dio, a dire alla gente di dominare la terra!
Io vedo, invece, che la terra li mangia, inghiottisce avida i morti di fame. Li copre di polvere, li dimentica presto perché fanno paura.
Questa terra crudele, sporca, insensibile… i bambini dei morti, impudicamente li copre di polvere nera.
I piccoli, o Dio, che tu hai benedetto, proclamato intoccabili.
Come osa la terra, la terra esserti infedele? Nelle lunghe notti, per un po’ di tempo li mantiene caldi, ma quando il fuoco si spegne, li abbandona al freddo pungente e prolungato. Nella terra sporca ci sono parassiti che invadono avidi i loro corpi insonni, rendendoli pidocchiosi e indecenti.
Al mattino si svegliano con i primi rumori; accorrono curiosi se sentono estranei, visite alle quali bisogna sorridere: un sorriso triste dai volti sporchi.
In questo paese «benedetto da Dio», la terra è avara, prende e non restituisce. Produce scorpioni, ragni velenosi e viscide vipere che vi strisciano sopra.
Ma a che servono queste creature per la povera gente?
I preti benedicono campi e sementi, pretendono grazie per le loro suppliche. Implorano Iddio che venga in aiuto con pioggia abbondante e pane per tutti.
Dio non ascolta! E qui, sulla terra, si sente soltanto il silenzio.
Ma questo Dio è soltanto dalla parte dei ricchi, i quali hanno tutto e non mancano di niente?
Il Dio dei poveri è un povero dio! Rimane soltanto la terra, avara e riarsa, che accoglie i cadaveri freddi, tentando di ridare il calore
rifiutato prima, quando aveva
negato i frutti promessi, quando – crudele – aveva spento la speranza.
Dove sei, o Dio, perché taci ora?
Fuoco
È tanto utile il fuoco che purifica l’oro e trasforma i cibi rendendoli gustosi. Il fuoco lava lo sporco con mani di fiamma, con le sue lingue ardenti. Ma l’oro è dei ricchi e il fuoco pure!
Per avere il fuoco ci vuole la legna, gas o carburanti, o la forza elettrica… ma ai poveri è negato l’accesso a questi beni, ai poveri rimane lo sterco di bue.
In questo paese «benedetto da Dio», lodato dai santi dell’Antico Testamento, i poveri raccolgono lo sterco ancora fresco e, come esperti vasai, lo trasformano in zolle. Essiccato al sole, sarà pronto per l’uso; bruciando in cucina, farà bollire l’acqua e scalderà i corpi stanchi quando andranno a riposo. Si vende al mercato, si baratta per del cibo. Lavorando lo strame, si guadagna da vivere; che dico «da vivere»? Si tira solo a campare! Permette agli umili di tirare avanti per un altro giorno.
In questo paese «benedetto da Dio», ci sono le donne…
ma perché soltanto donne?
Esse raccolgono legna, caricando sulle spalle tanto quanto pesano. Curve verso il mondo che le tiene in piedi, guardano per terra, sempre questa terra! Camminano svelte, quasi senza sosta, per molti,
lunghi, infiniti chilometri.
Ruminano in mente la fiacca speranza di vendere bene, cercando di essere le prime sul posto.
Non è generoso il compratore avaro. Il poco che le donne prendono non è neanche loro. Andrà in mano a genitori avidi, al marito o ai figli affamati:
loro ne hanno bisogno.
Per lei, la madre, ci saranno soltanto le briciole. E non è che volesse acquistare un capriccio, ma soltanto migliorare il cibo.
Domani… Ci sarà un domani?
Non sarà diverso, certo!
Ho visto queste donne che portano legna, chine sotto il carico pesante dei rami. Ho sentito vergogna di essere uomo. Io passo distante, staccato dalla loro vita, sollevando polvere e aggiungendola a loro che caricano il legno pesante.
È il Cristo che carica la croce, che porta i peccati del mondo.
Io faccio parte del mondo dei ricchi, le lascio passare, la loro indigenza mi scivola via: non è il mio compito!
E sento una voce, mai sentita finora: «Dalla tua spalla ho liberato il peso… (Sal 81, 7).
Lo dicevi al tuo popolo, schiavizzato in Egitto. Ora sono altri tempi! E io passo al largo.
Anche le ragazzine… sempre donne sono! Raccolgono foglie e rametti che, generosi, lasciano
cadere gli eucalipti. Di fronte al miracolo di queste creature, dovrebbero piegarsi e offrirsi in pieno alle loro mani, così maltrattate dal lavoro che fanno.
Dovrebbero seccare e, fattisi a pezzi per loro, nascondersi dentro al loro sacco.
Mi domando se basta un sacchetto di foglie e rametti a far bollire l’acqua, con cui si prepara il tè o il caffè.
Il fuoco, Signore…
Lodato sii, per fratello fuoco…
Fratello, lo chiamava Francesco, ma in questo paese «benedetto da Dio» è un fratellastro il fuoco dei poveri!

acqua
Sorella acqua…
In questo paese «benedetto da Dio» più che una sorella è un’ossessione. L’acqua non è mai vicina, né pura, né limpida. È un bisogno che si impone per primo, l’incubo notturno di donne e bambini: «Domani, di nuovo, dovremo tornare a prenderla al fiume, sporca com’è, fra tutte le bestie; o al pozzo comune, facendo la coda per ore infinite; oppure a scavare la sabbia del letto del fiume e rubarla quando appaia agli occhi».
Nell’incubo appaiono zoccoli enormi che tutto sporcano, sollevando la melma, spargendo il letame sull’acqua da bere, l’acqua benedetta che lava le mani.
E sognano anche dispettosi ragazzi che rubano il posto, versando a terra la preziosa merce raccolta con tanto sforzo.
Si sente stanchezza nei passi pesanti, che affondano dentro la polvere nera, nella sabbia che scalda la pelle indurita dei piedi. Si vede solo una strada, scaldata dal sole, senza confini (né davanti, né ai lati).
Arriva il mattino, spariscono i sogni; ci si sveglia presto e si vede ben chiaro che era tutto un incubo. Ma, purtroppo, sogno e realtà, realtà e sogno sono così simili per tanti abitanti di questo paese «benedetto da Dio».
«Tuo padre ha bisogno»:
scatta il comando da una madre già stanca, fin dal primo mattino. Recipiente in spalle, si parte rassegnati e ci si guarda attorno, cercando qualche compagna di viaggio con cui chiacchierare.
La strada è sempre quella, nessuna diversione. Qualche macchina passa e riempie tutto di polvere. Se si urta o si cade con la tanica piena, si riprende la strada, senza fare una piega.
Benedetta la plastica che resiste a ogni colpo e, se invecchia o si buca, è possibile ancora ripararla con il fuoco. Pesa molto meno della terracotta, quasi mai si rompe e non costa tanto.
Ne parlino pure male gli ecologisti: ma loro non sanno cosa significa farsi chilometri a piedi,
tutti i giorni, con un peso d’acqua sulle spalle!
Arrivati a casa, si cerca la mamma che prepari del tè e una fetta di pane. Ma si scopre, delusi, che è andata nei campi e bisogna aspettare. Delusione e pazienza
sono gli ingredienti della vita,
di ogni giorno per tanti abitanti di questo paese «benedetto da Dio».

aria
In questo paese «benedetto da Dio» vi chiedo un po’ d’aria per fare un respiro.
Quando guardo la gente affaticata, sento mancarmi il fiato,
mi assale la vergogna per i tanti beni che non ho guadagnato con il mio sforzo, che mi sono arrivati senza merito alcuno.
Datemi un po’ d’aria, per poter capire come mai tante persone di questo paese «benedetto da Dio» stanno così male, da farmi venire, in certe occasioni, la pelle d’oca soltanto a guardarli…
Voi che avete letto fino a questo punto, datemi una mano per poter capire e fare qualcosa, pur essendo grande il desiderio di tirarli fuori da tanta miseria.
Ditemi sinceri se, di fronte a loro, così malridotti, possiamo continuare a permetterci d’invocare Dio col nome di Padre.
«Padre nostro che sei nei cieli…».
E nella terra, dove?
E nel fuoco?
E nell’acqua?
Datemi un po’ d’aria!
Datemi una mano da offrire loro,
una mano
per tirarli fuori da tanta miseria!

UNA GUERRA TUTTA PAZZA

È incomprensibile agli stessi belligeranti. Ma non si tratta di rivendicazione di confine.
Sono in gioco poteri locali, indipendenza nazionale e futuro di tutto il corno d’Africa.

I nutile domandarsi chi ha torto e chi ha ragione. L’Eritrea appare come l’aggressore; ma la verità non è così semplice. Il problema comincia negli anni ’80, quando l’Eritrean people’s liberation front (Eplf) e il Tigrayan people’s liberation front (Tplf) combattono per liberare le rispettive province dalla dittatura di Menghistu. Sono entrambi socialisti; ma l’Eplf pende verso l’Unione Sovietica, il Tplf verso l’Albania.
Nel 1985 la tensione tra i due gruppi guerriglieri è diventata tanto incandescente che gli eritrei impediscono i rifoimenti dei viveri ai soldati tigrini in Sudan.
Nel 1988, quando si accorgono che, con i loro dispetti, rischiano di perdere la guerra, le due parti s’incontrano a Khartoum e appianano le loro divergenze. I tigrini suggeriscono di fissare i confini delle due regioni, ereditati dall’occupazione coloniale italiana. Ma gli eritrei dicono che prima bisogna finire la guerra, poi si vedrà.
Nel 1991 Menghistu è sconfitto. Il Tplf conquista Addis Abeba e il presidente Meles Zenawi comincia a disegnare la nuova Etiopia, che prevede autonomie etniche e regionali. L’Eplf entra in Asmara e il leader Issayas Afeworki si affretta a prendere le distanze dall’Etiopia: stacca i contatti telefonici col resto del mondo, perché vuole un prefisso internazionale differente da quello per l’Etiopia. Poi rimanda a casa i cittadini etiopici, impiegati nell’amministrazione: in due anni ne sono espulsi 150, comprese le mogli eritree e figli.
Nel 1993 l’Eritrea opta per l’indipendenza e l’Etiopia ne rispetta la scelta, sanzionata dal referendum popolare.

N el 1997 l’Eritrea sostituisce il birr, moneta etiopica in circolazione in entrambi i paesi, con la nuova valuta nazionale, il nafka. L’Etiopia rifiuta la parità tra birr e nafka ed esige pagamenti in dollari Usa. L’Eritrea alza le tasse di transito e dogana. L’Etiopia lascia il porto di Assab per quello di Djibuti. Il commercio va a rotoli; i prezzi alle stelle; i dispetti reciproci non si contano più.
Lo stesso anno l’amministrazione etiopica in Tigray pubblica nuove mappe della regione, includendo tre aree controverse della piana di Badme; comincia a piantare cippi di confine, espellere gli eritrei dai villaggi tigrini e distruggere le loro abitazioni.
Nel maggio 1998 quattro militari eritrei, accorsi a ispezionare le frontiere e dirimere le controversie, vengono uccisi dai miliziani tigrini. I carri armati eritrei invadono la regione di Badme, poi tutte le aree contestate. Un fronte che si estenderà per quasi 1.000 km. L’Etiopia risponde con cannonate e bombardamenti aerei, facendo vittime tra i civili. La diplomazia internazionale si mette in moto; ma ottiene solo un fragile cessate il fuoco. La stagione delle piogge blocca cannoni e carri armati. Ma comincia la guerra di propaganda. Intanto l’Etiopia comincia a cacciare dal paese i cittadini eritrei; alla fine del 1999 gli espulsi saranno 62 mila.

A lla fine di febbraio 1999 l’Etiopia riconquista Badme e, più a sud, Tsorona. Addis Abeba parla di «vittoria totale», ma a che prezzo! In un mese di combattimenti, dietro le trincee eritree rimangono insepolti circa 20 soldati etiopici e 100 carri armati distrutti.
Stati Uniti, Onu, Organizzazione per l’unità africana (Oua), vari paesi europei e africani intensificano le missioni diplomatiche per presentare piani di pace, chiedere la sospensione delle ostilità, far sedere Issayas e Meles attorno al tavolo delle trattative. I due contendenti non si vogliono vedere neppure in fotografia. Se uno accetta i piani proposti, l’altro trova i cavilli per rifiutarli e viceversa. E le scaramucce continuano lungo la frontiera centrale; varie incursioni di aerei etiopici bombardano le città di Massaua, Assab, Shambuko.

I l 2000 si apre con segni di speranza. L’onorevole Rino Serri, delegato dell’Unione europea nella ricerca di una soluzione politica del conflitto, riesce a riavviare le trattative, che si svolgono ad Addis Abeba (23 febbraio – 3 marzo). Il governo eritreo si convince a firmare incondizionatamente il piano di pace proposto dall’Oua.
Ma l’Etiopia, nonostante che milioni di persone nel sud del paese stiano morendo di fame a causa dell’ennesima siccità, continua la sua guerra, decisa a risolvere militarmente la partita. Il 13 maggio, vigilia delle elezioni politiche, l’esercito etiopico sferra un decisivo attacco su tutto il fronte, distruggendo villaggi, regioni e città. Gli eritrei si attestano sull’altipiano più interno per difendere la capitale. Addis Abeba afferma che non ha intenzione di conquistare l’Eritrea e che è pronta a riprendere i negoziati; ma vuole «trattare mentre combatte e combattere mentre tratta».

I l 18 giugno, ad Algeri, dopo due settimane di trattative indirette (cioè comunicando solo attraverso i mediatori) i ministri degli esteri di Eritrea ed Etiopia si sono trovati per la prima volta faccia a faccia e, davanti alle telecamere, hanno firmato il cessate il fuoco e si sono stretti la mano. Una forza di pace dell’Onu dovrebbe dispiegarsi lungo i confini, per una fascia di 25 km in territorio eritreo. Ma non è ancora la pace.
Intanto entrambi i paesi si leccano le ferite. Nessuno dei due rilascia cifre attendibili sul costo di questa guerra stupida. Si calcola che abbia fatto circa 100 mila morti e un milione di sfollati. Tutti e due gli stati hanno dato fondo alle proprie risorse per comperare armi e munizioni, bloccando il processo di sviluppo e scoraggiando gli investitori più affezionati. Mentre Addis Abeba spende 2 miliardi di lire al giorno nella guerra, paesi occidentali e organizzazioni umanitarie fanno fatica a chiedere cibo e medicine per salvare milioni di persone che muoiono nel sud dell’Etiopia.

A quando la pace? Sarà un processo complicato. Non sono in gioco i confini maltracciati dalle mappe coloniali, ma la sovranità nazionale, l’egemonia politico-militare regionale e il futuro dei due paesi. L’Eritrea vuole affermare la sua indipendenza a 360 gradi; Addis Abeba continua a sognare la «grande Etiopia», con l’Eritrea legata in qualche modo al proprio destino e uno sbocco al mare.
Benedetto Bellesi

Dalvador Del Molino




Una merce strategica

Nell’era della globalizzazione è mutato il rapporto tra informazione e realtà.
Il giornalista rischia di divenire strumento di propaganda per progetti altrui.
Il lettore-spettatore rischia di farsi travolgere, perché «la verità è semplice, ma esige un minimo di riflessione elementare». Si tratta di comunicazione o informazione?
Come difendersi dai censori post-modei che agiscono secondo l’assioma
«molta informazione, nessuna informazione»?

La formula «villaggio globale» rese celebre Macluhan. Ebbene, quel villaggio può oggi dirsi sostanzialmente realizzato. Almeno per quanto concee l’economia, la finanza, le problematiche ambientali ed ecologiche, l’informazione. Ma, oltre a creare il villaggio globale, l’informazione nel mercato planetario è diventata una merce strategica: chi la controlla (e ne controlla il processo di produzione e distribuzione) controlla il mondo. Anzi, costruisce il mondo.
Nietzsche sosteneva che «i fatti non esistono: esistono solo interpretazioni». Lo stesso può ormai dirsi del mondo, della realtà, sostituiti dalla realtà virtuale costruita dall’informazione.
In un recente saggio Jean Baudrillard sostiene che la cosa in sé – il mondo, la realtà – è stata cancellata dal fenomeno, cioè dall’apparenza (in greco fenomeno significa appunto ciò che appare). Il mondo della tecnica della comunicazione (tivù, computer, telematica, realtà virtuale) non ha ridotto l’uomo a cosa, a ingranaggio del Grande Apparato (vedere Heidegger, Jonas, ecc.), quanto piuttosto ha eliminato le cose sostituendole con le loro simulazioni.
Il Grande Fratello, secondo Baudrillard, è così l’immagine e tutto si riduce a immateriale, scambiabile. E se tutto è informazione, niente informa più davvero.
Scrive Baudrillard: «All’apice delle performances tecnologiche rimane l’impressione irresistibile che qualcosa ci sfugga. Non perché l’avremmo perso (il reale?), ma per il fatto che non siamo più in grado di vederlo: non siamo più noi a prevalere sul mondo, ma è il mondo a prevalere su di noi. Non siamo più noi a pensare l’oggetto, è l’oggetto che ci pensa. Vivevamo sotto il segno dell’oggetto perduto, ormai è l’oggetto che ci perde».

I MECCANISMI DI MASCHERAMENTO
Un saggio di Paolo Rumiz (Maschere per un massacro, Editori Riuniti 1996) e la rilettura che ne ha offerto Roberto Cavalieri in chiave africana (Balcani d’Africa, Edizioni Gruppo Abele 1997) testimoniano il mutato rapporto tra informazione e realtà nel tempo della globalizzazione e del delitto perfetto.
Il caso della guerra nell’ex-Jugoslavia è lì a confermare il tutto. Un immenso imbroglio costruito dal male (che, come scrive Rumiz, «è sempre più razionale, più guardingo, addirittura più coerente del bene») non ha accecato solo le sue vittime ma anche i testimoni più estei. Testimoni caduti nella trappola dell’effetto cloroformio della televisione, che ha portato schiere di giornalisti a rincorrere barbari stereotipi «astutamente coniati dagli stessi belligeranti».
La stessa logica si è ripetuta in Burundi, in Rwanda e nell’ex Zaire, come dimostra l’ultimo lavoro di Roberto Cavalieri.
Secondo Rumiz, i media si sono ridotti quasi sempre a svolgere non il ruolo di «informatori» quanto piuttosto quello di «comunicatori» al soldo dei belligeranti e delle loro logiche. Ma, se muta la relazione tra «fatti-eventi» ed informazione, deve cambiare anche il mestiere del giornalista chiamato a non farsi irretire, a non divenire megafono o strumento inconsapevole di propaganda per progetti altrui. Ma come è possibile tutto ciò? La risposta più convincente la fornisce Claudio Magris: «Trascrivere l’invisibilità del mondo e i suoi giganteschi meccanismi di mascheramento ed illusionismo».
E il lettore? Anche lui è sfidato: l’informazione deve essere trattata con enorme attenzione.
Ancora Magris: «Per difenderci occorre commuoverci davanti alle vittime tragicamente reali senza lasciarci trascinare da quelle emozioni, progettate da qualcuno a tavolino per farci travolgere dalla loro onda. Occorrono insieme pietà e freddezza e anzitutto l’umile fatica di andare a conoscere le cose, di studiare la realtà. La verità è semplice, ma esige un minimo di riflessione elementare».
TROPPE NOTIZIE, NESSUNA NOTIZIA
Quali dovrebbero essere le doti del lettore post-moderno? Pietà e freddezza, l’umile fatica di andare a conoscere le cose, la fatica dello studio, la capacità di trascrivere l’invisibilità del mondo e i giganteschi meccanismi di mascheramento e illusionismo.
Ciò che manca oggi non sono le notizie (comunicazioni e/o informazioni), ma il loro «smascheramento», la loro ricostruzione in quadri interpretativi critici.
«Molta informazione, nessuna informazione»: è un assioma fondamentale della sociologia della comunicazione. L’imperativo principe di ogni buon «censore» post-moderno, che si traduce nel non nascondere mai alcuna notizia (ma nel foirla in un cocktail di verità e falsità), oltre che ad annacquarla con miriadi di altre notizie.
In altre parole, assistiamo oggi ad un eccesso di informazione cui corrisponde un deficit di interpretazione: a fronte della presenza massiccia di informazione (anche in tempo reale), assistiamo ad una assenza di griglie interpretative capaci di connettere i dati informativi (che sempre più non solo parlano della realtà ma la costruiscono). I dati foiscono visioni del mondo capaci di collegarsi a concrete azioni di mutamento della realtà.
Si può anche asserire che oggi ci troviamo di fronte ad un tragico scollamento tra realtà e gruppi «eco/solidal/pacifisti»: questi utilizzano slogan, pianificano campagne, progettano interventi, in modo spesso vecchio, incapace di incidere sulla realtà, perché la realtà è cambiata e loro non se ne sono accorti. Costoro, come scrive il filosofo Galimberti, «conducono una lotta non contro la mancanza di senso di chi è costretto a vivere in quell’universo di mezzi senza scopo, che è tipica dell’età della tecnica, ma contro il sentimento di chi avverte tale mancanza di senso. Costoro sono colpevoli di non inventarselo, quasi che il problema del nostro tempo non sia il vuoto di senso, ma il sentimento che lo avverte».
Come dire, autoreferenziali. E per di più in ritardo di qualche decennio, se non secolo.
L’INFORMAZIONE NELLE CRISI INTERNAZIONALI
Le cose non cambiano se proviamo a mutare angolo visuale. Prendiamo il caso, sempre più frequente, di emergenze umanitarie (Somalia, Bosnia, Rwanda, Zaire, Albania).
Queste crisi «esistono-per-noi» solo perché passano attraverso il tubo catodico della tivù (che detta i tempi e gli argomenti dei quotidiani del giorno dopo).
È il caso, terribile, del Rwanda nell’estate 1994. Tutto iniziò il 6 aprile, ma il circo dell’informazione si mise in moto più tardi, tra il 4 ed il 20 luglio. Prima si ebbe un «genocidio senza immagini» (la definizione è di Le Monde Diplomatique). Poi ci fu la ressa, facilitata dal fatto che ai giornalisti si offriva in un solo luogo e in un solo punto il massimo concentrato possibile di stereotipi sull’Africa e sugli africani.
La tivù «costruì» il caso Rwanda. Mosse le cancellerie, costrinse i politici a far finta di far qualcosa. Questi, non sapendo bene cosa fare (o sapendolo benissimo? propendo per questa seconda ipotesi), delegarono il tutto alle agenzie umanitarie (medici senza frontiere, croce rossa, agenzie inteazionali, ong di ogni genere e natura) provvedendo a rifoirle di alcuni denari.
Queste agenzie, esperte di emergenze umanitarie, da un lato furono soddisfatte del loro nuovo ruolo, dall’altro ben presto si accorsero di dover supplire l’assenza della politica senza avee i mezzi (riducendosi a mettere cerotti su persone comunque destinate a morire). Infine, riflettendo sulla prima parola della propria autodefinizione (emergenze), esse presero atto della necessità di tener desta l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, pena il prosciugarsi dei fondi destinati dai politici mondiali all’emergenza. Da qui la necessità di premere l’acceleratore sul settore comunicazione (non informazione).
Le più importanti organizzazioni umanitarie si sono così dotate di schiere di registi, cameramen, giornalisti, esperti in comunicazione (oltre che bandiere, stendardi, stemmi e quant’altro possa aiutare il riconoscimento durante una trasmissione). Ed è giusto che sia così: la loro possibilità di continuare l’opera umanitaria dipende non tanto dalle capacità di medici, infermieri, logisti e volontari vari, quanto piuttosto dalla capacità dei propri comunicatori di tener desta l’attenzione su un dramma internazionale. Se tale tensione (anche emotiva) viene meno, il dramma-per-noi (non il dramma-in-sé, ovviamente) viene meno.
E gli agenti dell’umanitario tolgono le tende correndo in fretta e furia verso altri drammi, altri dolori, altre morti (drammi anch’essi resi rilevanti-per-noi dalla tivù).
L’ALIBI PER LE NOSTRE COSCIENZE
Tuttavia è necessario andare ancora più a fondo. Se è vero che l’umanitario ha sostituito la cooperazione internazionale allo sviluppo (obiettivo ormai dato per perso dalle cancellerie di tutto il mondo), non è altrettanto vero che l’umanitario ha sostituito la politica.
È vero piuttosto che la politica usa l’umanitario a proprio scopo.
La politica spesso si riduce a pura finzione dietro cui si nasconde, almeno a livello internazionale, la potente mano dell’economia. La quale ha già dato, per dirla con l’Unicef, «il prezzo alla vita degli zairesi», secondo lo slogan «Nello Zaire la vita vale zero. Dagli tu un prezzo». Conta lo Zaire utile (e sono diamanti, oro, uranio, ecc.): tutto il resto – sono uomini, donne, bambini – non ha valore. Vale zero.
Ma, se è così, l’umanitario serve solo a fornire un alibi alle nostre coscienze. E l’informazione è utile perché, dopo aver attirato l’attenzione e costretto all’intervento, diffonde l’alibi tranquillizzando tutti. Permette ad ognuno di addormentarsi in pace la sera: ognuno ha fatto qualcosa nei confronti del dramma «X»: chi ha comunicato, chi ha pianto e firmato appelli, chi ha spedito cartoline, chi ha scritto articoli, chi ha mosso il politico che ha mosso l’umanitario, chi ha sganciato offerte, chi le ha utilizzate sul campo, chi ha diffuso immagini del «sereno che torna», chi ha ricevuto gli aiuti, chi ha trafficato in armi, chi ha aperto nuove piste per la droga o la prostituzione o lo sfruttamento delle miniere, chi ha scritto risoluzioni e persino chi ha organizzato spedizioni militari di peace-keeping o ponti aerei…
Insomma tutta l’umanità si trova accomunata da una generale sensazione di buonismo che nasconde e non sa rivelare la realtà dei fatti.
E la realtà è questa: è avvenuto il passaggio di proprietà di un territorio o di una società (sia esso lo Zaire utile o l’Albania utile) da una mano all’altra, da una economia all’altra (spesso entrambe sporche, sostanzialmente mafiose).
QUALE MALE, QUALE BENE
Come definire tutto ciò? Connivenza o stupidità. O imbecillità: «Il cosiddetto bene è ingenuo e cieco fino all’imbecillità». Forse ha ragione Rumiz: il male non acceca solo le vittime ma anche i testimoni estei. E poi, il male è più razionale, più guardingo, più coerente del bene.
Scrive Baudrillard: «Tutte le forme di discriminazione maschilista, razzistica, etnica o culturale derivano dalla stessa disaffezione profonda e da un lutto collettivo, quello di un’alterità defunta su uno sfondo di indifferenza generale… La stessa indifferenza può portare a comportamenti esattamente opposti. Il razzismo cerca disperatamente l’altro sotto forma di male da combattere. L’aiuto umanitario lo cerca altrettanto disperatamente sotto forma di vittime da soccorrere. L’idealizzazione entra in gioco nel bene o nel male. Il capro espiatorio non è più colui su cui ci si accanisce, è colui sul quale si piange. Ma si tratta comunque di un capro espiatorio. Ed è sempre lo stesso».

Aluisi Tosolini




La gamba moderata è troppo corta

In politica è meglio essere «moderati» o «coraggiosi»? Il cattolicesimo sociale
coincide con il «berlusconismo»? Da Lilliput, dal profeta Geremia e dal cardinal
Martini possono venire insegnamenti importanti. La realtà è difficile, complessa,
travolgente, ma va affrontata. È come l’atteggiamento di Davide con Golia:
Davide osò sfidare Golia, non c’erano i presupposti, l’esito sembrava fatale
e scontato e invece… L’alternativa può essere trovata: ricerca contro pensiero unico, cooperazione contro competitività, sobrietà contro spreco…

Che cosa significa «osare il futuro»? Qual è la traduzione di un verbo così ambizioso? Quali possibili strategie oggi possiamo utilizzare per raggiungere lo scopo? Ci sono tre strategie, a cui occorre richiamarsi: la strategia lillipuziana, la strategia di Geremia (dal libro del profeta omonimo) e la strategia portata avanti dal cardinal Martini.
Noi abbiamo bisogno di «un fare alternativo» e di «un pensare alternativo», perché l’approccio integrale è sempre teorico e pratico insieme. Che serve una persona che non capisce quello che sta facendo? Allora ci vuole un nuovo pensiero. E per un nuovo pensiero c’è bisogno di svellere e distruggere per edificare e piantare. Perché, se tu non attraversi il momento della «pax destruens», tu non crei niente.
DECOLONIZZARE E DELEGITTIMARE
Il professor Latouche parla sempre di «decolonizzare l’immaginario».
Che vuol dire? Significa questo: noi che vogliamo cambiare il mondo, che diamo vita alla «scuola per l’alternativa», noi siamo colonizzati nel nostro sistema cognitivo, nel nostro cervello. Il nostro modo di ragionare, che crediamo spontaneo, in realtà non ci appartiene. È quello che l’opinione dominante, la narrazione economica dominante (oggi neo-liberista) ci fa pensare. Poiché occorre fare i conti con questo pensiero, dobbiamo svellere e distruggere, se vogliamo edificare e piantare.
Non possiamo correre subito a creare il nuovo. Perché, se prima non ci liberiamo del vecchio, il nuovo non sarà altro che un prolungamento del presente. Questo significa «decolonizzare l’immaginario».
Si prendano i libri di Riccardo Petrella. Qual è il ritornello continuamente ripetuto? «Delegittimare». Delegittimare la narrazione economica dominante, perché se non si mostrano i suoi principi antropologici (inaccettabili e pseudo-scientifici!), allora quelle affermazioni e quelle dottrine avranno la meglio nell’opinione pubblica.
Noi dobbiamo fare questo lavoro critico di pensiero. Dobbiamo tornare a pensare. L’azione è fondamentale, ma se non la si accompagna con una produzione originaria e critica di pensiero, non si va molto lontano. Prima o poi si viene risucchiati. Noi non dobbiamo avere paura di realizzare forme di «violenza ermeneutica», cioè dobbiamo dire: «Su questo non ci stiamo e vi combattiamo fino in fondo. Certo vi rispettiamo, perché siamo non violenti. Ma noi stiamo cercando con il nostro impegno di costruire una società che è diversa da quella che volete voi, e ve lo diciamo in faccia. Ce la mettiamo tutta per svelare la carica di ideologie che intravvediamo nelle cose che voi affermate».
Però, neanche questo basta più.
IL CARDINAL MARTINI E IL «BERLUSCONISMO»
Molti di noi fanno riferimento al cristianesimo, al vangelo, alla dottrina sociale della chiesa, al cattolicesimo sociale. Qui occorre introdurre la «strategia ambrosiana».
Con tale termine io intendo la pastorale sociale che il cardinale Martini, nei suoi discorsi di S. Ambrogio agli inizi di dicembre di ogni anno, ormai ha maturato.
Basta con il moderatismo dei cattolici in politica, basta con l’accidia politica e l’ignavia dei conservatori. Questo è un passaggio importante: noi abbiamo persone che fanno banca etica, commercio solidale, adozioni a distanza, frequentano ambienti missionari ecc. e poi magari non riescono a distinguere il cattolicesimo sociale dal «berlusconismo».
Qui il problema è: io non ti dico chi devi votare, fai quello che ti pare; però ti metto in guardia su cosa c’è dietro una possibilità e dietro un’altra. E ti spiego perché il cardinal Martini dice basta al moderatismo dei cattolici.
Chi sono i cattolici nell’uno o nell’altro schieramento politico? «La gamba moderata della politica» viene risposto. «Io la gamba moderata?» dovrebbe domandarsi un cattolico che fa riferimento al magistero sociale, che vuole vivere il giubileo.
Oggi il magistero sociale della chiesa (soprattutto quello della Sollicitudo rei socialis e della Centesimus annus) e i discorsi del papa sono il serbatornio di un discorso alternativo, sono una cisterna di acqua sorgiva. Solo che se non ci sono cristiani e cattolici che in politica si comportano coerentemente con questi principi…
In politica bisogna essere coraggiosi, perché, come dice il cardinal Martini, il pensiero sociale della chiesa è portatore di iniziative e proposte d’avanguardia per la società di oggi. E comunque il vangelo nella storia ha sempre una eccedenza di senso e noi non possiamo sterilizzarlo facendoci considerare dei moderati. Se noi accetteremo il discorso del moderatismo, allora saremo neutralizzati, non daremo più fastidio a nessuno. A tutto ciò occorre ribellarsi.
È un discorso politico, ma la politica serve. Altrimenti il cambiamento è solo un cambiamento simbolico.
«OSARE IL FUTURO»
Il verbo «osare» ha almeno tre significati.
Nella liturgia si usa una bella espressione: «Osiamo dire: Padre nostro…». Il primo significato di «osare» è questo che la liturgia ci regala. Significa prendersi una libertà, essere impertinenti: «non siamo degni, ma osiamo dire». È una impertinenza esigente.
Il secondo significato di «osare il futuro» è operare una forzatura, affrettare il parto della storia, anticipare. La storia porta in grembo qualcosa, prima o poi lo darà alla luce. Osare il futuro significa: facciamo presto. Questa cosa nuova (che deve nascere) nasca ora. C’è un atteggiamento messianico in chi osa il futuro: egli vuole che quanto appare come salvifico anticipi i tempi, spingendo per una accelerazione della storia.
Un terzo significato è accettare la sfida. Osare il futuro vuol dire: la realtà è difficile, complessa, sembra che voglia anche travolgerci, ma noi accettiamo la prova. È l’atteggiamento di Davide con Golia: Davide osò sfidare Golia. Non c’erano i presupposti, l’esito sembrava fatale e scontato, e invece…
Quindi, «osare il futuro» significa buttarsi, rischiare, sperimentare cose nuove. Significa contemporaneamente resistere, reagire, misurarsi con le nuove sfide che ci interpellano.
Un ultimo significato di osare il futuro è quello di sfondare il presente. Cioè aprire dei varchi, innovare, essere generativi. Mentre prima l’innovazione veniva da fuori, adesso siamo noi a produrla. Pertanto creare alternative, essere capaci di futuro, essere portatori di idee, valori, modelli di sviluppo, di «altro» insomma (purché sostenibile, compatibile, dolce).
LA STRATEGIA LILLIPUZIANA
Non basta, ovviamente, questo pensare in grande. Innanzitutto è importante fare. Ecco perché una delle prime strategie d’azione è la «strategia lillipuziana».
In Italia chi ci ha informati su questa strategia sono stati Alex Zanotelli e Francesco Gesualdi. Entrambi fanno riferimento a un testo di due studiosi americani, Jeremy Brecher e Tim Costello (Contro il capitale globale, Feltrinelli 1996).
Partendo appunto da I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, i due economisti ci fanno capire che ciascuno di noi può diventare protagonista di un cambiamento, perché non è vero che non abbiamo più poteri.
Noi avremo ancora dei piccoli poteri, se sapremo metterli insieme, riusciremo a resistere alla minaccia del «Gulliver globale», che in questo momento sta appiattendo, sta schiacciando tutto e tutti.
La globalizzazione, la new economy ci hanno portato internet. Di chi è internet? Chi può usare internet? È uno strumento ambiguo. Ci possono andare i pedofili, come pure i cittadini o i «lillipuziani». L’ambiguità di internet è l’ambiguità del «Gulliver globale».
I LIVELLI DELL’AZIONE
La strategia lillipuziana va articolata in almeno tre livelli: personale, associativo e politico-istituzionale.
Partiamo dal concetto di «economia leggera». Che c’è dentro all’economia leggera? Ci sono comportamenti economici alternativi. Se io voglio, già oggi ho a disposizione tante scelte alternative: dipende da me. Io come cittadino che risparmia, consuma, viaggia, produce rifiuti, dispone di tempo libero, ho a disposizione delle alternative.
Ma questo è soltanto il primo livello della strategia lillipuziana. Guai se tutto finisse qui, guai se noi curassimo unicamente la diffusione orizzontale dei comportamenti alternativi! Guai ad accontentarsi di 300 botteghe nel mondo. Perché, se avee 300, a livello di risultati effettivi finali, è come avee 100, che cosa è cambiato? Bisogna dare efficacia al potere dirompente che hanno questi comportamenti.
Ognuno di noi, se ci crede fino in fondo, deve passare dal primo livello della strategia lillipuziana (il livello della cittadinanza attiva personale) al secondo livello (il livello della cittadinanza attiva associativa). È la democrazia associativa, nella quale ci sono gruppi, parrocchie, movimenti, comunità, soggetti collettivi. Lì noi possiamo compiere gesti molto più forti, molto più efficaci di quelli che possiamo fare da soli o con la famiglia.
Facciamo qualche esempio. Il movimento dei focolari ha dato vita a esperienze di economia di comunione: è partito da un concetto spirituale (la comunione trinitaria) per fare delle proposte alle piccole aziende, diffuse in tutto il mondo, di questo movimento.
Che cosa accade in una azienda che pratica l’economia di comunione? Che l’utile viene tripartito: un terzo viene utilizzato nell’azienda, un terzo per fare formazione, un terzo viene donato. Donato gratuitamente ad altri, perché si crede nella dinamica del dono.
Scelte spirituali tradotte in comportamenti economici: così sono nate la Banca etica, il marchio Transfer, la Global March, l’associazione Chiama l’Africa, la campagna Sdebitarsi o quella della riduzione del debito estero della Cei e così via. Quando le associazioni si mettono insieme danno vita a realtà molto più incisive di quelle che si possono fare singolarmente.
C’è, infine, il terzo livello della strategia lillipuziana. Dobbiamo raggiungerlo, perché senza di esso i cambiamenti precedenti non saranno strutturali e politici, ma solamente simbolici.
Se il cittadino lillipuziano ha fatto tanto per contrastare la Nike (che produce le sue scarpe attraverso lo sfruttamento del lavoro minorile), egli deve fare tutto questo non per lavarsi la coscienza e sentirsi più buono, ma per modificare leggi e costumi.
Questo passaggio richiede il coinvolgimento di altri soggetti: un sindacato internazionale, un organismo internazionale, forze politiche. Altrimenti il cittadino lillipuziano non può farcela. Soltanto così si arriva alle clausole sociali, alla Tobin Tax, al superamento dei paradisi fiscali o a qualche altro cambiamento sostanziale.
Noi dobbiamo curare tutti e tre i livelli della strategia lillipuziana: dobbiamo agire con i nostri comportamenti personali e famigliari; dobbiamo portare la strategia lillipuziana nelle associazioni, parrocchie, collettivi, nel sociale dove operiamo (diffusione orizzontale); dobbiamo poi puntare all’impatto politico verticale.
Per questo dobbiamo tornare ad agire con tutta la società civile e con i suoi organismi. Ai sindacati, per esempio, dobbiamo far capire che hanno commesso tanti errori, ma che essi sono una risorsa preziosa per la democrazia e per questi cambiamenti. Perché, finché percepiremo i sindacati come nostri primi nemici, non faremo tanta strada.
Bisogna cambiare gli attuali meccanismi istituzionali, cristallizzati nelle loro concezioni sociali e politiche. Occorre mandare a casa i sostenitori di Bretton Wood. Bisogna dar vita ad una nuova generazione di istituzioni che oggi non esistono. In sostanza, è una agenda di lavoro per tutto il ventunesimo secolo e, quindi, ci vorrà del tempo. Anche per questo occorre far crescere la sensibilità politica rispetto a queste problematiche. Lo sottolineo per coloro che credono di poter fare le rivoluzioni senza i livelli intermedi del cambiamento. E, alla fine, queste persone rimangono astratte o troppo pretenziose.
STILI DI VITA, SOBRIETÀ, LETIZIA
Nella strategia lillipuziana, ci siamo dentro noi, con i nostri stili di vita. Con questo termine mi riferisco a qualcosa di molto profondo, perché uno stile di vita non s’improvvisa. Lo stile di vita è il risultato di una opzione fondamentale, che si rende visibile nella quotidianità; lo stile di vita di una persona è ciò che la caratterizza in modo permanente e profondo. Lo stile di vita quando è vero, quando è coerente, rende visibile la nostra etica.
Come altri fanno scelte improntate al profitto, alla dinamica del mercato, alla competitività, così il cittadino lillipuziano fa scelte improntate al bene comune e alla cultura della sobrietà. Questa è la nuova virtù sociale alla quale formarci, che è l’antica virtù cardinale della temperanza. Ma che è la temperanza? È scomparsa dal vocabolario.
Oggi la sobrietà può tornare. Essa deve essere, come oggi si dice, una sobrietà felice; non deve essere una cosa sofferente. Perché il barbone non è l’esempio di un uomo sobrio? Perché gli mancano troppe cose per essere un uomo sobrio.
Gli manca, in primis, la scelta; quasi sempre una persona non sceglie di fare il barbone. Al barbone manca la letizia. Se lui avesse fatto una scelta personale, trasmetterebbe la letizia. Ma al barbone mancherebbe ancora qualcosa. Che cosa? Il buon gusto, l’eleganza della semplicità, l’estetica della sobrietà. Una persona sobria non deve essere trasandata, arruffata, dimessa. L’obiettivo da perseguire è diverso. La sobrietà deve essere caratterizzata bene dalla leggerezza della vita, che sa fare a meno di zavorre, sprechi, cose ridondanti, inutili. Liberiamoci da tutto ciò: cerchiamo l’essenzialità.
La sobrietà deve anche essere un modo di giudicare e guardare il mondo con lo sguardo dei poveri. Perché è da essi che possiamo imparare qualcosa che ha a che fare con questa virtù. Insomma, secondo me è importante la dimensione francescana della sobrietà.
La sobrietà non deve essere equivocata con la casistica di quante cose dobbiamo avere o non avere: numero di paia di scarpe, televisore, motorino, milioni da spendere per le vacanze, e così via. È importante la qualità della sobrietà che uno vive e ciò è suggerito dalla coscienza del cittadino lillipuziano.
La sobrietà deve anche liberarsi dalla deriva pauperistica: non è la rinuncia a quello che riteniamo essenziale per uno stile di vita dignitoso. Possiamo avere delle cose, basta condividerle con altri, perché chi non ha abbia di più. La sobrietà è un vivere meglio, consumando meglio.
Detto questo, passiamo alla seconda strategia, quella che è centrata sul pensare alternativo. Abbiamo bisogno di un pensiero alternativo nel tempo del pensiero unico. Noi abbiamo bisogno di un altro logos, rispetto al logos trionfante in questo momento nella società. Perché noi dobbiamo svellerare, distruggere per edificare, piantare mentalità nuove.
Che vuol dire un pensare alternativo? È un «pensare alla Geremia». Significa introdurre antidoti cognitivi all’interno dell’organismo sociale e dell’opinione pubblica in cui viviamo. Antidoti cognitivi. Ossia là, dove vediamo pensatori, esperienze, opere, che risultano essere veramente alternative, noi dobbiamo dare informazione e fare formazione. Personalmente non mi stanco mai di fare riferimento alla cultura del dono e della gratuità, portata avanti da un gruppo di economisti a livello internazionale riuniti nel Maus, «movimento degli antiutilitaristi nelle scienze sociali».
I loro studi sul dono sono fondamentali in tempi di idolatria del mercato. Sono antidoti che tu lanci, che tu semini, perché le persone (che sentono parlare solo di certe logiche e dinamiche) abbiano la possibilità di sapere che non c’è solo mercato.
Occorre parlare di cooperazione come antidoto alla competitività: è questo che fa Riccardo Petrella. Se si va a svelare quale immagine di uomo e di società c’è sotto la competitività, cosa si scopre?
Dietro il concetto di competitività c’è un pensiero che suona così: homo homini lupus; ed anche mors tua, vita mea. È l’antropologia dello sbranamento, perché cresce e si fa strada quello che ruba fette di mercato all’altro. Ma un mondo con questi fondamenti non ha futuro. Quindi, dobbiamo temperare la competitività con il principio di cooperazione, condivisione, sussidiarietà, solidarietà, responsabilità.
DAL PENSIERO UNICO AL PENSIERO PLURALE
La responsabilità è anche avere l’etica del limite. Mi autolimito, non perché qualcuno me lo impone, ma perché ho capito che autolimitarmi significa aiutare l’altro a crescere.
Ci sono dei pensatori che aiutano ad avere questi pensieri. Ad esempio, Simon Veil che dice: quando Dio ha creato il mondo ha decreato se stesso, si è fatto piccolo, si è limitato, perché il mondo fosse, perché noi fossimo. Non è vero che il limite equivale sempre al fallimento o all’impotenza. Nel limite c’è una capacità generativa: fa crescere la nostra società.
E ancora va ricordato il principio di responsabilità e il «pensiero plurale». Se noi vogliamo combattere il pensiero unico, abbiamo bisogno di declinare tante parole, tante categorie di pensiero al plurale, per rompere il processo di omologazione e uniformità.
Oggi chi aiuta a pensare al plurale? Demoren, ad esempio, e tutti i morenisti. Demoren dice: basta con l’universo, occorre il pluriverso, perché c’è una pluralità dentro l’universo. Non «uni» ma «pluri» perché siamo dentro le culture delle differenze e lo scontro delle civiltà. Un pluriverso, appunto.
Questi sono titoli cognitivi, che serviranno quando, un domani, al cittadino lillipuziano si proporrà l’universo come la cosa più grande, quella che abbraccia tutto. In quell’occasione, egli potrà tirare fuori il proprio antidoto che suggerisce un concetto diverso: attento, dice, che forse l’universo non è un universo. Noi abbiamo bisogno di prendere alcuni concetti e di rivederli al plurale; l’«epistemologia della complessità», dicono quelli che parlano difficile.
Abbiamo bisogno di riscoprire un nuovo modo di pensare, altrimenti rimaniamo tutti prigionieri delle opinioni dominanti. Soprattutto, dobbiamo riscoprire alcune parole: la communitas, per esempio, è irrinunciabile. Ma con quale significato? Nella parola c’è il cum dell’insieme e il munus, ha un duplice significato: munus come compito, ufficio, responsabilità, mansione e munus come dono. Pertanto, far parte di una comunità, avere il senso di appartenenza ad una comunità, dovrebbe comportare due cose: chi ne fa parte ha un compito da svolgere ed è dentro una ragnatela di reciprocità, di scambi, di doni. Allora è bello appartenere ad una comunità! Ma chi sente l’appartenenza comunitaria in questi termini?
Oggi altre parole importanti vanno reinterpretate. Il libro La cittadinanza multiculturale (Il Mulino, Bologna 1999) ha introdotto il concetto di cittadinanza multiculturale. Come facciamo, ci si chiede nel volume, ad usare ancora i vecchi criteri per definire una persona cittadino, in un mondo con 184 stati nazionali, 5 mila gruppi etnici e 600 gruppi linguistici? Per non parlare della altissima mobilità umana: gente che si sposta da un paese all’altro tutti i giorni. In questo mondo stiamo lavorando con un concetto anacronistico di cittadinanza, ancora basato sullo jus soli e lo jus sanguinis. Che possono servire nella mutata realtà di oggi?
Abbiamo bisogno di una nuova civiltà giuridica, altrimenti ci troveremo con 200 mila bambini nati in Italia, figli di coppie miste o multietniche, ma che non sono cittadini italiani, perché bisogna aspettare 8-10 anni prima di diventarlo. Intanto vanno nelle scuole italiane, ma non hanno la qualifica di cittadini. È colpa loro? No, siamo noi che dobbiamo rinnovare le nostre istituzioni, le nostre culture.
CATTOLICI, SUPERATE IL MODERATISMO
Strategia lillipuziana, strategia di Geremia; svellere e distruggere per edificare e piantare; delegittimare, decolonizzare; inventare, creare un nuovo pensiero. Ma per la realtà cattolica, c’è un altro lavoro da fare: occorre ripensare la via dell’impegno politico nel nostro tempo per arrivare al superamento del moderatismo.
I cattolici non possono più accettare di essere la gamba moderata o neutrale o super partes rispetto agli schieramenti. Bisogna fare riferimento ad un tesoro: è il tesoro della tradizione del cattolicesimo sociale, che è intriso di solidarietà. Non ci sono dubbi: un cristiano che s’impegni, in politica non sta da tutte le parti. Sta soprattutto dalla parte che lavora per aumentare solidarietà, sussidiarietà, responsabilità, giustizia, equità, nella nostra società.
Dobbiamo osare il futuro, perché c’è una eccedenza di senso del vangelo nella storia. Noi dobbiamo lasciarla trasparire questa eccedenza di senso, che è la porta più scomoda e più profetica che abbiamo a disposizione.
Guardiamo a ciò che sta accadendo in questo anno santo. La società non ce la fa a recepire le proposte del giubileo: lasciate riposare la terra, le macchine della produzione, i lavoratori. Pensiamo al debito, alla campagna sul debito o al solenne mea culpa del papa. Questa società non ce la fa proprio a capire. Ci sono dei valori veramente profetici che sono propri del pensiero sociale cristiano.
Noi, cristiani, dobbiamo capire che per molto tempo siamo rimasti dentro la «trappola dell’illuminismo». Che cos’è? È credere quello che ci lasciano credere. Cioè: la ragione pensa, la fede crede. Bella fregatura! Perché, se la ragione pensa e pensa all’organizzazione della società e della politica e se la fede crede, crede soltanto, al credente rimane unicamente il privato. Se prevale il bisogno di intimizzare la fede, cioè se la fede non è più capace di rendersi visibile, di incidere, allora siamo spacciati. Diventiamo dei moderati e gli altri neanche se ne accorgono che esistiamo.
I cattolici potevano essere anche moderati fino a quando erano una maggioranza nella società naturale intercristiana e avevano un partito politico di maggioranza relativa. Ma, se sei in minoranza nella società e nella politica, dire pure che sei un moderato è proprio un autogol. Per cui o i cattolici si svestono di questo involucro che li sterilizza, oppure politicamente sono destinati a divenire irrilevanti e insignificanti.
L’IMMAGINE E LA MISERIA DELLE PAROLE
Questo è il tentativo che stiamo facendo: conciliare etica ed economia, non in astratto, ma concretamente. Il mercato fa schifo? Le banche anche? Il consumo è ingiusto? Proviamo allora un altro mercato, un’altra banca, un altro consumo. Ma come fare nella società dell’immagine e dello spettacolo?
L’immagine può essere un problema, perché viviamo in una società iconizzata e in una politica mediatizzata. Si pensi allo spot di Emma Bonino, confezionato da Oliviero Toscani. Sono 4 minuti in cui la Bonino non dice una parola. Solo mimica facciale, smorfie, apertura e chiusura delle palpebre degli occhi e così via. Ma non dice niente. È efficacissimo in questa società dell’immagine e dello spettacolo.
È facile rendersi conto della miseria delle parole nella nostra società. Da tempo noi viviamo nella società della chiacchiera, di un blob continuo. Le parole si sono logorate; le parole per avere un significato hanno bisogno di essere ri-autenticate dalla forza del gesto.
Se vogliamo che le cose che pensiamo raggiungano le persone, dobbiamo saper usare il linguaggio (nuovo e pericoloso) delle immagini e della pubblicità, senza per altro trascurare la possibilità di sperimentare linguaggi alternativi.

Antonio Nanni




L’apoteosi del mercato e i naufraghi dello sviluppo

Le logiche dell’accumulazione illimitata e dell’esclusione massiccia colpiscono
soprattutto il continente africano. L’Africa sopravvive grazie ad una società
veacolare (dell’«uomo della strada») e alla solidarietà neoclanica (di nuovi gruppi
legati alla tradizione). Ma che faranno i «naufraghi» degli altri continenti?
Mentre l’economia di mercato autocelebra il proprio trionfo esclusivo, le disfunzioni del sistema mondiale (disoccupazione, esclusione, povertà materiale, miseria morale) sono sempre più insopportabili. Fino alla prevedibile «grande implosione».
A meno che…

Ci sono due Afriche. L’«Africa ufficiale» è quella dell’economia mondializzata, dello stato-nazione, dei massacri, delle guerre civili (cosiddette «tribali»), delle carestie… È l’Africa che ci viene mostrata dalla televisione.
L’Africa ufficiale ha fallito completamente. Il Prodotto interno lordo (Pil) dell’Africa sub-sahariana (cioè l’Africa nera) rappresenta meno del 2 per cento del Pil mondiale, vale a dire meno del Pil del Belgio, meno delle proprietà delle 15 persone più ricche del mondo. Niente insomma. Tuttavia questo niente fa vivere circa 600 milioni di abitanti. E ciò grazie a un espediente, l’espediente di quella che io chiamo «l’altra Africa», quella del mondo dell’informale, della società veacolare che vive grazie alle relazioni.
C’è, dunque, un’altra Africa molto vivace. Certo, con molti problemi, ma anche con una incredibile gioia di vivere, con i sorrisi dei bambini, con la bellezza delle donne, con la dignità dei vecchi. L’Africa degli spiriti, della solidarietà, che si incontra poco nei centri delle metropoli e molto nei villaggi e nei sobborghi.
D’altra parte, alcuni individui, rifiutando in tutto o in parte il mondo nel quale vivono, tentano, raggruppandosi, di mettere in opera qualcos’altro: lavorare, consumare, produrre altrimenti, dentro imprese diverse, riappropriandosi anche della moneta per usarla diversamente, secondo una logica altra rispetto a quella dell’accumulazione illimitata e della esclusione massiccia dei perdenti.
Questa alternativa volontaristica rappresenta l’«altra economia».
LE SCELTE DEI «NAUFRAGHI DELLO SVILUPPO»
L’economia mondiale, nata con l’aiuto delle istituzioni di Bretton Woods (Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, ecc.), ha escluso dalle campagne milioni e milioni di persone, distruggendo il loro modo di vita tradizionale e sopprimendo i loro mezzi di sussistenza. Queste persone sono state costrette ad ammucchiarsi nelle baraccopoli delle periferie del Terzo Mondo. Sono i «naufraghi dello sviluppo».
Condannati, nella logica dominante, a scomparire, essi non hanno altra scelta per sopravvivere che organizzarsi secondo un’altra logica. Devono inventare un altro sistema, un’altra vita.
Vedere l’altra Africa come un laboratorio del doposviluppo, significa vedere l’informale in positivo e non commisurato al paradigma dello sviluppo. Si tratta di vedere, con occhio diverso, il modo stupefacente in cui sopravvivono gli esclusi dal mondo ufficiale. Nell’informale che ci interessa, non si è in una economia. Si è in un’altra società.
L’aspetto economico dell’esistenza è dissolto, incorporato nel sociale, in particolare nelle reti complesse che strutturano le città popolari dell’Africa. Per questo il termine di «società veacolare» è più appropriato, per parlare di questa realtà, di quello di economia informale.
Tuttavia la società veacolare non è un paradiso ritrovato. Si tratta di piccole imprese o di artigiani che lavorano per la clientela popolare: fabbri che lavorano con materiale di recupero, falegnami e sarti di quartiere. E ancora: meccanici con garage all’aperto, intrecciatrici che lavorano per strada, trasportatori su camion traballanti e variopinti che vanno per grazia di Dio, procacciatori di clienti per «pullman rapidi», piccoli commercianti ambulanti che vendono alle donne di casa senza frigorifero tre cucchiai di concentrato di pomodoro, due dadi Maggi, olio senza confezione o sacchetti di latte in polvere o di Nescafé.
La società veacolare è, prima di tutto, l’insieme dei modi in cui i naufraghi dello sviluppo producono e riproducono la loro vita, al di fuori del campo ufficiale, mediante strategie relazionali. Queste strategie incorporano ogni sorta di attività economiche, ma tali attività non sono (o sono poco) professionalizzate. Gli espedienti, il bricolage, la capacità di arrangiarsi di ciascuno s’iscrivono nelle reti. I «collegati» (reliés) formano dei «grappoli» (grappes). In fondo, queste strategie, fondate su un gioco sottile di «cassetti» (tiroirs) sociali ed economici, sono paragonabili alle strategie familiari, che sono nella maggior parte dei casi le strategie delle massaie, ma adattate ad una società in cui i membri della famiglia allargata si contano a centinaia.
La società veacolare (l’oikonomia neo-clanica) è a prima vista soprattutto femminile, fondata sulla pluriattività, sul non professionalismo e sulle strategie relazionali. Anche gli artigiani della economia popolare sono forse meno professionali di quanto non pensino o non diano a vedere. Sono spesso anch’essi pluriattivi e molto dipendenti dalla loro rete sociale. Tutti sono nel doposviluppo.
Gli esclusi della grande società realizzano il miracolo della loro sopravvivenza reinventando il legame sociale e facendolo funzionare. Esclusi dalle forme canoniche della modeità, dalla cittadinanza dello stato-nazione e dalla partecipazione al mercato nazionale, essi vivono grazie alle reti di solidarietà neoclaniche.
I tratti più significativi sono la pluriattività e gli espedienti della sopravvivenza, e lo «spirito del dono».
LA PLURIATTIVITÀ
Nelle reti neoclaniche, dove le attività ufficiali sono piuttosto rare, la pluriattività richiama soprattutto la molteplicità degli espedienti e dei lavori messi in opera per cavarsela. Si ha a che fare con un’assenza di professionalità, il che non vuol dire assenza di competenza. Anche quando esiste (per via dell’appartenenza a una casta e dell’acquisizione di un apprendistato specializzato), la professione è più esibita come un alibi e una facciata che rivelatrice dell’esercizio vero e proprio di un mestiere.
A Grand Yoff, in Senegal, i falegnami sono molto poco falegnami o almeno altrettanto avicoltori o mercanti di pomodori. Organizzare i falegnami in associazione per aiutarli ad accedere a migliori condizioni di acquisto o a migliori locali, come ha fatto una Ong, è un errore. Un simile procedimento presuppone che esista un gruppo professionale «falegnami», saldato da interessi comuni. Ora, un tale gruppo non esiste. Accanto a uno o due artigiani che formano una vera piccola impresa, c’è una folla di piccoli falegnami di facciata. Questi ultimi effettuano prestazioni occasionali, ma passano gran parte del loro tempo a fare tutt’altro che il lavoro di falegnameria.
È lo stesso per la maggior parte dei mestieri esercitati in queste zone di grandi precarietà di reddito e d’insediamento. Ciascuno esercita più attività nello stesso tempo, diversifica le proprie competenze e le modifica nel tempo. Hanno inventato la flessibilità ante litteram… All’altro estremo, i non professionisti moltiplicano gli espedienti da cui traggono le loro risorse. A Douala, in Camerun, nelle inchieste sull’occupazione, molti giovani non salariati dichiarano come mestiere: débrouillards (scaltri, che sanno cavarsela…).
LA STORIA DI N’DAYE, DONNA TUTTOFARE
N’daye Sokhna, madre di famiglia a Grand Yoff, è rappresentativa di questa categoria. Migliaia di donne vivono nelle periferie di Dakar e probabilmente quasi tutte in modo simile. N’daye ha un marito ferraiolo per il cemento armato (che non lavora da vari anni) e 7 figli, la maggior parte dei quali vanno a scuola. Essa ha un chiosco, una sorta di garitta in metallo, posta sulla strada di fronte a casa sua, dove vende, tra mattina e sera, da 25 a 35 chilogrammi di pane.
Occasionalmente vende roba usata e incenso che confeziona lei stessa; prepara la zuppa; acquista pesci e fa il tonno alla maionese per la clientela del vicinato. In stagione, N’daye vende i mandarini che le spedisce il cognato o anche l’altra sposa del marito rimasta nel villaggio, della quale dice: «Essa fa come me, anche lei si arrangia…». Ancora, fa merletti che piazza presso le sue «collegate» della rete; alleva pulcini e pensa di contrarre un prestito per impiantare un allevamento di galline sulla terrazza: progetta di avee un centinaio. Di tanto in tanto, sostituisce un’amica per un mese o due come impiegata nel centro ortopedico vicino. Affitta tre camere, ma le entrate sono irregolari e i locatari insolventi si trasformano spesso in oneri supplementari perché mangiano in famiglia.
Essa partecipa a varie «tontine» (circolo di credito rotativo), una a 10 franchi al giorno per comperare giubbotti ai bambini, una a 100 franchi per acquistare tessuti e giornielli. Quella dei tessuti è una tontina organizzata da un’amica ed essa è responsabile di quella dei giornielli. È responsabile, inoltre, di un’altra tontina di venti persone a 1.000 franchi al mese. Dà poi 100 franchi al giorno per un pezzo di tessuto a un venditore ambulante toucouleur. Se un giorno non ha denaro, non dà niente.
Il venditore, dal canto suo, vive dunque della differenza, e passa le sue giornate a fare il giro dei clienti.
Questa vita di espedienti in cui si mescolano produzione di beni e servizi, commercio, scambio di doni di denaro e soprattutto di parole, è quella della maggior parte delle famiglie di Grand Yoff, e, con qualche piccola variante, della maggioranza dei naufraghi dell’Africa.
La mia inchiesta era stata fatta nel 1993, nel ’95 e nel ’96. Alla fine, N’daye Sokhna ha realizzato il suo sogno. È diventata una donna d’affari. Grazie al credito della cornoperativa delle donne e ai consigli della Ong, ha montato con le sue amiche una piccola impresa originale e decentralizzata di produzione e vendita di sciroppo di succo di bissap (hibiscus o acetosella di Guinea o ancora carcadé), succo di tamarindo e succo di zenzero. La marca è depositata per il gruppo, la confezione e l’etichettatura sono normalizzate, è assicurato un controllo tecnico per l’insieme. E… funziona! Quanto al vecchio marito, felice di questa relativa prosperità familiare, egli assicura la vendita in assenza della padrona…
In queste condizioni, i programmi di appoggio al «settore informale», basati sulla professionalizzazione, nonostante le migliori intenzioni, hanno effetti piuttosto negativi. L’essenziale della società veacolare non entra nel quadro dell’intervento. Questo non tocca pertanto i più bisognosi e favorisce invece coloro che, entrati in una logica professionale, sono già ai margini della società informale.
LO SPIRITO DEL DONO
Al di là della plurittività e della non professionalizzazione, quel che colpisce l’osservatore attento ai «grappoli» di «collegati» della società veacolare è l’importanza del tempo, della energia e delle risorse destinate ai rapporti sociali. Se si dispiega una attività intensa, sarebbe abusivo nella maggior parte dei casi parlare di vero lavoro. Gli incontri, le visite, i ricevimenti, le discussioni prendono molto tempo. Dare e prendere in prestito, donare, ricevere, aiutarsi reciprocamente, fare una ordinazione, consegnare, informarsi occupano gran parte della giornata, senza parlare del tempo dedicato alla festa, alla danza, al sogno o al gioco… «La festa, osserva Eric de Rosny, un padre gesuita un po’ stregone (Nganga) che vive a Douala, occupa un posto smisurato in proporzione ai mezzi finanziari della popolazione. Tutti gli economisti lo dicono, ma essa è appropriata ai suoi bisogni affettivi».
I compiti esecutivi sono effettuati, alla lettera, nel tempo perso. Se c’è urgenza per finire una ordinazione, si può sempre lavorare di notte o farsi aiutare da un collega non occupato. Tutte le entrate sono investite immediatamente all’interno della rete, si tratti di derrate o di denaro. Questo sia perché «è dovuto», sia perché così facendo si anticipa la necessità di prendere prestiti e perché si vuole far profittare anche i parenti. Ciascuno è cosciente del fatto che un beneficio non è mai perduto.
L’atteggiamento generale è il senso di dovere molto ai «collegati» piuttosto che quello di essere un creditore che ci rimette sempre. Se il dono funziona bene, come ha finemente osservato Jacques Godbout, ciascuno degli attori ritiene di aver ricevuto più di quel che ha dato, mentre se il sistema funziona male ciascuno pensa di aver ricevuto di meno.
Le persone di Grand Yoff parlano esse stesse di «cassetti» per disegnare questi investimenti relazionali. Questi cassetti detenuti dai «collegati» sono indifferentemente economici e sociali. Simmetricamente, in caso di bisogno (e il bisogno è qui quasi endemico), si mobiliterà il «grappolo», si attingerà a diversi cassetti. Spesso, si attingerà a un cassetto per investire in un altro. Questa situazione di creditore-debitore è comune a tutti.
A Grand Yoff, le donne utilizzano quotidianamente un proverbio locale molto immaginifico e rivelatore: «Noi seppelliamo una iena per disseppellie un’altra». Una conseguenza supplementare di questo funzionamento è che le operazioni d’investimento sono quasi sempre filtrate dal gruppo. Il debitore al quale si richiede il proprio denaro per fare un colpo, rifiuterà di restituirlo se giudica l’affare irragionevole…
«Se si investe il proprio denaro presso una persona – spiega un falegname – un giorno glielo si può richiedere». Ma colui al quale lo avete dato può avere delle ragioni per non restituirvelo, semplicemente perché fa anch’egli degli investimenti sociali. In questo caso, solleciterà i cassetti disponibili. Proprio per questo, devo disporre di più cassetti, per potee utilizzare un secondo nel caso in cui il primo non fosse disponibile. Per questo è importante avvertire i collegati in tempo e disporre di cassetti molteplici e vari. Al contrario, quando lo mettete in banca, è come se lo conservaste voi stesso. Cioè quando andate a chiederlo, non ve lo si rifiuta. Quando invece fate investimenti presso parenti o partners, essi possono dire di «no», se giudicano che quel che ne farete non sarà bene per voi. Sono dei «parenti», mentre la banca è un estraneo. Essa non si preoccupa nemmeno del modo in cui vivete e meno ancora di come spenderete il vostro denaro. Non c’è ostacolo all’uso del denaro della banca, poiché basta chiederlo per ottenerlo. Il denaro non è al sicuro in banca.
Questo «filtro» sociale è addirittura sistematico nel caso di certe tontine.
«Questi franchi che abbiamo raccolto – dichiara solennemente un tontinier nel consegnare la somma al fortunato destinatario -, cioè questi miseri soldi (ma che rappresentano tutto il nostro tesoro), noi te li diamo oggi, non perché tu faccia sparire questo denaro, ma perché noi auspichiamo che ogni franco diventi 10 franchi e che ciò possa esserti utile. E ti rinnoviamo tutti i nostri migliori auguri perché tu riesca nel tuo progetto».
Si sarà riconosciuta facilmente in questo funzionamento della società neoclanica una logica molto diversa dalla logica mercantile, quella del dono e dei rituali oblativi. Qui il legame sociale funziona sulla base dello scambio, ma lo scambio, con o senza moneta, si basa più sul dono che sul mercato. Ci si trova di fronte al triplice obbligo di donare, ricevere e restituire, così come lo analizza Marcel Mauss. La cosa centrale e fondamentale nella logica del dono è che il legame sostituisce il bene.
LE LEZIONI DELL’«ALTRA AFRICA»
La mondializzazione non è altro che l’ultima punta della «mercificazione» del mondo.
Bisogna riconoscerlo: l’economia resta misteriosa per la maggior parte delle persone. Tutti i grandi giornali dedicano a questa materia pagine specializzate, che spesso i lettori giudicano «illeggibili» e s’affrettano a sorvolare. La situazione è tanto più paradossale in quanto non è più possibile nel mondo moderno vivere fuori dell’economia. Ciò implica due cose strettamente connesse: da una parte tutti partecipano alla vita economica e, dall’altra, tutti possiedono un minimo di conoscenza di economia.
Nelle società contemporanee, non è più concepibile partecipare all’economia senza un po’ di conoscenza. Noi tutti siamo degli ingranaggi di un’immensa macchina che definisce la nostra collocazione nella società. Lavoro o disoccupazione, livello dei redditi, modalità di consumo: questi aspetti economici della vita hanno occupato uno spazio dominante e qualche volta totalizzante. La persona la si considera, innanzitutto, in base alla sua professione, al suo reddito, ai suoi consumi. E così la vita è stata ridotta sempre di più a dimensioni economiche, ed è inevitabile che ciascuno sia ossessionato dai problemi economici, prima di tutto dal reddito: stipendio, sussidio di disoccupazione o pensione.
Il capo d’azienda, come pure la casalinga, vive con gli occhi sugli indicatori economici; solamente la loro formulazione è differente: tasso d’inflazione o prezzo del burro, prelievi fiscali e sociali o assegni familiari e previdenza sociale, ecc.
Un antico proverbio francese dice che, quando si ha un martello nella testa, si vedono tutti i problemi sotto forma di chiodi. Gli uomini del nostro tempo si sono ficcati in testa un martello economico. Noi vediamo ogni problema, ogni attività, ogni evento attraverso il prisma dell’economia. Finché avremo in testa il martello economico, il nostro agitarci sarà vano, sterile e anche dannoso.
Per quanto possa essere sorprendente, le preoccupazioni economiche, come tali, avevano poco spazio nella vita degli uomini prima del Rinascimento o al di fuori dell’Occidente. Ciascuno svolgeva i suoi compiti, molto spesso di natura domestica; il cittadino greco si preoccupava di politica, l’uomo medievale di religione e l’indigeno africano di feste e rituali.
Lo sviluppo dell’economia nell’epoca modea non appare tuttavia strano, perché il progetto della modeità riposa sulla pretesa di costruire la vita sociale sulla sola base della ragione, emancipandosi dalla tradizione e dalla religione. Nella visione ereditata dall’illuminismo, l’economia non è altro che la realizzazione della ragione. Non è sorprendente che lo sviluppo dell’attività economica si presenti come l’affermazione di potenza della razionalità. Quest’ultima si manifesta in maniera congiunta nella tecnica e nell’economia; si tratta di accrescere l’efficienza economizzando al massimo i mezzi per ottenere i massimi risultati seguendo la norma del «sempre più».
Questa razionalità calcolatrice si rende assurda, divenendo fine a se stessa. La scienza economica, dal canto suo, non è altro che una ruminazione vaniloqua e ossessiva del principio di razionalità quantitativa. L’apparente diffusione planetaria della modeità (per mezzo dell’imperialismo, prima militare e politico, poi sempre di più culturale) ha fatto trionfare, di fatto, l’economia come pratica e come immaginario mondiali.
IL TRIONFO DELLE «LEGGI DEL MERCATO»
Dopo il crollo dei paesi dell’Europa dell’Est e il fallimento del progetto socialista, l’economia di mercato ha celebrato un trionfo esclusivo. Questo successo appare come la miglior riuscita dell’economia e degli economisti.
Le sacrosante leggi del mercato si impongono verso e contro tutti, rovesciando la burocrazia più totalitaria, distruggendo insieme le sinistre mostruosità del gulag e le speranze riposte dalle masse dei diseredati nell’utopia più generosa della storia. La società aperta sembra stravincere sui suoi nemici per mettere il punto finale alla storia con l’apoteosi del mercato.
Nondimeno, le promesse dell’economia di pace e prosperità per tutti e per ciascuno appaiono oggi più lontane che mai. Più l’immaginario della grande società del mercato mondiale e pacifico diviene planetario, più la discordia, la miseria e l’esclusione sembrano guadagnare terreno.
Le disfunzioni di ogni genere nel sistema mondiale – disoccupazione, esclusione, disastri ecologici, povertà materiale e più ancora miseria morale – sono e saranno sempre più insopportabili. Nell’attesa della prevedibile «grande implosione», esse favoriscono l’emergere di contro-dogmi: integralismi etnici, fondamentalismi religiosi, più o meno intrecciati con gli strascichi ideologici del passato e con la forza del risentimento. Tuttavia, queste reazioni non possono mettere seriamente in pericolo il dominio del «pensiero unico», poiché non attaccano le sue radici, le radici dell’economicismo e dell’utilitarismo. Solo se si rimette in discussione l’impero del razionale si può forse aprire la via ad un pensiero meno intollerante e che potrebbe definirsi pluralista.
DECOLONIZZARE IL NOSTRO IMMAGINARIO
Che fare di fronte alla mondializzazione, all’onnimercificazione del mondo ed al trionfo planetario del mercato unico? La distanza tra l’ampiezza del problema da risolvere e la modestia dei rimedi individuabili a breve termine, dipende soprattutto dalla pregnanza delle convinzioni che consentono al sistema di reggersi sulle basi del suo immaginario collettivo.
Bisogna cominciare a vedere altrimenti le cose, affinché esse possano diventare altre (e si riescano a concepire soluzioni originali e innovative). In altri termini, bisognerebbe decolonizzare il nostro immaginario per trasformare veramente il mondo, prima che il cambiamento del mondo ci condanni nel dolore.
Si tratta di rimuovere il martello economico dalla testa. Si tratta di mettere al centro della vita umana significati diversi dall’espansione della produzione e del consumo. Dovremmo volere una società che non abbia al centro (o come unici) i valori economici, dove l’economia sia rimessa al suo posto, come semplice mezzo e non come fine ultimo, dove si rinunci alla folle corsa verso consumi sempre più alti. Ciò non solo è necessario per evitare la distruzione definitiva dell’ambiente terrestre, ma anche e soprattutto per uscire dalla miseria psichica e morale dei contemporanei.
Quest’altra società (dove si vivrebbe altrimenti) può essere concepita in due modi: può esserci imposta (come nel caso dell’altra Africa), ma può anche essere scelta. In altri termini, si può essere condannati a farla, in modo più o meno inconsapevole, e si può tentare di costruirla consapevolmente.
Questa seconda forma dell’altra società non è completamente separata dalla prima, e questo per due ragioni. In primo luogo, perché l’auto-organizzazione degli esclusi del Sud non è (non è mai) del tutto spontanea. Ci sono anche aspirazioni, progetti, modelli, utopie che informano più o meno le combinazioni della sopravvivenza informale. In secondo luogo, perché gli «alternativi» del Nord non sempre hanno scelta. Si tratta spesso di esclusi, derelitti, disoccupati, cassaintegrati, candidati potenziali alla disoccupazione o, più semplicemente, esclusi per disgusto… Ci sono dunque dei punti di contatto tra le due forme che possono e devono fecondarsi reciprocamente.
RISPOSTE LOCALI ALLA SFIDA GLOBALE
Oggi si contano imprese cornoperative autogestite, comunità neo-rurali, associazioni di commercio equo e solidale, banche etiche, settore non profit, Lets e Sels (sistemi di scambio locali), bilanci di giustizia, autorganizzazione degli esclusi del Sud. Queste esperienze ci interessano soprattutto come forme di resistenza e dissidenza nei confronti del processo di affermazione dell’onnimercantizzazione del mondo.
Il caso dei Sels è particolarmente interessante. I sistemi di scambio locale sono associazioni, i cui membri scambiano beni e servizi di ogni natura fuori dal mercato e in base a una «moneta» appositamente creata e valida all’interno del gruppo. I prodotti scambiati vanno dai lavori di riparazione domestica o di automobili a servizi di babysitting, passando per corsi di lingua, massaggi, foitura di ortaggi, prestito di utensili, ecc. Liste regolarmente aggiornate e gestite da un elaboratore centralizzano le offerte e le domande e permettono di conoscere la posizione dei crediti e dei debiti di ognuno. Così, persone escluse dal lavoro (le cui competenze sono state respinte dal sistema di mercato) possono ritrovare forme di attività e di riconoscimento sociale.
Si tratta di una risposta locale a una sfida globale. Come dicono i fondatori del Sel dell’Ariege: «In qualche modo, noi rispondiamo a problemi mondiali con una soluzione locale». Un Sel stimola la produzione locale e risponde a bisogni locali. Permette di rivitalizzare la società locale senza apporto di capitali estei.
Aiuta a prendere coscienza dei problemi locali, a cercare soluzioni pratiche, concrete e realistiche. Riduce le importazioni, gli sprechi e l’inquinamento conseguente ai trasporti. Soprattutto, i Sels debbono fare i conti col problema fondamentale dell’economia teorica e pratica: il valore, il rapporto di scambio. È riposta la questione del rapporto di scambio giusto. Come nella società veacolare africana, le «chiacchiere» giocano un ruolo insostituibile. Lo affermano tutti i partecipanti: la parola è essenziale. Con una piccola forzatura, si potrebbe dire che i Sels reinventano la democrazia di base e costituiscono un apprendistato alla cittadinanza. Senza chiasso, gli «informali» dell’altra Africa non fanno nulla di diverso.
NON CHIUDERSI IN TRINCEA
L’esperienza africana della società veacolare può servire da lezione anche per tutti coloro che sono impegnati in imprese alternative.
Il pericolo della maggior parte delle iniziative è quello di raccogliersi dentro la trincea che ha loro permesso di nascere, invece di lavorare al proprio rafforzamento.
L’impresa alternativa vive o sopravvive in un ambiente che è (e deve essere) differente dagli ambiti del mercato. È quest’ambiente che bisogna definire, proteggere, mantenere, rafforzare e sviluppare. Piuttosto che battersi disperatamente per conservare la trincea in seno al mercato mondiale, è meglio militare per allargare lo spazio al margine dell’economia globalizzata.
Il confronto violento e il conflitto accanito, così caratteristici della razionalità occidentale, non sono l’universo in cui può o deve muoversi l’organizzazione alternativa. Riuscire a imporre i prodotti del commercio equo e solidale e dell’agricoltura biologica sugli scaffali dei supermercati, a fianco ai prodotti «iniqui» o «anti-biologici» non è un obiettivo in sé e per sé.
È più importante assicurarsi il carattere equo del complesso della filiera, dal trasporto fino alla commercializzazione: il che esclude insieme il supermercato ed allarga il tessuto portatore. L’estensione e l’approfondimento del campo delle complicità è il segreto della riuscita e deve essere la prima preoccupazione di questa impresa. I consumatori (consumatori cittadini) – come dicono le associazioni di consumo critico – non sono se non un elemento d’un insieme che dovrebbe collegare Sels, produttori alternativi, neo-rurali, movimenti associativi impegnati in questo itinerario. È questa coerenza che rappresenta una vera alternativa al sistema.
«In sintesi – scrive Tonino Pea nel suo libro Fair trade. La sfida etica al mercato mondiale – si può dire che la sfida per il fair trade consiste non nel far entrare nel circuito della moda i prodotti del Sud del mondo, stravolgendone il patrimonio culturale, ma nel far diventare un “bisogno” la scelta etica del consumatore (…). Ciò significa che è necessario pensare più in termini d’innovazione sociale che di innovazione di prodotto (…). Il cercare di adeguarsi alle cosiddette leggi del mercato capitalistico, di inseguie i capricci, di usae acriticamente gli strumenti – come la pubblicità e il marketing – può dare qualche risultato in termini quantitativi nel breve periodo, ma alla fine risulta perdente».
Si tratta di cornordinare la protesta sociale con la protesta ecologica, con la solidarietà verso gli esclusi del Nord e del Sud, con tutte le iniziative associative per articolare resistenza e dissidenza e per sboccare, alla fine, in una società autonoma.
È così che, all’inverso di Penelope, si ritesse di notte il tessuto sociale che la mondializzazione disfa durante il giorno…

SOPRAVVIVENZA, RESISTENZA, DISSIDENZA
Siamo al centro di un triangolo i cui tre vertici sono: la sopravvivenza, la resistenza e la dissidenza. Non dobbiamo dimenticare né privilegiare nessuna di queste tre dimensioni.
Prima di tutto, dobbiamo sopravvivere. È ovvio, senza ciò nessuna resistenza né dissidenza sarebbe possibile. Sopravvivere significa adattarsi al mondo nel quale viviamo, ma non significa che dobbiamo approvarlo né aiutarlo a funzionare, al di là della necessità. Possiamo accettare dei compromessi nell’azione concreta e quotidiana, ma dobbiamo respingere le compromissioni nel pensiero. Già questa è una forma di resistenza: la resistenza mentale all’impresa del «lavaggio del cervello» da parte dei media e il dominio devastatore del «pensiero unico».
Dunque, dobbiamo resistere. Se pensiamo che siamo imbarcati in una megamacchina che fila a gran velocità senza pilota e, quindi, condannata a fracassarsi contro un muro, resistere significa, allora, tentare di frenare e provare a cambiare la direzione. Come, in verità, nessuno lo sa. Dobbiamo anche pensare di poter lasciare il bolide e saltare al momento opportuno. È questa la dissidenza.
Se a breve termine la strategia della sopravvivenza è la più importante, a termine medio è la strategia della resistenza che diviene più importante e, a lungo termine, è quella della dissidenza.

Serge Latouche




COLOMBIA – La pace sotto il tallone del narcotraffico

I colloqui tra il governo di Pastrana e le Farc di Marulanda stentano a trovare sbocchi concreti. Le truppe paramilitari (circa 6 mila uomini, responsabili di 3/4 degli omicidi politici della Colombia) proseguono la loro caccia all’uomo.
I «gringos» (gli Stati Uniti), per imporre la loro «pace», continuano a inviare armi e consulenti militari. Intanto il business (enorme) del narcotraffico condiziona
pesantemente ogni contendente. In questa situazione di confusione e incertezza, la guerra «sucia» (sporca) non si ferma.

Bogotà. L’hanno soprannominata «Farclandia», terra delle Farc (Forze armate rivoluzionarie colombiane). Si estende per 42 mila chilometri quadrati, tanto quanto la Svizzera o due volte El Salvador. Comprende 5 municipi, il più importante (San Vicente del Caguán) nel Caquetá, i rimanenti 4 (La Macarena, Vistahermosa, Mesetas e Uribe) nel Meta.
Juan José Olivarez Roja e Juan Domingo Varela sono missionari della Consolata argentini ed entrambi vivono nel territorio smilitarizzato, denominato «zona di distensione». Di passaggio nella capitale, i due padri parlano della nuova situazione. Quanto José è calmo, riflessivo, diplomatico, tanto Domingo è irruento e sanguigno (ha avuto problemi sia con la guerriglia che con i militari).
UNO STATO PARALLELO
Andrés Pastrana si è battuto per la creazione della «zona di distensione» come gesto concreto di buona volontà per iniziare i dialoghi per una soluzione pacifica del conflitto.
Il presidente ha trattato direttamente con Manuel Marulanda Vélez noto come «Tirofijo», vecchio leader delle Farc. Ma il ritiro dell’esercito colombiano da una zona tanto ampia non ha convinto tutti. Si parla di uno stato parallelo…
«Se tu, come straniero – spiega padre José -, vuoi entrare (con un minimo di sicurezza) nella zona di distensione devi chiedere il permesso alle Farc. A te non sembra che viviamo in uno stato parallelo? Personalmente credo proprio di sì».
«Le Farc hanno subìto una profonda trasformazione. Io non riesco a capire se c’è ancora una colonna vertebrale. Il vecchio Marulanda è tuttora la bandiera, ma ho la sensazione che ci siano fronti e relativi comandanti con idee diverse da quelle del leader. In tutti i casi, secondo me, c’è stata una involuzione ideologica. Contaminata dal narcotraffico, la guerriglia mi pare che lotti soltanto per conquistare il potere».
«Per ora più che un dialogo ci sono stati dei monologhi, con ogni soggetto impegnato ad ascoltare se stesso più che le ragioni della controparte».
«Pastrana – si intromette padre Domingo – ha portato la bandiera della pace più per calcolo politico che per convinzione. Per parte loro, le Farc stanno approfittando della zona di distensione per rinforzarsi militarmente, politicamente ed economicamente».
«Io invece – interviene José – non azzardo previsioni. Ci sono troppe variabili in gioco. E il cammino si sta facendo giorno per giorno».
UNA DIVISA PER FUGGIRE LA MISERIA
In un paese nel quale la filosofia maschilista (il «machismo») è ancora molto diffusa, si dice che nelle Farc le donne siano dal 25 al 35% degli effettivi.
I due missionari confermano il fenomeno. «Non solo le donne sono numerose, ma pare siano le più valorose al momento dell’attacco. Probabilmente aiutate anche dalla marijuana» spiega padre Domingo.
Secondo il settimanale Semana, nelle fila della guerriglia sono sempre di più i ragazzi di 13-14 anni. «È vero – risponde José -. Ma su questo punto occorre fare qualche distinguo. In queste società contadine essere bambini non ha lo stesso significato che in Occidente. Qui i bambini cominciano ad aiutare i genitori già a 5,6,7 anni. Quando arrivano a 13-14 anni sono ormai considerati degli uomini. Con ciò non sostengo che sia giusto o normale, ma è così».
«Il problema più serio – prosegue il missionario – è quello dell’attrazione che la figura del guerrigliero esercita sui ragazzi. Essi vedono che un guerrigliero ha autorità e viene rispettato dalla gente. Molti quindi scelgono di arruolarsi. La loro è una fuga dalla miseria quotidiana».
«COCALEROS» PER FORZA
Come in tutti i paesi latinoamericani, anche in Colombia il problema agricolo ha due aspetti: quello legato al latifondo e quello legato ai prezzi dei prodotti.
Per il primo soltanto delle effettive riforme agrarie potrebbero dare risultati. Il problema dei prezzi dipende invece dalle politiche imposte ai paesi del Sud. Si tratta di politiche neoliberiste che obbligano ad aprire i mercati nazionali a beneficio esclusivo delle grandi multinazionali agroalimentari. Queste possono tollerare le fluttuazioni dei prezzi (mais, caffè, ecc.), cosa che non possono permettersi i piccoli contadini. Il risultato è di spingere i campesinos verso le coltivazioni di canapa indiana (marijuana), papaveri da oppio e, soprattutto, coca, i cui mercati sono più stabili e redditizi.
«L’80 per cento dei contadini della nostra zona vive con i proventi della coca. In genere, sono buone persone, costrette a diventare cocaleros perché non hanno alternativa. La regione è abbandonata dallo stato, che non finanzia alcuna iniziativa economica, né costruisce le infrastrutture. Se un contadino vuole portare al mercato i propri prodotti (mais, yucca, banane, caffè), non ci sono le strade. E anche quando riesce ad arrivare ai mercati, i prezzi di vendita sono troppo bassi».
LA «VACUNA», L’IMPOSTA RIVOLUZIONARIA
Sulla ipotesi che la guerriglia si sia trasformata in narcoguerriglia i pareri sono molto discordanti. Gli statunitensi ne sono sicuri, mentre sono più cauti gli altri analisti. Secondo costoro, la guerriglia non dispone di una rete propria di import-export, né gestisce laboratori di trasformazione o di un sistema di riciclaggio del denaro.
Di certo c’è che, sui territori controllati dalle Farc, vige l’obbligo della vacuna («vaccinazione»), una sorta di imposta rivoluzionaria. «Gli allevatori, i produttori di legname, tutti la debbono pagare -spiega padre Domingo -. La chiesa, almeno fino ad ora, ne è stata esentata, perché ad essa viene riconosciuto un ruolo sociale».
«Ma vedrai – interviene José – che tra poco chiederà denaro anche a noi. Comunque, il grosso delle loro entrate proviene dalla coca. Io ho partecipato a riunioni delle Farc nelle quali i comandanti ordinavano alla comunità di vendere a loro tutta la coca perché avevano un compratore. Insomma, in un modo o nell’altro, la guerriglia ha a che vedere con il narcotraffico».
LE STRAGI DEI PARAMILITARI
Nel 1999 la Colombia è stato il terzo destinatario (dopo Israele ed Egitto) di aiuti militari provenienti da Washington.
«Gli Stati Uniti – spiega José – soffrono molto le conseguenze della diffusione della droga. Aiutando l’esercito colombiano essi sperano di ridurre la produzione di droga e, al tempo stesso, di eliminare la guerriglia».
Da più parti (pur sottovoce) si parla di un possibile intervento diretto delle truppe statunitensi. Per ora gli americani sarebbero stati frenati dal timore di creare un nuovo Vietnam.
«No – interviene padre Domingo -, un’invasione non ci sarà mai. Credo invece che ci saranno sempre più paramilitari. Armare questi ultimi è per gli Stati Uniti il modo più economico e meno pericoloso per intervenire».
Presenti in 350 dei 1.070 comuni colombiani, i paramilitari sono protetti dalle frange più oltranziste delle forze armate. Possono contare su una forza di 5-6 mila uomini, che concentrano la loro attenzione sui simpatizzanti (veri e spesso presunti) della guerriglia.
Negli ultimi anni la Colombia ha visto, in media, 30 mila assassinii l’anno. E la frontiera tra violenza comune e quella di origine politica è sempre più vaga. Tuttavia, viene calcolato che il tasso di omicidi politici si situi tra il 7 e il 10% del totale. Nel 1997, la banca dati del «Centro di ricerca e di educazione popolare» (Cinep, gestito dai gesuiti) e di «Giustizia e pace» indicava che i paramilitari erano di gran lunga i maggiori responsabili di omicidi politici: l’84% contro il 14% per la guerriglia e il 2% per l’esercito.
Sui paramilitari (e parte degli ambienti militari) pesa, inoltre, la responsabilità di aver fatto fallire, 15 anni fa, il primo importante progetto di pace. Il 28 maggio 1984 fu firmato un cessate il fuoco tra il governo di Belisario Betancur e le Farc. Venne fissato un periodo di un anno per permettere al movimento armato di organizzarsi politicamente. Nel novembre 1985 nacque la coalizione di sinistra denominata Union patriotica (Unione patriottica, Up), che partecipò con successo alle elezioni del 1986, guadagnando 350 consiglieri municipali, 23 deputati e 6 senatori. Ma la festa durò poco. Uno dopo l’altro, con una precisione e una metodicità diabolica, furono ammazzati migliaia di membri del partito.
IL PERICOLO MAGGIORE: LA NARCOMENTALITÀ
I gruppi paramilitari sono confederati sotto la sigla di «Autodifese unite della Colombia» (Auc), capeggiate da Carlos Castaño. Sono finanziati da imprenditori e latifondisti e, da qualche anno, anche dai proventi del narcotraffico, che ormai rappresenta la principale fonte di reddito per tutti i contendenti (vedi Cambio, «Las finanzas de los paras», 15 maggio 2000).
«Con il narcotraffico – conclude amaro padre José – la crisi sociale, la perdita di valori si è accentuata. Oggi domina la narcomentalità: prima di tutto il denaro facile, il resto importa poco».
(Fine – Le precedenti 3 puntate sono state pubblicate in marzo, aprile e giugno.)

I DATI (CONTROVERSI)
DELLA NARCOECONOMIA

Chi guadagna veramente dal business della droga?
Certamente non i campesinos colombiani. E perché
dimenticare le gravi responsabilità delle industrie
e delle banche statunitensi?

Secondo statistiche statunitensi, nel biennio 1997-’98 le coltivazioni di coca in Colombia sono aumentate del 28% (contro una riduzione del 26% in Perù e del 17% in Bolivia). Il 75-80% dell’offerta di coca a livello mondiale proviene dalla Colombia. Nel 1998 Bogotà ha esportato prodotti commerciali (come caffè, banane, petrolio, carbone) per 11 miliardi di dollari, mentre le esportazioni illegali di cocaina avrebbero fruttato 16 miliardi di dollari.
Per contro, secondo uno studio recente (L’economia colombiana dopo 25 anni di narcotraffico, Bogotà 1999), è vero che nel paese latinoamericano la produzione annuale di cocaina è aumentata (passando da 300 a 520 tonnellate), ma è anche vero che la gran parte degli utili rimane all’estero. Secondo la ricerca, il denaro della narcoeconomia oggi partecipa alla formazione del Prodotto interno lordo (Pil) della Colombia con una percentuale pari al 2% (dato sottostimato?) contro una del 17% a metà degli anni Ottanta. A parte il balletto delle cifre, nel business della droga ci sono pochi innocenti (e molti ipocriti). È risaputo, ad esempio, che il 90% delle sostanze chimiche utilizzate per la lavorazione della droga provengono dalle industrie statunitensi (si tratta di milioni di litri di prodotti chimici all’anno) e che le industrie di armamenti degli Usa sono i principali fornitori della Colombia. Inoltre, secondo l’«Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico» (Ocse), la metà dei proventi del traffico mondiale di droga (centinaia di milioni di dollari) transita per il sistema finanziario degli Stati Uniti.
Insomma, la guerra alla droga da parte degli Stati Uniti ha molti, troppi lati oscuri, rispetto ai quali sarebbe giusto mostrare qualche attenzione in più. A meno che gli Usa non debbano essere considerati attori super partes, a cui tutto è permesso.
Pa.Mo.

L’ambiguo ruolo degli Stati Uniti

«FARCLANDIA»
DIVENTERÀ UN NUOVO VIETNAM?

Mentre proseguono i colloqui tra governo e Farc
(e, a Cuba, tra governo e Eln), anche i paramilitari si dicono disponibili a trattare.

21 giugno 1998:
arriva Pastrana
Dopo 12 anni ininterrotti di governo del Partito liberale, alla presidenza della Repubblica viene eletto Andrés Pastrana, conservatore ed ex sindaco di Bogotà.

7 novembre 1998:
nasce «Farclandia»
L’esercito colombiano si ritira da 5 municipi: San Vicente del Caguán (Caquetá), La Macarena, Vistahermosa, Mesetas e Uribe (Meta). Una zona di 42.000 chilometri quadrati, grande come la Svizzera o due volte El Salvador. Nasce la zona di despeje, subito soprannominata «Farclandia», ovvero «terra delle Farc».

7 gennaio 1999: Pastrana e Marulanda
A San Vicente del Caguán (Caquetá) si incontrano il presidente Pastrana e Manuel Marulanda detto «Tirofijo», leader delle Farc.

23 settembre 1999: gli aiuti di Washington
Il presidente Pastrana rientra da Washington con in tasca la promessa di ricevere 1,6 miliardi di dollari in tre anni per affrontare il narcotraffico. In realtà, gli aiuti servono soprattutto per sconfiggere la guerriglia.

24 ottobre 1999:
«No mas» (Basta)
È la giornata della manifestazione nazionale per la pace. Scendono in piazza milioni di colombiani per chiedere la pace.

febbraio 2000: e se l’Europa…
Una delegazione colombiana (composta da membri del governo, rappresentanti del settore privato, dal commissario per la pace Victor G. Ricardo e dal comandante Raul Reyes, numero 2 delle Farc) compie un giro di studio e conoscenza per le capitali europee, Vaticano compreso. La speranza è di trovare nuovi interlocutori che riducano l’influenza nordamericana in Colombia.

1 marzo 2000: Carlos Castaño in Tv
Carlos Castaño, leader delle «Autodifese unite della Colombia» (Auc), per la prima volta mostra il proprio volto in un’intervista televisiva e si dice disponibile a trattare con le Farc e l’Eln.

28-29 maggio 2000:
la conferenza delle Farc
Nella foresta le Farc organizzano un convegno internazionale sulla droga.

30 luglio 2000: referendum
Il governo di Pastrana chiama i colombiani a votare per una radicale riforma parlamentare.
Pa.Mo.

A RISCHIO DELLA VITA
Come in ogni parte del mondo, ci sono magistrati che servono la giustizia
e altri che servono il potere.
In Colombia, chi rientra nella prima categoria non è sicuro di arrivare alla pensione.
Per questo, una Ong tedesca…

«Sono molti i membri del sistema giudiziario colombiano che chiedono aiuto e, a volte, i tempi per attivarsi sono veramente ristrettissimi: 24 ore per fare le valigie o per ritrovarsi con una pallottola in testa o una bomba sotto l’auto. L’ultimo caso è quello di una giudice che ha sospeso un gruppo di generali per evidenti implicazioni in casi di violenza e paramilitarismo. La donna è stata immediatamente accusata di connivenza con la guerriglia. Hanno dovuto nasconderla a Bogotà e, in poche ore, farla uscire dal paese cercandole asilo politico all’estero».
Stella lavora con un’organizzazione non governativa di Bogotà che offre aiuto ai giudici e alle famiglie di giudici vittime della violenza. L’Ong si chiama «Fondo tedesco di solidarietà» (Fondo aleman de solidaridad, Fasol) ed opera dal 1989.
In principio l’associazione era soprattutto assistenzialista (accompagnamento delle vedove, reinserimento delle famiglie, ecc). Poi sono stati attivati altri programmi: recupero psicologico delle persone, borse di studio per gli orfani, credito per aprire imprese familiari. Infine, ci sono i programmi di emergenza per i giudici minacciati che debbono abbandonare il paese. Attualmente Fasol sta seguendo circa 250 famiglie.
«Tante, vero? – interviene Stella -. In Colombia, il potere giudiziario non può essere libero e autonomo. Anche perché tutti i contendenti applicano la pratica sporca delle “infiltrazioni”: militari infiltrati nelle organizzazioni civili, paramilitari infiltrati nella guerriglia, guerriglieri infiltrati nell’esercito. A questo gioco non si sottrae la magistratura. Ecco perché per un magistrato è così pericoloso servire la giustizia».
Nel direttivo dell’associazione sono presenti membri laici e clericali. Tra tutti, va segnalato il «Centro di ricerca ed educazione popolare» (Centro de investigacion y educacion popular, Cinep), una meritoria associazione fondata dai gesuiti, la cui attività è da sempre nel mirino delle forze armate e dei gruppi paramilitari.
Per parte sua, Stella è arrivata a Fasol dopo altre esperienze «forti». Prima 10 anni di lavoro tra i gamines (il corrispettivo colombiano dei meniños de rua del Brasile), poi la perdita violenta di due fratelli (uno assassinato, l’altro «scomparso») e il trasferimento a Riobamba, in Ecuador, a lavorare con i missionari della Consolata.
Per chi non conosce la gravità della situazione colombiana, è sufficiente ascoltare le parole della volontaria di Fasol: «Ho un’amica – racconta Stella – che vive nella regione di Antiochia, dove è consuetudine formare famiglie molto numerose. In casa sua sono 18 fratelli. Ebbene, dei 9 che hanno studiato diritto 6 sono stati assassinati».
Pa.Mo.

Paolo Moiola




CONGO – E sul muro una scatola vuota

Nei «Balcani dell’Africa» gli eserciti si fronteggiano,
soprattutto per accaparrarsi legname e caffè,
oro e diamanti. Difficile raggiungere
il paese ai «non addetti ai lavori»:
non fa eccezione la città di Isiro,
sotto il tiro degli ugandesi. Altrove sono
i rwandesi che non scherzano.
Da mesi è in ballo l’invio di 5.337
«caschi blu» delle Nazioni Unite,
per garantire il «cessate il fuoco».
Ma è solo un «ballo».
I missionari con la gente.

«Finalmente!» dico a padre Giano Benedetti. Decollato dall’aeroporto militare di Entebbe, in Uganda, viaggio con altri missionari della Consolata: i padri Enrico Casali, Celestino Marandu e Simon Tshiani. Sono le ore 15. Destinazione Isiro, nella Repubblica democratica del Congo, occupata dall’esercito dell’Uganda.
«Ti è andata molto bene!»
Giungiamo all’aeroporto di Entebbe alle 5.30 con un taxi-minibus, mentre è ancora notte. Svegliati dal rumore del veicolo, due soldati ugandesi sporgono il capo da una tenda per dire: «Aspettate». Ci dividono una rete e un cancello. Il taxi, carico delle nostre valigie, rimane sul posto.
Mezz’ora dopo, un camion supera il cancello, seguito da padre Celestino, che dichiara: «Ci vorrà tempo a caricare l’aereo». Celestino, tanzaniano, conosce l’iter burocratico per giungere ad Isiro.
Un lampo sul cielo nuvoloso, un tuono fragoroso e la pioggia inonda la campagna. «È una benedizione di Dio» commenta il taxista. Quando cessa di piovere, propone: «Perché non facciamo colazione?». C’è una bettola a due chilometri. Il taxista mangia con appetito uno spezzatino di maiale e banane fritte.
Un nuovo tuono… e le cateratte del cielo si riaprono. Piove anche sul nostro tavolo, mentre ci servono il tè. Padre Enrico sorride divertito, pur non essendo un pivello dell’Africa: conta 5 anni di Tanzania e 26 di Zaire-Congo. Ora vi ritorna, dopo un by pass al cuore e altri gravi problemi di salute. La missione è il suo dna, come pure delle sorelle Emma Piera, Aalda e Simplicia, missionarie della Consolata.
«Adesso ritorniamo all’aeroporto, perché dovreste partire» dice il taxista. «Ecco i piloti» continua per strada, additando una Mercedes con due biondoni russi a torso nudo. Attraversano il cancello; però, un quarto d’ora dopo, ritornano sui loro passi. Un’operazione compiuta tre volte… E l’orologio segna le 12.
Alle 13 appare padre Celestino: «In fretta, si va!». Scarichiamo i bagagli. Il sole dardeggia.
Ai piedi di un aereo-cargo Antonov, un soldato mi ordina: «Apra la valigia». Tremo. Sull’asfalto ribollente compaiono tre salami, una bottiglia di grappa e due pezzi di formaggio. Il militare osserva tutto e solleva un sacchetto di plastica.
– Che cos’è questo?
– Sono grani per confezionare corone del rosario.
– Ah!… Partite pure.
Ma siamo nuovamente bloccati, perché il numero dei passeggeri è diverso da quello notificato: cinque, invece di quattro. L’aereo può trasportare fino a 20 tonnellate, che sono state superate da una persona in più. «Uno deve scendere!» intima secco il comandante dell’aeroporto.
Padre Celestino si apparta con il graduato. Sostano 20 minuti sotto il sole furente, gesticolando, talora separandosi per poi riavvicinarsi… E si va! Nell’Antonov non pressurizzato padre Simon, congolese, mi grida all’orecchio: «Ti è andata molto bene! Io ho aspettato due settimane».
In aereo chi si sistema a cavalcioni di una balestra di Land Rover, chi su uno scatolone di pelati, chi su un sacco di zucchero… Noto anche un borsone di zip e bottoni. E, soprattutto, le medicine per l’ospedale della diocesi di Wamba e dei missionari della Consolata.
DOVE LE BICI SONO CAMION
Isiro, il mattino seguente, casa dei missionari della Consolata. Con la barba di cinque giorni, vorrei radermi. Ma in camera non trovo lo specchio.
«Per favore, c’è uno specchio?» chiedo a padre Rinaldo Do, il superiore. «Scusa, ci siamo dimenticati di importarlo…». Allora rivedo l’Antonov con il borsone di zip. «Qui, se perdi un bottone, o stai senza o te lo importi tu stesso… noleggiando un aereo».
Per non parlare di benzina. I missionari talora riescono ad acquistae qualche fusto dai militari ugandesi, per poi «centellinarla».
Anche monsieur Joseph ha comprato due bidoni di carburante e ha aperto «un distributore» in città. È uno sgabello con, sopra, una tanica mezza piena e una bottiglia vuota a lato come «contatore»: si fermano una-due moto per rifoirsi di tre litri. Sul lato opposto funziona un altro «distributore», gestito da un bambino: vende al dettaglio petrolio per illuminazione domestica, misurandolo con una scatoletta da sardine.
Chi si accaparra qualche fusto di carburante può diventare un commerciante a livello nazionale: lo vende ai rifornitori, che percorrono anche 700 chilometri in bicicletta con quattro taniche da 20 litri. È l’unico mezzo di trasporto anche per capre e maiali.
Un litro di benzina costa 3 milioni di nouveaux zaires (moneta locale), l’equivalente di un dollaro Usa. Questo prezzo risale al maggio scorso; un mese prima la benzina valeva 2.500.000 nouveaux zaires. Il che significa che l’inflazione è alle stelle, con sacchi e sacchi di carta-moneta. «Questa cassa – indica Dario Gramuglia, tecnico nell’ospedale di Neisu – è zeppa di grosse banconote, per un valore complessivo di 15 dollari». La cassa misura 56 centimetri di larghezza e lunghezza e 72 di altezza.
Per 3 milioni di nouveaux zaires si vende una gallina e si acquistano tre pacchetti di sigarette o una birra. Sigarette e birra, made in Rwanda, non è necessario importarle. Ma che lusso con salari da 5 dollari al mese!
«dagli atri muscosi…»
«Per pasqua mi piacerebbe essere a Pawa» confida padre Giano, consigliere generale dei missionari della Consolata, che ha lavorato in quella missione tre anni. «È già programmato» risponde padre Rinaldo. Mi accodo anch’io. Un safari di 52 chilometri in Land Rover, su una strada internazionale, della durata di tre ore. «Perché in Congo non esistono più strade, degne di tale nome».
Lasciamo, dunque, Isiro. La città conserva ancora qualche brandello d’asfalto, ma non c’è luce né acqua. Eppure, fino agli anni ’80, era vivace e festosa, con donne elegantissime, musiche e danze. Vi trovavi di tutto: dal whisky al frac per il gala raffinato. Anche se i voli non erano regolari, l’aeroporto era un viavai di commercianti. Ma il nefasto regime di Mobutu, le angherie dei funzionari pubblici, la guerra di Kabila e l’occupazione dell’Uganda… «Che tristezza, l’altro giorno, quell’aeroporto così sporco e polveroso!» conclude padre Giano.
«Dagli atri muscosi» e «dai fori cadenti» di Isiro emerge la banca, chiusa a tempo indeterminato con una catena arrugginita. Anche i missionari vi depositavano il denaro. Ma, invece di riscuotere qualche interesse, si vedevano continuamente assottigliare la somma. Tutto normale secondo il direttore della banca, che non lesinava il sarcasmo: «Dovreste esserci grati, perché custodiamo con cura i vostri capitali».
Sulla facciata del palazzo di giustizia campeggia la scritta dura lex sed lex. E padre Rinaldo commenta: «È stata proprio la mancata applicazione delle leggi a condurre il Congo-Zaire allo sfacelo».
All’uscita da Isiro, uno stop per il controllo da parte dei soldati ugandesi. Solo una formalità, per fortuna. E riprendiamo il safari.
Il territorio vanta notevoli potenzialità agricole: riso, soia, granoturco, arachidi, fagioli, frutta, come pure cotone e caffè. Negli anni ’60 il Congo produceva 60 mila tonnellate di caffè. Oggi la produzione non supera le 2 mila tonnellate. Sul mercato di Isiro il caffè (già decorticato) viene svenduto agli ugandesi a 800 lire al chilo. «È niente. Però, se protesti, non ti danno neppure questo “niente”»: è lo sfogo amaro dell’unico produttore della zona.
«PREGHIAMO PER LA PACE»
«Ferma, ferma!» grida con affanno padre Rinaldo. A 40 metri, tre soldati «esigono» un passaggio. Sono congolesi alle dipendenze di ugandesi. Hanno camminato sotto il sole molte ore e la loro meta è ancora distante.
Padre Rinaldo, dopo essersi presentato come missionario, li intrattiene con qualche domanda.
– Come stanno i vostri camerati?
– Quali? Ugandesi o congolesi?
– Entrambi.
– Il capitano ugandese non ci paga… Però gli ugandesi sono migliori dei rwandesi, che uccidono la gente, ne estraggono il cervello e lo mangiano mescolato ad erbe bollite.
I rwandesi in Congo sono armati fino ai denti. Nel 1999 il Rwanda investì in armi 141 milioni di dollari. E il Fondo monetario internazionale (così severo sugli sprechi nel sud del mondo) approvò un prestito al regime di Kigali di 33 milioni di dollari…
Sto osservando un soldato dall’aspetto giovanissimo.
– Da quanto tempo fai il militare?
– Da due mesi.
– Perché, invece di fare la guerra, non vai a scuola?
– In Congo non ci sono scuole. E poi, se ci fossero, dovrei solo zappare il campo dei maestri.
– Quanti anni hai?
– Sedici.
La risposta è troppo pronta per essere sincera. Che il ragazzo non abbia più di 12 anni traspare e dal viso e dalla statura. Certamente lo hanno imbeccato: «Ricordati che tu hai 16 anni». Tale infatti è l’età minima per l’arruolamento volontario di minorenni. L’hanno stabilito, il 21 gennaio scorso, le Nazioni Unite con un articolo sottoscritto da 70 nazioni. E ciò per smantellare l’esercito mondiale dei 300 mila bambini-soldato.
Prima di congedarci dal terzetto, padre Rinaldo afferma: «Amici, anche voi soffrite la guerra. Allora preghiamo tutti insieme per la pace».
A due chilometri da Pawa, padre Giano viene riconosciuto da due catechisti: e dire che vi mancava da 17 anni. Deve procedere a piedi, con alle spalle un corteo che l’osanna.
La missione è retta da padre Tarcisio Crestani. Gli consegno «il sacchetto dei grani del rosario», che ha «protetto» grappa e salami.
– Tarcisio, quante corone hai fatto?
– 26 mila in 26 anni di missione.
– Perché non insegni l’arte ad altri?
– Ho tentato varie volte. Ma la gente vuole solo i rosari delle mie mani. Li considera «più benedetti».
Padre Tarcisio è entusiasta del suo lavoro. E precisa: «Ci sono due missioni ad gentes: una dottrinale e una esperienziale. Credo nella prima e cerco di vivere la seconda. Ad gentes: stare con la gente ascoltando e camminando con tutti, magari anche a piedi, specie in tempo di guerra».
Una guerra economica
Ritornato ad Isiro, incontro nuovamente padre Simon Tshiani.
Padre Simon, quale congolese, come giudichi la guerra nel tuo paese?
– È una guerra soprattutto economica. Qui siamo sotto il controllo degli ugandesi: a loro non interessano i nostri problemi politici; essi mirano solo ad impadronirsi del nostro oro.
Ci sono già stati tre «cessate il fuoco». Ma la guerra continua. Perché?
– Tutte le forze in campo dicono di volere la pace, però alle loro condizioni: cioè esigono potere sul Congo, o economico o politico.
E il Congo sarà diviso?
– Questa è la grave minaccia che incombe. Però tutti i congolesi sono nettamente contrari.
In un paese vasto come il Congo, il federalismo può essere la soluzione dei problemi?
– Un governo centrale e unitario, con autonomie regionali, può essere una soluzione. Lo si è detto anche nella Conferenza nazionale, al tempo di Mobutu, per scrivere la nuova costituzione. Poi, nel 1996, le cose sono precipitate con la guerra di Kabila.
Il governo di Kabila è in grado di riprendere in mano il paese e di avere l’appoggio di tutti i congolesi?
– No, perché Kabila non è stato eletto dal popolo e perché è troppo legato alle città di Lubumbashi (con le sue ricchezze) e Kinshasa.
Allora come uscire dall’anarchia?
– Le Nazioni Unite impongano il ritiro delle forze straniere che hanno invaso il paese. Un volta sgombrato il campo, i congolesi devono prendere in mano le sorti del paese rilanciando la Conferenza nazionale con la partecipazione di tutte le forze politiche.
Come missionario della Consolata, ci tengo a dire anche questo: nonostante la guerra, noi continuiamo a lavorare. E «meritiamo» la solidarietà della Caritas italiana, di Missio e di tante persone generose…
Si fa avanti padre Rinaldo e annuncia che venerdì ci sarà l’aereo per il ritorno in Italia.
Ma venerdì non parto e neppure sabato. L’aereo sarebbe arrivato certissimamente domenica, alle ore 7 in punto. Passano le 7, le 8, le 9. A mezzogiorno il simpatico Rinaldo sorride: «Se in cielo comparirà un aereo, partirai». Compare alle ore 18.30.
Mi precipito all’aeroporto, carico la valigia nel piccolo bimotore e siedo. Poi… ritorno nella camera senza specchio di Isiro. «Signori, sono le 19.04! Troppo tardi per il decollo»: sono le parole del comandante.
Troppo tardi per quattro minuti.

Il giorno seguente, in volo verso Roma, ripenso all’aeroporto di Isiro: su una parete spicca una scatola vuota. È un orologio. Ma le lancette si sono arrestate, perché… il tempo si è fermato; poi sono addirittura scomparse, quasi a dire: in Congo il tempo non esiste più.
Intanto, sulla fertile terra rossa di Isiro e dintorni, le donne avanzano con pesanti carichi in testa.

La seconda guerra

u 1996, ottobre. I soldati dell’Alleanza delle forze democratiche di Kabila, sostenute da Rwanda, Burundi, Uganda, Stati Uniti e vari mercenari, iniziano da Uvira la conquista militare dello Zaire di Mobutu.

u 1997, 17 maggio. Le truppe dell’Alleanza occupano la capitale Kinshasa. Kabila si autoproclama capo dello stato. Lo Zaire diventa Repubblica democratica del Congo. Però sono sospesi i partiti. Il 7 settembre Mobutu muore in Marocco: lascia ai familiari 6 miliardi di dollari. Ha depredato il paese per 32 anni.

u 1998, 27 luglio. Kabila, dopo aver ringraziato Uganda e Rwanda, li invita a lasciare il paese. Ma gli ex alleati dichiarano la seconda guerra in Congo (la prima fu contro Mobutu). Kabila resiste, sostenuto da Zimbabwe, Angola e Namibia. I paesi stranieri, presenti in Congo, mirano alle risorse agricole e minerarie del paese.

u 1999, luglio. A Lusaka (Zambia) le parti coinvolte nel conflitto in Congo firmano un accordo di pace che prevede: ritiro delle truppe straniere dal paese, rispetto della sua integrità nazionale, instaurazione della democrazia. Il «cessate il fuoco» non regge. Intanto gli Stati Uniti simpatizzano per l’Uganda e il Rwanda (che però si combattono), mentre la Francia ammicca a Kabila. Gruppi di ribelli congolesi fanno sapere che se, il paese verrà diviso (come si dice), sceglieranno la strada della guerriglia.

u 2000, 14 aprile. Ancora un «cessate il fuoco», firmato a Kampala (Uganda) da tutti i contendenti. Però il 5 maggio, alla periferia di Kisangani, soldati rwandesi e ugandesi si danno battaglia. I combattimenti proseguono nelle settimane successive; viene colpita anche la cattedrale: mille morti, migliaia e migliaia di feriti e numerosi abitanti senza tetto in balia della fame e delle epidemie.
Il 17 giugno il Consiglio di sicurezza dell’Onu intima l’ennesimo «stop» ai due belligeranti e il ritiro di tutte le forze. Ma l’anarchia politico-militare continua.

>b>Gli attori della tragedia

I n Congo la seconda guerra, scoppiata nell’agosto 1998 e tuttora in corso, ha causato numerose vittime. Le cifre sono assai confuse: si va da un minimo di 100.000 morti ad un massimo di 1.700.000. È uno scontro moderno e primitivo ad un tempo: con elicotteri, armi automatiche e aerei da bombardamento, ma anche con rozzi fucili e machete, mentre i soldati (talora ragazzi) sbucano dalla foresta. È pure un conflitto interafricano e mondiale.

p L’esercito di Kabila
conta 70 mila uomini, ma poco addestrati e mal pagati; però è sostenuto dalle seguenti nazioni:
– Zimbabwe (7-11mila soldati); la ricompensa è l’accesso alle miniere di diamanti;
– Namibia, che (sull’«esempio dello Zimbabwe») ha inviato 2 mila uomini;
– Angola: è con Kabila per debellare i guerriglieri dell’Unita (un tempo protetti da Mobutu), come pure per rendere più operativa la propria compagnia petrolifera «Sonangol-Congo»;
– Sudan: offre a Kabila aerei militari per bombardare i ribelli congolesi nel nord-est; ma il governo di Khartum smentisce.

p Il fronte contro Kabila
è più contradittorio; vi militano:
– tre gruppi di ribelli congolesi (10 mila soldati di Bemba, 10-15 mila di Ilunga e 4 mila di Wamba); Bemba, Ilunga e Wamba sono «signori della guerra»;
– i guerrieri congolesi mayi-mayi: operano nel Kivu e, protetti da un’acqua magica, si ritengono invulnerabili;
– le milizie degli hutu (diverse migliaia): già responsabili di massacri di tutsi in Rwanda nel 1994, oggi hanno in mano le miniere di diamanti di Mbuji Mayi;
– 9 mila soldati ugandesi: affermano di «essere costretti» a difendere le frontiere del loro paese; in realtà sono in Congo per accaparrarsi i suoi beni; appoggiano Wamba e Bemba;
– 10 mila soldati rwandesi: anch’essi «devono» proteggere il loro paese dai fuggiaschi hutu che hanno trovato rifugio in Congo; ai rwandesi si ascrivono saccheggi di chiese e atti di cannibalismo; appoggiano Ilunga.
Lo stato di anarchia in Congo raggiunge l’apice con gli ugandesi e i rwandesi che, mentre combattono Kabila, sono pure ai ferri corti fra loro. Di qui gli scontri a Kisangani, città strategica per lo smercio di preziosi.

I n questo tragico caos, l’8 maggio scorso la Segreteria di stato del Vaticano ha inoltrato alle Nazioni Unite, all’Organizzazione per l’Unità africana, all’Unione europea, alla Corte internazionale di giustizia… un documento, redatto a Roma da otto vescovi congolesi.
Il documento denuncia l’aggressione di truppe straniere, ritenuta «una nuova colonizzazione vergognosa»; sollecita l’intervento serio ed efficace della comunità internazionale, ma non con la vendita di armi. Al riguardo, sotto accusa sono Francia, Italia, Gran Bretagna, Belgio, Stati Uniti e Israele.
I vescovi, infine, stigmatizzano il tentativo di imbrigliare la chiesa «nelle ideologie delle diverse fazioni in guerra e di impedire ad alcuni pastori di esercitare il loro ministero». Il riferimento è a monsignor Emanuel Kataliko, vescovo di Bukavu, al quale i ribelli di Ilunga impediscono di rientrare nella sua diocesi.

Francesco Beardi