Una merce strategica

Nell’era della globalizzazione è mutato il rapporto tra informazione e realtà.
Il giornalista rischia di divenire strumento di propaganda per progetti altrui.
Il lettore-spettatore rischia di farsi travolgere, perché «la verità è semplice, ma esige un minimo di riflessione elementare». Si tratta di comunicazione o informazione?
Come difendersi dai censori post-modei che agiscono secondo l’assioma
«molta informazione, nessuna informazione»?

La formula «villaggio globale» rese celebre Macluhan. Ebbene, quel villaggio può oggi dirsi sostanzialmente realizzato. Almeno per quanto concee l’economia, la finanza, le problematiche ambientali ed ecologiche, l’informazione. Ma, oltre a creare il villaggio globale, l’informazione nel mercato planetario è diventata una merce strategica: chi la controlla (e ne controlla il processo di produzione e distribuzione) controlla il mondo. Anzi, costruisce il mondo.
Nietzsche sosteneva che «i fatti non esistono: esistono solo interpretazioni». Lo stesso può ormai dirsi del mondo, della realtà, sostituiti dalla realtà virtuale costruita dall’informazione.
In un recente saggio Jean Baudrillard sostiene che la cosa in sé – il mondo, la realtà – è stata cancellata dal fenomeno, cioè dall’apparenza (in greco fenomeno significa appunto ciò che appare). Il mondo della tecnica della comunicazione (tivù, computer, telematica, realtà virtuale) non ha ridotto l’uomo a cosa, a ingranaggio del Grande Apparato (vedere Heidegger, Jonas, ecc.), quanto piuttosto ha eliminato le cose sostituendole con le loro simulazioni.
Il Grande Fratello, secondo Baudrillard, è così l’immagine e tutto si riduce a immateriale, scambiabile. E se tutto è informazione, niente informa più davvero.
Scrive Baudrillard: «All’apice delle performances tecnologiche rimane l’impressione irresistibile che qualcosa ci sfugga. Non perché l’avremmo perso (il reale?), ma per il fatto che non siamo più in grado di vederlo: non siamo più noi a prevalere sul mondo, ma è il mondo a prevalere su di noi. Non siamo più noi a pensare l’oggetto, è l’oggetto che ci pensa. Vivevamo sotto il segno dell’oggetto perduto, ormai è l’oggetto che ci perde».

I MECCANISMI DI MASCHERAMENTO
Un saggio di Paolo Rumiz (Maschere per un massacro, Editori Riuniti 1996) e la rilettura che ne ha offerto Roberto Cavalieri in chiave africana (Balcani d’Africa, Edizioni Gruppo Abele 1997) testimoniano il mutato rapporto tra informazione e realtà nel tempo della globalizzazione e del delitto perfetto.
Il caso della guerra nell’ex-Jugoslavia è lì a confermare il tutto. Un immenso imbroglio costruito dal male (che, come scrive Rumiz, «è sempre più razionale, più guardingo, addirittura più coerente del bene») non ha accecato solo le sue vittime ma anche i testimoni più estei. Testimoni caduti nella trappola dell’effetto cloroformio della televisione, che ha portato schiere di giornalisti a rincorrere barbari stereotipi «astutamente coniati dagli stessi belligeranti».
La stessa logica si è ripetuta in Burundi, in Rwanda e nell’ex Zaire, come dimostra l’ultimo lavoro di Roberto Cavalieri.
Secondo Rumiz, i media si sono ridotti quasi sempre a svolgere non il ruolo di «informatori» quanto piuttosto quello di «comunicatori» al soldo dei belligeranti e delle loro logiche. Ma, se muta la relazione tra «fatti-eventi» ed informazione, deve cambiare anche il mestiere del giornalista chiamato a non farsi irretire, a non divenire megafono o strumento inconsapevole di propaganda per progetti altrui. Ma come è possibile tutto ciò? La risposta più convincente la fornisce Claudio Magris: «Trascrivere l’invisibilità del mondo e i suoi giganteschi meccanismi di mascheramento ed illusionismo».
E il lettore? Anche lui è sfidato: l’informazione deve essere trattata con enorme attenzione.
Ancora Magris: «Per difenderci occorre commuoverci davanti alle vittime tragicamente reali senza lasciarci trascinare da quelle emozioni, progettate da qualcuno a tavolino per farci travolgere dalla loro onda. Occorrono insieme pietà e freddezza e anzitutto l’umile fatica di andare a conoscere le cose, di studiare la realtà. La verità è semplice, ma esige un minimo di riflessione elementare».
TROPPE NOTIZIE, NESSUNA NOTIZIA
Quali dovrebbero essere le doti del lettore post-moderno? Pietà e freddezza, l’umile fatica di andare a conoscere le cose, la fatica dello studio, la capacità di trascrivere l’invisibilità del mondo e i giganteschi meccanismi di mascheramento e illusionismo.
Ciò che manca oggi non sono le notizie (comunicazioni e/o informazioni), ma il loro «smascheramento», la loro ricostruzione in quadri interpretativi critici.
«Molta informazione, nessuna informazione»: è un assioma fondamentale della sociologia della comunicazione. L’imperativo principe di ogni buon «censore» post-moderno, che si traduce nel non nascondere mai alcuna notizia (ma nel foirla in un cocktail di verità e falsità), oltre che ad annacquarla con miriadi di altre notizie.
In altre parole, assistiamo oggi ad un eccesso di informazione cui corrisponde un deficit di interpretazione: a fronte della presenza massiccia di informazione (anche in tempo reale), assistiamo ad una assenza di griglie interpretative capaci di connettere i dati informativi (che sempre più non solo parlano della realtà ma la costruiscono). I dati foiscono visioni del mondo capaci di collegarsi a concrete azioni di mutamento della realtà.
Si può anche asserire che oggi ci troviamo di fronte ad un tragico scollamento tra realtà e gruppi «eco/solidal/pacifisti»: questi utilizzano slogan, pianificano campagne, progettano interventi, in modo spesso vecchio, incapace di incidere sulla realtà, perché la realtà è cambiata e loro non se ne sono accorti. Costoro, come scrive il filosofo Galimberti, «conducono una lotta non contro la mancanza di senso di chi è costretto a vivere in quell’universo di mezzi senza scopo, che è tipica dell’età della tecnica, ma contro il sentimento di chi avverte tale mancanza di senso. Costoro sono colpevoli di non inventarselo, quasi che il problema del nostro tempo non sia il vuoto di senso, ma il sentimento che lo avverte».
Come dire, autoreferenziali. E per di più in ritardo di qualche decennio, se non secolo.
L’INFORMAZIONE NELLE CRISI INTERNAZIONALI
Le cose non cambiano se proviamo a mutare angolo visuale. Prendiamo il caso, sempre più frequente, di emergenze umanitarie (Somalia, Bosnia, Rwanda, Zaire, Albania).
Queste crisi «esistono-per-noi» solo perché passano attraverso il tubo catodico della tivù (che detta i tempi e gli argomenti dei quotidiani del giorno dopo).
È il caso, terribile, del Rwanda nell’estate 1994. Tutto iniziò il 6 aprile, ma il circo dell’informazione si mise in moto più tardi, tra il 4 ed il 20 luglio. Prima si ebbe un «genocidio senza immagini» (la definizione è di Le Monde Diplomatique). Poi ci fu la ressa, facilitata dal fatto che ai giornalisti si offriva in un solo luogo e in un solo punto il massimo concentrato possibile di stereotipi sull’Africa e sugli africani.
La tivù «costruì» il caso Rwanda. Mosse le cancellerie, costrinse i politici a far finta di far qualcosa. Questi, non sapendo bene cosa fare (o sapendolo benissimo? propendo per questa seconda ipotesi), delegarono il tutto alle agenzie umanitarie (medici senza frontiere, croce rossa, agenzie inteazionali, ong di ogni genere e natura) provvedendo a rifoirle di alcuni denari.
Queste agenzie, esperte di emergenze umanitarie, da un lato furono soddisfatte del loro nuovo ruolo, dall’altro ben presto si accorsero di dover supplire l’assenza della politica senza avee i mezzi (riducendosi a mettere cerotti su persone comunque destinate a morire). Infine, riflettendo sulla prima parola della propria autodefinizione (emergenze), esse presero atto della necessità di tener desta l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, pena il prosciugarsi dei fondi destinati dai politici mondiali all’emergenza. Da qui la necessità di premere l’acceleratore sul settore comunicazione (non informazione).
Le più importanti organizzazioni umanitarie si sono così dotate di schiere di registi, cameramen, giornalisti, esperti in comunicazione (oltre che bandiere, stendardi, stemmi e quant’altro possa aiutare il riconoscimento durante una trasmissione). Ed è giusto che sia così: la loro possibilità di continuare l’opera umanitaria dipende non tanto dalle capacità di medici, infermieri, logisti e volontari vari, quanto piuttosto dalla capacità dei propri comunicatori di tener desta l’attenzione su un dramma internazionale. Se tale tensione (anche emotiva) viene meno, il dramma-per-noi (non il dramma-in-sé, ovviamente) viene meno.
E gli agenti dell’umanitario tolgono le tende correndo in fretta e furia verso altri drammi, altri dolori, altre morti (drammi anch’essi resi rilevanti-per-noi dalla tivù).
L’ALIBI PER LE NOSTRE COSCIENZE
Tuttavia è necessario andare ancora più a fondo. Se è vero che l’umanitario ha sostituito la cooperazione internazionale allo sviluppo (obiettivo ormai dato per perso dalle cancellerie di tutto il mondo), non è altrettanto vero che l’umanitario ha sostituito la politica.
È vero piuttosto che la politica usa l’umanitario a proprio scopo.
La politica spesso si riduce a pura finzione dietro cui si nasconde, almeno a livello internazionale, la potente mano dell’economia. La quale ha già dato, per dirla con l’Unicef, «il prezzo alla vita degli zairesi», secondo lo slogan «Nello Zaire la vita vale zero. Dagli tu un prezzo». Conta lo Zaire utile (e sono diamanti, oro, uranio, ecc.): tutto il resto – sono uomini, donne, bambini – non ha valore. Vale zero.
Ma, se è così, l’umanitario serve solo a fornire un alibi alle nostre coscienze. E l’informazione è utile perché, dopo aver attirato l’attenzione e costretto all’intervento, diffonde l’alibi tranquillizzando tutti. Permette ad ognuno di addormentarsi in pace la sera: ognuno ha fatto qualcosa nei confronti del dramma «X»: chi ha comunicato, chi ha pianto e firmato appelli, chi ha spedito cartoline, chi ha scritto articoli, chi ha mosso il politico che ha mosso l’umanitario, chi ha sganciato offerte, chi le ha utilizzate sul campo, chi ha diffuso immagini del «sereno che torna», chi ha ricevuto gli aiuti, chi ha trafficato in armi, chi ha aperto nuove piste per la droga o la prostituzione o lo sfruttamento delle miniere, chi ha scritto risoluzioni e persino chi ha organizzato spedizioni militari di peace-keeping o ponti aerei…
Insomma tutta l’umanità si trova accomunata da una generale sensazione di buonismo che nasconde e non sa rivelare la realtà dei fatti.
E la realtà è questa: è avvenuto il passaggio di proprietà di un territorio o di una società (sia esso lo Zaire utile o l’Albania utile) da una mano all’altra, da una economia all’altra (spesso entrambe sporche, sostanzialmente mafiose).
QUALE MALE, QUALE BENE
Come definire tutto ciò? Connivenza o stupidità. O imbecillità: «Il cosiddetto bene è ingenuo e cieco fino all’imbecillità». Forse ha ragione Rumiz: il male non acceca solo le vittime ma anche i testimoni estei. E poi, il male è più razionale, più guardingo, più coerente del bene.
Scrive Baudrillard: «Tutte le forme di discriminazione maschilista, razzistica, etnica o culturale derivano dalla stessa disaffezione profonda e da un lutto collettivo, quello di un’alterità defunta su uno sfondo di indifferenza generale… La stessa indifferenza può portare a comportamenti esattamente opposti. Il razzismo cerca disperatamente l’altro sotto forma di male da combattere. L’aiuto umanitario lo cerca altrettanto disperatamente sotto forma di vittime da soccorrere. L’idealizzazione entra in gioco nel bene o nel male. Il capro espiatorio non è più colui su cui ci si accanisce, è colui sul quale si piange. Ma si tratta comunque di un capro espiatorio. Ed è sempre lo stesso».

Aluisi Tosolini