L’apoteosi del mercato e i naufraghi dello sviluppo

Le logiche dell’accumulazione illimitata e dell’esclusione massiccia colpiscono
soprattutto il continente africano. L’Africa sopravvive grazie ad una società
veacolare (dell’«uomo della strada») e alla solidarietà neoclanica (di nuovi gruppi
legati alla tradizione). Ma che faranno i «naufraghi» degli altri continenti?
Mentre l’economia di mercato autocelebra il proprio trionfo esclusivo, le disfunzioni del sistema mondiale (disoccupazione, esclusione, povertà materiale, miseria morale) sono sempre più insopportabili. Fino alla prevedibile «grande implosione».
A meno che…

Ci sono due Afriche. L’«Africa ufficiale» è quella dell’economia mondializzata, dello stato-nazione, dei massacri, delle guerre civili (cosiddette «tribali»), delle carestie… È l’Africa che ci viene mostrata dalla televisione.
L’Africa ufficiale ha fallito completamente. Il Prodotto interno lordo (Pil) dell’Africa sub-sahariana (cioè l’Africa nera) rappresenta meno del 2 per cento del Pil mondiale, vale a dire meno del Pil del Belgio, meno delle proprietà delle 15 persone più ricche del mondo. Niente insomma. Tuttavia questo niente fa vivere circa 600 milioni di abitanti. E ciò grazie a un espediente, l’espediente di quella che io chiamo «l’altra Africa», quella del mondo dell’informale, della società veacolare che vive grazie alle relazioni.
C’è, dunque, un’altra Africa molto vivace. Certo, con molti problemi, ma anche con una incredibile gioia di vivere, con i sorrisi dei bambini, con la bellezza delle donne, con la dignità dei vecchi. L’Africa degli spiriti, della solidarietà, che si incontra poco nei centri delle metropoli e molto nei villaggi e nei sobborghi.
D’altra parte, alcuni individui, rifiutando in tutto o in parte il mondo nel quale vivono, tentano, raggruppandosi, di mettere in opera qualcos’altro: lavorare, consumare, produrre altrimenti, dentro imprese diverse, riappropriandosi anche della moneta per usarla diversamente, secondo una logica altra rispetto a quella dell’accumulazione illimitata e della esclusione massiccia dei perdenti.
Questa alternativa volontaristica rappresenta l’«altra economia».
LE SCELTE DEI «NAUFRAGHI DELLO SVILUPPO»
L’economia mondiale, nata con l’aiuto delle istituzioni di Bretton Woods (Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, ecc.), ha escluso dalle campagne milioni e milioni di persone, distruggendo il loro modo di vita tradizionale e sopprimendo i loro mezzi di sussistenza. Queste persone sono state costrette ad ammucchiarsi nelle baraccopoli delle periferie del Terzo Mondo. Sono i «naufraghi dello sviluppo».
Condannati, nella logica dominante, a scomparire, essi non hanno altra scelta per sopravvivere che organizzarsi secondo un’altra logica. Devono inventare un altro sistema, un’altra vita.
Vedere l’altra Africa come un laboratorio del doposviluppo, significa vedere l’informale in positivo e non commisurato al paradigma dello sviluppo. Si tratta di vedere, con occhio diverso, il modo stupefacente in cui sopravvivono gli esclusi dal mondo ufficiale. Nell’informale che ci interessa, non si è in una economia. Si è in un’altra società.
L’aspetto economico dell’esistenza è dissolto, incorporato nel sociale, in particolare nelle reti complesse che strutturano le città popolari dell’Africa. Per questo il termine di «società veacolare» è più appropriato, per parlare di questa realtà, di quello di economia informale.
Tuttavia la società veacolare non è un paradiso ritrovato. Si tratta di piccole imprese o di artigiani che lavorano per la clientela popolare: fabbri che lavorano con materiale di recupero, falegnami e sarti di quartiere. E ancora: meccanici con garage all’aperto, intrecciatrici che lavorano per strada, trasportatori su camion traballanti e variopinti che vanno per grazia di Dio, procacciatori di clienti per «pullman rapidi», piccoli commercianti ambulanti che vendono alle donne di casa senza frigorifero tre cucchiai di concentrato di pomodoro, due dadi Maggi, olio senza confezione o sacchetti di latte in polvere o di Nescafé.
La società veacolare è, prima di tutto, l’insieme dei modi in cui i naufraghi dello sviluppo producono e riproducono la loro vita, al di fuori del campo ufficiale, mediante strategie relazionali. Queste strategie incorporano ogni sorta di attività economiche, ma tali attività non sono (o sono poco) professionalizzate. Gli espedienti, il bricolage, la capacità di arrangiarsi di ciascuno s’iscrivono nelle reti. I «collegati» (reliés) formano dei «grappoli» (grappes). In fondo, queste strategie, fondate su un gioco sottile di «cassetti» (tiroirs) sociali ed economici, sono paragonabili alle strategie familiari, che sono nella maggior parte dei casi le strategie delle massaie, ma adattate ad una società in cui i membri della famiglia allargata si contano a centinaia.
La società veacolare (l’oikonomia neo-clanica) è a prima vista soprattutto femminile, fondata sulla pluriattività, sul non professionalismo e sulle strategie relazionali. Anche gli artigiani della economia popolare sono forse meno professionali di quanto non pensino o non diano a vedere. Sono spesso anch’essi pluriattivi e molto dipendenti dalla loro rete sociale. Tutti sono nel doposviluppo.
Gli esclusi della grande società realizzano il miracolo della loro sopravvivenza reinventando il legame sociale e facendolo funzionare. Esclusi dalle forme canoniche della modeità, dalla cittadinanza dello stato-nazione e dalla partecipazione al mercato nazionale, essi vivono grazie alle reti di solidarietà neoclaniche.
I tratti più significativi sono la pluriattività e gli espedienti della sopravvivenza, e lo «spirito del dono».
LA PLURIATTIVITÀ
Nelle reti neoclaniche, dove le attività ufficiali sono piuttosto rare, la pluriattività richiama soprattutto la molteplicità degli espedienti e dei lavori messi in opera per cavarsela. Si ha a che fare con un’assenza di professionalità, il che non vuol dire assenza di competenza. Anche quando esiste (per via dell’appartenenza a una casta e dell’acquisizione di un apprendistato specializzato), la professione è più esibita come un alibi e una facciata che rivelatrice dell’esercizio vero e proprio di un mestiere.
A Grand Yoff, in Senegal, i falegnami sono molto poco falegnami o almeno altrettanto avicoltori o mercanti di pomodori. Organizzare i falegnami in associazione per aiutarli ad accedere a migliori condizioni di acquisto o a migliori locali, come ha fatto una Ong, è un errore. Un simile procedimento presuppone che esista un gruppo professionale «falegnami», saldato da interessi comuni. Ora, un tale gruppo non esiste. Accanto a uno o due artigiani che formano una vera piccola impresa, c’è una folla di piccoli falegnami di facciata. Questi ultimi effettuano prestazioni occasionali, ma passano gran parte del loro tempo a fare tutt’altro che il lavoro di falegnameria.
È lo stesso per la maggior parte dei mestieri esercitati in queste zone di grandi precarietà di reddito e d’insediamento. Ciascuno esercita più attività nello stesso tempo, diversifica le proprie competenze e le modifica nel tempo. Hanno inventato la flessibilità ante litteram… All’altro estremo, i non professionisti moltiplicano gli espedienti da cui traggono le loro risorse. A Douala, in Camerun, nelle inchieste sull’occupazione, molti giovani non salariati dichiarano come mestiere: débrouillards (scaltri, che sanno cavarsela…).
LA STORIA DI N’DAYE, DONNA TUTTOFARE
N’daye Sokhna, madre di famiglia a Grand Yoff, è rappresentativa di questa categoria. Migliaia di donne vivono nelle periferie di Dakar e probabilmente quasi tutte in modo simile. N’daye ha un marito ferraiolo per il cemento armato (che non lavora da vari anni) e 7 figli, la maggior parte dei quali vanno a scuola. Essa ha un chiosco, una sorta di garitta in metallo, posta sulla strada di fronte a casa sua, dove vende, tra mattina e sera, da 25 a 35 chilogrammi di pane.
Occasionalmente vende roba usata e incenso che confeziona lei stessa; prepara la zuppa; acquista pesci e fa il tonno alla maionese per la clientela del vicinato. In stagione, N’daye vende i mandarini che le spedisce il cognato o anche l’altra sposa del marito rimasta nel villaggio, della quale dice: «Essa fa come me, anche lei si arrangia…». Ancora, fa merletti che piazza presso le sue «collegate» della rete; alleva pulcini e pensa di contrarre un prestito per impiantare un allevamento di galline sulla terrazza: progetta di avee un centinaio. Di tanto in tanto, sostituisce un’amica per un mese o due come impiegata nel centro ortopedico vicino. Affitta tre camere, ma le entrate sono irregolari e i locatari insolventi si trasformano spesso in oneri supplementari perché mangiano in famiglia.
Essa partecipa a varie «tontine» (circolo di credito rotativo), una a 10 franchi al giorno per comperare giubbotti ai bambini, una a 100 franchi per acquistare tessuti e giornielli. Quella dei tessuti è una tontina organizzata da un’amica ed essa è responsabile di quella dei giornielli. È responsabile, inoltre, di un’altra tontina di venti persone a 1.000 franchi al mese. Dà poi 100 franchi al giorno per un pezzo di tessuto a un venditore ambulante toucouleur. Se un giorno non ha denaro, non dà niente.
Il venditore, dal canto suo, vive dunque della differenza, e passa le sue giornate a fare il giro dei clienti.
Questa vita di espedienti in cui si mescolano produzione di beni e servizi, commercio, scambio di doni di denaro e soprattutto di parole, è quella della maggior parte delle famiglie di Grand Yoff, e, con qualche piccola variante, della maggioranza dei naufraghi dell’Africa.
La mia inchiesta era stata fatta nel 1993, nel ’95 e nel ’96. Alla fine, N’daye Sokhna ha realizzato il suo sogno. È diventata una donna d’affari. Grazie al credito della cornoperativa delle donne e ai consigli della Ong, ha montato con le sue amiche una piccola impresa originale e decentralizzata di produzione e vendita di sciroppo di succo di bissap (hibiscus o acetosella di Guinea o ancora carcadé), succo di tamarindo e succo di zenzero. La marca è depositata per il gruppo, la confezione e l’etichettatura sono normalizzate, è assicurato un controllo tecnico per l’insieme. E… funziona! Quanto al vecchio marito, felice di questa relativa prosperità familiare, egli assicura la vendita in assenza della padrona…
In queste condizioni, i programmi di appoggio al «settore informale», basati sulla professionalizzazione, nonostante le migliori intenzioni, hanno effetti piuttosto negativi. L’essenziale della società veacolare non entra nel quadro dell’intervento. Questo non tocca pertanto i più bisognosi e favorisce invece coloro che, entrati in una logica professionale, sono già ai margini della società informale.
LO SPIRITO DEL DONO
Al di là della plurittività e della non professionalizzazione, quel che colpisce l’osservatore attento ai «grappoli» di «collegati» della società veacolare è l’importanza del tempo, della energia e delle risorse destinate ai rapporti sociali. Se si dispiega una attività intensa, sarebbe abusivo nella maggior parte dei casi parlare di vero lavoro. Gli incontri, le visite, i ricevimenti, le discussioni prendono molto tempo. Dare e prendere in prestito, donare, ricevere, aiutarsi reciprocamente, fare una ordinazione, consegnare, informarsi occupano gran parte della giornata, senza parlare del tempo dedicato alla festa, alla danza, al sogno o al gioco… «La festa, osserva Eric de Rosny, un padre gesuita un po’ stregone (Nganga) che vive a Douala, occupa un posto smisurato in proporzione ai mezzi finanziari della popolazione. Tutti gli economisti lo dicono, ma essa è appropriata ai suoi bisogni affettivi».
I compiti esecutivi sono effettuati, alla lettera, nel tempo perso. Se c’è urgenza per finire una ordinazione, si può sempre lavorare di notte o farsi aiutare da un collega non occupato. Tutte le entrate sono investite immediatamente all’interno della rete, si tratti di derrate o di denaro. Questo sia perché «è dovuto», sia perché così facendo si anticipa la necessità di prendere prestiti e perché si vuole far profittare anche i parenti. Ciascuno è cosciente del fatto che un beneficio non è mai perduto.
L’atteggiamento generale è il senso di dovere molto ai «collegati» piuttosto che quello di essere un creditore che ci rimette sempre. Se il dono funziona bene, come ha finemente osservato Jacques Godbout, ciascuno degli attori ritiene di aver ricevuto più di quel che ha dato, mentre se il sistema funziona male ciascuno pensa di aver ricevuto di meno.
Le persone di Grand Yoff parlano esse stesse di «cassetti» per disegnare questi investimenti relazionali. Questi cassetti detenuti dai «collegati» sono indifferentemente economici e sociali. Simmetricamente, in caso di bisogno (e il bisogno è qui quasi endemico), si mobiliterà il «grappolo», si attingerà a diversi cassetti. Spesso, si attingerà a un cassetto per investire in un altro. Questa situazione di creditore-debitore è comune a tutti.
A Grand Yoff, le donne utilizzano quotidianamente un proverbio locale molto immaginifico e rivelatore: «Noi seppelliamo una iena per disseppellie un’altra». Una conseguenza supplementare di questo funzionamento è che le operazioni d’investimento sono quasi sempre filtrate dal gruppo. Il debitore al quale si richiede il proprio denaro per fare un colpo, rifiuterà di restituirlo se giudica l’affare irragionevole…
«Se si investe il proprio denaro presso una persona – spiega un falegname – un giorno glielo si può richiedere». Ma colui al quale lo avete dato può avere delle ragioni per non restituirvelo, semplicemente perché fa anch’egli degli investimenti sociali. In questo caso, solleciterà i cassetti disponibili. Proprio per questo, devo disporre di più cassetti, per potee utilizzare un secondo nel caso in cui il primo non fosse disponibile. Per questo è importante avvertire i collegati in tempo e disporre di cassetti molteplici e vari. Al contrario, quando lo mettete in banca, è come se lo conservaste voi stesso. Cioè quando andate a chiederlo, non ve lo si rifiuta. Quando invece fate investimenti presso parenti o partners, essi possono dire di «no», se giudicano che quel che ne farete non sarà bene per voi. Sono dei «parenti», mentre la banca è un estraneo. Essa non si preoccupa nemmeno del modo in cui vivete e meno ancora di come spenderete il vostro denaro. Non c’è ostacolo all’uso del denaro della banca, poiché basta chiederlo per ottenerlo. Il denaro non è al sicuro in banca.
Questo «filtro» sociale è addirittura sistematico nel caso di certe tontine.
«Questi franchi che abbiamo raccolto – dichiara solennemente un tontinier nel consegnare la somma al fortunato destinatario -, cioè questi miseri soldi (ma che rappresentano tutto il nostro tesoro), noi te li diamo oggi, non perché tu faccia sparire questo denaro, ma perché noi auspichiamo che ogni franco diventi 10 franchi e che ciò possa esserti utile. E ti rinnoviamo tutti i nostri migliori auguri perché tu riesca nel tuo progetto».
Si sarà riconosciuta facilmente in questo funzionamento della società neoclanica una logica molto diversa dalla logica mercantile, quella del dono e dei rituali oblativi. Qui il legame sociale funziona sulla base dello scambio, ma lo scambio, con o senza moneta, si basa più sul dono che sul mercato. Ci si trova di fronte al triplice obbligo di donare, ricevere e restituire, così come lo analizza Marcel Mauss. La cosa centrale e fondamentale nella logica del dono è che il legame sostituisce il bene.
LE LEZIONI DELL’«ALTRA AFRICA»
La mondializzazione non è altro che l’ultima punta della «mercificazione» del mondo.
Bisogna riconoscerlo: l’economia resta misteriosa per la maggior parte delle persone. Tutti i grandi giornali dedicano a questa materia pagine specializzate, che spesso i lettori giudicano «illeggibili» e s’affrettano a sorvolare. La situazione è tanto più paradossale in quanto non è più possibile nel mondo moderno vivere fuori dell’economia. Ciò implica due cose strettamente connesse: da una parte tutti partecipano alla vita economica e, dall’altra, tutti possiedono un minimo di conoscenza di economia.
Nelle società contemporanee, non è più concepibile partecipare all’economia senza un po’ di conoscenza. Noi tutti siamo degli ingranaggi di un’immensa macchina che definisce la nostra collocazione nella società. Lavoro o disoccupazione, livello dei redditi, modalità di consumo: questi aspetti economici della vita hanno occupato uno spazio dominante e qualche volta totalizzante. La persona la si considera, innanzitutto, in base alla sua professione, al suo reddito, ai suoi consumi. E così la vita è stata ridotta sempre di più a dimensioni economiche, ed è inevitabile che ciascuno sia ossessionato dai problemi economici, prima di tutto dal reddito: stipendio, sussidio di disoccupazione o pensione.
Il capo d’azienda, come pure la casalinga, vive con gli occhi sugli indicatori economici; solamente la loro formulazione è differente: tasso d’inflazione o prezzo del burro, prelievi fiscali e sociali o assegni familiari e previdenza sociale, ecc.
Un antico proverbio francese dice che, quando si ha un martello nella testa, si vedono tutti i problemi sotto forma di chiodi. Gli uomini del nostro tempo si sono ficcati in testa un martello economico. Noi vediamo ogni problema, ogni attività, ogni evento attraverso il prisma dell’economia. Finché avremo in testa il martello economico, il nostro agitarci sarà vano, sterile e anche dannoso.
Per quanto possa essere sorprendente, le preoccupazioni economiche, come tali, avevano poco spazio nella vita degli uomini prima del Rinascimento o al di fuori dell’Occidente. Ciascuno svolgeva i suoi compiti, molto spesso di natura domestica; il cittadino greco si preoccupava di politica, l’uomo medievale di religione e l’indigeno africano di feste e rituali.
Lo sviluppo dell’economia nell’epoca modea non appare tuttavia strano, perché il progetto della modeità riposa sulla pretesa di costruire la vita sociale sulla sola base della ragione, emancipandosi dalla tradizione e dalla religione. Nella visione ereditata dall’illuminismo, l’economia non è altro che la realizzazione della ragione. Non è sorprendente che lo sviluppo dell’attività economica si presenti come l’affermazione di potenza della razionalità. Quest’ultima si manifesta in maniera congiunta nella tecnica e nell’economia; si tratta di accrescere l’efficienza economizzando al massimo i mezzi per ottenere i massimi risultati seguendo la norma del «sempre più».
Questa razionalità calcolatrice si rende assurda, divenendo fine a se stessa. La scienza economica, dal canto suo, non è altro che una ruminazione vaniloqua e ossessiva del principio di razionalità quantitativa. L’apparente diffusione planetaria della modeità (per mezzo dell’imperialismo, prima militare e politico, poi sempre di più culturale) ha fatto trionfare, di fatto, l’economia come pratica e come immaginario mondiali.
IL TRIONFO DELLE «LEGGI DEL MERCATO»
Dopo il crollo dei paesi dell’Europa dell’Est e il fallimento del progetto socialista, l’economia di mercato ha celebrato un trionfo esclusivo. Questo successo appare come la miglior riuscita dell’economia e degli economisti.
Le sacrosante leggi del mercato si impongono verso e contro tutti, rovesciando la burocrazia più totalitaria, distruggendo insieme le sinistre mostruosità del gulag e le speranze riposte dalle masse dei diseredati nell’utopia più generosa della storia. La società aperta sembra stravincere sui suoi nemici per mettere il punto finale alla storia con l’apoteosi del mercato.
Nondimeno, le promesse dell’economia di pace e prosperità per tutti e per ciascuno appaiono oggi più lontane che mai. Più l’immaginario della grande società del mercato mondiale e pacifico diviene planetario, più la discordia, la miseria e l’esclusione sembrano guadagnare terreno.
Le disfunzioni di ogni genere nel sistema mondiale – disoccupazione, esclusione, disastri ecologici, povertà materiale e più ancora miseria morale – sono e saranno sempre più insopportabili. Nell’attesa della prevedibile «grande implosione», esse favoriscono l’emergere di contro-dogmi: integralismi etnici, fondamentalismi religiosi, più o meno intrecciati con gli strascichi ideologici del passato e con la forza del risentimento. Tuttavia, queste reazioni non possono mettere seriamente in pericolo il dominio del «pensiero unico», poiché non attaccano le sue radici, le radici dell’economicismo e dell’utilitarismo. Solo se si rimette in discussione l’impero del razionale si può forse aprire la via ad un pensiero meno intollerante e che potrebbe definirsi pluralista.
DECOLONIZZARE IL NOSTRO IMMAGINARIO
Che fare di fronte alla mondializzazione, all’onnimercificazione del mondo ed al trionfo planetario del mercato unico? La distanza tra l’ampiezza del problema da risolvere e la modestia dei rimedi individuabili a breve termine, dipende soprattutto dalla pregnanza delle convinzioni che consentono al sistema di reggersi sulle basi del suo immaginario collettivo.
Bisogna cominciare a vedere altrimenti le cose, affinché esse possano diventare altre (e si riescano a concepire soluzioni originali e innovative). In altri termini, bisognerebbe decolonizzare il nostro immaginario per trasformare veramente il mondo, prima che il cambiamento del mondo ci condanni nel dolore.
Si tratta di rimuovere il martello economico dalla testa. Si tratta di mettere al centro della vita umana significati diversi dall’espansione della produzione e del consumo. Dovremmo volere una società che non abbia al centro (o come unici) i valori economici, dove l’economia sia rimessa al suo posto, come semplice mezzo e non come fine ultimo, dove si rinunci alla folle corsa verso consumi sempre più alti. Ciò non solo è necessario per evitare la distruzione definitiva dell’ambiente terrestre, ma anche e soprattutto per uscire dalla miseria psichica e morale dei contemporanei.
Quest’altra società (dove si vivrebbe altrimenti) può essere concepita in due modi: può esserci imposta (come nel caso dell’altra Africa), ma può anche essere scelta. In altri termini, si può essere condannati a farla, in modo più o meno inconsapevole, e si può tentare di costruirla consapevolmente.
Questa seconda forma dell’altra società non è completamente separata dalla prima, e questo per due ragioni. In primo luogo, perché l’auto-organizzazione degli esclusi del Sud non è (non è mai) del tutto spontanea. Ci sono anche aspirazioni, progetti, modelli, utopie che informano più o meno le combinazioni della sopravvivenza informale. In secondo luogo, perché gli «alternativi» del Nord non sempre hanno scelta. Si tratta spesso di esclusi, derelitti, disoccupati, cassaintegrati, candidati potenziali alla disoccupazione o, più semplicemente, esclusi per disgusto… Ci sono dunque dei punti di contatto tra le due forme che possono e devono fecondarsi reciprocamente.
RISPOSTE LOCALI ALLA SFIDA GLOBALE
Oggi si contano imprese cornoperative autogestite, comunità neo-rurali, associazioni di commercio equo e solidale, banche etiche, settore non profit, Lets e Sels (sistemi di scambio locali), bilanci di giustizia, autorganizzazione degli esclusi del Sud. Queste esperienze ci interessano soprattutto come forme di resistenza e dissidenza nei confronti del processo di affermazione dell’onnimercantizzazione del mondo.
Il caso dei Sels è particolarmente interessante. I sistemi di scambio locale sono associazioni, i cui membri scambiano beni e servizi di ogni natura fuori dal mercato e in base a una «moneta» appositamente creata e valida all’interno del gruppo. I prodotti scambiati vanno dai lavori di riparazione domestica o di automobili a servizi di babysitting, passando per corsi di lingua, massaggi, foitura di ortaggi, prestito di utensili, ecc. Liste regolarmente aggiornate e gestite da un elaboratore centralizzano le offerte e le domande e permettono di conoscere la posizione dei crediti e dei debiti di ognuno. Così, persone escluse dal lavoro (le cui competenze sono state respinte dal sistema di mercato) possono ritrovare forme di attività e di riconoscimento sociale.
Si tratta di una risposta locale a una sfida globale. Come dicono i fondatori del Sel dell’Ariege: «In qualche modo, noi rispondiamo a problemi mondiali con una soluzione locale». Un Sel stimola la produzione locale e risponde a bisogni locali. Permette di rivitalizzare la società locale senza apporto di capitali estei.
Aiuta a prendere coscienza dei problemi locali, a cercare soluzioni pratiche, concrete e realistiche. Riduce le importazioni, gli sprechi e l’inquinamento conseguente ai trasporti. Soprattutto, i Sels debbono fare i conti col problema fondamentale dell’economia teorica e pratica: il valore, il rapporto di scambio. È riposta la questione del rapporto di scambio giusto. Come nella società veacolare africana, le «chiacchiere» giocano un ruolo insostituibile. Lo affermano tutti i partecipanti: la parola è essenziale. Con una piccola forzatura, si potrebbe dire che i Sels reinventano la democrazia di base e costituiscono un apprendistato alla cittadinanza. Senza chiasso, gli «informali» dell’altra Africa non fanno nulla di diverso.
NON CHIUDERSI IN TRINCEA
L’esperienza africana della società veacolare può servire da lezione anche per tutti coloro che sono impegnati in imprese alternative.
Il pericolo della maggior parte delle iniziative è quello di raccogliersi dentro la trincea che ha loro permesso di nascere, invece di lavorare al proprio rafforzamento.
L’impresa alternativa vive o sopravvive in un ambiente che è (e deve essere) differente dagli ambiti del mercato. È quest’ambiente che bisogna definire, proteggere, mantenere, rafforzare e sviluppare. Piuttosto che battersi disperatamente per conservare la trincea in seno al mercato mondiale, è meglio militare per allargare lo spazio al margine dell’economia globalizzata.
Il confronto violento e il conflitto accanito, così caratteristici della razionalità occidentale, non sono l’universo in cui può o deve muoversi l’organizzazione alternativa. Riuscire a imporre i prodotti del commercio equo e solidale e dell’agricoltura biologica sugli scaffali dei supermercati, a fianco ai prodotti «iniqui» o «anti-biologici» non è un obiettivo in sé e per sé.
È più importante assicurarsi il carattere equo del complesso della filiera, dal trasporto fino alla commercializzazione: il che esclude insieme il supermercato ed allarga il tessuto portatore. L’estensione e l’approfondimento del campo delle complicità è il segreto della riuscita e deve essere la prima preoccupazione di questa impresa. I consumatori (consumatori cittadini) – come dicono le associazioni di consumo critico – non sono se non un elemento d’un insieme che dovrebbe collegare Sels, produttori alternativi, neo-rurali, movimenti associativi impegnati in questo itinerario. È questa coerenza che rappresenta una vera alternativa al sistema.
«In sintesi – scrive Tonino Pea nel suo libro Fair trade. La sfida etica al mercato mondiale – si può dire che la sfida per il fair trade consiste non nel far entrare nel circuito della moda i prodotti del Sud del mondo, stravolgendone il patrimonio culturale, ma nel far diventare un “bisogno” la scelta etica del consumatore (…). Ciò significa che è necessario pensare più in termini d’innovazione sociale che di innovazione di prodotto (…). Il cercare di adeguarsi alle cosiddette leggi del mercato capitalistico, di inseguie i capricci, di usae acriticamente gli strumenti – come la pubblicità e il marketing – può dare qualche risultato in termini quantitativi nel breve periodo, ma alla fine risulta perdente».
Si tratta di cornordinare la protesta sociale con la protesta ecologica, con la solidarietà verso gli esclusi del Nord e del Sud, con tutte le iniziative associative per articolare resistenza e dissidenza e per sboccare, alla fine, in una società autonoma.
È così che, all’inverso di Penelope, si ritesse di notte il tessuto sociale che la mondializzazione disfa durante il giorno…

SOPRAVVIVENZA, RESISTENZA, DISSIDENZA
Siamo al centro di un triangolo i cui tre vertici sono: la sopravvivenza, la resistenza e la dissidenza. Non dobbiamo dimenticare né privilegiare nessuna di queste tre dimensioni.
Prima di tutto, dobbiamo sopravvivere. È ovvio, senza ciò nessuna resistenza né dissidenza sarebbe possibile. Sopravvivere significa adattarsi al mondo nel quale viviamo, ma non significa che dobbiamo approvarlo né aiutarlo a funzionare, al di là della necessità. Possiamo accettare dei compromessi nell’azione concreta e quotidiana, ma dobbiamo respingere le compromissioni nel pensiero. Già questa è una forma di resistenza: la resistenza mentale all’impresa del «lavaggio del cervello» da parte dei media e il dominio devastatore del «pensiero unico».
Dunque, dobbiamo resistere. Se pensiamo che siamo imbarcati in una megamacchina che fila a gran velocità senza pilota e, quindi, condannata a fracassarsi contro un muro, resistere significa, allora, tentare di frenare e provare a cambiare la direzione. Come, in verità, nessuno lo sa. Dobbiamo anche pensare di poter lasciare il bolide e saltare al momento opportuno. È questa la dissidenza.
Se a breve termine la strategia della sopravvivenza è la più importante, a termine medio è la strategia della resistenza che diviene più importante e, a lungo termine, è quella della dissidenza.

Serge Latouche

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