ETIOPIA – In questo paese benedetto da Dio

Non mancano
nella storia i filosofi
che cercano l’elemento primo dell’universo.
Aria, fuoco, acqua, terra?… L’articolista,
partendo da questi elementi comuni,
offre altre considerazioni.

TERRA
«Riempite la terra, soggiogatela e dominate…» (Gn 1, 28).
In questo paese «da te benedetto», hai un bel coraggio, caro nostro buon Dio, a chiedere alla gente di soggiogare la terra!
Sono loro, credo, ad essere sottomessi all’acqua, al fuoco e al suolo che calpestano. Passano la giornata chinati, zappando, pulendo sterpaglie, preparando la semina. Sono gente che aspetta la pioggia, perché questa irrighi il suolo e faccia crescere le messi.
Aspettano a lungo. Troppe volte, perché non ha piovuto, le sementi si sono perse. Il sudore, versato per il lavoro, non è stato sufficiente a far crescere qualcosa. Tutto è stato inutile, fatica sprecata!
I soldi pagati al padrone del terreno, i semi acquistati con tanto sacrificio sono andati persi per mancanza d’acqua.
Cosa mangeranno, caro buon Dio?
È rimasto niente, la terra è riarsa. Avevano speranza di raccogliere i frutti, ma anche questa è morta per mancanza di pioggia! Hanno i piedi sporchi di polvere nera:
perché non ti fai vivo, o Cristo,
e li lavi come facesti un giorno?
Toa ancora a farlo!
Tutti i loro sforzi sono stati spesi su terra di altri, pagando per l’uso.
Aspettavano un raccolto abbondante, sufficiente per tutti… ma non rimane nulla, neanche la terra!
Essendo affittata, è pronta per altri, loro non potranno pagarla di nuovo.
Questa terra ingrata, dopo avere accettato il lavoro delle loro mani, non ha dato frutto: ha «rubato» ai poveri, ha distrutto la speranza!
Hai un bel coraggio, caro nostro buon Dio, a dire alla gente di dominare la terra!
Io vedo, invece, che la terra li mangia, inghiottisce avida i morti di fame. Li copre di polvere, li dimentica presto perché fanno paura.
Questa terra crudele, sporca, insensibile… i bambini dei morti, impudicamente li copre di polvere nera.
I piccoli, o Dio, che tu hai benedetto, proclamato intoccabili.
Come osa la terra, la terra esserti infedele? Nelle lunghe notti, per un po’ di tempo li mantiene caldi, ma quando il fuoco si spegne, li abbandona al freddo pungente e prolungato. Nella terra sporca ci sono parassiti che invadono avidi i loro corpi insonni, rendendoli pidocchiosi e indecenti.
Al mattino si svegliano con i primi rumori; accorrono curiosi se sentono estranei, visite alle quali bisogna sorridere: un sorriso triste dai volti sporchi.
In questo paese «benedetto da Dio», la terra è avara, prende e non restituisce. Produce scorpioni, ragni velenosi e viscide vipere che vi strisciano sopra.
Ma a che servono queste creature per la povera gente?
I preti benedicono campi e sementi, pretendono grazie per le loro suppliche. Implorano Iddio che venga in aiuto con pioggia abbondante e pane per tutti.
Dio non ascolta! E qui, sulla terra, si sente soltanto il silenzio.
Ma questo Dio è soltanto dalla parte dei ricchi, i quali hanno tutto e non mancano di niente?
Il Dio dei poveri è un povero dio! Rimane soltanto la terra, avara e riarsa, che accoglie i cadaveri freddi, tentando di ridare il calore
rifiutato prima, quando aveva
negato i frutti promessi, quando – crudele – aveva spento la speranza.
Dove sei, o Dio, perché taci ora?
Fuoco
È tanto utile il fuoco che purifica l’oro e trasforma i cibi rendendoli gustosi. Il fuoco lava lo sporco con mani di fiamma, con le sue lingue ardenti. Ma l’oro è dei ricchi e il fuoco pure!
Per avere il fuoco ci vuole la legna, gas o carburanti, o la forza elettrica… ma ai poveri è negato l’accesso a questi beni, ai poveri rimane lo sterco di bue.
In questo paese «benedetto da Dio», lodato dai santi dell’Antico Testamento, i poveri raccolgono lo sterco ancora fresco e, come esperti vasai, lo trasformano in zolle. Essiccato al sole, sarà pronto per l’uso; bruciando in cucina, farà bollire l’acqua e scalderà i corpi stanchi quando andranno a riposo. Si vende al mercato, si baratta per del cibo. Lavorando lo strame, si guadagna da vivere; che dico «da vivere»? Si tira solo a campare! Permette agli umili di tirare avanti per un altro giorno.
In questo paese «benedetto da Dio», ci sono le donne…
ma perché soltanto donne?
Esse raccolgono legna, caricando sulle spalle tanto quanto pesano. Curve verso il mondo che le tiene in piedi, guardano per terra, sempre questa terra! Camminano svelte, quasi senza sosta, per molti,
lunghi, infiniti chilometri.
Ruminano in mente la fiacca speranza di vendere bene, cercando di essere le prime sul posto.
Non è generoso il compratore avaro. Il poco che le donne prendono non è neanche loro. Andrà in mano a genitori avidi, al marito o ai figli affamati:
loro ne hanno bisogno.
Per lei, la madre, ci saranno soltanto le briciole. E non è che volesse acquistare un capriccio, ma soltanto migliorare il cibo.
Domani… Ci sarà un domani?
Non sarà diverso, certo!
Ho visto queste donne che portano legna, chine sotto il carico pesante dei rami. Ho sentito vergogna di essere uomo. Io passo distante, staccato dalla loro vita, sollevando polvere e aggiungendola a loro che caricano il legno pesante.
È il Cristo che carica la croce, che porta i peccati del mondo.
Io faccio parte del mondo dei ricchi, le lascio passare, la loro indigenza mi scivola via: non è il mio compito!
E sento una voce, mai sentita finora: «Dalla tua spalla ho liberato il peso… (Sal 81, 7).
Lo dicevi al tuo popolo, schiavizzato in Egitto. Ora sono altri tempi! E io passo al largo.
Anche le ragazzine… sempre donne sono! Raccolgono foglie e rametti che, generosi, lasciano
cadere gli eucalipti. Di fronte al miracolo di queste creature, dovrebbero piegarsi e offrirsi in pieno alle loro mani, così maltrattate dal lavoro che fanno.
Dovrebbero seccare e, fattisi a pezzi per loro, nascondersi dentro al loro sacco.
Mi domando se basta un sacchetto di foglie e rametti a far bollire l’acqua, con cui si prepara il tè o il caffè.
Il fuoco, Signore…
Lodato sii, per fratello fuoco…
Fratello, lo chiamava Francesco, ma in questo paese «benedetto da Dio» è un fratellastro il fuoco dei poveri!

acqua
Sorella acqua…
In questo paese «benedetto da Dio» più che una sorella è un’ossessione. L’acqua non è mai vicina, né pura, né limpida. È un bisogno che si impone per primo, l’incubo notturno di donne e bambini: «Domani, di nuovo, dovremo tornare a prenderla al fiume, sporca com’è, fra tutte le bestie; o al pozzo comune, facendo la coda per ore infinite; oppure a scavare la sabbia del letto del fiume e rubarla quando appaia agli occhi».
Nell’incubo appaiono zoccoli enormi che tutto sporcano, sollevando la melma, spargendo il letame sull’acqua da bere, l’acqua benedetta che lava le mani.
E sognano anche dispettosi ragazzi che rubano il posto, versando a terra la preziosa merce raccolta con tanto sforzo.
Si sente stanchezza nei passi pesanti, che affondano dentro la polvere nera, nella sabbia che scalda la pelle indurita dei piedi. Si vede solo una strada, scaldata dal sole, senza confini (né davanti, né ai lati).
Arriva il mattino, spariscono i sogni; ci si sveglia presto e si vede ben chiaro che era tutto un incubo. Ma, purtroppo, sogno e realtà, realtà e sogno sono così simili per tanti abitanti di questo paese «benedetto da Dio».
«Tuo padre ha bisogno»:
scatta il comando da una madre già stanca, fin dal primo mattino. Recipiente in spalle, si parte rassegnati e ci si guarda attorno, cercando qualche compagna di viaggio con cui chiacchierare.
La strada è sempre quella, nessuna diversione. Qualche macchina passa e riempie tutto di polvere. Se si urta o si cade con la tanica piena, si riprende la strada, senza fare una piega.
Benedetta la plastica che resiste a ogni colpo e, se invecchia o si buca, è possibile ancora ripararla con il fuoco. Pesa molto meno della terracotta, quasi mai si rompe e non costa tanto.
Ne parlino pure male gli ecologisti: ma loro non sanno cosa significa farsi chilometri a piedi,
tutti i giorni, con un peso d’acqua sulle spalle!
Arrivati a casa, si cerca la mamma che prepari del tè e una fetta di pane. Ma si scopre, delusi, che è andata nei campi e bisogna aspettare. Delusione e pazienza
sono gli ingredienti della vita,
di ogni giorno per tanti abitanti di questo paese «benedetto da Dio».

aria
In questo paese «benedetto da Dio» vi chiedo un po’ d’aria per fare un respiro.
Quando guardo la gente affaticata, sento mancarmi il fiato,
mi assale la vergogna per i tanti beni che non ho guadagnato con il mio sforzo, che mi sono arrivati senza merito alcuno.
Datemi un po’ d’aria, per poter capire come mai tante persone di questo paese «benedetto da Dio» stanno così male, da farmi venire, in certe occasioni, la pelle d’oca soltanto a guardarli…
Voi che avete letto fino a questo punto, datemi una mano per poter capire e fare qualcosa, pur essendo grande il desiderio di tirarli fuori da tanta miseria.
Ditemi sinceri se, di fronte a loro, così malridotti, possiamo continuare a permetterci d’invocare Dio col nome di Padre.
«Padre nostro che sei nei cieli…».
E nella terra, dove?
E nel fuoco?
E nell’acqua?
Datemi un po’ d’aria!
Datemi una mano da offrire loro,
una mano
per tirarli fuori da tanta miseria!

UNA GUERRA TUTTA PAZZA

È incomprensibile agli stessi belligeranti. Ma non si tratta di rivendicazione di confine.
Sono in gioco poteri locali, indipendenza nazionale e futuro di tutto il corno d’Africa.

I nutile domandarsi chi ha torto e chi ha ragione. L’Eritrea appare come l’aggressore; ma la verità non è così semplice. Il problema comincia negli anni ’80, quando l’Eritrean people’s liberation front (Eplf) e il Tigrayan people’s liberation front (Tplf) combattono per liberare le rispettive province dalla dittatura di Menghistu. Sono entrambi socialisti; ma l’Eplf pende verso l’Unione Sovietica, il Tplf verso l’Albania.
Nel 1985 la tensione tra i due gruppi guerriglieri è diventata tanto incandescente che gli eritrei impediscono i rifoimenti dei viveri ai soldati tigrini in Sudan.
Nel 1988, quando si accorgono che, con i loro dispetti, rischiano di perdere la guerra, le due parti s’incontrano a Khartoum e appianano le loro divergenze. I tigrini suggeriscono di fissare i confini delle due regioni, ereditati dall’occupazione coloniale italiana. Ma gli eritrei dicono che prima bisogna finire la guerra, poi si vedrà.
Nel 1991 Menghistu è sconfitto. Il Tplf conquista Addis Abeba e il presidente Meles Zenawi comincia a disegnare la nuova Etiopia, che prevede autonomie etniche e regionali. L’Eplf entra in Asmara e il leader Issayas Afeworki si affretta a prendere le distanze dall’Etiopia: stacca i contatti telefonici col resto del mondo, perché vuole un prefisso internazionale differente da quello per l’Etiopia. Poi rimanda a casa i cittadini etiopici, impiegati nell’amministrazione: in due anni ne sono espulsi 150, comprese le mogli eritree e figli.
Nel 1993 l’Eritrea opta per l’indipendenza e l’Etiopia ne rispetta la scelta, sanzionata dal referendum popolare.

N el 1997 l’Eritrea sostituisce il birr, moneta etiopica in circolazione in entrambi i paesi, con la nuova valuta nazionale, il nafka. L’Etiopia rifiuta la parità tra birr e nafka ed esige pagamenti in dollari Usa. L’Eritrea alza le tasse di transito e dogana. L’Etiopia lascia il porto di Assab per quello di Djibuti. Il commercio va a rotoli; i prezzi alle stelle; i dispetti reciproci non si contano più.
Lo stesso anno l’amministrazione etiopica in Tigray pubblica nuove mappe della regione, includendo tre aree controverse della piana di Badme; comincia a piantare cippi di confine, espellere gli eritrei dai villaggi tigrini e distruggere le loro abitazioni.
Nel maggio 1998 quattro militari eritrei, accorsi a ispezionare le frontiere e dirimere le controversie, vengono uccisi dai miliziani tigrini. I carri armati eritrei invadono la regione di Badme, poi tutte le aree contestate. Un fronte che si estenderà per quasi 1.000 km. L’Etiopia risponde con cannonate e bombardamenti aerei, facendo vittime tra i civili. La diplomazia internazionale si mette in moto; ma ottiene solo un fragile cessate il fuoco. La stagione delle piogge blocca cannoni e carri armati. Ma comincia la guerra di propaganda. Intanto l’Etiopia comincia a cacciare dal paese i cittadini eritrei; alla fine del 1999 gli espulsi saranno 62 mila.

A lla fine di febbraio 1999 l’Etiopia riconquista Badme e, più a sud, Tsorona. Addis Abeba parla di «vittoria totale», ma a che prezzo! In un mese di combattimenti, dietro le trincee eritree rimangono insepolti circa 20 soldati etiopici e 100 carri armati distrutti.
Stati Uniti, Onu, Organizzazione per l’unità africana (Oua), vari paesi europei e africani intensificano le missioni diplomatiche per presentare piani di pace, chiedere la sospensione delle ostilità, far sedere Issayas e Meles attorno al tavolo delle trattative. I due contendenti non si vogliono vedere neppure in fotografia. Se uno accetta i piani proposti, l’altro trova i cavilli per rifiutarli e viceversa. E le scaramucce continuano lungo la frontiera centrale; varie incursioni di aerei etiopici bombardano le città di Massaua, Assab, Shambuko.

I l 2000 si apre con segni di speranza. L’onorevole Rino Serri, delegato dell’Unione europea nella ricerca di una soluzione politica del conflitto, riesce a riavviare le trattative, che si svolgono ad Addis Abeba (23 febbraio – 3 marzo). Il governo eritreo si convince a firmare incondizionatamente il piano di pace proposto dall’Oua.
Ma l’Etiopia, nonostante che milioni di persone nel sud del paese stiano morendo di fame a causa dell’ennesima siccità, continua la sua guerra, decisa a risolvere militarmente la partita. Il 13 maggio, vigilia delle elezioni politiche, l’esercito etiopico sferra un decisivo attacco su tutto il fronte, distruggendo villaggi, regioni e città. Gli eritrei si attestano sull’altipiano più interno per difendere la capitale. Addis Abeba afferma che non ha intenzione di conquistare l’Eritrea e che è pronta a riprendere i negoziati; ma vuole «trattare mentre combatte e combattere mentre tratta».

I l 18 giugno, ad Algeri, dopo due settimane di trattative indirette (cioè comunicando solo attraverso i mediatori) i ministri degli esteri di Eritrea ed Etiopia si sono trovati per la prima volta faccia a faccia e, davanti alle telecamere, hanno firmato il cessate il fuoco e si sono stretti la mano. Una forza di pace dell’Onu dovrebbe dispiegarsi lungo i confini, per una fascia di 25 km in territorio eritreo. Ma non è ancora la pace.
Intanto entrambi i paesi si leccano le ferite. Nessuno dei due rilascia cifre attendibili sul costo di questa guerra stupida. Si calcola che abbia fatto circa 100 mila morti e un milione di sfollati. Tutti e due gli stati hanno dato fondo alle proprie risorse per comperare armi e munizioni, bloccando il processo di sviluppo e scoraggiando gli investitori più affezionati. Mentre Addis Abeba spende 2 miliardi di lire al giorno nella guerra, paesi occidentali e organizzazioni umanitarie fanno fatica a chiedere cibo e medicine per salvare milioni di persone che muoiono nel sud dell’Etiopia.

A quando la pace? Sarà un processo complicato. Non sono in gioco i confini maltracciati dalle mappe coloniali, ma la sovranità nazionale, l’egemonia politico-militare regionale e il futuro dei due paesi. L’Eritrea vuole affermare la sua indipendenza a 360 gradi; Addis Abeba continua a sognare la «grande Etiopia», con l’Eritrea legata in qualche modo al proprio destino e uno sbocco al mare.
Benedetto Bellesi

Dalvador Del Molino