CONGO – E sul muro una scatola vuota

Nei «Balcani dell’Africa» gli eserciti si fronteggiano,
soprattutto per accaparrarsi legname e caffè,
oro e diamanti. Difficile raggiungere
il paese ai «non addetti ai lavori»:
non fa eccezione la città di Isiro,
sotto il tiro degli ugandesi. Altrove sono
i rwandesi che non scherzano.
Da mesi è in ballo l’invio di 5.337
«caschi blu» delle Nazioni Unite,
per garantire il «cessate il fuoco».
Ma è solo un «ballo».
I missionari con la gente.

«Finalmente!» dico a padre Giano Benedetti. Decollato dall’aeroporto militare di Entebbe, in Uganda, viaggio con altri missionari della Consolata: i padri Enrico Casali, Celestino Marandu e Simon Tshiani. Sono le ore 15. Destinazione Isiro, nella Repubblica democratica del Congo, occupata dall’esercito dell’Uganda.
«Ti è andata molto bene!»
Giungiamo all’aeroporto di Entebbe alle 5.30 con un taxi-minibus, mentre è ancora notte. Svegliati dal rumore del veicolo, due soldati ugandesi sporgono il capo da una tenda per dire: «Aspettate». Ci dividono una rete e un cancello. Il taxi, carico delle nostre valigie, rimane sul posto.
Mezz’ora dopo, un camion supera il cancello, seguito da padre Celestino, che dichiara: «Ci vorrà tempo a caricare l’aereo». Celestino, tanzaniano, conosce l’iter burocratico per giungere ad Isiro.
Un lampo sul cielo nuvoloso, un tuono fragoroso e la pioggia inonda la campagna. «È una benedizione di Dio» commenta il taxista. Quando cessa di piovere, propone: «Perché non facciamo colazione?». C’è una bettola a due chilometri. Il taxista mangia con appetito uno spezzatino di maiale e banane fritte.
Un nuovo tuono… e le cateratte del cielo si riaprono. Piove anche sul nostro tavolo, mentre ci servono il tè. Padre Enrico sorride divertito, pur non essendo un pivello dell’Africa: conta 5 anni di Tanzania e 26 di Zaire-Congo. Ora vi ritorna, dopo un by pass al cuore e altri gravi problemi di salute. La missione è il suo dna, come pure delle sorelle Emma Piera, Aalda e Simplicia, missionarie della Consolata.
«Adesso ritorniamo all’aeroporto, perché dovreste partire» dice il taxista. «Ecco i piloti» continua per strada, additando una Mercedes con due biondoni russi a torso nudo. Attraversano il cancello; però, un quarto d’ora dopo, ritornano sui loro passi. Un’operazione compiuta tre volte… E l’orologio segna le 12.
Alle 13 appare padre Celestino: «In fretta, si va!». Scarichiamo i bagagli. Il sole dardeggia.
Ai piedi di un aereo-cargo Antonov, un soldato mi ordina: «Apra la valigia». Tremo. Sull’asfalto ribollente compaiono tre salami, una bottiglia di grappa e due pezzi di formaggio. Il militare osserva tutto e solleva un sacchetto di plastica.
– Che cos’è questo?
– Sono grani per confezionare corone del rosario.
– Ah!… Partite pure.
Ma siamo nuovamente bloccati, perché il numero dei passeggeri è diverso da quello notificato: cinque, invece di quattro. L’aereo può trasportare fino a 20 tonnellate, che sono state superate da una persona in più. «Uno deve scendere!» intima secco il comandante dell’aeroporto.
Padre Celestino si apparta con il graduato. Sostano 20 minuti sotto il sole furente, gesticolando, talora separandosi per poi riavvicinarsi… E si va! Nell’Antonov non pressurizzato padre Simon, congolese, mi grida all’orecchio: «Ti è andata molto bene! Io ho aspettato due settimane».
In aereo chi si sistema a cavalcioni di una balestra di Land Rover, chi su uno scatolone di pelati, chi su un sacco di zucchero… Noto anche un borsone di zip e bottoni. E, soprattutto, le medicine per l’ospedale della diocesi di Wamba e dei missionari della Consolata.
DOVE LE BICI SONO CAMION
Isiro, il mattino seguente, casa dei missionari della Consolata. Con la barba di cinque giorni, vorrei radermi. Ma in camera non trovo lo specchio.
«Per favore, c’è uno specchio?» chiedo a padre Rinaldo Do, il superiore. «Scusa, ci siamo dimenticati di importarlo…». Allora rivedo l’Antonov con il borsone di zip. «Qui, se perdi un bottone, o stai senza o te lo importi tu stesso… noleggiando un aereo».
Per non parlare di benzina. I missionari talora riescono ad acquistae qualche fusto dai militari ugandesi, per poi «centellinarla».
Anche monsieur Joseph ha comprato due bidoni di carburante e ha aperto «un distributore» in città. È uno sgabello con, sopra, una tanica mezza piena e una bottiglia vuota a lato come «contatore»: si fermano una-due moto per rifoirsi di tre litri. Sul lato opposto funziona un altro «distributore», gestito da un bambino: vende al dettaglio petrolio per illuminazione domestica, misurandolo con una scatoletta da sardine.
Chi si accaparra qualche fusto di carburante può diventare un commerciante a livello nazionale: lo vende ai rifornitori, che percorrono anche 700 chilometri in bicicletta con quattro taniche da 20 litri. È l’unico mezzo di trasporto anche per capre e maiali.
Un litro di benzina costa 3 milioni di nouveaux zaires (moneta locale), l’equivalente di un dollaro Usa. Questo prezzo risale al maggio scorso; un mese prima la benzina valeva 2.500.000 nouveaux zaires. Il che significa che l’inflazione è alle stelle, con sacchi e sacchi di carta-moneta. «Questa cassa – indica Dario Gramuglia, tecnico nell’ospedale di Neisu – è zeppa di grosse banconote, per un valore complessivo di 15 dollari». La cassa misura 56 centimetri di larghezza e lunghezza e 72 di altezza.
Per 3 milioni di nouveaux zaires si vende una gallina e si acquistano tre pacchetti di sigarette o una birra. Sigarette e birra, made in Rwanda, non è necessario importarle. Ma che lusso con salari da 5 dollari al mese!
«dagli atri muscosi…»
«Per pasqua mi piacerebbe essere a Pawa» confida padre Giano, consigliere generale dei missionari della Consolata, che ha lavorato in quella missione tre anni. «È già programmato» risponde padre Rinaldo. Mi accodo anch’io. Un safari di 52 chilometri in Land Rover, su una strada internazionale, della durata di tre ore. «Perché in Congo non esistono più strade, degne di tale nome».
Lasciamo, dunque, Isiro. La città conserva ancora qualche brandello d’asfalto, ma non c’è luce né acqua. Eppure, fino agli anni ’80, era vivace e festosa, con donne elegantissime, musiche e danze. Vi trovavi di tutto: dal whisky al frac per il gala raffinato. Anche se i voli non erano regolari, l’aeroporto era un viavai di commercianti. Ma il nefasto regime di Mobutu, le angherie dei funzionari pubblici, la guerra di Kabila e l’occupazione dell’Uganda… «Che tristezza, l’altro giorno, quell’aeroporto così sporco e polveroso!» conclude padre Giano.
«Dagli atri muscosi» e «dai fori cadenti» di Isiro emerge la banca, chiusa a tempo indeterminato con una catena arrugginita. Anche i missionari vi depositavano il denaro. Ma, invece di riscuotere qualche interesse, si vedevano continuamente assottigliare la somma. Tutto normale secondo il direttore della banca, che non lesinava il sarcasmo: «Dovreste esserci grati, perché custodiamo con cura i vostri capitali».
Sulla facciata del palazzo di giustizia campeggia la scritta dura lex sed lex. E padre Rinaldo commenta: «È stata proprio la mancata applicazione delle leggi a condurre il Congo-Zaire allo sfacelo».
All’uscita da Isiro, uno stop per il controllo da parte dei soldati ugandesi. Solo una formalità, per fortuna. E riprendiamo il safari.
Il territorio vanta notevoli potenzialità agricole: riso, soia, granoturco, arachidi, fagioli, frutta, come pure cotone e caffè. Negli anni ’60 il Congo produceva 60 mila tonnellate di caffè. Oggi la produzione non supera le 2 mila tonnellate. Sul mercato di Isiro il caffè (già decorticato) viene svenduto agli ugandesi a 800 lire al chilo. «È niente. Però, se protesti, non ti danno neppure questo “niente”»: è lo sfogo amaro dell’unico produttore della zona.
«PREGHIAMO PER LA PACE»
«Ferma, ferma!» grida con affanno padre Rinaldo. A 40 metri, tre soldati «esigono» un passaggio. Sono congolesi alle dipendenze di ugandesi. Hanno camminato sotto il sole molte ore e la loro meta è ancora distante.
Padre Rinaldo, dopo essersi presentato come missionario, li intrattiene con qualche domanda.
– Come stanno i vostri camerati?
– Quali? Ugandesi o congolesi?
– Entrambi.
– Il capitano ugandese non ci paga… Però gli ugandesi sono migliori dei rwandesi, che uccidono la gente, ne estraggono il cervello e lo mangiano mescolato ad erbe bollite.
I rwandesi in Congo sono armati fino ai denti. Nel 1999 il Rwanda investì in armi 141 milioni di dollari. E il Fondo monetario internazionale (così severo sugli sprechi nel sud del mondo) approvò un prestito al regime di Kigali di 33 milioni di dollari…
Sto osservando un soldato dall’aspetto giovanissimo.
– Da quanto tempo fai il militare?
– Da due mesi.
– Perché, invece di fare la guerra, non vai a scuola?
– In Congo non ci sono scuole. E poi, se ci fossero, dovrei solo zappare il campo dei maestri.
– Quanti anni hai?
– Sedici.
La risposta è troppo pronta per essere sincera. Che il ragazzo non abbia più di 12 anni traspare e dal viso e dalla statura. Certamente lo hanno imbeccato: «Ricordati che tu hai 16 anni». Tale infatti è l’età minima per l’arruolamento volontario di minorenni. L’hanno stabilito, il 21 gennaio scorso, le Nazioni Unite con un articolo sottoscritto da 70 nazioni. E ciò per smantellare l’esercito mondiale dei 300 mila bambini-soldato.
Prima di congedarci dal terzetto, padre Rinaldo afferma: «Amici, anche voi soffrite la guerra. Allora preghiamo tutti insieme per la pace».
A due chilometri da Pawa, padre Giano viene riconosciuto da due catechisti: e dire che vi mancava da 17 anni. Deve procedere a piedi, con alle spalle un corteo che l’osanna.
La missione è retta da padre Tarcisio Crestani. Gli consegno «il sacchetto dei grani del rosario», che ha «protetto» grappa e salami.
– Tarcisio, quante corone hai fatto?
– 26 mila in 26 anni di missione.
– Perché non insegni l’arte ad altri?
– Ho tentato varie volte. Ma la gente vuole solo i rosari delle mie mani. Li considera «più benedetti».
Padre Tarcisio è entusiasta del suo lavoro. E precisa: «Ci sono due missioni ad gentes: una dottrinale e una esperienziale. Credo nella prima e cerco di vivere la seconda. Ad gentes: stare con la gente ascoltando e camminando con tutti, magari anche a piedi, specie in tempo di guerra».
Una guerra economica
Ritornato ad Isiro, incontro nuovamente padre Simon Tshiani.
Padre Simon, quale congolese, come giudichi la guerra nel tuo paese?
– È una guerra soprattutto economica. Qui siamo sotto il controllo degli ugandesi: a loro non interessano i nostri problemi politici; essi mirano solo ad impadronirsi del nostro oro.
Ci sono già stati tre «cessate il fuoco». Ma la guerra continua. Perché?
– Tutte le forze in campo dicono di volere la pace, però alle loro condizioni: cioè esigono potere sul Congo, o economico o politico.
E il Congo sarà diviso?
– Questa è la grave minaccia che incombe. Però tutti i congolesi sono nettamente contrari.
In un paese vasto come il Congo, il federalismo può essere la soluzione dei problemi?
– Un governo centrale e unitario, con autonomie regionali, può essere una soluzione. Lo si è detto anche nella Conferenza nazionale, al tempo di Mobutu, per scrivere la nuova costituzione. Poi, nel 1996, le cose sono precipitate con la guerra di Kabila.
Il governo di Kabila è in grado di riprendere in mano il paese e di avere l’appoggio di tutti i congolesi?
– No, perché Kabila non è stato eletto dal popolo e perché è troppo legato alle città di Lubumbashi (con le sue ricchezze) e Kinshasa.
Allora come uscire dall’anarchia?
– Le Nazioni Unite impongano il ritiro delle forze straniere che hanno invaso il paese. Un volta sgombrato il campo, i congolesi devono prendere in mano le sorti del paese rilanciando la Conferenza nazionale con la partecipazione di tutte le forze politiche.
Come missionario della Consolata, ci tengo a dire anche questo: nonostante la guerra, noi continuiamo a lavorare. E «meritiamo» la solidarietà della Caritas italiana, di Missio e di tante persone generose…
Si fa avanti padre Rinaldo e annuncia che venerdì ci sarà l’aereo per il ritorno in Italia.
Ma venerdì non parto e neppure sabato. L’aereo sarebbe arrivato certissimamente domenica, alle ore 7 in punto. Passano le 7, le 8, le 9. A mezzogiorno il simpatico Rinaldo sorride: «Se in cielo comparirà un aereo, partirai». Compare alle ore 18.30.
Mi precipito all’aeroporto, carico la valigia nel piccolo bimotore e siedo. Poi… ritorno nella camera senza specchio di Isiro. «Signori, sono le 19.04! Troppo tardi per il decollo»: sono le parole del comandante.
Troppo tardi per quattro minuti.

Il giorno seguente, in volo verso Roma, ripenso all’aeroporto di Isiro: su una parete spicca una scatola vuota. È un orologio. Ma le lancette si sono arrestate, perché… il tempo si è fermato; poi sono addirittura scomparse, quasi a dire: in Congo il tempo non esiste più.
Intanto, sulla fertile terra rossa di Isiro e dintorni, le donne avanzano con pesanti carichi in testa.

La seconda guerra

u 1996, ottobre. I soldati dell’Alleanza delle forze democratiche di Kabila, sostenute da Rwanda, Burundi, Uganda, Stati Uniti e vari mercenari, iniziano da Uvira la conquista militare dello Zaire di Mobutu.

u 1997, 17 maggio. Le truppe dell’Alleanza occupano la capitale Kinshasa. Kabila si autoproclama capo dello stato. Lo Zaire diventa Repubblica democratica del Congo. Però sono sospesi i partiti. Il 7 settembre Mobutu muore in Marocco: lascia ai familiari 6 miliardi di dollari. Ha depredato il paese per 32 anni.

u 1998, 27 luglio. Kabila, dopo aver ringraziato Uganda e Rwanda, li invita a lasciare il paese. Ma gli ex alleati dichiarano la seconda guerra in Congo (la prima fu contro Mobutu). Kabila resiste, sostenuto da Zimbabwe, Angola e Namibia. I paesi stranieri, presenti in Congo, mirano alle risorse agricole e minerarie del paese.

u 1999, luglio. A Lusaka (Zambia) le parti coinvolte nel conflitto in Congo firmano un accordo di pace che prevede: ritiro delle truppe straniere dal paese, rispetto della sua integrità nazionale, instaurazione della democrazia. Il «cessate il fuoco» non regge. Intanto gli Stati Uniti simpatizzano per l’Uganda e il Rwanda (che però si combattono), mentre la Francia ammicca a Kabila. Gruppi di ribelli congolesi fanno sapere che se, il paese verrà diviso (come si dice), sceglieranno la strada della guerriglia.

u 2000, 14 aprile. Ancora un «cessate il fuoco», firmato a Kampala (Uganda) da tutti i contendenti. Però il 5 maggio, alla periferia di Kisangani, soldati rwandesi e ugandesi si danno battaglia. I combattimenti proseguono nelle settimane successive; viene colpita anche la cattedrale: mille morti, migliaia e migliaia di feriti e numerosi abitanti senza tetto in balia della fame e delle epidemie.
Il 17 giugno il Consiglio di sicurezza dell’Onu intima l’ennesimo «stop» ai due belligeranti e il ritiro di tutte le forze. Ma l’anarchia politico-militare continua.

>b>Gli attori della tragedia

I n Congo la seconda guerra, scoppiata nell’agosto 1998 e tuttora in corso, ha causato numerose vittime. Le cifre sono assai confuse: si va da un minimo di 100.000 morti ad un massimo di 1.700.000. È uno scontro moderno e primitivo ad un tempo: con elicotteri, armi automatiche e aerei da bombardamento, ma anche con rozzi fucili e machete, mentre i soldati (talora ragazzi) sbucano dalla foresta. È pure un conflitto interafricano e mondiale.

p L’esercito di Kabila
conta 70 mila uomini, ma poco addestrati e mal pagati; però è sostenuto dalle seguenti nazioni:
– Zimbabwe (7-11mila soldati); la ricompensa è l’accesso alle miniere di diamanti;
– Namibia, che (sull’«esempio dello Zimbabwe») ha inviato 2 mila uomini;
– Angola: è con Kabila per debellare i guerriglieri dell’Unita (un tempo protetti da Mobutu), come pure per rendere più operativa la propria compagnia petrolifera «Sonangol-Congo»;
– Sudan: offre a Kabila aerei militari per bombardare i ribelli congolesi nel nord-est; ma il governo di Khartum smentisce.

p Il fronte contro Kabila
è più contradittorio; vi militano:
– tre gruppi di ribelli congolesi (10 mila soldati di Bemba, 10-15 mila di Ilunga e 4 mila di Wamba); Bemba, Ilunga e Wamba sono «signori della guerra»;
– i guerrieri congolesi mayi-mayi: operano nel Kivu e, protetti da un’acqua magica, si ritengono invulnerabili;
– le milizie degli hutu (diverse migliaia): già responsabili di massacri di tutsi in Rwanda nel 1994, oggi hanno in mano le miniere di diamanti di Mbuji Mayi;
– 9 mila soldati ugandesi: affermano di «essere costretti» a difendere le frontiere del loro paese; in realtà sono in Congo per accaparrarsi i suoi beni; appoggiano Wamba e Bemba;
– 10 mila soldati rwandesi: anch’essi «devono» proteggere il loro paese dai fuggiaschi hutu che hanno trovato rifugio in Congo; ai rwandesi si ascrivono saccheggi di chiese e atti di cannibalismo; appoggiano Ilunga.
Lo stato di anarchia in Congo raggiunge l’apice con gli ugandesi e i rwandesi che, mentre combattono Kabila, sono pure ai ferri corti fra loro. Di qui gli scontri a Kisangani, città strategica per lo smercio di preziosi.

I n questo tragico caos, l’8 maggio scorso la Segreteria di stato del Vaticano ha inoltrato alle Nazioni Unite, all’Organizzazione per l’Unità africana, all’Unione europea, alla Corte internazionale di giustizia… un documento, redatto a Roma da otto vescovi congolesi.
Il documento denuncia l’aggressione di truppe straniere, ritenuta «una nuova colonizzazione vergognosa»; sollecita l’intervento serio ed efficace della comunità internazionale, ma non con la vendita di armi. Al riguardo, sotto accusa sono Francia, Italia, Gran Bretagna, Belgio, Stati Uniti e Israele.
I vescovi, infine, stigmatizzano il tentativo di imbrigliare la chiesa «nelle ideologie delle diverse fazioni in guerra e di impedire ad alcuni pastori di esercitare il loro ministero». Il riferimento è a monsignor Emanuel Kataliko, vescovo di Bukavu, al quale i ribelli di Ilunga impediscono di rientrare nella sua diocesi.

Francesco Beardi

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