Tutti in gara nel mondo

Bloccata dalla rivoluzione francese,
l’evangelizzazione riprende con slancio mai visto prima.
È arrivato finalmente il tempo di evangelizzare l’Africa,
l’Australia e i più sperduti arcipelaghi dell’Oceano Pacifico.
Tutta la chiesa è mobilitata, papi e vescovi,
religiosi di antica e nuova istituzione, preti e laici.
I laici, soprattutto, uomini e donne senza frontiere,
costituiscono la grande novità della missione.
Un’altra sorpresa: i popoli evangelizzati
cominciano a diventare evangelizzatori.

Cattolica, cioè universale

Mentre i vescovi francesi si piangono addosso, recriminando sui 25 anni di rivoluzione e d’impero, e parlano di «missione intea», i semplici fedeli sono pervasi da un contagioso slancio missionario. Ogni sera migliaia di famiglie si raccolgono attorno al fuoco per leggere le Lettere edificanti e curiose di Chateaubriand: un libro di racconti missionari ristampato per tre volte tra il 1803 e il 1824. Altrettanto successo riscuotono le Nuove letture edificanti delle missioni della Cina e delle Indie, pubblicate dalle Missioni estere di Parigi.
Simbolo di tale fervore missionario è una ventenne lionese, Paolina Jaricot, che spende la sua vita per raccogliere preghiere e aiuti finanziari per i missionari, dando vita a un’associazione che nel 1822 si chiamerà «Opera della propagazione della fede». Le pubblicazioni di tale associazione si diffondono in tutta la Francia e dilagano in Svizzera, Italia, Germania, Inghilterra. Altri organismi del genere sorgono con lo scopo di coinvolgere nell’evangelizzazione tutto il popolo cristiano: l’Opera di Pietro Apostolo (1889) raccoglie fondi per sostenere e formare il clero indigeno; l’Opera dell’infanzia missionaria è aperta a tutti i fanciulli cristiani, perché siano educati allo spirito missionario e alla solidarietà mondiale.
A tale zelo di retroguardia, si accompagna lo slancio di coloro che vogliono operare in prima fila. Dall’inizio del secolo XIX ai nostri giorni sono nate in tutto il mondo cattolico centinaia di famiglie religiose, maschili e femminili, esclusivamente orientate all’azione missionaria; mentre altrettante sono le congregazioni che, nate per rispondere ai problemi locali, aprono le porte verso i territori ancora in attesa dell’annuncio del vangelo. Nel XX secolo si moltiplicano le associazioni laicali e di volontariato, che si affiancano al lavoro missionario con opere di testimonianza cristiana e opere di solidarietà e promozione umana.
La rinascita della missione è ispirata e sostenuta dai grandi papi che si sono succeduti negli ultimi due secoli, a cominciare da Pio VII, che risuscita la Compagnia di Gesù (1814) e riorganizza Propaganda Fide (1817). Ma è con Gregorio XVI, il primo «papa missionario» che avviene il rilancio dell’evangelizzazione. Già prefetto di Propaganda quando era cardinale, il papa promuove un’evangelizzazione a tutto campo, con invio di missionari in tutti i continenti, moltiplicando vicariati e diocesi, istituendo i primi seminari per la formazione di sacerdoti indigeni.
I successori continuano sulla sua scia. Leone XIII scrive sei lettere missionarie. Le direttive papali più conosciute sulla missione sono le encicliche papali del XX secolo. Benedetto XV, nella Maximum illud (1919), presenta la missione come primo dovere della chiesa, ne rifiuta l’europeizzazione e ne reclama l’indipendenza. Nel 1926 Pio XI va ben oltre il suo predecessore, sia con la Rerum Ecclesiae, sia con l’ordinazione dei primi 6 vescovi cinesi, a cui seguiranno quelli giapponesi, indocinesi, africani. È un evento di portata storica, che segna l’avvento ufficiale degli «indigeni» alla guida delle chiese locali, la promozione civile dei popoli «di colore» e l’avvio spontaneo e giornioso della decolonizzazione, che decenni dopo le grandi potenze dovranno accettare per forza, costrette da guerre e rivolte.
L’enciclica Fidei donum (1957) di Pio XII ricorda ai vescovi del mondo che essi sono tutti responsabili dell’evangelizzazione e li invita a rispondere a tale responsabilità inviando i loro preti alle chiese più bisognose. Nasce un nuovo tipo di missionario: il sacerdote diocesano «Fidei donum» a servizio temporaneo e specifico delle missioni. Il concetto di missione si arricchisce di una nuova dimensione, diventando anche collaborazione e servizio reciproco tra chiese sorelle.
Il Concilio Vaticano II sancisce la nuova coscienza missionaria maturata nell’ultimo secolo: cioè l’evangelizzazione è un dovere di tutti i cristiani e di tutte le istituzioni ecclesiali. Le encicliche Evangelii nuntiandi (1975) di Paolo VI e la Redemptoris missio di Giovanni Paolo II sviluppano le idee del Concilio e legano definitivamente l’evangelizzazione alla promozione umana, dello sviluppo, della giustizia e della pace.

L’Africa diventa cristiana

Un giorno del 1800, Anna Maria Javouhey vede la sua camera affollarsi di faccette nere imploranti aiuto. La visione non si cancellerà mai più dalla memoria. Fonda le suore di San Giuseppe di Cluny; nel 1817 ne manda alcune in Senegal; poi essa stessa le raggiunge: con sorpresa, riconosce per le strade di Saint Luis le stesse facce sognate 22 anni prima.
Così ricomincia la storia dell’evangelizzazione in Africa. Madre Javouhey lotta con coraggio contro i bianchi che calpestano i diritti degli africani. «I neri – scrive – sono buoni, semplici e non hanno altra malizia se non quella imparata dai bianchi». Fonda scuole in Senegal e Guinea e si adopera per la formazione del clero indigeno. Nel 1840 ha la gioia di assistere all’ordinazione di tre preti senegalesi.
Nella stessa direzione si muove Francesco Libermann, anche se non metterà mai piede nelle missioni. Nel 1841 due creoli di Réunion gli parlano della triste situazione degli schiavi neri: rimane così sconvolto che mette subito mano alla fondazione della congregazione del Cuore Immacolato di Maria (confluita nel 1848 nella Società dello Spirito Santo) e comincia a inviare missionari a evangelizzare Guinea, Liberia, Sierra Leone e Gabon, combattere la schiavitù e formare il clero locale.
Le prime spedizioni sono un disastro: i missionari cadono come mosche, falciati da malaria e febbre gialla. «Non voglio mandare i miei figli al macello – si tortura padre Libermann -. Ma non posso abbandonare milioni di africani che non hanno mai sentito la buona notizia del Signore». Anche i missionari della Società delle Missioni Africane di Lione (Sma), guidati dallo stesso fondatore, mons. Marion de Brésillac, vicario apostolico della Sierra Leone, sono stroncati tutti dalla micidiale febbre gialla (1859).
Ma l’epopea missionaria continua, si estende alle isole dell’Oceano Indiano, si attesta lungo le coste orientali africane e penetra gradualmente nel cuore del continente. Un centinaio di missionari perdono la vita nel vicariato nell’Africa Centrale (dall’Egitto ai Grandi Laghi), finché Daniele Comboni progetta di «salvare l’Africa con gli africani», riavvia la missione nel Sudan (1872) e ne diventa il primo vescovo. Liberati schiavi e schiave, li coinvolge nel lavoro missionario; alcuni di essi diventano sacerdoti e religiosi.
Una ex schiava sudanese, Giuseppina Bakhita, diventerà religiosa e sarà beatificata nel 1992.
L’evangelizzazione di questa regione è segnata da persecuzione e martirio. Tra il 1882 e il 1889, nella bufera scatenata dal movimento messianico islamico del mahdismo, missionari e missionarie sono ridotti in schiavitù; molti catechisti e sacerdoti africani sono martirizzati. Ma l’opera missionaria continua; dal Sudan si estende all’Uganda.
Grande stratega dell’evangelizzazione è pure il cardinale Lavigerie, fondatore dei missionari per l’Africa (padri e suore bianche). Anche lui vuole «salvare l’Africa con gli africani». Invia i suoi missionari su due fronti; l’uno parte da Algeri, attraversa il deserto e penetra nelle regioni subsahariane. Dopo due spedizioni massacrate dai tuareg, i padri bianchi si attestano a Bamako e Tumbuctù (Mali).
L’altro fronte, nel 1878, da Bagamoyo (Tanzania) si dirige nella regione dei Grandi Laghi. Un gruppo di padri penetra nell’Alto Congo; un altro evangelizza il regno dei Baganda, nell’Uganda meridionale: nasce la chiesa ugandese in un battesimo di sangue: negli anni 1885-87 vengono uccisi oltre 80 cristiani; 22 di essi, arsi vivi insieme a un gruppo di fratelli protestanti, saranno canonizzati nel 1964. Sono i primi martiri della chiesa africana dei tempi modei.
Nel 1839 il lazzarista Agostino de Jacobis entra clandestinamente in Etiopia; tra infinite persecuzioni da parte del clero copto pone le basi della chiesa cattolica in Abissinia. Nel 1846 un altro grande missionario, il cappuccino Guglielmo Massaia evangelizza i galla, nel sud del paese. La loro opera sarà continuata dai lazzaristi e cappuccini francesi, ai quali si uniranno i missionari della Consolata.
Nel 1850, sfidando l’opposizione calvinista, gli Oblati di Maria Immacolata iniziano l’evangelizzazione degli zulu e sotho del Sudafrica. Nel 1880 arrivano i missionari di Mariannhill. Nello stesso anno la prima missione dei verbiti tedeschi in Namibia è distrutta dai protestanti.
Nel 1879 Propaganda affida ai gesuiti la missione nella regione della Zambesia. Negli anni seguenti i padri bianchi creano la missione del lago Niassa; una parte del vicariato sarà affidato ai monfortani.
Nel 1887 i padri belgi di Scheut gettano le basi cristiane nel Congo, sacrificando il 30% dei missionari.
Nel 1890 mons. Le Roy, della congregazione dello Spirito Santo, celebra la prima messa alle pendici del Kilimangiaro, a 3.600 metri di altitudine. È il primo annuncio del vangelo in Kenya. Dodici anni dopo arrivano i missionari della Consolata, seguiti dai padri di Mill Hill.
Siamo ormai in piena colonizzazione dell’Africa, sanzionata dalla Conferenza di Berlino (1885). L’evangelizzazione è in qualche modo condizionata dalla politica delle potenze coloniali; al tempo stesso ne è favorita, come in una specie di pax romana, che consente di estendere l’evangelizzazione a tutta l’Africa. Nel 1920 vi lavorano 31 istituti religiosi maschili, 14 dei quali nuovi di zecca, 24 istituti femminili e quasi 10 mila catechisti locali.
Salvo il periodo della seconda guerra mondiale, l’evangelizzazione continua la sua accelerazione per tutto il secolo XX. Nascono le chiese locali con vescovi e clero indigeno; inizia quel processo di inculturazione che deve sviluppare una chiesa cristiana e africana al tempo stesso. Soprattutto gli africani cominciano a diventare missionari di se stessi.

Asia: continente di martiri

A lll’inizio del XIX secolo la chiesa cinese vive ancora in clandestinità; le persecuzioni fanno molti martiri: nel 1815 mons. Dufresse, vicario apostolico di Seciun, è decapitato, 4 preti cinesi strangolati, due muoiono in prigione; nell’Honan i padri Clet e Giovanni di Triora subiscono la stessa sorte (1820); nel 1840 padre Gabriele Perboyre muore crocifisso e strangolato.
Ritorna un po’ di pace quando le potenze europee costringono gli imperatori della Cina a firmare trattati e convenzioni diplomatiche. In pochi anni da tutta l’Europa arrivano centinaia di missionari, che fanno a gara nel costruire ospedali, scuole, seminari e università. Ma le persecuzioni non si placano. Altri missionari sono vittime di guerre civili e rigurgiti xenofobi: i padri Chapdelaine (1856) e Néel (1862) sono massacrati insieme a molti cristiani. Nel 1900 la società segreta dei boxers fa strage di circa 300 mila stranieri, tra i quali una cinquantina di missionari, e di 30 mila cristiani, un centinaio dei quali preti e religiose: 86 di essi (66 cinesi e 20 missionari stranieri) saranno beatificati tra il 1946 e il 1955.
Le persecuzioni aprono gli occhi ai missionari: non si può predicare il vangelo all’ombra delle bandiere europee; bisogna «farsi cinesi coi cinesi». E fanno pressione su Roma, perché riveda le sue posizioni: 6 diocesi e vicariati sono affidate ai cinesi (1926); si ridiscute la questione dei riti e la proibizione viene revocata (1939). «Decolonizzazione» della chiesa e sangue dei martiri fanno esplodere l’evangelizzazione: i 720 mila fedeli del 1900 diventano un milione e mezzo nel 1912, due e mezzo nel 1930, quattro nel 1949; così pure i preti: in mezzo secolo passano da 1.375 (400 cinesi) a 5.725, oltre la metà dei quali sono cinesi.
Negli ultimi 50 anni la chiesa è ridotta di nuovo al silenzio dal regime comunista; entra in clandestinità e continua a scrivere la storia dell’evangelizzazione con lacrime e sangue: oggi la popolazione cattolica è più che triplicata (circa 10 milioni); i seminari ufficiali e clandestini sono pieni di persone che vogliono consacrarsi a Dio e alla missione.

Anche in Vietnam la missione si sposa col martirio. Fino al 1800, oltre 30 mila cristiani hanno perso la vita a causa della fede. Il nuovo secolo si apre con i migliori auspici, nonostante la penuria di missionari. Ma a partire dal 1833 esplode un’altra persecuzione: le chiese vengono distrutte; vescovi e missionari sbattuti in prigione, dove alcuni vi muoiono di stenti, altri ne escono per essere decapitati o strangolati. I cristiani sono obbligati a calpestare il crocifisso: le loro teste cadono a decine di migliaia.
Un altro periodo di tolleranza. Ma nel 1857 il massacro riprende più violento e continua per una trentina d’anni: 115 preti e 100 mila cristiani vietnamiti muoiono per la fede. Di queste schiere di martiri, 117 vengono canonizzati nel 1988.
In mezzo secolo di pax gallica (il Vietnam diventa protettorato francese) l’evangelizzazione riprende col solito slancio. Dopo la prima guerra mondiale arrivano numerosi missionari e missionarie di paesi e congregazioni differenti; si moltiplicano le opere di carità e promozione umana; fioriscono le congregazioni religiose locali, comprese quelle di vita contemplativa; la chiesa è vietnamizzata.
Ma una serie di guerre coloniali, sfociate nell’occupazione comunista su tutto il paese, frenano nuovamente l’espansione missionaria. Eppure il numero dei candidati al sacerdozio è migliaia di volte superiore a quello ammesso dal governo nei seminari autorizzati. Invece di essere un ostacolo, la persecuzione sta divenendo un’occasione per far scoprire ai giovani nuove forme (laicali) di consacrazione, più facili a sfuggire il controllo governativo e più incisive e capillari per la testimonianza e l’evangelizzazione del paese.

Negli ultimi due secoli l’evangelizzazione ha raggiunto tutte le nazioni asiatiche. I cattolici in Asia aumentano del 4,5% l’anno, superando i 101 milioni. Su 3,4 miliardi di asiatici essi sono una minoranza, ma viva e dinamica.
Tirando le somme della storia, si può affermare che la chiesa in Asia è quella che ha dato più martiri in assoluto: oltre 300 mila in Vietnam nel secolo XIX; almeno 30 mila in Cina, durante la rivoluzione dei boxers (1900) e un numero incalcolabile nei 50 anni di dittatura comunista; decine di migliaia in Corea tra il 1801-83; aggiungendo le schiere di martiri sotto la persecuzione islamica di tartari e turchi e quelli del Giappone, l’esercito supera il milione.
Il numero dei martiri continua a crescere ogni anno in varie parti dell’Asia: Filippine, Timor Est, Indonesia, India per citare gli esempi più clamorosi, dove i cristiani sono perseguitati e uccisi per la loro fedeltà ai valori del vangelo.

Il vangelo in Australia e Oceania

N el XIX secolo viene aperto un campo nuovo per l’evangelizzazione: il continente australiano e quel pulviscolo di isole chiamato Oceania, che si estende per decine di migliaia di chilometri nell’immenso Oceano Pacifico. Favoriti dalla supremazia marittima inglese, i protestanti vi lavorano da alcuni decenni, quando arrivano i primi missionari cattolici; ma recuperano subito il tempo perduto con profusione di sudore, lacrime e sangue.
Tra difficoltà enormi, dovute alle distanze incolmabili, isolamento, mancanza di comunicazione, clima malarico, ostilità degli indigeni, lingue e culture diversissime, concorrenza protestante e ostacoli frapposti dalle varie autorità coloniali, i missionari scrivono pagine d’oro nella storia dell’evangelizzazione. Nell’impossibilità di leggerle tutte, ne sfogliamo alcune tra le più esaltanti.

Appena diventata possedimento inglese (1787), l’Australia è usata come colonia penitenziale per condannati politici, un terzo dei quali sono cattolici. Tra i confinati, un giorno arrivano tre preti irlandesi. Uno di essi, James Dixon, ottiene di fare il cappellano del penitenziario: il 5 maggio 1803 viene celebrata la prima messa con un calice di stagno. Rimpatriati i tre irlandesi, per 30 anni il continente rimane riserva di caccia degli anglicani, interdetto ai preti «papisti».
Nel 1819 Roma invia il cistercense Geremia O’Flynn come prefetto apostolico dell’Australia e Tasmania. Dopo poco tempo di lavoro clandestino, il missionario è scoperto, inteato e rispedito al mittente. La notizia fa scandalo. Il parlamento londinese consente che due preti si prendano cura dei cattolici dell’isola. Nel 1829 viene proclamata la libertà religiosa. Ma solo nel 1834, il benedettino inglese mons. Béde Polding può stabilirsi nel vicariato; otto anni dopo diventerà arcivescovo di Sydney.
In coincidenza con un forte flusso migratorio, attirato dalla scoperta delle miniere d’oro, arrivano maristi e benedettini francesi. La popolazione cattolica si fa sempre più consistente. In 30 anni vengono create una decina di diocesi. Nasce una chiesa con caratteri europei. Parecchi missionari cercano di evangelizzare gli aborigeni; ma, per oltre un secolo, i risultati non sono entusiasmanti.

Più incoraggiante, ma non meno difficile, si presenta l’evangelizzazione degli indigeni sparpagliati negli innumerevoli arcipelaghi dell’Oceano Pacifico. Nel 1827 i missionari di Picpus arrivano nelle Hawaii, l’arcipelago settentrionale della Polinesia. Dopo quattro anni di concorrenza con i fratelli protestanti, sono presi e sbarcati sulla costa della Califoia con due bottiglie d’acqua. Toano nel 1837. Dalla Francia partono nuovi rinforzi, ma la nave è inghiottita dall’oceano insieme a 7 preti, 7 fratelli, 10 suore e lo stesso vicario apostolico.
Arrivano altre congregazioni religiose e l’evangelizzazione procede più speditamente. Il più famoso dei missionari di Picpus è padre Damiano, l’apostolo dei lebbrosi dell’isola di Molokai.
Un secondo fronte dei padri di Picpus è aperto nella Polinesia meridionale. Nel 1833 si stabiliscono nelle isole Gambier, abitate da cannibali, terrore dei naviganti. I missionari vi ottengono grandi successi: nel 1835 si contano già 4 mila battezzati. Nelle isole Marchesi, invece, la lotta contro cannibalismo, idolatria e poligamia dura oltre un secolo: nel 1950 tutta la popolazione dell’arcipelago è cattolica.
Non meno faticosa è l’evangelizzazione di Tahiti, l’isola più importante dell’arcipelago polinesiano: più volte cacciati dagli intrallazzi tra protestanti e autorità francesi, i missionari di Picpus riescono a spuntarla ed estendono gradualmente l’evangelizzazione alle isole circostanti.

Nel 1838 i maristi arrivano nella Polinesia. Li guida mons. Pompallier, che si stabilisce nella Nuova Zelanda. La comunità cattolica è costituita da coloni irlandesi; ma è subito avviata l’evangelizzazione dei maori. Intanto padre Battaion converte tutta l’isola di Wallis e Francesca Perron, laica missionaria, getta le basi di una congregazione femminile locale. Pietro Chanel lavora per tre anni nell’isola Futuna, finché viene martirizzato (1841). Due anni dopo tutti gli isolani diventano cristiani.
Nel 1842 i maristi raggiungono le isole della Tonga; l’anno seguente la Nuova Caledonia, dove fratel Biagio Marmoiton viene massacrato; un anno dopo le Figi; nel 1845 Samoa. Per 40 anni i pionieri subiscono un martirio incruento: navigano senza posa da un’isola all’altra, piantando croci e nulla più. Nel 1902 nell’arcipelago ci sono solo 3 mila battezzati; 50 anni dopo sono quasi 30 mila e i preti indigeni evangelizzano altre isole dell’Oceania.

Nel 1844 Roma affida ai maristi anche la Micronesia. Mons. Epalle approda con 7 preti e 6 fratelli nelle isole Salomone. Appena sbarcati, il vescovo viene assassinato; 4 missionari sono divorati dai cannibali; gli altri si salvano con la fuga. Il vicariato passa ai missionari italiani del Pime, ma i risultati non cambiano: Giovanni Mazzucconi viene ucciso nell’isola di Woodlark (1855). Solo nel 1898 l’evangelizzazione delle isole Salomone riprende con i maristi, aiutati da catechisti indigeni delle isole Figi e Samoa.
Nel 1881 Propaganda affida ai missionari del Sacro cuore di Issoudun le grandi isole della Nuova Guinea o Papuasia e gli arcipelaghi adiacenti. Qui l’evangelizzazione procede più speditamente che altrove.

Agli inizi del XX secolo, fatta eccezione per la Papuasia, tutto il quinto continente è convertito al cristianesimo dalle varie confessioni. Ai pionieri del secolo precedente (maristi, cappuccini, padri di Picpus e d’Issoudun, verbiti, Pime, ecc.) si è aggiunta un’incalcolabile schiera di missionari di varie congregazioni: gesuiti, Mill Hill, pallottini, salesiani, passionisti, monfortani, francescani, preti diocesani, congregazioni di fratelli e molte congregazioni religiose.
Ne è nata una chiesa ricca di risorse locali (clero, religiosi e religiose, laici impegnati), con una storia di santità e sangue, non solo «straniero»: Peter To Rot, catechista in Papua Nuova Guinea, avvelenato a 33 anni, e Mary MacKillop, suora australiana, fondatrice della congregazione di San Giuseppe e del Sacro Cuore, beatificati nel 1995.

I GRANDI MISSIONARI

Guglielmo Massaia (1809-1889). Cappuccino, nel 1846 è vicario apostolico dei galla (Etiopia). Peripezie, persecuzioni e successi sono raccontati nei 12 volumi de «I miei 35 anni di missione nell’Alta Etiopia». Cardinale nel 1884.

Agostino de Jacobis (1800-1860). Lazzarista, vicario apostolico dell’Abissinia (1839), è consacrato vescovo dal Massaia (1849). Apostolo infaticabile è maestro di missionari, affronta enormi fatiche, sacrifici e persecuzioni. Beatificato nel 1935.

Giuseppe Faraud (1823-1890). Oblato di Maria Immacolata, primo vicario apostolico del Mackenzie, sviluppa e consolida le missioni tra i montagnesi del nord-ovest canadese.

Melchior de Marion Bresillac (1813-1859). Prete delle Missioni estere, è inviato in India nel 1842 e diventa vescovo di Coimbatur. Nel 1856 fonda la Società per le missioni africane (Sma) e parte per la Sierra Leone, dove muore di febbre gialla.
Damiano de Veuster (1840-1889). Della congregazione dei Sacri Cuori, a 23 anni parte per le Hawaii, si mette a servizio dei lebbrosi e muore consumato dalla carità e dalla lebbra. Beatificato nel 1995

Pier Luigi Maria Chanel (1803-1843). Marista, martirizzato nell’isola di Futuna (Oceania). Canonizzato nel 1954.

Giovanni Cagliero (1838-1926). Salesiano, in Argentina nel 1875, evangelizza la Patagonia. Nel 1904 è delegato apostolico in Costarica, Nicaragua e Honduras. Cardinale nel 1915.

Charles Lavigerie (1825-1892). Vescovo di Nancy, poi di Algeri (1867), fonda i missionari e missionarie per l’Africa (padri bianchi e suore bianche). Amico dei musulmani, difensore degli schiavi, apostolo degli africani, formatore di apostoli.

Daniele Comboni (1831-1881). Prefetto apostolico di Karthum, fondatore dei missionari per l’Africa e pie madri della Nigrizia. Combatte la schiavitù e promuove il clero locale per «salvare l’Africa con l’Africa». Proclamato beato nel 1996.

Gabriele Leperbiyre (1802-1840). Lazzarista, in Cina dal 1835. Tradimento, arresto, giorno e ora della morte in croce lo avvicinano alla passione di Cristo. Canonizzato nel 1996.

Simeone Lourdel (1835-1890). Padre bianco, primo missionario in Uganda, formatore di martiri, è venerato dagli ugandesi come loro «padre nella fede».

Giovanni Mazzucconi (1826-1855). Missionario del Pime in Oceania: viene trucidato, dopo soli tre anni di apostolato, nell’isola di Woodlark. Beatificato nel 1984.

Teofano Venard (1829-1861). Delle Missioni estere, apostolo del Tonchino: martirizzato nel 1861 e beatificato nel 1909.

Pierre-Jean de Smet (1801-1873). Gesuita belga, missionario tra gli indiani degli Stati Uniti, ne difende i diritti contro le invasioni e gli stermini operati dai bianchi.

MISSIONE AL FEMMINILE

La storia missionaria del XIX-XX secolo è più che mai tinta di rosa. Le figure che presentiamo sono solo un simbolo delle migliaia di donne che hanno dato la vita nell’eroica testimonianza di amore e santità.

Anne Marie Javouhey (1779-1851). A 15 anni nasconde i preti «non giurati». Nel 1806 fonda le suore di San Giuseppe di Cluny e nel 1817 le invia in Senegal e Réunion. Missionaria in Senegal e Guinea, si spende nell’aiutare gli africani. Re Luigi Filippo la definisce «un grande uomo». Beatificata nel 1950.

Filippina Duchesne (1769-1852). Durante la rivoluzione aiuta prigionieri, malati e moribondi. Entrata nella Società del Sacro Cuore, nel 1818 parte per il Missouri (Usa), fonda conventi e scuole per bianchi, neri e indiani. Beatificata nel 1940.

Teresa di Gesù (1873-1897). Carmelitana di Lisieux. Offre la sua breve vita per i missionari. Patrona delle missioni.

Francesca Saverio Cabrini (1850-1917). Fondatrice delle missionarie del Sacro Cuore, sogna la Cina. Leone XIII le indica gli emigrati italiani in America. Raggiunge gli Usa nel 1889; dissemina nelle tre Americhe 67 case religiose, innumerevoli scuole, ospedali, collegi, orfanotrofi, laboratori, ospizi per anziani. Canonizzata nel 1952, è patrona degli emigranti.

Katherine Drexel (1858-1955). Fondatrice delle suore del Santo Sacramento, spende la vita per l’integrazione di neri e indiani nella società Usa, fondando per loro scuole e l’università «Saverio» di New Orleans. Canonizzata nel 2000.

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