Fino al favoloso Catai

Lotta tra chiesa e potere politico;
minacce dell’islam e dei mongoli;
convulsioni ecclesiali intee…
Nonostante tutto si fa strada un modello
di chiesa più evangelica e più missionaria.
Nasce un nuovo stile di evangelizzazione
che si spinge fino agli estremi confini del mondo
allora conosciuto: il continente cinese
o Catai, come si diceva a quei tempi.

Voglia di riforma

L’abuso imperiale di conferire cariche ecclesiastiche produce effetti deleteri nella cristianità. La chiesa è asservita al potere politico; corruzione e mercanteggio di ordini sacri ne avvelenano la vita; vescovi e abati, con immense proprietà fondiarie, si comportano più da signori feudali che da guide spirituali. Dall’alto e dal basso soffiano venti di riforma.
Gregorio VII, diventato papa nel 1073, emana leggi severissime per stroncare simonia e clerogamia e per strappare all’imperatore il diritto di nominare gli ecclesiastici alla guida delle comunità cristiane. È uno scontro duro, conosciuto come «lotta per le investiture».
Dal basso la voglia di una chiesa più santa si fa strada anche tra la gente di ogni strato sociale. Nascono vari movimenti popolari: alcuni vogliono riformare la chiesa dal di fuori, con ribellione e fanatismo; altri cercano di cambiare la comunità cristiana dal di dentro, con la predicazione del vangelo e la testimonianza di vita evangelica. Grandi santi riformano diocesi e monasteri, rinnovando la vita del clero secolare e dei gloriosi ordini religiosi.
I movimenti popolari danno origine a una grande fioritura di nuove famiglie religiose, con spiccato carattere missionario, come gli ordini mendicanti dei frati minori, fondati da Francesco d’Assisi nel 1210, e dei predicatori o domenicani, nati nel 1215 per opera di Domenico di Guzman.
In una chiesa ancora tanto credula di non poter svolgere la sua missione senza l’appoggio della potenza, ricchezza e prestigio, i due ordini predicano e praticano valori rivoluzionari: povertà, umiltà, frateità. Entrambi hanno uno sviluppo strepitoso: dopo un secolo di vita i francescani contano 1.400 case e 30 mila frati; i domenicani 600 case e 10 mila religiosi. Ma ancor più impressionante è il ruolo che essi svolgono nell’evangelizzazione, sia per l’organizzazione metodica della missione che per la formazione regolare e continua del personale missionario.

Voglia di crociate… pacifiche

Quando nel 1076 i turchi occupano e devastano Gerusalemme, si crede che la fine del mondo sia vicina. Papa Urbano II lancia un appello a tutta la cristianità per la liberazione dei luoghi santi, la difesa della chiesa orientale dall’espansione musulmana e, magari, convertire a Cristo i saraceni. Un nuovo movimento di entusiasmo «missionario» esplode in Francia e contagia tutti i paesi europei.
Dal 1095 al 1270 otto grosse spedizioni militari o «crociate» si riversano in Oriente, facendo un buco nell’acqua: i luoghi sacri rimangono in mano islamica; le relazioni con la chiesa orientale sono avvelenate più che mai; di conversioni dei saraceni neppure l’ombra. Solo la Spagna è in gran parte liberata dal dominio islamico.
Stanchi di scannarsi a vicenda, dopo oltre sei secoli di «guerre sante», musulmani e cristiani scendono a compromessi. Nuove strade e relazioni tra Oriente e Occidente sono aperte a navigatori, armatori, commercianti e missionari.
Di fronte al fallimento delle armi, tra gli ordini mendicanti si fa strada l’idea di organizzare crociate «pacifiche». Il dovere di convertire i non cristiani è così forte che i missionari non arretrano neppure di fronte alla prospettiva del martirio.
Quando i superiori chiedono volontari da inviare tra i saraceni, i frati si offrono piangendo dalla commozione, come testimonia il famoso «capitolo delle lacrime» dei domenicani (1255).
Anche negli ordini di vita claustrale il dovere missionario è sentito con impellenza: nel 1245 i cistercensi cominciano a recitare ogni giorno sette salmi «secondo le intenzioni dei francescani e domenicani, mandati dal signor papa nei paesi più lontani a propagare la fede».
Francesco per primo dà l’esempio del nuovo stile missionario: armato solo di fede e crocifisso, va a convertire i musulmani marocchini (1214). Una malattia lo rimanda a casa; ma riparte per l’Egitto e riesce a incontrare il sultano El Kamil, proprio mentre i crociati assediano Damietta (1219). Il sultano non si converte, ma prova tanta tenerezza e simpatia che permette al missionario di visitare tutti i luoghi santi prima di tornare in Italia.
Altri francescani sono inviati in Tunisia, Marocco, Palestina, Turchia, Mesopotamia a convertire scismatici e musulmani. Altrettanto fanno i domenicani in Grecia, Cipro, Persia, Ungheria, Ucraina, Russia e paesi baltici. Ma le conversioni dei saraceni sono rare; i missionari possono circolare liberamente nel paese, al pari dei mercanti, ma non predicare in pubblico; chi si azzarda può finire male. Non pochi missionari d’ambo gli ordini finiscono martiri in Marocco e Tunisia.
Qualche successo è ottenuto, invece, nel riavvicinamento con varie chiese orientali, alcune delle quali rientrano nella comunione con Roma, come i maroniti del Libano e vari gruppi di armeni, giacobiti e nestoriani.

Nasce la scienza missionaria

«B isogna scrivere libri che foiscano ai missionari argomenti per convertire le nazioni barbare, pagani, saraceni, giudei, eretici, scismatici e quanti altri sono fuori della chiesa» esorta Umberto da Romans, generale dei domenicani. Rispondono Tommaso d’Aquino (1225-1274) con la Summa contro i gentili, Argomenti della fede contro saraceni, greci e armeni e varie opere; Raimondo Martini, con Combattimento della fede contro mori e giudei; Guglielmo da Tripoli, missionario in terra santa, con lo Stato dei saraceni; Ricoldo da Montecroce con un vademecum zeppo di consigli per i missionari. Un altro generale dei domenicani, Raimondo di Peñafort, fonda due collegi per lo studio delle lingue orientali e la formazione dei missionari.
Tra i francescani, Ruggero Bacone (1210-1294) scrive l’Aspetto geografico della terra santa e Raimondo Lullo (1234-1315) il Trattato sulla maniera di convertire gli infedeli e altri numerosi trattati missionari.
Quest’ultimo, soprattutto, è considerato un fondatore della missiologia. Insiste sulla formazione enciclopedica dei missionari: lingue, soprattutto, e poi usi e costumi, ambiente e cultura, filosofia e religione dei popoli da evangelizzare. Egli esorta i suoi superiori ad aprire collegi di lingue e lui stesso ne fonda uno a Maiorca; scrive ai papi e alle università perché istituiscano cattedre di lingue orientali.
Un altro geniale suggerimento di Raimondo Lullo: un cardinale abbia l’incarico della politica missionaria del papato.
L’attuazione dell’idea dovrà aspettare 300 anni, ma non è del tutto scartata. Il papato diventa sempre più il peo dell’evangelizzazione estera: ordina inchieste su missioni e missionari, riceve le richieste di personale e le trasmette ai superiori; raccomanda i missionari ai sovrani e raccoglie fondi per i viaggi ed edifici.
Pur continuando ad esistere i missionari pellegrini, battitori liberi che vanno dove li porta il cuore, la missione diventa sempre più centralizzata e meglio organizzata. Si fa strada una convinzione fondamentale: la missione è, nella chiesa, un’attività specifica ed essenziale.
Il vangelo in Cina

«L a cristianità è in pericolo» si grida in tutta Europa nel 1241, quando il generale mongolo Batu porta i suoi cavalli a rinfrescarsi nelle acque dell’Adriatico. In pochi anni, Gengis Khan e figli hanno costruito un impero colossale, dalla Corea alla Polonia e Ungheria, dal mar Giallo al golfo Persico, passando per l’Asia centrale e le vallate dell’Indo. Il passaggio dei mongoli (o tartari) semina dappertutto terrore e morte: città ridotte a cumuli di macerie; abitanti sgozzati come capre o deportati come schiavi. La stessa sorte tocca a molti cristiani russi, polacchi, ungheresi.
Il «remedium contra tartaros» è posto all’ordine del giorno nel concilio a Lione (1245). Scartata l’idea di una crociata, papa Innocenzo IV vede nell’espansione mongola una nuova sfida missionaria, per convertire il gran khan al cristianesimo o, almeno, farselo alleato contro l’islam.
Quello stesso anno, il francescano Giovanni da Pian del Carpine parte per la Mongolia. Attraversando a piedi le sterminate steppe centroasiatiche, dopo quindici mesi di viaggio raggiunge Karakorum e consegna a Kuyuk-Khan il messaggio papale, che invita l’imperatore mongolo alla pace e alla conversione al cristianesimo. L’accoglienza è gentile; ma il missionario è rimandato con un messaggio inequivocabile: «Voi tutti, papa e imperatore, re e governanti, affrettatevi a venire di persona e sentirete le nostre proposte di pace. Quanto a convertirci, non ne vediamo la ragione».
Altri missionari vengono inviati con lettere del papa e di Luigi re di Francia: il domenicano Andrea da Longiumeau (1249) e il francescano Guglielmo di Rusbruk (1255). Anch’essi, però, non hanno maggiore fortuna: il gran khan risponde di non conoscere altro Dio, in cielo e sulla terra, al di fuori di Gengis Khan.
I loro viaggi tuttavia hanno risvolti positivi: le notizie raccolte dai missionari svelano all’Occidente un mondo ancora sconosciuto; le loro imprese aprono ai mercanti la strada verso il favoloso Catay, com’era chiamata la Cina, dove nel frattempo si è spostata la capitale dell’impero mongolo.
Più delle missioni diplomatiche, riescono quelle commerciali, come l’avventura dei mercanti veneziani Nicolò e Matteo Polo (1260-69). Quando questi si congedano, il gran khan Kubilai li prega di portargli «un po’ d’olio della lampada che arde sul sepolcro di Cristo» e chiedere al papa d’inviare 100 uomini esperti nelle arti e nella religione.
Nel 1271 il papa manda due domenicani, insieme ai due mercanti veneziani, cui si è aggiunto il piccolo Marco Polo; ma i frati tornano subito indietro. Nel 1277 sono inviati quattro francescani, che spariscono nel nulla. Dieci anni dopo lo stesso Kubilai invia in Europa un monaco nestoriano, che ripete la richiesta di missionari. Nel 1289 Nicolò IV, primo papa francescano, manda un missionario collaudato: fra’ Giovanni da Montecorvino.
Con un manipolo di francescani e domenicani, fra’ Giovanni attraversa l’Armenia, Persia, India, predicando, battezzando e organizzando comunità cristiane. Continuando il viaggio via mare, giunge solo a Pechino e comincia con successo l’evangelizzazione di mongoli e cinesi. Rimane da solo per 13 anni, svolgendo un lavoro immenso, finché papa Clemente V gli manda alcuni missionari e vescovi, per consacrarlo arcivescovo di Pechino (1307). In pochi anni vengono erette altre diocesi suffraganee.
Nel 1325 un altro grande missionario francescano, Odorico da Pordenone, dopo aver percorso innumerevoli regioni e isole dell’Asia meridionale, sempre predicando e battezzando, raggiunge Pechino; per tre anni aiuta il vecchio Montecorvino e pianifica con lui nuove imprese missionarie. Ritorna in Italia, via terra, per chiedere rinforzi per la missione in Cina. Purtroppo muore un anno dopo il suo arrivo: ha macinato per mare e per terra oltre 50 mila chilometri.
Prima di morire, però, Odorico ha il tempo di dettare a fra’ Guglielmo di Solagna le sue memorie, intitolate: Relatio (relazione), che non ha nulla da invidiare al Milione di Marco. Il libro di Odorico diventa subito un best seller: ne sono stati ritrovati oltre 130 manoscritti, senza contare le traduzioni in italiano, francese e tedesco.

Alla morte di Giovanni da Montecorvino (1328)
i cristiani cinesi sono oltre 30 mila. La sua opera viene proseguita da una cinquantina di confratelli. Ma nel 1368, con la caduta dell’impero mongolo e l’avvento della dinastia dei ming, i confini della Cina si chiudono, le cristianità cinesi si dissolvono e lentamente scompaiono nel nulla. Bisognerà attendere 200 anni prima che l’evangelizzazione venga ripresa dai gesuiti.