“Uno starniero non è mai felice”

Un architetto e una prostituta, entrambi «stranieri», ma con risultati apparentemente opposti: il primo inserito nella società, la seconda ai margini. Sono i protagonisti del romanzo di Younis Tawfik, uno scrittore iracheno che da anni vive a Torino, città multietnica con molti problemi.

Straniero come estraneo, diverso, sradicato: come immigrato. Una persona dotata di un corpo dai tratti che talvolta differiscono da quelli a cui siamo abituati, ma anche di un’anima, a volte piena di rabbia o di malinconia. Straniero come portatore di una cultura «altra», non sempre e necessariamente stridente con la nostra. Immigrato, ma non sempre criminale, indesiderato occupante del territorio italiano, bensì lavoratore disposto a svolgere quelle mansioni pesanti, pericolose e spesso malpagate, che noi scartiamo ormai da qualche decennio.
Straniero, come il titolo del bellissimo libro dello scrittore iracheno, ma naturalizzato torinese, Younis Tawfik (La straniera, Bompiani Editore, lire 20.000), che in circa 200 pagine racconta, con disarmante drammaticità, due spaccati di vita: quella del protagonista, un architetto mediorientale, dalla carriera ben riuscita e inserito nella società torinese, e quella di Amina, una sfortunata ragazza marocchina piena di sogni e speranze, finita sul marciapiede. I due personaggi si incontrano una notte, ed iniziano a narrare, in prima persona e in alternanza, la propria storia, soffermandosi sui ricordi dell’infanzia, della famiglia e della patria lontana.
L’amore presto s’insinua tra i due, tormentato e conflittuale come le loro stesse esistenze, e li porta verso un tragico destino.

Younis Tawfik, come è nata in te l’idea di questo romanzo?
«Dal mio incontro casuale, in una birreria di Torino, con una prostituta marocchina. Mi trovavo in compagnia di amici, così l’ho invitata al nostro tavolo e lei, spontaneamente, mi ha raccontato la sua storia, che è in parte simile a quella da me narrata nel libro. Sentendola parlare, infatti, decisi di mettermi a scrivere. Passarono tre anni, e un amico mi parlò di una ragazza marocchina che lavorava in una macelleria, morta di tumore al cervello. Volevano raccogliere dei soldi per mandare il corpo in patria. Ecco, allora, che decisi di inserire e fondere con la storia di Amina, la prostituta, quella di Mina, la macellaia, che, con la sua tragica fine, sarebbe divenuta strumento di riscatto e redenzione per l’altra».
Il protagonista, l’architetto, rispecchia il prototipo dell’immigrato colto, di successo, che ad un certo punto entra in crisi. Ce ne puoi parlare?
«Lui rappresenta l’immigrato che vive in Italia da tanti anni e che si sente completamente inserito nella società, o almeno così crede: è colto, educato, sposato e separato, con un buon lavoro. Ha fatto di tutto per farsi accettare da una società benestante e borghese come quella torinese. Ad un certo punto, però, incontra Amina, la prostituta, una ragazza ai margini: improvvisamente, la sua memoria sopita, il suo senso d’identità perduto si risvegliano.
Ora riesce a provare nuovamente sensazioni, emozioni, che aveva rimosso. Capisce che non era poi così “integrato”, e che l’integrazione stessa non significa annullare, dimenticare le proprie radici. Con e grazie ad Amina inizia il percorso a ritroso del recupero della memoria: lei rappresenta la Shahrazade delle Mille e una notte, quel raccontare storie l’una nell’altra, che l’aiutano a mantenersi in vita e a far vivere. Attraverso di lei il protagonista riscopre colori, profumi, desideri, ambienti che gli appartenevano, ma che aveva dimenticato. Questa donna, tuttavia, diviene anche la terra traditrice, la prostituta (la madre terra che lo ha costretto ad andarsene via). Quando la perde, scopre il vuoto, capisce di essere un immigrato, quello straniero che aveva dimenticato di essere».
Il romanzo si inserisce bene all’interno dello stile narrativo arabo: prosa e poesia mescolate insieme, trama ad incastro (per intenderci, il racconto nel racconto), uso abbondante della memoria. Tuttavia, è un’opera italiana, scritta nella nostra lingua, che contiene descrizioni e situazioni a noi familiari. Insomma, gli stranieri che tu descrivi li abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni.
Possiamo dunque parlare già di letteratura araba in lingua italiana, come avviene, ad esempio, per quella araba in lingua francese o inglese?
«Direi di sì. Ho usato la lingua italiana come strumento di espressione: strumento che, più volte, mi è stato stretto, e che mi rendeva prigioniero di un vocabolo in cui non riuscivo pienamente a comunicare ciò che desideravo. Tuttavia volevo dimostrare che, in Italia, gli intellettuali arabi possono considerarsi allo stesso livello di quelli anglofoni o francofoni, anche perché ritengo che, quella italiana, sia una bellissima lingua, che ben s’adatta a raccontare storie nello stile narrativo arabo».
Perché hai deciso di raccontare agli italiani una storia di immigrazione?
«Il mio obiettivo era quello di fornire uno strumento per capire la psicologia degli immigrati, gente dotata di un corpo, una mente e un cuore, che ride, soffre, piange o si dispera. Per me è una grande soddisfazione sentir dire da un italiano: “Finalmente sono riuscito a guardare uno straniero per quello che è: una persona come tutte le altre, con il proprio bagaglio di sogni e speranze, di tragedie quotidiane, ecc. Prima li consideravo poco più di ombre, senza identità, senza peso, senza emozioni”. Già, essi sono anime in “trasferta”, spesso loro malgrado, costrette dalla miseria, dalle guerre, dalle persecuzioni a lasciare la propria famiglia, la propria terra, e a vivere all’estero una vita difficile, a volte drammatica e densa di solitudine e malinconia».
Quale messaggio vorresti comunicare agli italiani?
«Vorrei poter dire loro che non tutti gli immigrati sono criminali o gente che ruba il lavoro, perché, nella maggior parte dei casi, svolgono quelle mansioni che nessuno vuole più fare. Gli immigrati costituiscono una ricchezza per l’Italia. Se viene data loro la possibilità, sono in grado di contribuire alla nascita di una società multietnica: si tratta di un processo mondiale che, in era di globalizzazione, è divenuto ormai irreversibile.
Fino alla fine degli anni ’60 erano gli italiani ad emigrare nel nord Europa o in America, ora sono loro ad accogliere gli stranieri. Tuttavia, le leggi sull’immigrazione non giocano a favore degli immigrati, e, nello stesso tempo, non aiutano lo stato a combattere la criminalità. Quest’ultima sanatoria è servita solo per schedarli, e i permessi di soggiorno tardano ad arrivare, creando grossi problemi a chi un lavoro l’aveva trovato o potrebbe trovarlo.
Hanno espulso ingiustamente onesti padri di famiglia, che mantenevano figli e genitori al loro paese, oppure hanno diviso famiglie rimpatriando i genitori e mandando in affidamento i figli presso famiglie italiane; da un altro canto, però, non riescono a liberarsi dei grandi spacciatori, dei delinquenti o di chi si arricchisce con il racket della prostituzione.
Paradossalmente, spacciatori, ladri e prostitute hanno i soldi necessari per ottenere il permesso di soggiorno, altri onesti lavoratori no. Quante prostitute sono state regolarizzate perché hanno pagato ditte italiane o famiglie che hanno dichiarato fittiziamente di averle assunte come operaie o come colf?».
Perché hai scelto la parola «straniera» come titolo del tuo romanzo?
«Perché l’altra, “extracomunitaria”, comunemente usata, è spregiativa e discriminatoria. “Straniero” indica l’estraneità, il disagio provocato dal vivere in un certo ambiente. Ed è quello che io ho descritto: il disagio di esistere, l’essere un po’ estranei in patria e stranieri in Italia».

Angela Lano

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