La vita missionaria non balza, in genere, agli onori delle cronache,ma è fatta di tanti gesti: giornalieri, pazienti, concreti.
Per costruire comunità cristiane e aiutare la gente a vivere… un po’ meglio.
L a mia parrocchia di Ng’ingula (diocesi di Iringa) sorge a 2 mila metri di altitudine tra nebbia, freddo e pioggia. Quando non piove (e succede raramente), è un posto splendido, impreziosito da grandi colline e verdi vallate. La terra è fertile: si coltivano granoturco, fagioli, patate, piselli e un po’ di frumento. Quanto a frutta, maturano bene pere e pesche.
Un grave problema è rappresentato dai trasporti. Per fare gli 85 chilometri che ci separano dalla città di Iringa, si impiegano due-tre ore di auto, perché la strada è dissestata e scorre tutta sulla cresta delle colline.
In precedenza ho lavorato a Matembwe, una missione con numerose attività: c’erano 20 operai, una falegnameria, una segheria e un’officina meccanica, una stalla e un’estesa campagna da coltivare. Lì facevo anche l’amministratore.
A Ng’ingula ci sono gli stessi operai, ma non tutto quel lavoro. E, mentre a Matembwe riuscivo a pagarli con le entrate dalle varie attività, qui è un grosso problema retribuire tutte le persone che vi operano.
fattorie… missionarie
In Tanzania le fattorie si sono sviluppate per venire incontro alle necessità concrete della gente. Oggi non ce n’è più bisogno come in passato. Si tratta, allora, di rivedere le attività, preparando persone capaci di gestirle da sole.
Ma non è facile. A volte si richiede la cessazione di alcuni lavori o la riduzione del personale. E questo è malvisto dalla gente. La stessa chiesa africana considera ancora necessarie le attività materiali, per aiutare la popolazione. Quindi non è favorevole alla loro eliminazione. Ma tutto ciò «lega le mani».
A Ng’ingula funzionano una piccola officina e una scuola di falegnameria con sette-otto allievi che iniziano il corso ogni anno; sotto la guida di due istruttori e un catechista, imparano il mestiere. Funzionano pure il mulino (che non offre guadagni: serve solo ad aiutare la gente) e un piccolo dispensario, che manteniamo fornito di medicine.
Abbiamo anche un piccolo allevamento di maiali: macellandone due-tre al mese, offriamo per pochi denari un po’ di carne alla popolazione.
Partendo dalla «base»
Non vorrei dare l’impressione che il lavoro missionario sia fatto solo di macchine e animali domestici.
Ng’ingula conta, soprattutto, nove chiese-cappelle, di cui sette al centro di veri e propri centri abitati. In ognuna operano almeno due o tre catechisti, il Consiglio dei laici (debitamente eletto), il gruppo dei giovani e quello delle donne cristiane.
I catechisti preparano ai sacramenti, presiedono i funerali, insegnano religione nella scuola, celebrano la parola di Dio la domenica, quando il sacerdote non può essere presente. Sono anche un po’ retribuiti: la ricompensa si aggira sulle 7 mila lire al mese (mentre un operaio ne guadagna 62 mila). Ma non si tratta di un vero salario. La diocesi copre un terzo della somma e il resto spetta la parrocchia. «Fare il catechista è una vocazione», non un mestiere. Noi missionari cerchiamo di inculcare questo pensiero in chi vi si impegna. Il denaro ricevuto è solo un segno, un piccolo aiuto.
Significativo è il compito degli animatori: essi sono i «capi» o delle Comunità di base o del Consiglio dei laici. Il Consiglio è guidato da cinque animatori (presidente, vice, segretario…): suo compito è di cornordinare le attività dei cristiani a livello parrocchiale.
Le Comunità di base sono una sessantina in tutta la parrocchia. A differenza dell’America Latina dove sono sorte… dalla base, qui sono state introdotte dal vescovo e raggruppano generalmente i cristiani del vicinato o del rione. Si ritrovano una volta la settimana (o ogni 15 giorni), al mattino presto, per pregare prima di andare a lavorare nei campi. Dopo la preghiera, spesso, parlano dei problemi concreti e decidono cosa fare per risolverli.
Le Comunità di base sono abbastanza autonome: sanno gestirsi anche senza la presenza del sacerdote. Questo dimostra che c’è un fondo religioso valido. Il lavoro principale consiste nel preparare i leaders, curandone l’aspetto religioso, culturale e, soprattutto, umano.
Le comunità di base rappresentano una opzione della chiesa del Tanzania e di tutta l’Africa orientale, decisa una quindicina di anni fa dalle Conferenze episcopali. Essa si basa sulla valorizzazione del senso africano della famiglia: ujamaa, tradotto, nel passato, anche in scelta politica. La presenza e il funzionamento di queste comunità costituiscono una parte qualificante del programma pastorale delle diocesi, oggetto di verifica annuale e di iniziative varie per mantenerle vive e attive.
per vincere la paura
La partecipazione alla vita comunitaria è il segno visibile della maturità cristiana dei fedeli. Spesso si richiede ai genitori la frequenza come condizione per battezzare i figli. In tale senso, la comunità diventa la palestra di formazione di chi desidera ricevere il battesimo o gli altri sacramenti.
Sono parecchi coloro che non hanno ancora ricevuto i sacramenti dell’iniziazione cristiana. A Ng’ingula è attivo un buon catecumenato, della durata di due anni, dove ragazzi e giovani si preparano al battesimo. Circa la didattica, molto è lasciato alla libertà… dell’iniziativa personale, giacché scarseggiano i sussidi (anche se qualche diocesi ha stampato catechismi e manuali).
Da parte mia, mi baso sulla cultura del luogo, sui racconti e proverbi, per trasmettere una catechesi inculturata. Ho organizzato una ventina di incontri formativi.
La popolazione dell’etnia hehe è ancora attratta dalla religiosità tradizionale, dove l’aspetto magico incide in modo rilevante.
Ritengo che uno dei compiti più importanti dell’annuncio cristiano sia quello di liberare la persona dalla paura della magia, della stregoneria e di tutto che concee questo fenomeno complesso e oscuro.
La chiesa è frequentata soprattutto da donne e giovani. Ma, in una cultura dove chi decide sono gli uomini, è importante la loro presenza, altrimenti la comunità cristiana rischia di non «avere peso» e, specialmente, di non incidere sulla società.
Faticare insieme
Ng’ingula è abbastanza fuori mano. Pertanto l’influsso del «moderno» è limitato. Qualche giovane, che ha frequentato la città, si fa vedere con scarpe da tennis o jeans all’ultimo grido. Ma si tratta di pochi casi. Tuttora, nel paese, le prospettive di vita sono molto povere; non c’è altro se non il lavoro dei campi. Però i giovani sognano di andarsene in città, per un qualsiasi lavoretto.
Se la stagione delle piogge è buona, la terra garantisce un raccolto sufficiente per vivere e vendere un po’ di prodotti. Resta, però, il problema del trasporto delle merci in città. Il camion della missione viene impiegato anche per questo genere di servizi.
Quanti ragazzi frequentano il liceo? Molto pochi. C’è una scuola superiore privata a circa 30 chilometri da Ng’ingula. Ma le famiglie non hanno la possibilità di pagare la retta. C’è il progetto di cercare «adozioni a distanza», per aiutare gli studenti. Di per sé il governo è arrivato con la scuola un po’ dappertutto; quindi non si tratta di creare nuove strutture… Le difficoltà riguardano i trasporti, le tasse scolastiche e il livello d’insegnamento.
La strada è sempre un disastro a causa delle piogge. L’autobus, ad esempio, non arriva fino alla parrocchia, ma si ferma 20 chilometri prima. La gente, quindi, ha difficoltà a muoversi. Problematico, soprattutto, è il trasporto degli ammalati all’ospedale, servizio per il quale ci si rivolge immancabilmente alla missione.
Padre Salvador Del Molino (mio compagno di missione, oggi in Etiopia) ha svolto un ottimo lavoro di rettifica e sistemazione della strada. Ora si tratta di mantenerla.
In Tanzania esiste la tradizione del maendeleo (progresso): ossia offrire una giornata di lavoro per la comunità. Così, nell’omilia domenicale, insisto perché la gente partecipi e si dia da fare per aggiustare le sue strade. Io stesso mi metto a lavorare con loro. Al di là di tante prediche, è il faticare insieme che fa crescere il senso di comunione e solidarietà fra i cristiani di Ng’ingula.
Remo Villa