PERU’ – I terroristi di san Tommaso
Una rivista scritta a mano
e disegnata a pastello
per celebrare il giubileo.
La scrivono un gruppo di detenuti
del «Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru», rinchiusi nel carcere di massima sicurezza di Yanamayo e raccolti in una comunità cristiana di base. Sperano che il 9 luglio, giorno dedicato al giubileo dei prigionieri, qualcuno si ricordi di loro.
La notizia può destare stupore: tra i detenuti di Yanamayo esiste una comunità cristiana di base. Ne fanno parte un gruppo di prigionieri appartenenti al «Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru» (Mrta) e accusati di terrorismo. Queste persone sono rinchiuse a Yanamayo, carcere di massima sicurezza posto a quasi 5.000 metri sopra il livello del mare, nella provincia di Puno. Lo stupore non può che aumentare apprendendo che questa comunità di base ha iniziato, alcuni mesi fa, la «pubblicazione» di una rivista.
Due domande sorgono spontanee: che cosa ci fa una comunità cristiana di base fra persone accusate di terrorismo? Che senso ha pubblicare una rivista?
Una breve riflessione su che cosa si intenda per terrorismo in questo contesto può aiutarci a trovare delle risposte. Il delitto di terrorismo, dal punto di vista legale, come è attualmente concepito in Perù, è stato formulato nella costituzione redatta nel 1992 in seguito al cosiddetto autogolpe messo in atto dal presidente Fujimori. Il Perù si trovava allora nel pieno di una guerra civile, che durava da più di dieci anni e che vedeva contrapposti all’esercito peruviano due movimenti guerriglieri: Sendero Luminoso e l’Mrta. Per questo il problema della sicurezza nazionale era al primo posto nell’agenda del governo.
Nella nuova costituzione (che su questo tema presenta delle analogie importanti con la legislazione italiana anti-terrorismo varata negli «anni di piombo») il delitto di terrorismo è stato esteso a tutte le azioni sovversive contro lo stato. Rispetto alla legislazione precedente, in vigore dalla caduta della dittatura militare, non si riconosce alcuna attenuante. Ad esempio, per aver agito per un particolare scopo morale (cioè il diritto di ribellarsi a un tiranno che già San Tommaso considerava legittimo). Nella nuova legge queste azioni sono squalificate al livello di delinquenza comune con l’aggravante di quella che in Italia si chiamerebbe «banda armata». È superfluo specificare l’aumento della durata delle pene da scontare.
Questa era quindi l’idea del governo che, attraverso i mezzi di comunicazione, si è diffusa a tutta l’opinione pubblica: in Perù non ci sono guerriglieri che combattono spinti da nobili ideali, bensì sanguinari terroristi la cui unica differenza dai delinquenti comuni è l’organizzazione militare. Essi sono i responsabili delle pene e delle sofferenze del popolo peruviano e, pertanto, vanno combattuti con tutti i mezzi. Certamente alcune pratiche, in particolare quelle di Sendero Luminoso, hanno contribuito a confermare questa tesi. Un interessante corollario di questa situazione è che, tuttavia, di terrorismo non possono essere accusati, in nessun caso, membri dell’esercito.
Questa ovviamente è solamente una faccia della medaglia. Infatti, se vediamo le cose dall’altro punto di vista, quello dell’Mrta dalle cui fila provengono i fondatori di questa comunità cristiana di base, abbiamo una percezione assolutamente diversa: si definiscono lottatori sociali. In pratica si percepiscono proprio nel ruolo che la Costituzione del 1992 nega loro, cioè di persone che agiscono per ottenere una società migliore, più giusta, più equa. La lotta armata è quindi la risposta a una situazione di violenza non esplicita, ma comunque opprimente: la violenza della fame, della povertà al limite dell’indigenza, della mancanza di quasi ogni tipo di protezione sociale.
La lotta armata nasce anche da un secondo elemento: l’impossibilità di protestare attraverso canali istituzionali, o comunque di farlo con ragionevoli speranze di successo. Certamente questo è uno dei punti più critici, in quanto dal 1979 il Perù è, almeno formalmente, un paese democratico. Questo significa che, teoricamente, c’è la possibilità di presentare un progetto politico alternativo. Evidentemente l’analisi politica dei due gruppi guerriglieri aveva almeno un punto in comune: l’impossibilità di cambiare la realtà attraverso una via democratica.
Al di là delle considerazioni che si possono fare sulla legittimità di questa posizione è chiaro che chi intraprende la via della lotta armata non si percepisce come un terrorista. Al contrario, vede questo cammino come l’unica soluzione praticabile per una trasformazione della società in senso più equo; secondo la sua ottica, quella della lotta armata è una scelta non libera, vissuta come un’imposizione e quindi anche dolorosa. Da questo punto di vista si può capire perché, per chi si considera un lottatore sociale, la scelta della violenza rappresenta solo un altro mezzo, obbligato, per raggiungere un fine superiore, un bene che giustifica il ricorso a qualsiasi mezzo pur di conseguirlo; certamente si può obiettare che un uomo non ha il diritto di scegliere quale sia il bene per gli altri uomini e imporre le sue scelte.
Un lottatore sociale, dal suo punto di vista, assume integralmente l’opzione per i poveri ed è qui che alcune tematiche religiose vengono recuperate soprattutto alla luce dell’elaborazione teorica della teologia della liberazione. In un continente, l’America Latina, dove non colpisce tanto la povertà quanto l’assoluta diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza, la scelta di schierarsi con i poveri porta a trovare sullo stesso versante persone che sono guidate da idee molto diverse come possono essere cattolici e militanti dell’estrema sinistra, ma con questo punto in comune: l’opzione per i poveri.
Per questo vediamo ripetersi, in un remoto carcere del Perù, un’esperienza originale. Originale soprattutto per noi europei che viviamo in un contesto sociale e politico che ha mantenuto fino a poco tempo fa una radicale opposizione fra la chiesa e l’ideologia marxista, ma è interessante vedere come anche da noi ci siano curiosi riavvicinamenti, per esempio sul fronte dell’opposizione al neoliberismo.
Esperienza, tuttavia, che non è particolarmente innovativa per l’America Latina: basti pensare alla Colombia dove una delle organizzazioni guerrigliere ancora attive, l’Eln («Esercito di liberazione nazionale»), è stata fondata da un prete, padre Camillo Torres, e ha annoverato nelle sue file, anche con incarichi di responsabilità, diversi religiosi.
Questa esperienza colombiana, sebbene in misura minore, si è ripetuta in Perù, in modo che diverse persone di fede cattolica, certamente un cattolicesimo vicino alle posizioni della teologia della liberazione, si sono trovate a scontare severe condanne per terrorismo.
In questo contesto molto difficile, fosse solo per la prolungata privazione della libertà e per la mancanza di prospettive di liberazione a breve termine, non è più tanto sorprendente un recupero delle esperienze più significative, dei valori più sacri per ogni persona, di tutto ciò che può dare un senso alla propria vita passata, presente e futura. Infatti tutte queste persone sono condannate a 20, 30 anni di reclusione o addirittura all’ergastolo. Inevitabilmente sorgono angosciosi quesiti esistenziali ai quali si deve dare risposta per evitare di cadere in preda alla disperazione e cercare, per quanto è possibile, di mantenere un certo equilibrio fisico e psichico.
Un’idea a cui essi non possono rinunciare è quella di essere portatori della verità: che in fondo era giusto lottare per i poveri, per la giustizia, per i diritti umani, per denunciare la situazione di violenza e oppressione nella quale vive la maggioranza del popolo peruviano, anche se per farlo è stato necessario ricorrere alle armi. Per questo motivo la comunità ha scelto per se stessa un nome molto significativo: quello di monsignor Juan Girardi, il vescovo di Città del Guatemala assassinato nell’aprile 1998, dopo aver presentato un rapporto sulle violazioni dei diritti umani nel suo paese. In questo modo i detenuti desiderano sottolineare il loro legame con un simbolo di verità e di coerenza tra pensiero e azione.
Per chi ha dedicato tutta la vita a una causa e ha messo in gioco la propria vita per quella causa essere condannati al silenzio è una grande sconfitta. Quindi, scrivere una rivista, dire la propria opinione, dopo anni di silenzio forzato, è una «liberazione».
L’articolo con cui si apre il primo numero della pubblicazione trasmette bene questa emozione di poter tornare (finalmente!) a dialogare con il resto del mondo, segno evidente di una necessità negata per troppo tempo anche in violazione agli standard inteazionali sulle norme di detenzione.
Bisogna precisare tuttavia che questa è una possibilità più che altro teorica. Questa rivista è scritta a mano e disegnata a pastello; il numero delle copie non può superare cifre evidentemente irrisorie a causa della mancanza degli strumenti tecnici necessari per la redazione e, ovviamente, delle restrizioni a cui sono sottoposti questi detenuti di «alta pericolosità sociale». Tuttavia non bisogna trascurare il significato simbolico di questo passo: una rivista è un mezzo di comunicazione importante, che permette di tornare a parlare, di partecipare, seppure in modo sui generis, a un evento importante per un cattolico com’è il giubileo. Rompe l’isolamento al quale sono condannati, in un caso in cui il concetto di pena è equivalente a quello di castigo e vendetta, ed esclude a priori qualsiasi possibilità di recupero.
Evidentemente il momento della «pubblicazione» di questa rivista non è casuale, come viene scritto esplicitamente; è una tappa di avvicinamento al giubileo (il primo numero è uscito nel luglio del 1999), un modo per non restare esclusi da questo avvenimento che per un prigioniero politico assume un significato ancora più importante: la speranza di poter beneficiare personalmente di questo anno santo, di poter riacquistare la libertà, se è vero che il significato originario di giubileo è quello di condonare debiti e restituire la libertà.
C’è quindi la necessità di partecipare a questo momento per tenere viva la speranza della libertà, speranza forse non ragionevolmente fondata, ma che non può e non deve essere abbandonata.
Lorenzo de Ambrois