Dove anche un antibiotico è un lusso
Laggiù, oltre la frontiera Medici e infermieri che curano i bambini di strada violentati, le persone ferite dalle mine, i malati di Aids. Medici e infermieri che lavorano in paesi dove le popolazioni sono in balia di malattie parassitarie, perché mancano gli ospedali e le medicine. Non bastano le Ong, l’Oms o i Medici senza frontiere. Per migliorare, occorre «investire» nel personale medico dei paesi del Sud. Ecco il resoconto di un’esperienza di questo tipo.
Mary-Lu Miranda è un giovane medico di Manila. Ha due bambini e ne aspetta un terzo. Ogni giorno Mary-Lu attraversa la turbolenta capitale filippina, nel frastuono del traffico e nello smog, per raggiungere il suo posto di lavoro. Fa parte di una équipe che, nell’ambito di una Organizzazione non governativa (Ong) internazionale, opera nella capitale filippina. Lei ed i suoi collaboratori fanno un lavoro particolare: si occupano di garantire cure di base a quella sfortunata popolazione che sono i bambini di strada. Ogni giorno ne esamina alcuni, cura le loro malattie, prevalentemente di natura sessuale (sono facile preda di pedofili e mercati illeciti), e cerca di fare un po’ di counselling in loro supporto e protezione. Fa il lavoro con interesse, pur se tra le mille difficoltà che la particolare tipologia dei suoi giovani assistiti comporta.
Beard Kanimba ha 50 anni. Da parecchi lustri è medico e chirurgo, in Burundi, nel secondo ospedale del paese. Vi lavora da abbastanza tempo per essere stato, come lui stesso racconta, testimone delle ferite e lacerazioni che hanno scosso il suo paese negli ultimi decenni. Ma Beard non si lamenta più… In città ora si spara solo la sera e il numero di bambini che saltano su una mina sembra ridotto negli ultimi mesi… E così sono ridotti quegli odiosi interventi disperati per salvare una gamba o un braccio. Anche il materiale scarseggia, ma ora con una Ong ora con un’altra si tira avanti. Basta mantenere il capo basso sul lavoro. Beard racconta il tutto con serenità, come la sua difficile storia personale di dover crescere tre ragazzi dopo la morte della giovane moglie, lavorando e vivendo in un paese in guerra.
Josephine Maende ha 40 anni. Lavora a Nairobi, dove dirige per conto del suo governo un ospedale di 180 letti nella periferia della capitale. Un ospedale per malattie infettive, racconta Josephine, con oltre 100 letti riservati ai malati di Aids. Sembra stanca nel raccontare le delusioni quotidiane del suo lavoro, quando si affanna a fornire palliativi ai suoi pazienti, per la mancanza totale di farmaci veramente efficaci. Nell’ospedale dove lei lavora i farmaci «potenti» contro l’Aids non arrivano perché costano troppo, così come molti degli antibiotici ed antifungini che servirebbero quantomeno a far vivere più degnamente i loro ultimi mesi a questi condannati. Ma lei ed i suoi colleghi sono ostinati, e con il supporto di Medici senza frontiere (Msf) continuano a tentare l’impossibile, salvare una ennesima polmonite da Pneumocistis, un classico killer dei malati di Aids, con del Bactrim. Peccato poi che, una volta rimandato a casa il paziente, questi non sia più in grado di comprarsi la compressa quotidiana dell’antibiotico, poco costosa per noi, ma irraggiungibile per lui. E così…
Francesco fa l’infermiere in Veneto. Ha già fatto due missioni di emergenza in Africa, in zone di guerra. Racconta che forse ripartirà presto, perché così sente di poter valorizzare il suo lavoro. Ha conosciuto quelle ferite lontane e ora non può far finta di ignorarle. Ha scoperto quanto di eccezionalmente utile lui sa e può fare.
Claudia è medico ed ha frequentato, dopo la laurea, una scuola di medicina tropicale. Le piacerebbe che nella sua vita professionale entrasse una esperienza «di terreno», in uno di quei lontani paesi, dove le malattie tropicali, che lei ha conosciuto soprattutto sui libri, sembrano avanzare incontrastate.
Cosa hanno in comune Mary-Lu, Beard, Josephine, Francesco e Claudia? Nulla, fino a poche settimane fa non si conoscevano, e operano a fusi orari di distanza. Si sono conosciuti l’11 marzo, al loro arrivo a Macerata, insieme ad altri 18 loro colleghi provenienti da 15 paesi in via di sviluppo ed un’altra ventina di italiani medici ed infermieri. Tutti erano stati ammessi a partecipare ad un addestramento avanzato di medicina tropicale, l’«Advanced Training on Tropical Medicine», appunto, come si chiamava il corso di Macerata. Organizzato da una collaborazione nata tra Medici senza frontiere (Msf), la Fondazione de Caeri, e l’Ospedale di Macerata.
Il corso era organizzato in tre moduli di formazione indipendenti. Uno per il controllo nei paesi tropicali di Aids e malattie trasmesse per via sessuale; un secondo per il controllo delle principali malattie parassitarie, quali malaria, schistosomiasi, filariasi e altre ancora; un terzo per un addestramento alla chirurgia «difficile», quella di guerra o quella fatta nei remoti ospedali rurali dei paesi poveri.
È cosa nota che in molti paesi tropicali importanti problemi di salute non trovano una adeguata risposta nei fragili e poveri sistemi sanitari esistenti. In questi contesti nuove strategie sono oggi proposte per rendere il controllo di tali malattie sostenibile anche per quei paesi, ma per questo occorre una specifica preparazione, sia dello staff locale che del personale di organizzazioni umanitarie. Questi ultimi poi si trovano a volte ad operare in zone di instabilità e conflitto, con la necessità di applicare una chirurgia «di emergenza» disponendo di scarsissime risorse. Per tutte queste situazioni il corso era stato pensato come uno strumento per preparare, al di fuori di qualsiasi schema accademico, il personale sanitario per fronteggiare al meglio le calamità sanitarie che minacciano la salute di milioni di persone. Un addestramento avanzato, quindi, a completare la preparazione di base, rendendola il più possibile efficace ed efficente sul piano operativo.
Endemie di malattie parassitarie (alcune delle quali sono tra le prime cause di malattia e morte) avvengono proprio in aree dove i farmaci sono carenti e il personale non è preparato.
Recenti stime mostrano addirittura che alcune di esse sono in incremento, nonostante in questi recenti anni vari donatori, istituzionali e non, abbiano investito nel potenziamento dei sistemi sanitari di molti paesi, in particolare in Africa. Ma situazioni di cronica instabilità, conflitti, migrazioni, inadeguato sviluppo delle risorse idriche, tutto conduce ad una diffusione di queste malattie parassitarie. Recentemente nuove strategie di controllo sono state introdotte per ottimizzare l’utilizzazione delle risorse in particolare in paesi poveri e con scarsi supporti economici.
Le nuove strategie propongono modelli di controllo decentralizzato (ma integrato nelle comuni attività dei sistemi sanitari) di quel settore che si chiama «Primary Health Care» o delle cure di base, sancito dalla dichiarazione di Halma Ata una quindicina di anni fa. Questo modello si pone in alternativa ai programmi «verticali», quelli per intenderci in cui poche persone di un gruppo qualificato, che opera a livello centrale (di solito, nella capitale del paese), si occupa di tutto: dalla programmazione alla esecuzione delle attività (come distribuire farmaci o praticare diagnosi). Negli anni questo modello ha mostrato le sue debolezze, in particolare la sua incapacità di sviluppare il sistema sanitario del paese. Senza dire dei fallimenti nel controllo di specifiche malattie. Queste nuove strategie di controllo integrato e decentralizzato hanno costituito uno dei temi principali del corso organizzato a Macerata.
Come l’Aids. La malattia non solo si sta sviluppando come un enorme incendio nell’Africa sub-sahariana, ma contribuisce a rendere ogni possibilità di sviluppo, anche economico, ancor più difficile per il numero di malati e morti tra le fasce produttive della popolazione. L’assenza (a causa dei costi irragionevolmente proibitivi) dei farmaci specifici rende poi pressoché impossibile anche ogni cura mirata a migliorare la qualità di vita delle migliaia di persone colpite dall’infezione.
Ci sono aspetti inquietanti di questa epidemia, come ad esempio l’incapacità di applicare gli strumenti (esistenti ed efficaci) per fermare quantomeno il contagio da madre a bambino durante la gravidanza. E la prevenzione non sembra ancora funzionare, se si pensa che il contagio sessuale è ancora la prima fonte di infezione in Africa e nel Sud-est asiatico. In questo settore giocano un ruolo fondamentale programmi di educazione, informazione, sicurezza del sangue, controllo delle malattie sesso-trasmesse. Per questi interventi sono state sviluppate competenze ed abilità specifiche, illustrate in profondità nel corso di Macerata.
Questi sono stati i contenuti fondamentali che sono stati affrontati nel corso delle due settimane di corso. I docenti delle più qualificate istituzioni scientifiche europee (come la London School of Hygiene and Tropical Medicine della London University, o dello Swiss Tropical Institute) hanno animato la discussione interagendo con questo gruppo di medici «di frontiera», ovvero proprio con coloro che sono chiamati ad applicare le linee guida e raccomandazioni che escono dai loro istituti. Per gli stessi docenti l’opportunità è stata di grande interesse, quella cioè di poter lavorare, in questa full immersion di due settimane, con direttori di ospedali e dirigenti di servizi o programmi dei ministeri della sanità di paesi in via di sviluppo. Il corso era patrocinato anche dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che ha partecipato con alcuni docenti. Rientra proprio negli obiettivi dell’Oms l’assicurare che adeguate strategie siano proposte, in rispetto dei bisogni e delle risorse disponibili.
Per Medici senza frontiere la formazione del personale è una priorità assoluta, per poter sempre assicurare cure di qualità anche nei contesti difficili dove in genere i suoi teams si trovano ad operare. Non esistono mai giustificazioni per fornire cure di scarsa qualità, neanche l’insicurezza o l’instabilità costante in alcune aree. A Msf, nella organizzazione del corso, si è affiancata la Fondazione Ivo de Caeri (vedi riquadro), fondazione milanese da alcuni anni impegnata nel promuovere lo studio delle malattie parassitarie, una priorità per la sanità pubblica della maggioranza della popolazione mondiale.
E cosa ha portato un ospedale non universitario, quello di Macerata, ad ospitare il corso? Una scelta lungimirante e coraggiosa della sua direzione generale che ha riconosciuto come nella mission di un moderno ed evoluto ospedale debba rientrare il contribuire ad un incremento della qualità delle cure in altre strutture sanitarie. Soprattutto in quei contesti difficili, disagiati e con poche risorse che sono una caratteristica comune a tutti i paesi in via di sviluppo.
In conclusione dell’intenso, stancante ma appassionante corso, i partecipanti hanno voluto riassumere gli aspetti focali del problema. Ne è nato un Macerata Statement in cui vengono elencate le priorità e le principali raccomandazioni per la salute delle popolazioni del Sud del mondo. La «dichiarazione di Macerata» (vedi riquadro) è un documento rappresentativo delle ansie, angosce e bisogni di chi fa del «fornire salute» il proprio appassionante lavoro e la principale sfida dell’esistenza.
Soprattutto laggiù, oltre la frontiera.