La fiducia del beato Giuseppe Allamano nella provvidenza è totale: scaturisce
da uno spirito di fede, rafforzato
da un autentico atteggiamento
di povertà. Il fondatore
dei missionari della Consolata
non si attribuisce nulla
di ciò che appartiene a Dio.
È convinto di essere solo uno strumento. Il «padrone» è Lui.
E la Consolata la «padrona».
Il linguaggio impressiona anche per la sua arditezza. Specialmente durante la prima guerra mondiale, il beato Giuseppe Allamano ripeteva che «Dio deve aiutarci», che non lascerà mancare nulla, perché l’Istituto dei missionari della Consolata è opera sua, l’ha voluta Lui: quindi è obbligato a pensarci. Manifestava spesso tale fede così: «Questa casa l’ha posseduta il Signore fin dall’inizio».
Però, se Dio è il padrone, la Consolata è la padrona, ed è lei che tiene la borsa.
Il beato Allamano, fondatore dei missionari e missionarie della Consolata, poté dire che per le spese ingenti dell’Istituto e delle sue opere non ha mai perso né il sonno né l’appetito. Affidava ogni preoccupazione alla Consolata affermando: «Pensaci tu! Se fai bella figura, sei tu!».
«HA FATTO NEVICARE
DENARI»
Il beato Allamano dimostrò fiducia in Dio e nella Consolata soprattutto nelle situazioni difficili.
Agli inizi del 1899, quando si trattava di ristrutturare il santuario della Consolata di Torino, il rettore Allamano presentò il progetto all’ingegnere Carlo Ceppi. Ma questi si spaventò.
– Reverendo, lei vuole un miracolo!
– E il miracolo verrà! – rispose tranquillamente l’Allamano.
– Ma un milione non basterà? – ribatté l’ingegnere.
– Se non basta, ne spenderemo due e anche più, purché la Madonna abbia un santuario degno di lei…
Durante la costruzione della casa madre dei missionari della Consolata, una volta il fondatore ebbe difficoltà a saldare un conto. L’impresario chiedeva il denaro per il sabato. Era mercoledì, ma l’Allamano assicurò: «Adesso non ce l’ho e non saprei nemmeno dove prenderlo. Però c’è ancora oggi, tutto domani, venerdì e poi viene sabato. Sì, la Madonna per sabato li avrà trovati i soldi». E così avvenne.
In una conferenza alle suore missionarie, dopo aver parlato dei disagi della guerra mondiale e delle spese per la costruzione della loro nuova casa, aggiunse: «Alcune persone mi domandano: “Come va? Con questi chiar di luna!…”. Ebbene, è anche per carità, per dar lavoro a quei poveri muratori, che altrimenti non ne troverebbero… però ci vogliono anche i mezzi… e a questo penserà la divina provvidenza».
Nel 1924, in un incontro con alcuni diaconi prossimi all’ordinazione sacerdotale, si confidava: «Una volta vi facevo qualche regaluccio, ora non più, ci vuole pane!… Ma, se è volontà di Dio che si accettino tanti individui e che questi corrispondano bene, Iddio deve fare miracoli, come li fa al Cottolengo. Là ci sono poveri uomini che vengono sollevati; per noi si tratta di salvare povere anime! Senza questa fede nella divina provvidenza, ci sarebbe da rompersi la testa. Vivete di fede e poi il Signore farà anche dei miracoli, anzi sarà obbligato a farli».
L’assoluta fiducia dell’Allamano in Dio e nella Consolata non andò mai delusa. Durante la novena della Consolata nel 1915 confidava: «Non v’è dubbio che tutto quello che si è fatto qui è tutto della Consolata. La Consolata ha fatto per questo Istituto dei miracoli quotidiani: ha fatto parlare le pietre… ha fatto nevicare denari. Nei momenti dolorosi la Madonna interveniva in modo straordinario. Ho visto molto, molto».
«Non morrete di fame»
Nel corso del 1916 l’Allamano, riferendosi ancora alle tristi condizioni causate dalla guerra, accennava ad interventi straordinari di Dio: «Tutto costa caro; siamo sempre con lo spavento, nel timore di qualcosa di nuovo. Bisogna disporsi a mangiare pan nero. Ma il Signore ci fa sempre il miracolo, ha sempre provveduto, ci vuole bene». E, dopo avere raccontato qualche caso speciale di offerte ricevute, proseguiva: «Questo è per dire come il Signore ci vuole bene: siamo, direi, la pupilla dei suoi occhi».
Una volta il fondatore doveva fare una grossa spesa per l’Istituto, ma non aveva il denaro necessario. Però «mentre uscivo dal duomo (di Torino) – raccontò egli stesso -, una vecchietta che non conoscevo mi si avvicina e, dandomi una busta, mi disse che erano i suoi risparmi e che li impiegassi come volevo… La busta conteneva quanto di cui abbisognavo in quel momento».
Varie volte, nelle conferenze formative ai missionari, L’Allamano ricordava san Paolo eremita, nutrito per molti anni da un corvo con mezzo pane. Il giorno in cui sant’Antonio lo andò a trovare, il corvo portò un pane intero. E l’Allamano proseguì: «Se è necessario il Signore manderà un corvo nella bottega del panettiere… ma non andiamo a insegnare a nostro Signore dove pigliarlo (il pane), sa lui!».
Ai missionari partenti ricordava: «Il Signore penserà a voi, come ha pensato agli apostoli quando li inviò a predicare sine pera (senza bisaccia), senza niente… e poi li interrogò se era mancato loro qualcosa, ed essi risposero che non era mai mancato niente… Così sarà di voi. Non morrete di fame, state certi, quantunque il missionario debba essere disposto al martirio».
Intraprendenza
e discrezione
Le parole del vangelo sulla confidenza nel padre celeste, che nutre gli uccelli del cielo e veste il creato in modo insuperabile, non sono una metafora. Le opere dei santi testimoniano la potenza della fede. Senza ricorrere ai compromessi tanto facili in materia economica, essi però non trascurarono di mettere in atto i mezzi cui si può fare ricorso.
Per l’Allamano «la fiducia nella divina provvidenza non esclude il pensare all’avvenire… Al Cottolengo non si sta colle mani conserte… Dio dice “aiutati che ti aiuto”. Nelle comunità mi sembra che in generale vi sia il vizio contrario: si prende tutto come cosa dovuta. Non così nel mondo, specie in questi tempi di carestia, dove ognuno s’industria per tirare innanzi».
La fiducia nella provvidenza va unita all’intraprendenza personale. Ma nell’Allamano c’è qualcosa di tipico. Rispetto agli altri santi piemontesi (Cottolengo, Bosco, Murialdo…), l’Allamano fu quello che forse si lasciò meno angustiare dal problema finanziario. Disse più volte che per le missioni era disposto anche a chiedere l’elemosina e che, se avesse avuto bisogno di aiuto, «avrebbe saputo a chi rivolgersi, sicuro non solo che non gli sarebbe stato negato, ma neppure differito».
«Naturalmente – aggiungeva – se il Signore me li manda (i denari) senza che io vada a cercarli, è meglio, così non vado ad importunare la gente». In ogni caso ci vuole grande discrezione.
Anche in questo l’Allamano attuò il principio del «bene fatto bene». Secondo lui, «andare avanti a suon di tamburo non va per le opere di Dio. Non siamo noi che ci procuriamo i mezzi; è la divina provvidenza che ce li manda, ed essa non ha bisogno della nostra reclame».
Abbonarsi
a «Missioni Consolata»
In occasione del citato restauro del santuario della Consolata, scrisse che la «Direzione del santuario… non vedeva bene che si andasse in giro a squattrinare il pubblico, anche se per opere buone. Perciò, non sarebbe ricorso alla pratica di andare di porta in porta ad importunare i devoti, ma si sarebbe accontentato di quanto l’amore alla Consolata avrebbe suggerito a ciascuno di portare alla sagrestia del santuario».
Così per le missioni. Però anche era dell’idea che si dovesse «mettere la grande famiglia dei benefattori al corrente del lavoro che si fa nelle missioni e delle loro necessità, senza forzare nessuno, lasciando al Signore muovere i cuori secondo la sua volontà».
Fu questo lo stile del periodico La Consolata (divenuto poi Missioni Consolata): far conoscere il lavoro missionario. Questo, anche senza appariscenti appelli, è già uno stimolo alla cooperazione.
Di qui, pure, lo straordinario significato assunto dalla rivista. Fu uno dei principali mezzi per animare missionariamente il popolo di Dio e per sostenere l’attività missionaria. L’abbonamento e la diffusione del mensile furono proposti come una forma di cooperazione alla missione: «Si fa una vera carità ai missionari inviando con sollecitudine il proprio abbonamento, e specialmente adoperandosi a diffondere la lettura del periodico stesso e a procurare in tal modo qualche nuovo abbonato». Un Allamano efficace, dunque, e sempre discreto. Per questo «raccomandava di non aggravare i benefattori delle missioni con indiscrete richieste di aiuti» e disapprovava l’eccessivo affarismo.
Era spietato di fronte ai sacerdoti che si perdevano in affari temporali. Diceva: «Sarebbe rapire il tempo alle anime, danneggiare i poveri e la chiesa e avvelenare la nostra vita». E ancora: «I beni della chiesa lasciati ai parenti sono come il sangue dei poveri che grida vendetta al cospetto di Dio». Di fronte a qualche iniziativa missionaria poco opportuna, intervenne: «Non voglio preti mercanti, ci sono già di quelli della diocesi che fanno questo mestiere; non voglio che voi, miei figli, facciate questo lavoro… Il Signore ha sempre provveduto al suo Istituto e lo farà sempre se sarete buoni. È non lascia mancare il pane ai suoi figli».
Gottardo Pasqualetti