U na mano aveva scritto con un bastoncino carbonizzato: «Signore, mandaci subito papà Kabila! Altrimenti moriremo tutti!». Tale grido di aiuto in un paese in guerra compariva ad Isiro, nel nord della repubblica democratica del Congo (RDC), sul muro esterno della casa dei missionari della Consolata.
Sono le 7 del 18 aprile 2000. Un’ora dopo, la scritta viene cancellata dai soldati dell’Uganda, che occupano il territorio. Non sono i soli stranieri in Congo: a Kisangani e Bukavu spadroneggiano i rwandesi, cui si ascrivono persino atti di cannibalismo. Ugandesi e rwandesi, ieri alleati di Kabila per abbattere il famigerato Mobutu, oggi sono in guerra contro il nuovo presidente. E sono pure ai ferri corti fra loro.
Non mancano i «signori della guerra» locali: Ilunga, Wamba, Bemba… armati con i proventi dell’oro e dei diamanti. Oro e diamanti di cui fanno man bassa anche Uganda e Rwanda.
C’è lo stesso «papà» Kabila, sostenuto da Zimbabwe, Angola e Namibia che, tuttavia, non sono in Congo per «carità cristiana». E, infine, i ribelli congolesi appartenenti al movimento Mai-Mai. «Siamo pronti alla guerriglia su tutto il territorio, se divideranno il Congo come una torta» dichiarano. Nel frattempo non stanno con le mani in mano.
Il nuovo Congo nacque il 17 maggio 1998 sulle ceneri dello Zaire. Ma fra i nuovi padroni del ricco e vasto paese scoppiò subito la rissa, che ha portato all’attuale anarchia. O balcanizzazione del paese, mentre Stati Uniti e Francia stanno a guardare: gli uni strizzando l’occhio all’Uganda e l’altra ammiccando a Kabila.
P asqua nella missione di Pawa, a 60 chilometri da Isiro. Nella chiesa superaffollata, durante l’eucaristia un missionario domanda: «La guerra è peccato?». L’assemblea tace: forse il quesito l’ha colta alla sprovvista. Poi una voce mormora: «La guerra è peccato». «La guerra è peccato» ripete subito un altro. «La guerra è peccato» sentenzia alla fine tutta la folla in un crescendo drammatico.
«È la prima protesta pubblica contro questa guerra assurda – ci confida il missionario -. La gente finora l’ha esorcizzata con il silenzio».
Non lontano tre soldati ugandesi siedono all’ombra di un mango. Dopo alcuni convenevoli, accettano di parlare. «Noi non vogliamo la guerra. Il fucile uccide, uccide anche noi. Ma che possiamo fare contro i nostri capi?».
A eroporto di Fiumicino, 12 maggio. Dopo 28 giorni di assoluto digiuno giornalistico, acquistiamo un quotidiano per leggere in prima pagina: «Guerriglia degli ultrà laziali. Sconvolto il centro di Roma. Tifosi caricati dalla polizia con lacrimogeni: 12 feriti, di cui 10 agenti. Auto danneggiate e vetrine sfasciate».
Con noi c’è un congolese, che capisce l’italiano. «Povero Congo e povera Italia!» commenta.
Francesco Beardi