COLOMBIA – Non staremo a guardare
INDIOS COOMBIANI A CONVEGNO
La Maria – Sulla collina, proprio a fianco della Panamericana, sventolano due enormi bandiere: quella della Colombia e quella rosso-verde del «Consiglio regionale indigeno del Cauca» (Cric), il principale organizzatore del convegno a «La Maria». Un convegno a cui è stato dato un bel titolo: Del silencio a la palabra, Dal silenzio alla parola.
Sulla stradina che funge da entrata è schierato un cordone di guardie indie, riconoscibili da una fascia legata al braccio. Sono armate soltanto di un bastone, lungo 40-50 centimetri. Perquisiscono tutti, perché non debbono entrare coltelli e, men che meno, armi. Compito titanico, se verrà rispettata la previsione di 10-15 mila persone al giorno.
Ci incamminiamo per i sentirneri del resguardo che ospita il convegno; fino a poco tempo fa, le terre de «La Maria» erano un latifondo. Incontriamo subito un folto gruppo di guambianos, tra i pochi indigeni ad aver conservato il loro originario modo di vestire (che, tra l’altro, prevede anche per gli uomini una sorta di gonna). Nei campi ci sono moltissime tende, quasi tutte piuttosto approssimative, coperte alla meglio con teloni di plastica. Ogni villaggio ha preso possesso di un piccolo lotto di terreno, dove ha piantato le proprie tende e sistemato i pentoloni per cucinare. Anche perché il convegno degli indigeni colombiani durerà 3 giorni.
Dopo il giro di perlustrazione, ci dirigiamo verso il luogo dove si terrà l’assemblea vera e propria. È un’ampia tettornia sotto la quale sono stati sistemati il palco e le sedie per gli invitati più importanti, protetti da un servizio d’ordine efficiente e discreto. Si inizia con il canto di due inni, quello della Colombia e quello del Cauca. Quest’ultimo parte così: «Io che sono figlio del Cauca…».
La corrente elettrica va e viene, ma per il resto l’organizzazione regge l’impatto di un pubblico, numerosissimo, ma composto, che ascolta con attenzione e partecipazione. Sul palco si alternano i dirigenti delle varie organizzazioni indigene colombiane, ma anche politici e rappresentanti dei sindacati e delle università. Sono tre le parole che ricorrono in tutti gli interventi: pace, giustizia, partecipazione. E la gente applaude, convinta.
Tra gli invitati spicca un gruppetto con delle magliette bianche, che sul retro portano una scritta in caratteri blu: «I familiari degli agenti di polizia e dei soldati detenuti dalle Farc sono presenti». Nelle mani dell’organizzazione ci sarebbero almeno 400 persone, ostaggi dei guerriglieri.
Lo raggiungiamo mentre scende dal palco. Marco Tulio Chirimuscay è il presidente del Cric. «Con questo raduno delle varie associazioni indigene – ci dice un po’ impettito, orgoglioso di avere tanti occhi addosso – vogliamo far arrivare agli organismi competenti la nostra proposta di pace per una convivenza civile di tutti i colombiani. Siamo soddisfatti per la vasta partecipazione. Ciò dimostra, ancora una volta, la preoccupazione e l’interesse di tutti che finalmente si arrivi ad un’intesa sul tema della pace».
I rappresentanti della guerriglia, pur invitati, non si sono fatti vedere al convegno de La Maria. Chiediamo a Chirimuscay come mai i rapporti tra indios e Farc siano tesi. «La guerriglia infrange i diritti delle comunità indigene, occupando i resguardos, condizionando l’autonomia, interferendo nell’organizzazione di base. Senza dimenticare di quando i guerriglieri portano via i nostri giovani per arruolarli a forza nelle loro fila».
Gli indios contestano anche il governo di Bogotà… «Noi non condividiamo la politica economica del governo colombiano. La scelta neoliberista ha generato un gran numero di cittadini senza lavoro e senza futuro. E poiché lo stato non garantisce nessuna prospettiva economica e nessuna sicurezza, crescono a dismisura la delinquenza comune, la guerriglia, i paramilitari e il narcotraffico».
A proposito di coca, marijuana ed amapola, che ne pensano i dirigenti indigeni? «Noi non giustifichiamo le coltivazioni illecite – risponde il presidente del Cric senza mutare il tono della voce -. Siamo coscienti che è un grave problema per la società. In ogni caso, esse vanno contro la cultura, etica e morale delle nostre comunità indigene. Quando dei nostri fratelli si dedicano alle coltivazioni illecite, lo fanno per pura sopravvivenza. Insomma, è una questione di povertà e niente di più».
Chirimuscay, cosa avete voluto dimostrare con questo raduno? «C’è una convinzione generalizzata in base alla quale in Colombia non ci sarebbe nessuna organizzazione sociale al di fuori di quelle riconosciute dalla politica ufficiale. Invece, e voi lo potete vedere qui a La Maria, esistono organismi di base che da tempo si battono per una soluzione non violenta di questa guerra. Quello che mi dispiace evidenziare è l’atteggiamento distaccato del governo da queste voci della società civile. Escludere la gente dal processo di pace significa perdere un’opportunità incalcolabile».
Dall’ottobre 1999 sono in corso dialoghi tra il governo Pastrana e le Farc. Poi ci sono le iniziative della società civile e le vostre. Tutto il quadro politico è in movimento. Si arriverà un giorno a pacificare la Colombia? «Sarà un processo lento, sofferto e complicato».
Comincia a imbrunire. Mentre sul palco parlano gli ultimi oratori, tutt’intorno, sotto le tende, è un fervore di attività. I più impegnati sono coloro che debbono preparare la cena. Le donne controllano i grossi pentoloni scuri in cui ribolle la zuppa, gli uomini rigirano sul fuoco gli spiedini di carne. Oggi si mangia bene, perché per gli indios colombiani è una giornata di festa.
Pa.Mo.
Paolo Moiola