Lo chiamano così perché ha solo 15 anni. Più giustamente, è conosciuto come «Karmapa». L’abbiamo incontrato in Tibet in ottobre, ma all’inizio di gennaio
è fuggito in India.
Non ancora chiare le ragioni che l’hanno spinto a tale gesto. Il ragazzo, numero tre della gerarchia buddista tibetana dopo il Dalai Lama
e il Panchem Lama,
ha detto: «I buddisti devono avere la libertà di praticare la loro religione».
Un problema
per la Cina.
L’ultimo raccolto
Da Lhasa, capitale del Tibet, ci avviamo verso il monastero buddista di Tsurpu, che dista circa 80 chilometri in direzione ovest. La strada che si inoltra nella valle è una pista sterrata, che diventa subito assai sconnessa; in alcuni punti il fondo è così accidentato da richiedere all’auto uno sforzo particolare per avanzare.
È la fine di ottobre. Nella notte una leggera nevicata ha imbiancato le cime delle montagne. Il tempo è incerto; le nuvole si rincorrono e, spesso, ricoprono il sole. La temperatura è decisamente fresca.
Risalendo la valle, ci fermiamo ad osservare alcune casette, costruite a cavallo del torrente dalle acque limpide. Si vedono anche mulini, azionati dall’acqua corrente, che servono a macinare l’orzo prodotto nella valle. Raggiungiamo un villaggio che, per gli standard di vita locali, non appare particolarmente povero: infatti presenta case dignitose, mentre la campagna è intensamente coltivata.
È il momento della raccolta dell’orzo. Le donne hanno il compito di tagliare le pianticelle e formare i covoni, che poi gli uomini portano a casa impiegando, generalmente, yak e muli come animali da soma. Una curiosità: le donne operano indossando vestiti che non sembrano da lavoro; esibiscono giornielli, specialmente collane ed orecchini. Le sposate indossano anche sgargianti grembiuli, formati dalla giunzione di strisce variopinte, tessute in casa su stretti telai.
La scena è corale e bucolica. È anche un momento di festa, perché rappresenta l’ultimo raccolto agricolo dell’anno, prima della inattività invernale.
il numero tre
Proseguiamo fino a raggiungere una stazione di polizia, posta circa ad un chilometro dal monastero. La caserma è dotata anche di un’enorme antenna satellitare; serve per ricevere ordini dal comando centrale, oltre a tenerlo informato sulla situazione locale.
L’attenzione della polizia cinese al monastero di Tsurpu è particolare, in quanto vi risiede il Karmapa. Egli è un «incarnato» e rappresenta quindi un alto grado nella gerarchia buddista del Tibet: è terzo nella graduatoria, inferiore solamente al Dalai Lama e al Panchem Lama.
Secondo la tradizione tibetana, l’esistenza del Karmapa era stata prevista sia dal Budda Sakyamuni sia da Padmasambhava, che fu il missionario indiano ad introdurre il buddismo nel paese, sovrapponendolo alla religione bon allora esistente.
Il Karmapa è una personificazione della misericordia e si è incarnato per 17 generazioni, a partire dal XV secolo. Le storie delle varie incarnazioni mostrano i Karmapa come persone ascetiche, dedicate agli studi, ma capaci pure di creare espressioni artistiche, specialmente poetiche.
Il Karmapa in Tibet esprime la continuità della dottrina del Vajrayana (il veicolo di diamante), una scuola originata dal filone principale del Mahajana, che rappresenta il buddismo tibetano…
Raggiungiamo il monastero a 4.400 metri di altitudine. Gli edifici furono, a suo tempo, distrutti dai comunisti cinesi. Solo i padiglioni costruiti molto in alto, su rocce a strapiombo, furono risparmiati, essendo irraggiungibili.
Questi padiglioni servivano (e servono) per ritiri spirituali. I monaci vi si chiudono in meditazione per periodi anche lunghi; durante tali segregazioni pregano per «il bene di tutti gli esseri viventi» e sono serviti da altri colleghi che, periodicamente, portano loro il necessario per la sopravvivenza.
Gli attuali edifici principali del monastero sono stati ricostruiti. Una comunità di religiosi è tuttora operante nel grande complesso.
Sembra impassibile
Siamo ricevuti con molta cordialità dai monaci; non ci pongono limiti per fotografare o riprendere con le videocamere… ricordandoci però di lasciare una piccola offerta. Così partecipiamo alle loro preghiere, anche cantate, che si succedono per un paio di ore, spesso accompagnate dal suono di strumenti a percussioni: conchiglie soffiate come trombe e altri strumenti a fiato, simili a grandi oboi.
Successivamente i monaci, seduti in fila a gambe incrociate sui propri scranni, ricevono dai giovani novizi una tazza, in cui viene versato del te. Bevuto il te, nella stessa tazza si versa una determinata dose di farina di tsampa (orzo macinato e abbrustolito), si aggiunge altro te in modo da formare una «polentina» e ciascun religioso consuma il tutto. È il pasto di mezzogiorno, indubbiamente frugale.
Al termine, tutti i monaci e novizi si alzano ed escono dal tempio: passeggiano e chiacchierano fra loro, e anche con noi.
Prima di essere ricevuti dal Karmapa, trascorre una mezz’ora. Nel frattempo si radunano altri pellegrini tibetani, anch’essi in attesa dell’udienza. Tutti siamo dotati, come minimo, di una sciarpa bianca da lasciare in dono al Karmapa, secondo l’usanza da rispettare quando si incontrano monaci di alto grado.
Finalmente inizia la processione di avvicinamento al Karmapa. Però ad un certo punto, già all’interno dell’edificio, alcuni monaci atletici dall’aria decisa ci sottopongono ad accurata perquisizione. Evidentemente la diffidenza verso i cinesi e la paura di attentati rendono necessarie queste precauzioni.
Dopo aver attraversato altre sale, siamo di fronte al «piccolo Budda», che siede su un tronetto in posizione elevata. Ci appare veramente un ragazzo, ma dall’aspetto serio e dall’espressione matura. Osserva ciascuno dei presenti con uno sguardo profondo, ma anche impassibile: riceve la sciarpa e impone le mani sul capo di tutti in segno di benedizione.
Poi usciamo frettolosamente, sospinti dalla folla e dal servizio d’ordine che cerca di sveltire al massimo la cerimonia. E ci ritroviamo sul cortile del monastero tra radi fiocchi di neve gelata.
Risaliamo sulla nostra vettura per rientrare a Lhasa.
L’imbarazzo della Cina
Abbiamo pensato spesso a quel ragazzo, che svolge un ruolo di capo spirituale gravoso e, apparentemente, al di sopra delle possibilità della sua età. In realtà la capacità del Karmapa di gestirsi, sorretto dai consiglieri, è stata tale da permettergli di rendere tollerabili i rapporti con le autorità cinesi e di… organizzare la sua fuga dal Tibet. È avvenuta nel gennaio scorso.
Ugyen Trinley Dorje (questo il nome del Karmapa), dopo un viaggio di circa 1.500 chilometri attraverso i passi himalayani, nonostante la stagione invernale, è apparso a Dharamsala (India), dove risiede il Dalai Lama. Probabilmente il viaggio è stato compiuto in prevalenza a piedi, utilizzando in qualche tratto un camion.
Dal suo giungere in India, il Karmapa non è mai apparso in pubblico, ma ha delegato alcuni monaci a dichiarare che il suo viaggio ha come fine solo quello di ritrovare sacre reliquie.
La fuga clamorosa sta scottando l’orgoglio del governo cinese, che si è visto beffato, nonostante le precauzioni assunte. Quel ragazzo se n’è andato «senza il permesso del regime di Pechino».
Nel contempo la Cina sta facendo forti pressioni sull’India, perché non conceda lo stato di asilo politico al fuggitivo, mentre l’India stessa sta cercando una soluzione politica. Ma di una restituzione del Karmapa non se ne parla.
Sia in Tibet che in Cina è stretto il controllo sulle comunità religiose. Ne fa le spese soprattutto la chiesa cattolica «clandestina», fedele alla Santa Sede che rifiuta, tra l’altro, di riconoscere l’ultimo vescovo nominato dal governo cinese.
Pechino, in ogni caso, deve affrontare la crescente «fame» di religiosità che si sta diffondendo nel grande paese. Ma, per il momento, ricorre ancora alla repressione.
Giorgio Motta