MOZAMBICO – E il mare si è ripreso il sale
Quasi un milione le persone colpite da inondazioni. Piogge torrenziali e dighe aperte nei paesi confinanti le cause del disastro. Ingenti i danni materiali.
Incalcolabile il numero delle vittime. L’acqua stagnante ha quadruplicato i casi di malaria.
E c’è il colera. Travolta anche la missione
di Mambone, dove opera padre Marchiol,
la persona più ricercata dai giornalisti italiani durante l’alluvione. Ora che i giornalisti
se ne sono andati, con i senza-tetto
sono rimasti i missionari e volontari.
Un parto sull’albero
Maputo, capitale del Mozambico. La stagione delle piogge arriva puntuale. Ma, quest’anno, si capisce subito che sta succedendo qualcosa di speciale.
Le prime voci arrivano dal Sudafrica. Enormi pianure si stanno allagando; l’acqua sembra decisa a travolgere tutto con una forza inaudita. Di più: i meternorologi preannunciano l’arrivo di un ciclone; e il ciclone arriva.
In Europa nessuno sa ancora che cosa si stia abbattendo sul Mozambico. Da Maputo arrivano i primi messaggi di allarme: sono telefonate, notizie confuse. Si sa che nella capitale quasi tutto è allagato, l’elettricità è andata in tilt per giorni, il traffico è paralizzato e la popolazione cerca di cavarsela come può. Però nessuno si rende ben conto di quello che sta accadendo.
Un pomeriggio incomincia a soffiare un vento impetuoso: le case in muratura sembrano non resistere, i vetri tremano e qualcuno si rompe, si sente il rumore delle piante che vengono sradicate e tutti cominciano ad avere paura. Il vento tremendo del ciclone dura un’intera notte, con pioggia battente. Poi il vento si placa, ma la pioggia non molla neppure per un momento.
Nella capitale si incomincia a vivere con l’acqua ovunque, cercando di fare un primo bilancio dei danni. Ed è solo a questo punto che si inizia a pensare a quello che deve essere accaduto fuori di Maputo, nelle campagne e pianure del paese attraversate dai grandi fiumi Incomati, Limpopo, Save.
È davvero un disastro. I tre grandi corsi d’acqua sono usciti dagli argini e hanno invaso le terre per chilometri. Acqua e fango non hanno risparmiato nulla: hanno travolto capanne, interi villaggi. Mandrie di bestiame e, soprattutto, tantissime persone non ce l’hanno fatta a fuggire. Il ciclone ha sorpreso molti nel sonno e l’acqua si è rovesciata violenta senza lasciare alcun scampo. Ora tutti sanno che si è consumata una tragedia.
Il governo decide di chiedere aiuto alla comunità internazionale. Il primo a rispondere è il vicino Sudafrica: con sette elicotteri i soldati sudafricani sorvolano le zone dell’inondazione e si rendono conto in fretta che li attende un lavoro immenso.
Le pianure attraversate dall’Incomati, dal Limpopo e dal Save non ci sono più. Sotto gli occhi dei militari si estendono enormi paludi: galleggiano avanzi di capanne, carcasse di animali, oggetti di ogni tipo e persino mine, residuo della recente guerra civile.
Su qualche altura, non raggiunta dall’acqua, sono radunati gruppi di persone che chiamano e chiedono aiuto. Alcuni cercano scampo su un tetto, altri tra le fronde di un albero.
Ed è proprio su un albero, in attesa di soccorsi, che nasce una bimba: si chiama Rosita Pedro, è figlia di Sofia, una donna di 23 anni. Rosita, la bimba nata tra le foglie e i rami di una grande pianta, è destinata a diventare un simbolo di speranza nel dramma che la circonda.
«Arrivano i nostri…»
Dalla notte della grande paura sono ormai passate due settimane. Solo adesso il resto del mondo decide di ascoltare il grido di aiuto del Mozambico. Sono trascorsi 15 giorni, durante i quali i più deboli non sono sopravvissuti e molti hanno perso tutto, forse anche la speranza.
Tra mille esitazioni e tentennamenti, alla fine la comunità internazionale decide di scendere in campo per dare una mano alla gente del Mozambico. Però in loco, accanto alla popolazione, erano già all’opera i missionari e pochissime organizzazioni umanitarie, per combattere contro la forza del ciclone.
Dunque, la grande macchina degli aiuti si mette in moto. Arrivano 700 uomini dagli Stati Uniti, elicotteri delle Forze speciali britanniche, aerei cargo e soldati tedeschi, velivoli portoghesi e spagnoli. Ci sono tutti, compresi gli italiani. Gli addetti del Programma mondiale per l’alimentazione, la Croce Rossa e i Medici senza frontiere c’erano già. Ora anche i missionari, che vivono nelle regioni del disastro, si sentono un po’ meno soli.
Gli elicotteri dei soccorsi compiono tui massacranti; volano 10-12 ore al giorno in una disperata lotta contro il tempo, cercando di recuperare le ore e i giorni perduti in precedenza. Per molti piloti e i loro assistenti è il primo impatto con l’Africa. Per qualcuno è uno shock.
Le operazioni sono tutte per mettere in salvo la popolazione. Poi, poco per volta, incomincia la distribuzione di cibo fra i senza casa, raccolti in campi allestiti un po’ ovunque. La gente nel frattempo si raduna sulle terre più alte, quelle meno inondate, e lì le organizzazioni umanitarie attendono alla distribuzione di aiuti.
L’EMERGENZA A MAMBONE
Il ciclone arriva a Mambone violento, senza preavviso, come nel resto del Mozambico. Dopo una notte passata ad ascoltare la furia del vento che sembra voler spazzare via ogni cosa, padre Amadio Marchiol, fratel Pietro Bertoni e le suore pallottine credono che sia tutto finito, che sia tornata la calma. Invece il peggio deve ancora venire.
La mattina seguente, la pioggia continua ad aumentare. Ad un certo punto l’acqua comincia ad invadere tutto: non è più solo pioggia; sono le acque del fiume Save che, rotti gli argini, invadono l’intera pianura.
Sotto la pioggia battente giungono alla missione decine di persone, poi centinaia. Tutti raccontano la stessa storia: l’acqua ha travolto le loro case, i loro animali, le loro cose, tutto. Sono scappati verso le terre più alte, sono arrivati alla missione in cerca di un rifugio, un riparo.
Nel giro di poche ore Mambone si trasforma in un campo di accoglienza. La chiesa diventa dormitorio, dove i missionari della Consolata e le suore pallottine fanno riposare le donne, i vecchi e bambini. Ma non c’è cibo a sufficienza per tutti e, fuori, continua maledettamente a piovere.
Padre Marchiol usa il suo telefono satellitare per lanciare grida di aiuto. Chiama l’Italia, chiama i confratelli a Maputo. Ora le persone da sfamare sono migliaia. Non c’è tempo da perdere. Sopraggiungono a dare una mano preziosa tre missionarie della Consolata: Josenilde, Jane, Salome.
In attesa di aiuti alimentari, le scorte di cibo vengono razionate: un pugno di riso per famiglia, qualche biscotto per i bambini. Le ore passano lente, interminabili. Smettesse almeno di piovere! Trascorrono giorni interi. Finalmente la prima schiarita!
Quando spunta il sole, giungono anche gli elicotteri che trasportano riso, pappe per i neonati e medicinali. È l’indispensabile per superare l’emergenza.
Intanto la gente che ha lasciato i villaggi è sempre alla missione, con padre Marchiol e gli altri missionari, e racconta. Ognuno manifesta la sua immensa paura; qualcuno si interroga sul destino di quelli che ha perso di vista. Altri invece sono travolti dalla tragedia.
C’è una madre che si è vista strappare dalla corrente limacciosa i suoi tre figli. Continua a fissare il vuoto. Nulla è in grado di consolarla. I missionari l’avvicinano, tentano di parlarle; lei sembra non udire, come se la sua mente fosse rimasta altrove.
Ma né padre Amadio, né fratel Pietro, né le missionarie possono fermarsi. Il lavoro da fare è moltissimo. Tanta la gente da aiutare. Ora bisogna ricominciare da zero.
Il ciclone ha cancellato il frutto di anni di lavoro, distruggendo la salina che i missionari avevano costruito e che dava lavoro a una cinquantina di persone. Nei capannoni giacevano 2 mila tonnellate di sale… ora ritornate in mare. E con il sale se n’è andata anche la possibilità di aiutare chi veramente ha bisogno. Per i missionari e la popolazione il sale era diventato la principale fonte di reddito.
Due mesi dopo
Dopo circa due mesi dalla grande alluvione, la strada per raggiungere Mambone è stata riaperta. Ora gli aiuti possono arrivare regolarmente via terra. In quasi tutto il Mozambico sono stati ripristinati i collegamenti principali e la «ricostruzione» è faticosamente cominciata.
Una sola è la vera grande paura dei mozambicani e di chi lavora con loro: finire nel dimenticatornio, scomparire dalle pagine dei giornali. Se questo accadesse, allora il ciclone avrebbe vinto davvero.
(*) Monica Maggioni, giornalista Rai – Tg 1 , ha visitato il Mozambico durante l’alluvione.
C’E’ PURE CHI PESCA NEL TORBIDO
I l 23 febbraio scorso, mentre l’aereo si stava preparando ad atterrare, dai finestrini vedevo intere zone allagate. Era difficile distinguere dove finiva la terraferma e dove incominciava il mare: solo il tetto delle abitazioni e le fronde degli alberi (che sembravano cespugli) mi lasciavano intuire che ero alla periferia di Maputo.
Quello che ho visto dall’aereo era solo una piccola parte della tragedia che ha sconvolto il Mozambico nel febbraio-marzo scorso. Piogge torrenziali e, soprattutto, lo straripamento di fiumi hanno determinato allagamenti di interi villaggi.
Ma le responsabilità del disastro non sono solo atmosferiche; bisogna chiamare in causa anche il Sudafrica e lo Zimbabwe, paesi confinanti, che hanno aperto le dighe dei loro fiumi, le cui acque si sono riversate in massa in Mozambico.
Inoltre sul paese, già colpito dall’inondazione (la più grande negli ultimi 50 anni), si è abbattuto anche il ciclone «Eline», proveniente dall’Oceano Indiano. Così distruzioni si sono aggiunte a distruzioni.
L a principale strada asfaltata «AN 1», che collega Maputo al nord del paese, era allagata e interrotta in più parti. Il Mozambico, geograficamente lungo e stretto, era tagliato in due. I collegamenti si potevano effettuare solo per via aerea.
La cittadina di Xaixai, alla foce del fiume Limpopo, è stata una delle più colpite; nel centro abitato l’acqua in un’ora è salita di 1 metro e, in poco tempo, ha raggiunto il primo piano degli edifici. La cattedrale e la casa del vescovo sono state le prime ad essere allagate.
La gente non ha fatto in tempo a salvare le proprie cose. Già possono dirsi fortunati coloro che sono riusciti a salire sugli alberi e trovare rifugio dalla furia impietosa delle acque limacciose. Tante, purtroppo, le vittime. Sarà difficile conoscere il numero esatto di coloro che hanno perso la vita. Molti resteranno per sempre sepolti nel fango.
Drammatica è anche la situazione nei villaggi lungo il fiume Limpopo.
L’uragano ha travolto anche Mambone, dove lavora padre Amadio Marchiol, missionario della Consolata. È un pioniere. È in Mozambico da 47 anni; neppure il sanguinoso conflitto fra Renamo e Frelimo lo aveva indotto a lasciare il paese. In questo momento di emergenza ha preso in mano la situazione e, con fratel Pietro Bertoni e tre missionarie pallottine, sta prestando i primi aiuti alle popolazioni di Mambone e delle zone limitrofe.
Ogni giorno occorre provvedere ai rifugiati che approdano alla missione in numero crescente. Mentre scrivo sono oltre 7 mila.
Nei dintorni di Mambone un numero imprecisato di persone ha trovato rifugio su alcune isole: si tratta di collinette non raggiunte dall’acqua. Anche qui la gente attende soccorso; finora è sopravvissuta con il poco granoturco che è riuscita a salvare.
La gente, divisa in piccoli gruppi, cucina su bidoni tagliati a metà e trasformati così in pentole capienti. I missionari hanno disinfettato l’acqua con pastiglie di amuchina, scongiurando per ora il pericolo di epidemie.
Da Maputo, intanto, padre Manuel Tavares è in contatto giornaliero con i missionari di Mambone e cerca di inviare aiuti in collaborazione con i confratelli di Beira, la comunità di sant’Egidio e la Caritas.
Da Beira si sta organizzando il trasporto di generi di prima necessità e di medicinali. Ma si incappa nell’apparato burocratico, che è sempre senz’anima e, in questa situazione di emergenza, appare addirittura spietato. Ed è triste… La nave, che sarebbe già dovuta partire da giorni, è ancora ferma nel porto di Beira, e non se ne conosce il motivo.
L’emergenza provocata dall’inondazione non termina solo con il salvataggio di persone e l’invio di aiuti. Infatti non si possono ignorare i danni provocati dalla piena: raccolti agricoli perduti, edifici distrutti o danneggiati, strade interrotte e, soprattutto, uno stato di precarietà per la salute delle persone. L’acqua stagnante ha quadruplicato i casi di malaria e lo spettro del colera è alle porte.
A Maputo come a Beira, è difficile reperire fagioli; pare che siano scomparsi dal mercato. Qualcuno sospetta (non a torto) che giacciano in qualche magazzino, in attesa che il loro prezzo salga.
È l’altra faccia della medaglia. Anche nelle tragedie c’è sempre qualcuno che cerca di trarre profitto, pescando nel torbido.
Che dire poi dei sacchi di riso, esposti fuori di un negozio indiano alla periferia di Maputo, con la scritta a caratteri cubitali «dono del popolo italiano al Mozambico»?
Di fronte a questo fatto curioso, qualcuno ha chiesto delle spiegazioni. Ecco la risposta: «È tutto legale. La gente non può vivere solo di riso, ma ha bisogno di una dieta equilibrata e differenziata. Allora è giusto che si sottragga un po’ di riso alla distribuzione».
Una barzelletta, un insulto, un furto?
Caterina Fassio, missionaria laica di Vercelli
Monica Maggioni