Le multinazionali all’assalto del mondo

«Chiquita», la multinazionale statunitense delle banane,
è riuscita a mettere in crisi l’Unione europea. I sostenitori di un sistema
fatto a misura di multinazionali affermano:
meno vincoli statali significa più libertà e di conseguenza più benessere per tutti. Ma questo proclama neoliberista crolla davanti ai fatti:
disoccupazione crescente nei paesi industrializzati, condizioni lavorative
indegne nei paesi poveri. E tutto mentre i mercati finanziari sono drogati
dalla speculazione e il cancro del debito avvelena il mondo.

C hi comanda oggi nel mondo? La risposta è chiara: comandano le multinazionali.
Le Nazioni Unite definiscono multinazionali tutte le imprese che detengono la proprietà di altre società dislocate all’estero. Per cui basta che una azienda ne possegga un’altra al di là dei confini nazionali ed è classificata come multinazionale. Le multinazionali censite nel mondo sono oltre 40 mila; forse oggi sono diventate 50 o 60 mila. Il loro numero va crescendo. La quantità di imprese che esse controllano si aggira intorno a 400 mila.
Ma, detto questo, si rischia di essere portati fuori strada, perché le multinazionali che contano davvero non arrivano a 600; qualcuno dice addirittura che non giungono a 200. Si stima che 500 multinazionali siano responsabili del 25% del prodotto lordo mondiale; quindi il potere economico si sta concentrando sempre di più nelle mani di poche strutture.
Va data anche un’altra definizione di multinazionale, legata alle dimensioni: le multinazionali sono enormi; sono così grandi che nessuna nazione contiene un numero di consumatori sufficienti ad assorbire i loro prodotti.
Si pensi a Coca Cola, Nike, Reabock, Philips Morris, Nestlé e tante altre. Ebbene, per tutte queste imprese, i confini di casa loro sono troppo stretti. Di qui la necessità di espandersi a livello mondiale, di qui la globalizzazione.
INTERESSI COMMERCIALI E LIBERTÀ DI PROFITTO
La globalizzazione è nata perché le imprese affermatesi sono multinazionali. Noi non siamo dentro ad una globalizzazione qualsiasi, ma ad una globalizzazione che ha connotati precisi, per servire interessi precisi.
Il primo interesse è commerciale: la commercializzazione dei prodotti in ogni angolo del mondo; la libertà di collocare le merci ovunque, sia a New York che a Kathmandù, a Hong Kong come in qualsiasi altro paese.
La seconda libertà che le multinazionali rivendicano è di poter trasformare ogni risorsa naturale in merce. Che si tratti di legname tropicale, minerali, petrolio o qualsiasi altra risorsa con un ruolo fondamentale per i meccanismi vitali del pianeta, ebbene le imprese multinazionali rivendicano il diritto di trasformare le risorse in merce. Vale a dire di sfruttarle, di poterle esaurire pur di ottenere dei profitti.
La terza libertà, rivendicata dalle imprese a livello mondiale, è di usare qualsiasi tecnologia, non ultima quella che scardina i meccanismi intimi della vita. Ecco allora le biotecnologie, gli organismi geneticamente modificati, la clonazione dell’essere umano.
Per ottenere questo, le imprese hanno bisogno che gli stati si mettano d’accordo su trattati precisi che garantiscano il liberismo.
PER UN MONDO SENZA OSTACOLI
Esistono alcuni organismi importanti (come l’Organizzazione mondiale del commercio), che si muovono secondo due logiche di fondo.
In primis affermano che il commercio è al di sopra di tutto. Quindi si comincia ad affermare l’egemonia del commercio sopra ogni valore sociale e ambientale. Questa è la nuova dottrina che si sta tentando in tutti i modi di affermare all’inizio del terzo millennio.
La seconda strategia è quella di fare in modo che gli stati perdano sempre di più potere.
Le multinazionali hanno bisogno di un mondo senza ostacoli. Hanno bisogno che gli stati non solo perdano la possibilità di legiferare, in modo da sottoporre gli interessi collettivi a quelli commerciali, ma addirittura che gli stati cancellino le leggi che antepongono gli interessi sociali a quelli commerciali.
Di qui l’importanza di un meccanismo giudicante nell’Organizzazione mondiale del commercio. Esso interviene qualora gli stati membri pensino che altri stiano ledendo gli interessi di una loro multinazionale. Ci sono esempi concreti.
Recentemente l’Unione europea è stata portata in giudizio dal governo degli Stati Uniti a causa di una regolamentazione nel settore delle banane. La regolamentazione europea non ledeva gli interessi degli Stati Uniti (giacché essi non sono un esportatore di banane), bensì quelli della Chiquita, che è una multinazionale di origine statunitense.
L’Unione europea è stata trascinata in giudizio e condannata. Essa si è trovata di fronte a due scelte: o mantenere la sua regolamentazione e accettare di essere sottoposta a ritorsioni commerciali equivalenti al danno inflitto a Chiquita, oppure cancellare la regolamentazione e fae un’altra.
Ovviamente l’Unione europea ha scelto la seconda strada.
LA GLOBALIZZAZIONE PRODUTTIVA
Con la globalizzazione commerciale, si è sviluppata anche una globalizzazione produttiva: il mondo intero, cioè, si sta trasformando in un unico villaggio produttivo. Questo perché le multinazionali hanno fatto un’amara scoperta.
Esse hanno scoperto che il mondo è vasto da un punto di vista geografico e demografico (siamo oltre 6 miliardi di individui), ma il numero di persone con la possibilità di comprare, all’interno del mercato mondiale, è piccolo.
In altre parole, i consumatori che hanno soldi sufficienti, per comprare ciò che il sistema produttivo (altamente tecnologico) mette sul mercato, sono molto scarsi. Il loro numero non va oltre il 30-35% della popolazione mondiale. Insomma, il numero degli «eletti» è molto piccolo. Tutti gli altri sono stati esclusi a causa di cinque secoli di colonialismo, che hanno creato una massa di poveri enorme.
Non dobbiamo dimenticare che un miliardo e mezzo di persone vive in povertà assoluta: sono quelle che vivono con meno di un dollaro al giorno. I poveri assoluti sono coloro che campano nella precarietà massima, che dormono di notte sui marciapiedi e si alzano al mattino con la loro famiglia senza sapere se mangeranno un piatto di minestra durante il giorno; non sanno se troveranno il lavoro che gli permetterà di guadagnare quel famoso dollaro al giorno. Non riescono ad offrire ai loro figli la possibilità di andare a scuola, tanto meno di comprare una medicina o di entrare in un ospedale. Non riusciranno mai a garantire a se stessi neanche l’acqua potabile.
È veramente uno scandalo enorme, che grida contro di noi e il nostro sistema economico.
Ebbene tutto questo si sta ritorcendo contro. In un mondo squilibrato, con grandi sacche di povertà, i nodi sono venuti al pettine.
PER LA DIMINUZIONE DEI COSTI
In un mercato con pochi acquirenti e tanti venditori, si scatena una concorrenza feroce tra le imprese, per strapparsi i clienti a vicenda.
Osserviamo i mercanti che vanno alla fiera del mattino. Essi pensano di essere in pochi a mettere la propria bancarella in una piazza, dove passeranno tanti clienti facoltosi; invece scoprono che le bancarelle sono molte e che la gente è tanta, ma la maggior parte è stracciona e non ha la possibilità di comprare.
Allora… con un megafono enorme si cerca di richiamare l’attenzione dei passanti. Ecco la pubblicità che incalza e assume tante forme.
Non è solo pubblicità quella in televisione o sui giornali. La pubblicità è sempre più strisciante e subdola, con numerose sponsorizzazioni: non solo sportive, ma anche sociali. Sono tantissime le società che cercano di associare al loro marchio anche entità che si contraddistinguono per la propria finalità sociale. Perfino l’Unicef si fa sponsorizzare dalle imprese!
E le imprese non fanno nulla gratuitamente. Esse non conoscono il verbo «regalare». Le imprese danno quando sanno che il ritorno è il doppio o triplo.
E, siccome sanno di essere in una società dove la sensibilità dei consumatori per alcuni problemi va crescendo, accettano volentieri di associare il loro nome a quello di enti caritatevoli. Questo perché gli farà avere un ritorno di immagine, che riuscirà ad aumentare le loro vendite.
Dopo la pubblicità, la seconda strategia per vendere è legata ai prezzi. Basta che un prodotto costi una lira di meno per attirare subito i consumatori. Poi si fanno altre valutazioni; però quella del prezzo è fondamentale.
Poiché la concorrenza è feroce, i prezzi diminuiscono: questa è una delle vie per accaparrarsi i clienti. Ma se i prezzi diminuiscono, diminuiscono pure i ricavi e i profitti. Allora bisogna trovare altre strategie che facciano sì che i guadagni rimangano stazionari o, addirittura, aumentino.
A tale scopo, le imprese si sono impegnate a diminuire «altri» costi di produzione: come al solito, ciò che ha attirato la loro attenzione è stato il mondo del lavoro. Le strategie per diminuire i costi del lavoro sono tante. Una fra tutte: la sostituzione dell’uomo con la macchina. La disoccupazione odiea è sostanzialmente tecnologica.
Si è instaurata anche un’altra strategia, soprattutto nei settori che ricorrono ancora alla manovalanza. Essa consiste nel trasferire la produzione in quelle parti del mondo dove la gente, a causa di una povertà secolare, accetta di lavorare per un tozzo di pane.
È cominciato il trasferimento della produzione in paesi come la Corea del sud, Taiwan. Poi, quando tali paesi hanno raggiunto un certo standard di vita, sono state chiuse le fabbriche là, per trasferire la produzione in Indonesia, Thailandia… E, quando anche in queste nazioni, i lavoratori reclameranno migliori condizioni di lavoro, là pure si chiuderanno le fabbriche per trasferirsi in altre parti del mondo.
Già oggi si vedono nuovi paesi di approdo, come il Vietnam e la Cina. Anche l’Africa comincia a richiamare questo tipo di produzioni. Il processo di trasferimento della produzione è continuo.
Nelle loro fabbriche di scarpe, tessili e giocattoli le condizioni di lavoro sono facilmente immaginabili: i salari sono tanto infami che non riescono neanche a garantire il soddisfacimento dei bisogni primari. In Indonesia i salari delle ragazze che lavorano nelle fabbriche di scarpe coprono a mala pena il 70% del loro fabbisogno di base.
Ci sono poi orari di lavoro lunghissimi, per tentare di guadagnare qualche spicciolo in più. Le libertà sindacali sono inesistenti e, dulcis in fundo, si diffonde il lavoro minorile, che è un compenso a situazioni in cui gli adulti non guadagnano abbastanza. In alcuni casi il lavoro minorile si trasforma in schiavitù, come ad esempio nella produzione di tappeti in India o Nepal.
La globalizzazione produttiva sta portando le condizioni di lavoro sempre di più verso il basso. Lo si vede chiaramente in Asia e America centrale. Ma anche i nostri paesi sono trascinati in questo abisso.
L’ACCORDO SUGLI INVESTIMENTI
L’esigenza di produrre in ogni parte del mondo ha spinto le multinazionali ad ottenere una regolamentazione che, ancora una volta, riconoscesse loro tutti i diritti e nessun dovere: diritti di entrare in ogni paese e di uscie, quando ne sentivano il bisogno, senza alcun obbligo nei confronti della collettività o del governo; addirittura il diritto di un trattamento migliore di quello garantito alle imprese nazionali.
Questi diritti facevano parte del famigerato «accordo sugli investimenti», che per fortuna non è passato. Si è tentato il colpo in segreto a Parigi, all’interno dell’Ocse, affinché l’economia sia gestita sempre di più in maniera liberista. Dopo cinque anni, finalmente, qualcuno ha avvistato i pericoli; e, pur facendo parte della delegazione ufficiale, ha tirato fuori la notizia e l’ha data in pasto ad alcune organizzazioni non governative.
Il clamore suscitato è stato tale che il governo francese si è ritirato, facendo crollare tutta la costruzione.
Nell’accordo c’era una clausola, legata agli espropri, che diceva: le multinazionali, che investono in un paese estero, hanno il diritto di essere rimborsate ogni qual volta vengano espropriate di attività, terre o fabbriche; non solo, hanno diritto di essere risarcite anche nel caso in cui uno stato emani una legge che, in qualche modo, comprometta le possibilità dell’impresa di vendite future.
Che cosa significa? Se una fabbrica produce una sostanza chimica dannosa e viene promulgata una legge che la proibisce, la fabbrica può fare i conti di quanto avrebbe guadagnato nei prossimi dieci anni e spedire il conto allo stato!
Non sono cose campate per aria, perché nel Nord America, all’interno dell’accordo del Nafta (stipulato tra Stati Uniti, Canada e Messico), questa clausola esiste già. Il Canada è già stato portato in giudizio per un fatto del genere. Siccome intravvedeva la possibilità di essere condannato, è arrivato a patti con l’impresa che l’aveva citato in giudizio e ha pagato 13 milioni di dollari pur di chiudere il caso.
Siamo di fronte ad una situazione in cui tutto il potere è delle imprese, e le nazioni (vale a dire la gente) hanno soltanto doveri: doveri persino di risarcire le multinazionali anche del loro mancato guadagno.
IL DEBITO
Accanto alla globalizzazione produttiva e commerciale, c’è la globalizzazione finanziaria, incominciata 30 anni fa con il fenomeno del debito dei paesi poveri.
Esso nacque perché le banche inteazionali si trovavano con una grande quantità di denaro, derivante soprattutto dai guadagni degli emiri arabi con il rincaro del petrolio. Le banche non sapevano che fare dei petrodollari, perché Europa, Stati Uniti e l’intero mondo industrializzato stavano attraversando un periodo di recessione.
Le banche, non sapendo dove collocare il denaro (esse guadagnano solo se collocano i depositi che ricevono), hanno cominciato a offrire soldi a condizioni agevolate ai governanti del Sud del mondo, prospettandogli la possibilità di usarlo per i loro sogni. Purtroppo non erano sogni che miglioravano le condizioni di vita della gente; anzi, quasi sempre erano sogni volti a rafforzare il potere personale e gli eserciti dei dittatori sparsi nel mondo.
Poi una quantità di soldi è stata sprecata per realizzare «cattedrali nel deserto», progetti che non avrebbero prodotto niente, ma che servivano esclusivamente per fornire appalti alle imprese del Nord. E queste ricompensano i governanti con laute bustarelle, alimentando una paurosa corruzione.
Il debito scellerato non è stato contratto per consentire alla gente di vivere meglio, per fare investimenti produttivi e sociali, ma per rafforzare posizioni di potere.
Intanto, finita la fase dei tassi agevolati, gli interessi sui prestiti hanno incominciato a salire. Il debito è cresciuto a dismisura. I paesi, non riuscendo a pagare le rate, sono stati costretti a chiedere altri prestiti e il debito è aumentato come una valanga. Oggi siamo arrivati a circa 2.500 miliardi di dollari di debito complessivo.
Ogni anno i paesi del Sud versano alle casse del Nord qualcosa circa 290 miliardi di dollari: sono sudore della gente, sono materie prime che passano gratuitamente dal Sud verso il Nord, anno dopo anno.
Se si vuole guadagnare da un paese, basta indebitarlo. Il debito è un meccanismo scientifico, studiato a tavolino, proprio per avere un travaso di risorse dal Sud verso il Nord.
IL RICATTO DELLE ISTITUZIONI
La scelleratezza è diventata via via più immane. Le istituzioni inteazionali concedevano nuovi prestiti ai paesi indebitati, ponendo condizioni ben precise: «Noi ti diamo un ennesimo prestito, a patto che tu ristrutturi l’economia nazionale esclusivamente per ripagare il debito».
La logica che sta sotto è semplice. Cosa chiede una persona a un suo debitore? Di lavorare tanto e tirare la cinghia, in modo che egli avanzi una quantità sufficiente di risorse per restituire il debito. È questa la logica che applica il Fondo monetario internazionale.
Non c’è niente di complicato quando si parla di «aggiustamento strutturale» dell’economia per favorire il pagamento del debito. In base a questa logica, i paesi del Sud sono spronati a fare sempre di più man bassa delle loro risorse, a sfruttare maggiormente il lavoro dei loro popoli, a orientare la loro economia verso l’esportazione. Infatti solo così si procurano i dollari per restituire il debito.
Il meccanismo infeale implica, nel contempo, una drastica riduzione dei bilanci pubblici: meno fondi per il pubblico significa più soldi per ripagare il debito. Ecco, allora, che vengono tagliati i sussidi a sanità, istruzione, alimentazione: insomma tutte le spese sociali.
Sicuramente, però, i risparmi non vengono fatti sulle spese destinate agli armamenti, che (guarda caso) si comprano da noi.
Questa è la logica dell’«aggiustamento strutturale». Oggi la gente del Sud del mondo sta morendo, intrappolata nel sistema diabolico descritto.
LA SPECULAZIONE FA MALE AI LAVORATORI
Nell’ambito della globalizzazione finanziaria trova sempre di più spazio la speculazione sui cambi delle valute e sul valore dei titoli.
La finanza sta andando in questa direzione per due ragioni. In primo luogo, perché i tassi di interessi sono diminuiti considerevolmente e, di conseguenza, non c’è più stimolo a depositare il denaro in banca o acquistare titoli di stato.
L’altra ragione è che si stanno rafforzando nuove istituzioni finanziarie, ancora una volta legate alle scelte liberiste dei governi. Quanto più lo stato rinuncia al suo compito in ambito sociale, tanto più esso viene assorbito da istituzioni private che, naturalmente, hanno bisogno di guadagnare. Si tratta, in particolare, di società che gestiscono i fondi pensione e delle assicurazioni.
Poiché le istituzioni private devono mostrare ai loro clienti che sanno far fruttare i soldi, mettono in atto strategie che puntano al profitto immediato. Un miliardo e mezzo di dollari transita ogni giorno da un computer all’altro per tentare di guadagnare sulle variazioni delle valute straniere e sul valore dei titoli azionari!
Due anni fa, in Thailandia, la borsa crollò del 10-15% dall’oggi al domani, mettendo in moto un processo di recessione che provocò il licenziamento di migliaia di persone. Occorre essere più consapevoli del fatto che l’economia finanziaria si ripercuote su quella reale. Dunque, sulla vita quotidiana della gente comune.

Francesco Gesualdi

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