ISRAELE – Un’oasi di pace per la pace
Bruno Hussar, ingegnere ed esperto nel costruire ponti,s’accorge che in Israele i collegamenti più importantiriguardano i popoli e le religioni.
Sogna e realizza l’«oasi di pace». In silenzio.
M itròvitza, città simbolo degli ostacoli ad una pacificazione fra serbi e albanesi del Kosovo: pacificazione che pare difficile se non impossibile. Un fiume divide le due comunità in lotta. Un ponte, che dovrebbe unire le sponde, è in realtà luogo di scontro fra le due entità etniche, con le truppe del Kfor che fanno da… «terzo» fra i due litiganti.
Nella parte nord di Mitròvitza (il settore serbo) scoppia un grosso incendio, uno dei tanti. I vigili del fuoco serbi sono in seria difficoltà. I colleghi albanesi del settore sud partono per dare una mano. Passato il ponte, sono fatti oggetto di insulti e sassaiole da parte dei serbi. Nulla di strano, purtroppo! Siamo abituati a simili racconti balcanici.
IL SOGNO DI ISAIA
Dai Balcani (e capiremo presto il perché) spostiamoci in Israele.
Il Medio Oriente è un’altra zona «calda», geograficamente più lontana, ma forse più vicina a noi sul piano della cultura e dei sentimenti rispetto ai territori aldilà dell’Adriatico.
Chi in Israele percorre la superstrada Tel Aviv – Gerusalemme, là dove la pianura costiera comincia a corrugarsi per diventare montagna, incontra un’area che racchiude in pochi chilometri quadrati alcune testimonianze di un passato plurimillenario:
– il biblico Tel Gèzer, traccia dell’antichissima città cananea portata in dote dalla figlia del Faraone allo sposo Salomone, figlio di Davide;
– le colonne e l’abside della grande basilica costantiniana di Emmaus Nicopoli, distrutta nel V secolo da un’incursione samaritana;
– le rovine della fortezza di Toròn, simbolo dell’orgoglio dei crociati in Outremer;
– l’abbazia di Latrùn, teatro con il vicino fortino inglese di terribili scontri nella guerra del 1948-49 fra la haganah (1) ebraica e le agguerrite truppe transgiordane.
Oggi l’abbazia è ritornata al silenzio, alla preghiera e al lavoro di una comunità trappista che ne aveva cura anche in passato. E, proprio sui terreni dell’abbazia, in cima ad un’altura, sorge un villaggio. È costituito da una manciata di case bianche ed è simile ai kibbùtz e moshàv (2) che costellano la pianura e le colline d’intorno.
Il villaggio ricorda al visitatore che un sogno può realizzarsi e che la pace è possibile. Si chiama Nevè shalom/Wahat as-salam, ossia «oasi di pace», rispettivamente in lingua ebraica e araba. Non lontano, nel secolo VIII a. C., il profeta Isaia sognò il giorno in cui «il popolo abiterà in una dimora di pace» (Is 32, 18).
È stato pure il sogno di Bruno Hussar, nato nel 1913 in Egitto e morto in Israele tre anni orsono.
Figlio di genitori ebrei, cittadino austrungarico prima, poi italiano, francese e infine israeliano, Bruno è un ingegnere. Vissuto nell’agnosticismo fino all’adolescenza e chiamato alla fede cattolica in età ormai adulta, alla vita religiosa e al sacerdozio, lui, ebreo inconscio, riscopre la propria ebraicità quando è frate domenicano e prete in terra di Israele tra i suoi fratelli.
La volontà di riconciliazione fra nemici gli fa creare Nevè shalom/ Wahat as-salam. Oggi nel villaggio abitano e lavorano insieme, da 30 anni, famiglie di ebrei, musulmani e cristiani.
La «pace possibile» è fra ebrei ed arabi, impegnati in un conflitto sanguinoso, ancorché dalle radici recenti. È però anche, in senso generale, la pace fra uomo e uomo in tutte le situazioni di conflitto armato o ideologico, anche là dove le radici del male affondano nei secoli, come nell’Irlanda del Nord e in quella che fino a ieri si chiamava Jugoslavia.
A SCUOLA DI PACE
La comunità di Nevè shalom/ Wahat as-salam «vive in pace» nella diversità dei propri membri, che condividono giornie, dolori, feste e preoccupazioni; essa inoltre lavora per la pace con un’apposita «scuola», in funzione da anni all’interno del villaggio. È una iniziativa che promuove la conoscenza approfondita fra gli studenti (ebrei ed arabi) delle ultime classi delle superiori di Israele, incontri di insegnanti e docenti universitari locali.
Ora la scuola ha allargato la propria attività ai territori dell’Autonomia palestinese. Si contano 280 presenze agli incontri tra giovani israeliani e palestinesi, organizzati in collaborazione con centri culturali e promotori di pace; 80 incontri con gli studenti dei territori palestinesi.
Fuori dell’ambiente scolastico, nel 1999 si è tenuto anche un corso per donne arabe ed ebree, organizzato con la Scuola di servizi sociali dell’università di Tel Aviv, con ben 90 presenze. Circa 700 adulti (giornalisti, funzionari, universitari) delle due etnie hanno partecipato a corsi e seminari.
L’esperienza ed attività di Nevè shalom/Wahat as-salam si sono estese negli anni ad altre aree di conflitto: ad esempio, nell’Irlanda del Nord e in Bosnia.
Al presente la comunità è chiamata ad operare (possiamo immaginare con quali difficoltà) proprio in Kosovo, a Mitròvitza. L’invito è giunto dal sindaco, proprio in conseguenza dell’episodio dei vigili del fuoco presi a sassate. Occorre stabilire, mediante tecniche di contatto già collaudate in Israele, un dialogo fra le due etnie lacerate dal risentimento e dalla paura.
UN INGEGNERE SPECIALE
Nevè shalom/Wahat as-salam è l’ultima e più nota realizzazione di padre Bruno. Oggi la comunità è avviata ad una crescita notevole. Lo scopo è di raggiungere i 160 nuclei familiari e le candidature di ebrei ed arabi non mancano.
Di recente nubi minacciose hanno oscurato l’orizzonte del villaggio: da un lato, i monaci di Latrùn avevano ricevuto disposizioni superiori di alienare una parte dei terreni dell’abbazia, compresi quelli affittati a Nevè shalom/Wahat as-salam; dall’altro, si stava attuando il progetto di costruire nelle immediate vicinanze due grandi insediamenti ebraici, che avrebbero alterato (se non demolito) la peculiarità della comunità.
La Provvidenza, per intercessione del «fratello Bruno», sulla cui assistenza i membri della comunità non hanno dubbi, ha fatto sì che le cose andassero diversamente. L’abbazia ha donato al villaggio buona parte dei terreni che occupa e… i progetti d’insediamento sono tramontati.
Nel corso della sua vita in Israele, padre Bruno ha portato avanti, per quasi mezzo secolo, la vocazione di costruttore di ponti fra le religioni, le culture e i cuori. «Sono ingegnere – diceva – e come tale ho imparato a costruire ponti. Ora sono chiamato a lanciare ponti fra gli uomini».
Durante il Concilio ecumenico Vaticano II, aveva promosso il dialogo fra cristiani ed ebrei e l’abbattimento del muro millenario costituito dalla «teologia del disprezzo», mentre alle Nazioni Unite aveva difeso i diritti del popolo d’Israele.
Padre Bruno non ha mai tentato di convertire musulmani o ebrei. Invece, per iniziativa del frate, la comunità giudeo-cristiana in Israele, che con mille difficoltà porta avanti un’ardua convivenza fra il proprio ebraismo e la fede cristiana, conta oggi centri di ritrovo in diverse città del paese, assistenza religiosa, nonché una sua liturgia in ebraico. Sono poche centinaia di fedeli: vivono il loro credo in semiclandestinità.
Ma sono un segno dei tempi nuovi, un seme per la riappropriazione, da parte del popolo ebraico (nel rispetto della propria cultura e religione) della persona e dell’insegnamento di Gesù di Nazaret. E, forse, preludono a qualcosa di più grande, se è nei disegni di Dio.
UN INVITO NEL 2000
Nevè shalom/Wahat as-salam è tutt’altro che un idillio. Le difficoltà fra ebrei, cristiani e musulmani permangono, come pure le tensioni fra le etnie. I ragazzi ebrei sono chiamati alle armi e si sentono impegnati a rispondere alla leva, anche se con dei dubbi. I coetanei arabi, compagni di gioco, studio e lavoro, li vedono allontanarsi con preoccupazione e, da parte loro, subiscono il richiamo dell’appartenenza al loro popolo, diviso fra Israele e territori dell’Autonomia palestinese. Sono tensioni forti, che non si dissolvono da sole, ma vengono risolte giorno per giorno nell’amore reciproco e nel dialogo sincero.
Il piccolo cimitero di Nevè shalom/Wahat as-salam accoglie già due tombe: quella di padre Bruno e di Tom Kitain, 23 anni, un figlio del villaggio, morto in un incidente aereo durante il servizio militare. Per contro, sbocciano nuove vite nelle famiglie arabe ed ebraiche, a mantenere viva la fede e la speranza.
Per il duemila la comunità propone a tutti di salire all’«oasi di pace» per incontrare le «pietre viventi». Lo spirito dell’invito è provocatorio, perché «Gesù di Nazaret non appartiene a nessuno: ebreo nel senso pieno del termine, egli riunisce i cristiani e appare a più riprese nel corano. Il suo messaggio è unico: l’amore fraterno e il servizio dell’altro, la pace fra tutti gli uomini di buona volontà» (Lettera dalla Collina, 15, 1999).
È il richiamo non solo a udire il racconto delle «pietre viventi», ma anche a porsi in ascolto del proprio silenzio, cioè dumìah.
Dumìah (termine ebraico che significa silenzio) è l’unico edificio sacro del villaggio, voluto da Bruno Hussar e dai membri della comunità; è un emisfero bianco, spoglio, modesto di dimensione, punto di preghiera silenziosa e meditazione per ebrei, cristiani, musulmani e agnostici.
Nevè shalom/Wahat as-salam, anomalo kibbùtz nato come utopia e vissuto come miracolo, opera per la pace, che non è solo silenzio di armi, ma fratellanza di cuori, somma di ogni benedizione che solo la parola shalom/salam riesce a contenere: tocca le nazioni, ma parte dallo slancio di tutti, nutrito di profondo silenzio interiore. Dumìah appunto.
1) Haganah: esercito ebraico, formatosi durante il Mandato britannico, precursore dell’odiea Forza di difesa di Israele (IDF).
2) Kibbùtz e moshàv: insediamenti di gruppi israeliani a forma di cornoperativa; nel kibbùtz i beni sono in comune.
Guido Angela