VIETNAM – Hanoi pedala nel passato

Dopo alcuni anni di rapida crescita, oggi il paese asiatico è in difficoltà.
Nonostante i divieti, i vietnamiti abbandonano
le campagne per trovare precari lavori nelle città.
Mentre la salute e l’educazione sono privilegio di pochi,
il corrotto apparato comunista mira soltanto a preservare il potere, indipendentemente dal consenso popolare.
Riprenderanno le fughe come ai tempi dei «boat people»?

Phuong è un nome dal suono dolce, perfetto per una giovane vietnamita. La Phuong che conosco ad Hanoi è carina e molto fortunata. Un corpo flessuoso, occhi a mandorla, Phuong è sposata da un anno e oggi mi ha confidato di aspettare un bimbo.
La fortuna le viene dal nonno, eroe di guerra, ucciso a Diem Bien Phu dai francesi. Il padre di Phuong non fece a tempo a conoscerlo, ma, quando arrivò il momento di fare il militare, fu esentato perché capofamiglia e mandato a studiare economia all’università. Ora lavora al ministero del turismo. La moglie è all’agenzia di stato e i figli sono tutti sistemati. Phuong si è laureata in russo e inglese, ha ancora poca esperienza, ma sa già come comportarsi quando le fanno domande indiscrete sul suo paese.
In Vietnam il partito è unico. Non solo, è a numero chiuso. Non ci si può iscrivere al partito comunista vietnamita. Se ci sei, perché tuo nonno ha fatto la guerra con Ho o era nel gruppo di intellettuali comunisti che lo fondarono, allora puoi stare tranquillo: tu e i tuoi figli avrete sempre un posto di lavoro con le ferie e la pensione. Altrimenti sei costretto a sopravvivere, come tutti gli altri. Come le donne che stasera vedo correre a casa, sotto la pioggia sottile, col loro carico ancora integro, bilanciato sulle spalle dal bastone di bambù. Hanno percorso le vie della città tutto il giorno, cercando di vendere qualcosa. Si sono fermate a cucinare per i passanti, arrostire pannocchie o friggere patate sul loro fornello portatile, sul marciapiede. Molte non indossano neppure i sandali di plastica, hanno il cappello conico di paglia che le protegge e un’uniforme che sembra un pigiamino.
La gente in campagna non ce la fa più e si sposta in città, nonostante i divieti. Le ragazze di campagna le vedi arrivare la mattina alle cinque e mezza; magari hanno fatto due ore di bici per arrivare nelle zone residenziali, dove è più facile trovare lavoro alla giornata.
SE MANCANO I SOLDI
L’abitudine dei vietnamiti è di rispondere «no» a qualsiasi richiesta, che sia un servizio o un’informazione. Così sono stati educati: loro non sanno, non possono, non rispondono. Jeanine invece parla, ora che è in pensione. Prima, non poteva neppure andare in chiesa: avrebbe perso il posto. Jeanine è cattolica e viene da Thai Bin, una città del delta a 120 km da Hanoi, dove c’è una grande chiesa.
Jeanine ha un grande rimpianto. Nata in Nuova Caledonia, dove il padre era emigrato durante l’ultima guerra mondiale (nel 1945 ci fu la fame nel nord, con 2 milioni di morti, mentre nel sud si gettava via il riso). Arrivò in Vietnam nel 1964, quando il genitore si lasciò convincere a rientrare in patria insieme ad altri emigrati. I vietnamiti hanno forte il senso della famiglia e della patria. Ma alcuni di loro si suicidarono, quando si resero conto dell’errore commesso lasciando la tranquilla e ricca colonia francese. Dopo 30 anni di lavoro come stenografa, ora Jeanine fa la domestica in casa di una famiglia danese, in una di quelle villette alte e strette che sono sorte come funghi 4-5 anni fa intorno al lago dell’ovest, la zona residenziale di Hanoi.
Jeanine ha modi signorili, grande dignità e parla un ottimo francese. Per me è stata una compagnia e un aiuto prezioso per comprendere questo paese. «Sono vecchia e stanca, ma non posso vivere coi 20 dollari di pensione al mese. Mio figlio studia all’università e ho anche dei debiti da pagare, a causa di un incidente che lo ha coinvolto».
I FALLIMENTI
DELLA SCUOLA
Alle cinque del mattino Jeanine va al mercato, che si estende lungo l’argine fino alla strada che porta in centro. Oggi è mistress day, la festa degli insegnanti e io l’accompagno, compreremo dei fiori, scegliendo tra i tanti mazzi di crisantemi gialli e bianchi. All’incrocio vedo giovani dall’aspetto grigio, arrivati dalla campagna per trovare un lavoro. «A volte passa la polizia e li scaccia tutti via – mi spiega Jeanine-. È uno spettacolo che il governo non vuole mostrare agli stranieri. Inoltre, vogliono scoraggiare i contadini a trasferirsi in città. Ma la vita in campagna è un inferno».
Hanno montato un palco con il busto di Ho Chi Min nel cortile della scuola. I bambini arrivano ben vestiti, con il loro mazzo di fiori, accompagnati dalle mamme, orgogliose e timide. Forse loro non sono mai andate a scuola e questa volta vogliono fare bella figura. Jeanine scuote il capo e mi dice: «Qui i maestri promuovono se ricevono regali. Sono mal pagati dal governo e l’insegnamento è di basso livello». Incontriamo due donne lungo il viale fiorito, che porta all’esclusivo club della pesca, sulle rive del lago. Thoa e Hung per oggi un lavoro l’hanno trovato: stanno zappettando le aiuole e stasera si porteranno a casa un dollaro prezioso, dopo 8 ore di lavoro e 4 di bicicletta.

STRANIERI, PRIVILEGIATI
MA ESCLUSI
Il centro di Hanoi ha conservato il fascino degli anni coloniali francesi, anche nei locali che sono stati restaurati. Davanti alla cattedrale, costruita sul modello di Notre Dame di Parigi, i ragazzini giocano al pallone, mentre un traffico di ciclò e motorette non disturba la tranquilla vita dei commercianti.
Nei quartieri residenziali periferici molte ville, costruite qualche anno fa per gli stranieri, sono sfitte. Anche i lussuosi alberghi del centro sono vuoti. Dopo aver attirato investimenti e joint ventures, i contratti sono stati modificati su iniziativa governativa, a danno degli investitori stranieri.
Frits Jepsen è un funzionario danese che lavora da anni nel campo delle fisheries, la pesca. Il governo danese è presente in Vietnam con progetti di aiuto e sviluppo, ma questi devono essere costantemente verificati, perché la corruzione è altissima. «In Vietnam la situazione è peggiore che in Sierra Leone, dove ho lavorato anni fa – mi dice Frits -. In Africa c’è molta corruzione, ma qui è stata addirittura codificata dal regime comunista. Non c’è via di uscita».
Anche la vita culturale di Hanoi è pesantemente influenzata da un regime legato ai vecchi schemi comunisti e nazionalisti. «Hanno speso 70 miliardi per ristrutturare l’Opera di Hanoi con l’aiuto di sponsors stranieri – interviene la signora Jepsen, che rimpiange molto l’Europa -. Ma sono obbligati a mettere in scena opere di Gluck e Mozart tradotte in vietnamita. Con risultati disastrosi».
Lisa Jepsen mi fa conoscere le amiche di Hanoi, che lavorano nelle organizzazioni umanitarie. Come la Iom (Inteational Organization for Migration), dove una signora danese si occupa delle donne vietnamite costrette a prostituirsi o a sposare cinesi che a casa loro non trovano moglie, a causa della politica del figlio unico e dell’aborto selettivo. Una ginecologa danese è arrivata da poco con il marito, funzionario dell’ambasciata. Sta cercando di rendersi utile, ma non è facile, data la chiusura che dimostra la burocrazia vietnamita. Mi confida: «C’è molto da fare nel mio campo. Le donne, specialmente le giovani madri, hanno bisogno di essere aiutate e informate. L’assistenza sanitaria nazionale è praticamente inesistente, per chi non può pagare».
La chiesa cattolica del quartiere apre la sera dopo le cinque. La donna che tiene le chiavi si scusa per lo stato d’abbandono in cui versa il minuscolo edificio. Il rosario di stasera, recitato da pochi, mi pare un lamento. Quando rientro a casa, la donnina che lavora nel cantiere vicino agli Jepsen è ancora occupata a caricare e trasportare sabbia e mattoni sul carretto. Va avanti e indietro, dal mattino alle 6 fino alle 10 di sera, col suo pigiamino grigio, il cappello conico e la mascherina di pezza. Come si può vivere in queste condizioni?
BICICLETTE
COME CAMION
È domenica: andiamo in campagna. Attraversiamo il Fiume Rosso e prendiamo la strada dell’argine. Non vi è traccia di fabbriche nei dintorni della capitale; solo presso l’aeroporto ho visto i lavori in corso, per creare un’area di insediamenti industriali.
La campagna è bella. Hanno terminato la raccolta del riso. Le case in mattoni sono spesso raccolte intorno a una chiesa, ma le campane non suonano più la domenica. Oggi è festa solo per gli impiegati di Hanoi, che da ottobre ’99 hanno ottenuto il sabato libero.
Proseguiamo per Bat Trang, un antico villaggio a ridosso del primo argine, dove pare d’essere in un girone infeale. Nelle vie fangose, interrotte da vaste pozzanghere, tutti sono al lavoro, anche i bambini. Da 500 anni qui si fabbricano vasi di ceramica di tutti i tipi. I più belli sono grandi, pesantissimi, smaltati e decorati a mano. Poi le teiere e le ciotole bianche a disegni azzurri, come quelle antiche, cinesi.
Ogni casa ha il suo foo a carbone e sono le bambine che impastano la polvere nera con acqua per fare le forme rotonde, da seccare sul muro. Le infeali e rudimentali macchine per lavorare il caolino fanno un rumore assordante. Cerco inutilmente una bottega che ci venda qualcosa da bere. Trovo solo qualche contadina con il suo cesto per terra con le verdure, qualche pesce e le pannocchie da arrostire. Gli uomini passano spingendo a mano le bici, con due pali per tenerle in equilibrio. Portano due cesti enormi con decine di grossi vasi. Durante la guerra venivano utilizzate le bici per il trasporto di armi, fino a 300 chili. Chi le sa riparare è uno dei più abbienti, in questa società di diseredati.
CESTE COME BARCHE
Un volo diretto da Hanoi ci permette di superare la zona colpita dal tifone, dove centinaia di persone sono morte, spazzate via nelle loro capanne di bambù su palafitte. La costa sul Mar della Cina è soggetta a tifoni, che fanno crollare ponti e dighe, distruggendo i raccolti. Mentre atterriamo a Nha Trang, vedo la grande baia e le isole che la circondano: pare un bacino di fango, tanti sono i detriti che riempiono il mare.
Un promontorio boscoso nasconde le ville di Bao Dai, l’ultimo imperatore. Sulla spiaggia ci sono le casette dei pescatori, gente cordiale e robusta che mi accoglie con simpatia. Un gruppo di ragazzine sta caricando taniche di combustibile su un piroscafo. Vanno e vengono sulla spiaggia, con la basculla di bambù sulle spalle che porta almeno 40 chili. Qualcuno ripara le reti, le donne puliscono il pesce, i giovani manovrano le sorprendenti barchette, cesti rotondi che possono portare anche 3-4 persone.
Una pioggia improvvisa mi costringe a fermare un ciclò e ripararmi sotto la cerata. Mi farò portare da questo magro signore (che ha forse passato la notte accoccolato sul sedile) sul bel lungomare, fino all’estremo opposto della baia di Nhga Trang. Una città tranquilla, con le sue chiese, le pagode e le torri cham che ricordano l’India, dove la vita è più facile e persino la guerra non si è fatta sentire. Qui si rifugiarono molti cattolici nel ’54, dopo la caduta di Dien Bien Phu, durante i 300 giorni concessi dagli accordi di Ginevra per poter passare la linea di demarcazione posta sul 17° parallelo. Nel 1954 la Polonia aveva partecipato, con Indonesia e altri paesi neutrali, all’evacuazione dei vietnamiti che volevano fuggire dal comunismo del nord.
Mi fermerò nel ristorante di Nam, buon amico del dottor Falcone, il medico italiano responsabile di Medici senza frontiere (Msf), che in città ha un ambulatorio per la cura e la prevenzione dell’Aids. Nam e la sua famiglia sono cattolici, originari di Hanoi. Apprendo così che a Nha Trang ci sono 3 diocesi, un nuovo seminario, 6 parrocchie e diverse comunità religiose.

A SAIGON
SOGNANO L’AMERICA
L’ultima mattina a Saigon, davanti alla bella cattedrale, incontro Cuong. L’aria è festosa, il clima caldo e rilassato, i negozi modei hanno un aspetto occidentale. Cuong vorrebbe che mi fermassi: «Avrei ancora molte cose da raccontare» mi dice. Figlio di un intellettuale comunista di Hanoi che ha scelto il sud per vivere, Cuong ha potuto studiare all’università e ora guida i gruppi di reduci americani in visita. «Ho avuto la fortuna di avere entrambi i genitori impegnati nella lotta contro i francesi e gli americani. Siamo stati spietati con i nostri connazionali che aiutavano il nemico, ma solo con chi uccideva. Sapevamo tutto, avevamo degli infiltrati ovunque. Nel governo filoamericano avevamo anche un ministro vietcong».
Vedo un giovane deciso, sicuro di sé, che non toerebbe mai al nord, la terra dei suoi. «Ma tu, che hai scelto di vivere in questa, che è la città più “americana” del paese, – gli chiedo infine – cosa preferisci, l’America e il suo stile di vita, o il comunismo?». Cuong risponde senza esitazione: «L’America»!

LA STORIA DI QUY, FRATE VIETNAMITA

Nha Trang (costa meridionale). Raggiungo la chiesa di Sant’Antonio su una bici arrugginita, nel traffico impazzito del pomeriggio. In queste città vietnamite bisogna viaggiare in mezzo alla strada, per lasciare posto alle moto e alle bici che vogliono attraversare contromano. Basta fidarsi, continuare a pedalare diritto senza cambiare il ritmo e la velocità: sono gli altri che ti evitano. Sfioro donne che corrono scalze con enormi carichi bilanciati sulle spalle e ho il cuore in gola, per la paura e la fatica.
Padre Quy’, un frate minore dal viso tondo e il sorriso asimmetrico, è parroco di S. Antonio. Mi parla a lungo del suo paese e mi fa conoscere situazioni e persone. Nato nel ’46 a Phu Gia, villaggio cattolico a 10 km da Hanoi, la sua è una famiglia molto devota, come tante nel nord. Nel ’54 sono costretti ad abbandonare il paese e raggiungono Nha Trang, sulla costa meridionale del paese, su una nave polacca. Quy’ entra nel seminario di Dalat e nel ’71 fa la sua professione a Saigon. Nel ’75 viene inviato in un remoto villaggio di campagna. Vi passerà i successivi 18 anni, lavorando la terra e cercando di rivitalizzare le parrocchie, abbandonate dai preti durante la guerra. La polizia provinciale lo sorveglia e lo autorizza a continuare perché ne apprezza l’opera, che non si limita al catechismo. Quy’ infatti incoraggia la popolazione a lavorare per migliorare le condizioni di vita. Dal ’79 all’’81 la regione soffre una terribile carestia: i contadini muoiono di fame a causa della collettivizzazione forzata. Sono gli anni della fuga, dei «boat people», che tentano con ogni mezzo di fuggire da un paese allo stremo. Molti di costoro sono cattolici, perseguitati dal regime. L’apertura arriverà solo con la «perestroika» di Gorbaciov, nel 1986.

Padre Quy’ è arrivato col suo motorino. Salgo e partiamo. Attraversiamo la città, dominata dalla bella cattedrale, costruita su un rilievo, in pieno centro. Saliamo sulla collina che chiude la baia verso nord, dove ho notato un edificio di stile italiano. È un convento francescano. Chiuso da anni, ha i vetri rotti alle finestre e una bandiera rossa appesa sulla porta. Sulla strada sterrata c’è la statua di San Francesco e, seminascosto da baracche di lamiera ondulata, il monumento funebre di Maurice Bertin, il missionario francese che fondò la missione di Nha Trang e fece costruire i primi conventi dei frati minori in Vietnam.
Gli abitanti del villaggio di Ba Lang, nella provincia di Than Hoa, arrivarono qui nel ’54, sfuggendo al massacro ordinato dal governo per impedie la partenza. Qualcuno dei familiari restò, per custodire la casa nella speranza di un ritorno. Than Hoa subì poi i devastanti bombardamenti americani, testimoniati dalle migliaia di crateri che segnano il suo territorio. I rifugiati di Than Hoa erano tutti pescatori e si installarono lungo questa baia, già occupata da comunità cattoliche. Nel ’79 i religiosi persero le scuole e parte dei terreni, requisiti dal governo che vi costruì una stazione di polizia e le caserme. Restano le chiese, una piccola comunità di carmelitane di clausura e una casa per le novizie delle suore francescane di Maria. Suor Claire, la superiora, è una donna stupenda, di grande esperienza, che ha fatto aggiungere la cappella (dopo i controlli governativi) sul tetto, per non dare nell’occhio. La parrocchia è guidata da padre Pierre Trai, un personaggio interessante, grande amico di Quy’. «Al tempo del presidente cattolico Diem, padre Pierre era segretario del vescovo di Saigon – mi dice Quy’ -. Gli americani fecero uccidere Diem perché si opponeva al loro intervento. Fu un grave errore. Del suo governo si ricorda solo la corruzione e il nepotismo. In realtà Diem, che apparteneva a una grande famiglia di mandarini del re, era stimato anche da Ho Chi Min. Entrambi non si erano sposati e avevano dedicato la loro vita al paese». Padre Pierre ha subìto la prigionia e deve sapere molte cose, che nasconde dietro un sorriso intelligente.

L’ultima visita è forse la più interessante. Padre Phuc fa parte del movimento patriottico. «Sono anch’io francescano, quindi perché non comunista?», mi dice, sorridendo dietro le lenti spesse. Phuc è seduto alla scrivania della sua stanzetta, ingombra di carte, radio e oggetti di ogni tipo. Quy’ mi spiega: «Abbiamo bisogno di essere rappresentati nel governo provinciale e Phuc è il nostro uomo. Hanno cercato di dividere le comunità cristiane, come è stato fatto in Cina, ma qui non ci sono riusciti».
La finestra è aperta sul sagrato, dove stanno lavorando alcuni operai. Parliamo della chiesa vietnamita. «La religione deve essere gestita e controllata dallo stato, che ha creato i movimenti patriottici, buddista e cristiano. Essi sono strumento del partito, ma, mentre la maggioranza dei buddisti è favorevole a questo governo, i cattolici no». La polizia segreta è tuttora onnipresente. La logica dei comunisti nel governare il paese è: opprimere, reprimere, prevenire i movimenti di opposizione. Ho visto i cartelli che invitano a partecipare al voto, con immagini femminili. «Il rinnovamento deve necessariamente partire dall’interno del partito – aggiunge Quy’, che mi pare il più pessimista -. Il comunismo vietnamita è senz’anima. Concussione e corruzione regolano la vita economica, ma il male peggiore è stato fatto all’uomo. La menzogna domina oramai le relazioni personali».
Devo partire. Padre Phuc e Quy’ sorridono, ma si sente amarezza nelle loro parole. «Abbiamo dei giovani intelligenti, che vorremmo continuassero gli studi, ma sono poveri…».
C.C.

Claudia Caramanti