SUDAN – Sangue e petrolio sui monti Nuba

Il paese più vasto dell’Africa,
spaccato fra genti arabizzate e musulmane nel nord
ed etnie autoctone e cristiane nel sud. Ed è guerra fra i due «schieramenti»:
fra il regime di Khartoum e l’esercito popolare di liberazione,
fra il presidente al-Bashir e il colonnello Garang.
Con l’aggravante della fame e il blocco degli aiuti alimentari ai morenti,
con la razzia di schiavi e il genocidio del popolo nuba.
Impera la «legge islamica», detestata dal sud. E zampilla pure il petrolio.
Allora l’occidente apre gli occhi. A favore di chi?

Nell’aprile 1995 un gruppo di associazioni e organi di stampa italiani (Pax Christi, Acli, Amani, Arci, Caritas, Cesvi, Cuore Amico, Mani Tese, Nigrizia) lanciò la Campagna «Sudan, un popolo senza diritti», raccogliendo circa 50 mila firme per avviarla.
In questi ultimi anni la Campagna ha cercato, con una informazione corretta sulla «guerra dimenticata» del Sudan, di sensibilizzare l’opinione pubblica e di attuare una pressione politica sul governo italiano. A tale scopo ha organizzato incontri sul paese e ha promosso iniziative di solidarietà verso la popolazione, provata dalla guerra, dei Monti Nuba.
Nel forum «Sudan, un popolo senza diritti» (Milano, settembre 1999) i problemi sono ritornati alla ribalta. Sono intervenuti, fra gli altri, Richard Gray, professore di storia africana all’università di Londra e docente di storia all’università di Khartoum (1959-1961), Mel Middleton, cornordinatore della Campagna contro Talisman (compagnia petrolifera canadese in Sudan), Johannes Ajawin, sudanese del sud, avvocato e autore di rapporti sui diritti umani per African Rights, e Joseph Gazi Abanjite, vescovo e rappresentante della Conferenza episcopale del Sudan.
Prof. Richard Gray:
Colonialismo e guerra
Il professore Gray ha delineato con chiarezza le cause della guerra in corso in Sudan da tanti anni, dovuta soprattutto a situazioni economiche e politiche, «che si sono gradualmente confuse con i fattori delle identità religiose».
L’impero britannico occupò l’Egitto nel 1882, ma solo dal 1899 amministrò il Sudan insieme all’Egitto, dopo aver sconfitto il «Mahdi», eroe della rivolta islamica che, nel 1885, aveva debellato il generale inglese Gordon e si era insediato a Khartoum. Il governo di Londra non aveva interesse nel Sudan per sé, ma, occupandolo, negava «ad altre potenze il controllo sull’Egitto e sul Canale di Suez, all’epoca cordone ombelicale per l’India».
Con il timore di un’altra rivolta islamica, nel 1920 il governo britannico stabilì un modus vivendi con i sudanesi più influenti, permettendo al nord di vivere in pace e godere di benefici economici. Invece «il sud, insieme alla maggior parte del popolo nuba, rimase tagliato fuori dallo sviluppo fino al 1839, quando Muhammad Alì inviò una spedizione per esplorare il Nilo Bianco».
Mercanti europei, egiziani e levantini cercarono fortuna in queste regioni con il commercio dell’avorio e, ben presto, iniziarono la tratta degli schiavi. «Per tre decenni il governo britannico continuò questa violenza, usando anche aerei da bombardamento contro il sud, dal quale i pochi missionari cattolici si erano ritirati da tempo». Solo più tardi il Comboni e i suoi missionari raggiunsero i Monti Nuba.
Nel 1930 si riuscì a stabilire un modus vivendi anche con i popoli del sud. Per una generazione i britannici vi assicurarono la pace. «Per mantenere la stabilità, il governo di Londra escluse ogni influenza del nord, compreso il nazionalismo arabo».
Al termine della seconda guerra mondiale il governo britannico capì (tardi, in verità) che non si poteva conservare l’isolamento socioeconomico. Nel 1948 fu aperta la prima scuola superiore nel sud.
Nel 1956 il Sudan divenne indipendente. Gli amministratori coloniali, dopo i negoziati anglo-egiziani, lasciarono il paese e i loro posti di potere passarono nelle mani dei sudanesi del nord. Questo fece capire al sud che «si era passati da un regime coloniale ad un altro».
Scoppiò quindi la guerra civile, interrotta dal 1972 al 1983 per volontà del presidente Nimeiry. Egli stesso, però, ruppe la tregua quando furono scoperti giacimenti di petrolio nelle regioni settentrionali. La guerra riprese nel 1983, più cruenta che mai. Nel settembre 1983 Nimeiry ripristinò la sharia (legge islamica).
Dal 1989, con il presidente Omar al-Bashir, il potere si è consolidato nelle mani del Fronte islamico nazionale di Hassan al-Turabi, mentre il colonnello John Garang ha continuato a guidare l’Esercito popolare di liberazione (Spla).
Anche se l’attuale regime cerca di mobilitare tutti in una «guerra santa» soprattutto contro i nuba, «la guerra civile investe questioni economiche e politiche».
Coord. Mel Middleton:
L’ARMA DEL PETROLIO
La guerra contro il sud-Sudan si avvale anche dell’arma del petrolio. Da più di sei anni alcune imprese straniere lavorano nel paese per estrarre greggio.
Arakis fu la prima società del Canada ad operare con il governo sudanese nel settore petrolifero, con la presenza di imprese statali di Cina e Malesia. La compagnia canadese ha ammesso di aver fornito 10 mila barili di greggio al giorno alla raffineria di El Obeid. In questa città esiste una base militare aerea, che bombarda i Monti Nuba e le popolazioni del sud-Sudan.
Nel 1998 Talisman, un’altra impresa famosa in Canada, acquistò Arakis, legandosi anch’essa al governo di Khartoum. Le chiese del Canada e associazioni di difesa dei diritti umani hanno denunciato il fatto. Però Jim Buckee, direttore di Talisman, ha dichiarato: «Non c’era nulla che potesse far pensare che la nostra società sostenesse un regime malvagio».
Mel Middleton, cornordinatore canadese della Campagna contro Talisman, ha commentato: «I responsabili della società non hanno mai visitato le regioni meridionali del Sudan, colpite dal divieto dei voli umanitari per recare aiuto alle genti sottoposte a carestie “provocate”, traffico di schiavi e atti di genocidio. Il petrolio estratto è un’arma strategica del regime contro il popolo del sud».
Lo stesso Buckee nel 1998 ammise che una parte dei 250 milioni di dollari investiti da Talisman è finita in mano al presidente al-Bashir e compagni. Il vicepresidente ha detto: «Con l’esportazione di petrolio, otterremo una vittoria decisiva contro i ribelli del sud».
Il denaro del petrolio è il prezzo del sangue.
Avv. Johannes Ajawin:
chiese e moschee distrutte
La guerra civile ha comportato il genocidio, ancora in corso, dei nuba. Lo ha ricordato Ajawin, avvocato sudanese del sud e membro del movimento African Rights. Già nel 1995 African Rights accusò il governo di Khartoum di annientare il popolo nuba.
Il movimento ha come programma la verifica del rispetto dei diritti umani sui Monti Nuba: è un programma gestito da 11 volontari sul campo, collegati a Londra. Rigorose descrizioni documentano le atrocità e barbarie (bombardamenti, mine anti-uomo, razzie, sequestri) commesse contro i nuba, cristiani e musulmani.
In una relazione dell’agosto 1997 si legge: «L’incendio di chiese è divenuto prassi comune. Tutti i luoghi di culto nei villaggi e molti altri ancora sono stati distrutti: a Tandiri, Tabari, Regifi Um Dulu, Karkaraya, Nagorban, Nakur; anche la chiesa di Achiron è stata bombardata».
Si contano pure moschee distrutte. Questo è, per molti, uno degli aspetti più sorprendenti della guerra sui Monti Nuba, poiché gli autori dei misfatti sono musulmani. Il fatto fu documentato per la prima volta da African Rights tre anni fa. Però nulla è cambiato.
Il Consiglio islamico del Kordofan, nel sud, ha continuato il triste compito di elencare le moschee distrutte. La moschea di Kauda è una struttura solida, difficile da abbattere. Ma, nel marzo 1996, l’esercito vi lasciò solo i muri. Su una parete, vicino alla moschea, fu scritto il seguente versetto del corano: «Coloro che morirono in battaglia non sono realmente morti. Dio li benedirà più tardi».
Questo per indicare che non importa se un uomo ha ucciso qualcuno, perché Dio ne avrà cura.
Mons. Joseph Gazi Abanjite:
Per una pace giusta
Il vescovo ha rappresentato la Conferenza episcopale del Sudan, che si era incontrata a Nairobi il 12-27 agosto 1999 e aveva stilato il documento «Verso una pace giusta». Ne sono stati citati alcuni passi significativi.
«Giustizia e pace devono camminare mano nella mano e divenire parte integrante del nostro ministero pastorale. Vogliamo che le nostre diocesi e parrocchie (fino alle più piccole comunità) siano seriamente coinvolte nel creare e mantenere un’atmosfera in cui giustizia e pace possano prosperare… Perciò abbiamo deciso di allestire alcune strutture, di intraprendere iniziative, di raccogliere e divulgare informazioni per lavorare più efficacemente per la giustizia e la pace».
Al riguardo sarà formato un comitato speciale, con diversi gruppi di lavoro, per attuare programmi di pace insieme ad associazioni, altre conferenze episcopali, istituti religiosi, agenzie ed esperti vari.
«Faremo tutto il possibile – affermano i vescovi del Sudan – per espandere e rafforzare le iniziative ecumeniche esistenti per la riconciliazione tra i gruppi. Incoraggeremo le etnie e gli anziani locali ad usare i loro metodi tradizionali per risolvere i conflitti, quale valido contributo al processo di pace».
«Continueremo ad esercitare la non-violenza attiva denunciando le ingiustizie, gli affronti alla dignità e le violazioni dei diritti umani; resisteremo alle intimidazioni; entreremo in dialogo, scrivendo lettere e usando i mass media. Consideriamo la non-violenza attiva un mezzo di resistenza agli oppressori per renderli consapevoli del male che causano ai loro fratelli e sorelle».
«Cercheremo di avere informazioni accurate sulla propaganda e le politiche del governo sudanese e dello Spla, per renderle accessibili ai vescovi, alle ambasciate straniere, ai gruppi dei diritti umani, ai mass media stranieri».
I vescovi pregano e si augurano, un giorno non lontano, di poter dire con il salmista: «Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo; nell’andare se ne va e piange, portando la semente da gettare, ma, nel tornare, viene con giubilo, portando i suoi covoni» (Sal 126, 5-6).
Pace in Sudan!

Silvana Bottignole

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