L’ONU di Fulci – Incontro con l’ambasciatore dell’ONU
Dopo 43 anni di diplomazia e 7 anni alle Nazioni Unite, l’ambasciatore italiano Francesco Paolo Fulci lascia.
«È una persona che ha sempre difeso gli interessi dell’Italia, dell’Europa e della pace», ha detto il presidente del consiglio Massimo D’Alema.
«Noi ringrazieremo sempre l’ambasciatore perché è un vero gladiatore», hanno commentato alcuni presenti la sera del 28 gennaio, ultimo giorno del suo mandato, in occasione della festa di saluto a Fulci. Qui, a nome di Missioni Consolata, ho avuto il piacere di intervistare l’ambasciatore.
Dottor Fulci, lei ha iniziato la carriera proprio a New York nel 1956, negli anni in cui Krusciov batteva la scarpa sul tavolo del Consiglio di sicurezza. La preoccupava di più il mondo di allora o sembrano più insidiosi gli anni a venire?
«Io sono ottimista per natura. Sono convinto che i problemi tendono a migliorare e soprattutto sono fiducioso per quanto riguarda il ruolo internazionale dell’Italia. Io penso che il nostro paese abbia oggi una marcia in più rispetto agli altri paesi grazie anche agli italiani all’estero. Gli italiani sono una forza straordinaria, a differenza di altri gruppi etnici che tendono a dimenticare la loro terra di origine. Questi italiani si vanno affermando sempre più nella loro patria di adozione, occupando posti di grande rilievo…».
Qual è la sfida internazionale più importante per l’Italia del 2000?
«Ho un sogno che coltivo da anni e che 7 anni fa, quando sono arrivato all’Onu, ho cominciato a perseguire. È quello di un’Europa veramente unita. Quando nel 1995 l’Italia aveva per la prima volta la presidenza dell’Unione europea e sedeva anche nel Consiglio di sicurezza, nella torre d’avorio dell’Onu, cominciai ad esporre anche la posizione dell’Europa. Né la Francia né l’Inghilterra (membri permanenti del Consiglio, ndr) potevano obiettare: la posizione da me espressa era stata prima concordata a Bruxelles tra i direttori politici dei paesi dell’Ue. Ricordo che dissi: “Questo è l’embrione dell’Europa nel Consiglio di sicurezza”. Ribatté subito l’ambasciatore britannico John Weston: “Il seggio europeo è una Fulcian heresy”. Adesso questa “eresia fulciana” comincia piano piano a farsi strada».
Ma come essere ottimisti sul seggio europeo nel Consiglio di sicurezza quando si vedono contrasti tra gli stessi paesi della Comunità? Si pensi, ad esempio, alle posizioni opposte di Francia e Inghilterra rispetto alle sanzioni Onu contro l’Iraq…
«Prima che lei entrasse nel mio ufficio, ho ricevuto due ambasciatori di paesi asiatici, ai quali ho chiesto il voto per l’Italia nelle prossime elezioni per il Consiglio di sicurezza. Un obiettivo fondamentale è rientrare nel Consiglio di sicurezza. L’Italia dovrebbe mettere questo seggio a disposizione dell’Unione europea e senza chiedere alcuna contropartita.
A quel punto potrebbe suggerire che il numero due della legazione italiana sia un rappresentante dell’Europa. Infatti la delegazione italiana che partecipa al Consiglio di sicurezza può essere diversa da quella presente all’Assemblea generale. Quindi l’Italia potrebbe notificare chi vuole come suo delegato. E quando si trattano questioni sulle quali l’Europa ha una posizione comune, allora l’ambasciatore italiano potrebbe cedere il suo posto al presidente di tuo dell’Ue, che parlerebbe quindi dal seggio italiano in nome dell’Europa. E si può fare un passo oltre.
Se Solana (“ministro degli esteri” dell’Ue, ndr) se la sentirà, potrà mandare anche un suo rappresentante a sedere nel seggio italiano. E quindi non sarebbe più il paese presidente di tuo dell’Ue, ma sarebbe l’Europa unita che comincerebbe a parlare con una voce. Io credo che quando noi ci siamo battuti per non far avere il seggio permanente alla Germania, abbiamo reso un enorme servizio all’Europa. Se avessimo perduto quella battaglia avremmo avuto una situazione non dissimile da quella precedente alla seconda guerra mondiale».
Ma la Germania lo ha capito?
«In Germania lo hanno capito gli uomini politici, ma purtroppo non i suoi diplomatici. I funzionari tedeschi sono più nazionalisti dei loro politici, che invece hanno capito che il seggio permanente è ormai una chimera. Orazio diceva Carpe diem, ma l’attimo, grazie anche al nostro lavoro, non lo hanno saputo cogliere. Comunque quello messo a disposizione dell’Italia non dovremmo chiamarlo ancora seggio europeo, ma una presenza permanente dell’Europa nel Consiglio. Perché dopo di noi, dovrebbero metterlo a disposizione la Spagna o la stessa Germania. Avverrebbe quindi de facto la presenza dell’Europa unita».
Cosa succederebbe al seggio permanente francese e inglese?
«La presenza dell’Ue sarà una specie di calamita che comincerà ad attirare i due paesi. Cominceranno a ripetere le posizioni che hanno già concordato in sede Ue. Ci saranno ancora posizioni diverse, ma, col tempo e la forza naturale delle decisioni prese in comune, anche Francia e Inghilterra graviteranno sempre più verso una presenza unica europea nel Consiglio. Se non si arriverà ad una politica estera e di sicurezza comune, l’Unione europea non si potrà mai dire compiuta».
Come vede l’atteggiamento futuro degli Stati Uniti di fronte ad un’Europa come soggetto nello scacchiere internazionale.
«C’è stato un momento che nel dipartimento di stato prevalevano gli uomini pro Germania: erano coloro che premevano affinché i tedeschi entrassero come membri permanenti nel Consiglio. L’attuale ambasciatore americano Holbrooke considera la Germania l’unico grande paese affidabile per gli Stati Uniti».
Holbrooke spinge ancora per i tedeschi?
«Sì, per un seggio dato alla Germania più che all’Europa ed è per questo che i diplomatici tedeschi non si arrendono. Però ci sono molti altri che non la pensano così».
Come la pensa il segretario di Stato?
«La Albright non mi è sembrata mai convinta di questo seggio alla Germania».
Per tradizione, le amministrazioni democratiche Usa sembrano meglio predisposte nei confronti dell’Onu di quelle repubblicane. Se George W. Bush vincesse le prossime elezioni, che accadrebbe?
«Bisogna fare più attenzione a quello che succede nel Congresso che non alla Casa Bianca. Nel 1919 Wilson aveva creato la Società delle nazioni, ma il Congresso scelse l’isolazionismo negando l’ingresso degli Stati Uniti.
Il risultato fu un enorme errore di calcolo. Hitler e Mussolini si convinsero infatti che si sarebbero potuti impadronire dell’Europa senza che l’America intervenisse. Ci volle poi un uomo dalla statura di Roosevelt per far capire agli americani dove si erano cacciati con l’isolazionismo del Congresso. Ecco, quindi, non solo il progetto di un’altra organizzazione internazionale (l’Onu), ma la volontà di volerla ospitare nel proprio territorio; senza dimenticare le truppe americane che restarono in Europa.
Questo ha consentito cinquant’anni di pace e la vittoria della guerra fredda dell’Occidente senza sparare un colpo. Ora è possibile che si vogliano ripetere gli errori del passato? Quando penso che il 40% dei congressmen americani si vanta di non possedere un passaporto, è veramente inquietante».
Lei ha anche rappresentato l’Italia alla Nato. Resta invariato il ruolo dell’Alleanza atlantica ora che si parla anche della creazione di un esercito europeo? In altre parole, la Nato servirà ancora all’Europa?
«Io credo che la Nato debba anzi essere rafforzata. Prima di tutto perché non possiamo essere sicuri del domani. Basta pensare a quello che diceva Yeltsin sulle armi nucleari russe. Insomma, l’unica sicurezza per l’Europa si fonda sulla forza della Nato. Poi le Nazioni Unite non sono assolutamente in grado di compiere operazioni di pace: non ne hanno la vocazione né le risorse. Allora all’Onu per imporre la pace non resta che rivolgersi alle organizzazioni regionali, come la Nato, oppure a coalizioni di “paesi volontari”, come è accaduto per l’Albania o Timor Est.
La Nato quindi resta fondamentale, ma altrettanto lo è l’Onu, perché deve legittimare queste operazioni che devono essere autorizzate dal Consiglio di sicurezza».
Ma per il Kosovo la Nato ha saltato il Consiglio di sicurezza…
«Però poi sono dovuti tornare al “Palazzo di vetro” per raggiungere la pace. La legalità è qui.
Con l’articolo 25 della Carta delle Nazioni Unite i paesi membri si impegnano ad accettare le decisioni del Consiglio di sicurezza; con l’articolo 24 i membri conferiscono al Consiglio di sicurezza la responsabilità primaria della pace e della sicurezza internazionale».
Ad Helsinki l’Europa ha prefigurato l’allargamento ad Est. Ma dove finisce l’Europa?
«Agli Urali».
Quindi anche la Russia, per arrivare ad eliminare, un giorno, quella pericolosa paura dell’accerchiamento?
«Certo, l’Europa deve comprendere la Russia».
Oltre ad essere ambasciatore d’Italia, dal 1997 lei è stato presidente dell’Ecosoc, il Consiglio economico e sociale dell’Onu. Qual è, secondo lei, il male più diffuso nel pianeta?
«Senza dubbio, la povertà. I paesi in via di sviluppo hanno l’80 per cento della popolazione mondiale, ma meno del 20 per cento del prodotto globale lordo.
La prossima assemblea generale dell’Onu, che si aprirà nel settembre 2000, analizzerà la globalizzazione e studierà i modi per sradicare la miseria. Ciò detto, va ricordato che, prima di distribuirla equamente, la ricchezza va prodotta. Sradicare la miseria nel mondo è un programma ambizioso, ma possibile. Mi auguro che tutti i paesi interessati si impegnino per rendere l’economia più giusta».
Un’ultima domanda. Lei, ambasciatore, si è battuto molto contro la pena di morte. Eppure questa continua ad esistere. Pensa che verrà abolita oppure guadagnerà aderenti?
«Da tre anni l’Unione europea, insieme ad altri paesi, presenta la proposta di una moratoria sulla pena di morte. Si chiede la sospensione delle esecuzioni capitali in tutto il mondo. Purtroppo tale proposta è stata bocciata, ostacolata soprattutto da parte dei paesi del blocco asiatico e in parte africano.
Tra i 180 stati membri delle Nazioni Unite il numero delle nazioni abolizioniste, compresi i 15 stati europei, è 72. Il numero magico per la votazione è 90. Ogni anno la lista degli stati favorevoli alla sospensione delle esecuzioni aumenta: l’anno scorso erano 52; quest’anno altri 20 stati hanno cambiato opinione.
Con l’aumento delle probabilità di vittoria dei paesi abolizionisti, sono anche cresciute le pressioni dei paesi contrari alla moratoria, i quali cercano di persuadere gli incerti ad opporsi alla proposta.
Dispiace dire che questa opera di lobby sia sostenuta dagli Stati Uniti, i quali si trovano su posizioni intransigenti, cioè contro la moratoria, e in compagnia di stati noti per violare i diritti umani e sociali, quali Iran, Cina popolare, Cuba, Libia, Egitto, Arabia, Singapore, Uganda, Vietnam e altri. E questo è un puro controsenso, una chiara contraddizione, anzi due.
La prima è che gli Usa sono favorevoli alla tutela dei diritti umani e hanno sostenuto con forza gli interventi in quegli stati che si sono resi colpevoli di pesanti violazioni.
Ancora più forte è la contraddizione in cui gli Usa sono caduti firmando la proposta che, nella creazione del “Tribunale penale internazionale”, esclude che i colpevoli possano essere condannati a morte, non importa di quanti orribili delitti si siano macchiati. Nonostante ciò, gli Stati Uniti sono sempre silenziosamente a fianco di chi rifiuta la moratoria, pronti a battersi per mantenere la pena di morte» (vedi riquadro Stati Uniti).
Al Barozzi