Colombia – L’erba dei desideri

La voglia di un’esistenza meno dura e le pressioni estee spingono molti indios del Cauca a coltivare piante da droga. Canapa indiana, coca, papavero da oppio stanno sostituendo le coltivazioni
tradizionali. Con gravi danni ambientali, culturali
e sociali. E mentre i contadini non migliorano
la loro condizione, qualcuno accumula profitti.

Corinto. Alla fine del lungo rettilineo si intravede un posto di blocco. «(…)! – esclamo -. Non ho portato il passaporto…». Padre Ezio Roattino, che è al volante, si gira verso di me con faccia perplessa, ma poi, notando la mia agitazione, prova a rassicurarmi: «Forse non serve».
I militari sono in tuta mimetica, pesantemente armati. «Scendete» ci ordina un giovane nero col mitra a tracolla. Facce rivolte al fuoristrada, mani appoggiate sul tettuccio, gambe larghe, aspettiamo la perquisizione. «Sono un padre della parrocchia di Toribio», spiega il missionario. Momenti di silenzio. «Va bene, padre. Potete proseguire» ci dice uno dei militari. Risaliamo in macchina e, mentre io riprendo a respirare e riacquistare il colorito, entriamo a Corinto.
È questa una piccola città, abitata da meticci, neri e indios. Conosciuta per la sua violenza, Corinto fu sede dei colloqui di pace tra il governo colombiano e il gruppo guerrigliero «Movimiento 19 de Abril» (M-19), che nel marzo 1990 depose le armi dopo 16 anni di lotta.
Dopo un veloce spuntino, cerchiamo di informarci come si raggiunge «La Capilla», la località montana dove padre Ezio dovrebbe benedire una laguna, considerata dagli indigeni un luogo sacro.
Sulla stradina che da Corinto porta verso la montagna c’è un nuovo posto di blocco. E qui si ripete la scena avvenuta all’entrata del paese. Potenza della chiesa, carisma del missionario o scaramanzia dei soldati? Chissà… Ora entriamo in territori soggetti ad un’altra autorità: qui comandano le «Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia» (le Farc) e i militari si guardano bene dall’avventurarsi in queste zone.

Una ragazza che sta salendo a piedi si offre di accompagnarci. La Mitsubishi prosegue senza difficoltà, nonostante la stradina sia ripida e sconnessa. Nei pressi di uno slargo, c’è una jeep ferma. Una decina di metri più in alto, dalla folta vegetazione, spunta un contadino che ci grida di lasciare l’auto e salire da lui. Il sentirnerino, ripidissimo, è segnato da piantine di coca. Quando lo raggiungiamo, il campesino ci accoglie con un grande sorriso. Piccolo di statura, età incerta, viso caffelatte segnato dalla vita all’aria aperta, porta i blue-jeans infilati negli stivaloni di gomma, coperti di fango. Cordialissimo, il contadino ci presenta la moglie e i figlioletti. La famiglia vive in una casetta in legno e adobe, abbellita con molti vasi di fiori. Due lati dell’abitazione sono occupati dalle piante di marijuana, recise e poste ad essiccare. Ci offrono agua panela (acqua con canna da zucchero) e tinto (caffè), ma non c’è tempo. In compenso, accettiamo volentieri che la giovanissima signora ci accompagni, dato che il cammino per raggiungere la laguna non è facile da trovare.
La salita si fa faticosa, anche per via del fango. Passiamo altre abitazioni in legno, nascoste tra la vegetazione e sempre più isolate. Al nostro passaggio altre persone si aggregano, andando ad allungare la fila indiana che, spedita e silenziosa, procede verso la laguna.
Percorriamo sentirneri resi fangosi dalla recente pioggia. Superiamo cancelletti in legno e qualche filo spinato, che appena si nota, tanto è sommerso dalla natura esuberante.
Ecco, la laguna. Laguna? Di acqua ne è rimasta veramente poca. In compenso, non mancano fastidiosissime zanzare e insetti vari che lasciano del tutto indifferente la gente del posto, abituata alla loro presenza. Alcuni uomini, in pochi minuti, recuperano dei tronchi per fare un altare, improvvisato ma funzionale. Il luogo e i presenti (una ventina di persone) creano un’atmosfera particolare e molto coinvolgente. È un peccato che il medico tradizionale, lo sciamano, non sia venuto.
Padre Ezio celebra la messa in spagnolo e nasa. Il fatto che il missionario abbia imparato la lingua indigena (molto difficile, soprattutto a livello di pronuncia) gli ha attirato molta ammirazione, ma anche qualche problema. Nonostante da qualche tempo si stia tentando un recupero dell’idioma, i più giovani tra gli indigeni nasa conoscono soltanto alcune parole. Come «ewcxa» (si legge: eucià), che significa «pace» e che il padre distribuisce a destra e manca.
Lasciamo la laguna per andare verso il cimitero, sistemato più in basso, in un posto da cui si ammira un panorama verde che allarga il cuore. Il camposanto ha poche tombe, tutte sommerse da rigogliose piante di marijuana.

Mentre scendiamo, ne approfitto per parlare con i campesinos, ben disposti verso chi è arrivato con padre Roattino.
– Chi occupa questa zona?, chiedo.
– Il sesto fronte delle Farc.
– La guerriglia vi procura dei problemi?
– A noi certamente no.
– E se mi fossi avventurato per questi boschi da solo?
– Ti avrebbero fatto prigioniero.
– Ah… E perché?
– Per capire chi sei e soprattutto se sei una spia.
– Che cosa coltivate?
– Banani, caffè, qualche cereale, tuberi.
– E questa?, chiedo con faccia da tonto indicando una piantagione di marijuana, confusa tra il caffè e i banani. Mi rispondono tutti con una sonora risata. La coca e la marijuana le ho viste, mi manca soltanto l’«amapola», il papavero da oppio. Mi spiegano che cresce più in alto, perché la pianta preferisce un clima fresco.
Finalmente arriviamo alla base di partenza, dove abbiamo lasciato l’auto. Questa volta accettiamo volentieri la tazza di agua panela che ci viene offerta. Il buio incombe e il ritorno è lungo. Salutiamo il parroco di Corinto e i suoi accompagnatori, che andranno in direzione opposta alla nostra.
Per tornare a Toribio noi abbiamo deciso di fare la strada di montagna, più breve. La zona è piuttosto impervia, regno ideale sia per la guerriglia che per il narcotraffico.

Si chiude una bella giornata ed io mi trovo a pensare perché dovrei giudicare negativamente queste famiglie di campesinos soltanto perché coltivano piante da droga. È molto difficile essere obiettivi, giudicare la situazione. Questi contadini vivono in condizioni difficili, isolati, con nugoli di figli da mantenere, stretti tra le Farc da una parte e l’esercito dall’altra. Sono condannabili perché arrotondano il magro bilancio familiare con qualche coltivazione illecita?
«È vero – mi spiega padre Ezio -che molti campesinos seminano queste piante illecite per poter sopravvivere. Però, tu sai che il denaro facile, soprattutto per i giovani, è una tentazione grande. Un contadino semina un ettaro per pagare i vestiti o l’iscrizione dei figli a scuola. Poi, pensa: “perché non ne seminiamo due, così abbiamo anche la moto”. Io ho visto ciò che è accaduto nella zona del massiccio centrale, dove nascono i grandi fiumi Magdalena e Cauca, con il diffondersi su larga scala delle coltivazioni di amapola. La gente mi dice: “Padre, qui qualche anno fa facevamo la fame. Non c’erano strade, non c’era niente. Oggi abbiamo un mercato pieno di cose, dal mattino alla sera”. Purtroppo, la ricchezza improvvisa ubriaca la gente».
Sembra una strada senza uscita… «Una via c’è, anche se è difficile. In primo luogo, occorre un cambio a livello politico, cioè la scelta di aiutare l’agricoltura con una reale riforma agraria che riporti il nostro popolo a lavorare la terra. Occorre poi un cambio etico, coscientizzare la gente sui danni che le droghe producono nel mondo, ma anche a livello locale».
Da tempo la droga rappresenta la fonte di autofinanziamento delle Farc. Nelle regioni controllate, esse fungono da esattori per produttori e commercianti.
Esprimo a padre Ezio la mia delusione di fronte a una guerriglia che sembra aver mutato il proprio Dna, più interessata al business del narcotraffico che alla liberazione del popolo. «Questa è un’impressione comune a molta gente. Ma credo che non si debba generalizzare. C’è sempre una linea (al momento non maggioritaria) che ha la giustizia sociale come orizzonte, ritenendo che l’impalcatura dello stato colombiano privilegi un ristretto gruppo a discapito di tutti gli altri. Costoro propongono un cambio sociale attraverso le armi. Personalmente ritengo che questa strada sia sbagliata, soprattutto nell’epoca della globalizzazione. Né va dimenticato che, senza il consenso dell’imperialismo nordamericano, in Colombia non può esistere alcun governo alternativo. Però, quello che tu dici è vero: anche la guerriglia è un blocco del potere, come lo stato, le forze armate e il narcotraffico. Nei colloqui con il governo le Farc mirano a ottenere il riconoscimento formale di un potere effettivo che già detengono».
Passiamo varie «veredas», isolate ma quasi tutte raggiunte dalla corrente elettrica. Attraversiamo anche Tacueyò, paese difficile dove lavora padre Thomas, tanzaniano, missionario della Consolata.

Mentre cominciano a intravvedersi le luci di Toribio, la radio «Caracol» trasmette il notiziario, tutto incentrato sulle notizie della guerra. Attentati e sequestri, ma anche le speranze accese dai colloqui tra le Farc ed il governo colombiano.

Paolo Moiola




Anno 2000. Avanti tutta?

Abbiamo iniziato il 2000 con speranze e sogni di novità. Scampati, pure,
dai presunti disastri di un «baco» distruttore. Ma i problemi del mondo
sono sempre gli stessi.
Se ne siamo più coscienti,
potremo fare qualcosa di meglio
per non ricadere negli errori eterni.

nuovo

S iamo un gruppo di pre-adolescenti. Pur consci della nostra inesperienza, vogliamo tuttavia dire la nostra all’alba del nuovo millennio.
La riflessione inizia dai «nobili»: dai grandi castelli medievali, dalle torri gremite di guerrieri, dalle muraglie per difendersi dal nemico… che vuole impossessarsi dei loro averi.
In quei tempi esistevano due «vite parallele». La vita nel castello, con i ricchi, i guerrieri da difesa (questa è rimasta invariata fino ai giorni nostri!). Poi c’era la vita fuori delle mura, con gente semplice che si guadagnava il pane lavorando, sudando per quanti abitavano nel palazzo.
Fu così per un lungo periodo. I «nobili» o «grandi» costruivano roccaforti sempre più alte per intimorire il nemico, difendere i beni accumulati e rubati in battaglie. Più il castello era in una posizione proibitiva, più racchiudeva ricchezze…
L’uomo ha sempre camminato su due «trampoli»: l’orgoglio e la paura. Orgoglio: enorme stima di se stesso e dei propri mezzi, fierezza, amor proprio, fino a spingersi al vanto, rompendo spesso l’equilibrio con i simili.
Paura: sentimento che si prova in presenza o al pensiero di un pericolo; preoccupazione che aumenta sempre di più, specialmente quando si è impreparati ad un evento o quando si possiedono molti averi, di cui si ritiene di non potere fare a meno.
I signori si pavoneggiavano e, per sconfiggere la paura, si facevano costruire castelli sempre più impenetrabili.

C ambiarono gli eventi, ma l’impostazione sociale della vita continuò. Finché, nel secolo XIX, la rivoluzione industriale pose fine al sistema precedente. In Inghilterra la rivoluzione toccò in modo speciale il settore tessile. Gli artigiani, che da secoli avevano filato e tessuto in casa su telai di legno azionati a mano, si trovarono spiazzati: infatti non potevano più concorrere con la nascente industria che si avvaleva di macchine a motore, che producevano più merce e a minore prezzo.
Gli artigiani dovettero abbandonare i telai e cercarono lavoro in fabbrica come salariati. Nacquero due nuove classi sociali: quella imprenditoriale (ricca) e quella operaia (povera).
I rapporti tra le due classi non furono improntati a giustizia. A parte lodevoli eccezioni, la classe operaia venne sfruttata: bisognosa di lavorare per vivere, ma priva di una legislazione che ne tutelasse i diritti, subì, con l’incertezza del salario, estenuanti tui lavorativi di 12-14 ore giornaliere in condizioni durissime. Vi sottostavano anche i bambini, senza alcuna assicurazione sociale.
S’impose il «problema operaio», davanti al quale due furono le posizioni assunte. Nella prima ci si schierò a fianco dei salariati e, con organizzazioni sindacali e leggi, li si sostenne nella rivendicazione dei loro diritti. Le persone, impegnate in vari movimenti, per lo più socialisti e cattolici, riconobbero l’utilità delle due classi sociali (imprenditrice e operaia), ma si batterono sul fronte politico, legislativo e sindacale per conquistare la giustizia sociale.
In Inghilterra ricordiamo il Cartismo, i Trade Unions (attuali sindacati), le figure di Robert Owen (assertore di un socialismo utopico) e del prelato Henry Manning, chiamato dagli operai «il cardinale dei poveri». I frutti delle loro azioni, pazienti e tenaci, si ritrovano ancora oggi nelle buone condizioni di vita che i lavoratori godono: specialmente nel Nord Europa, ove l’azione dei cristiano-sociali fu più tempestiva ed efficace.
Nella seconda posizione, di fronte al «problema operaio» incontriamo Karl Marx. Questi non si lasciò intenerire dalle tristi condizioni dei salariati, che vedeva con i propri occhi a Londra, e neppure si mosse per aiutarli; ma, conformemente alla sua filosofia, additò la soluzione del problema nella soppressione delle stesse classi sociali, da realizzarsi mediante la rivoluzione. Tale rivoluzione, proclamata nel 1848 con la pubblicazione del «Manifesto», esercitò una potente attrattiva sulle masse operaie.
Tuttavia l’interesse per Marx non si sarebbe spinto più avanti, se egli avesse solo teorizzato la rivoluzione. Ma, per Marx, filosofia e rivoluzione formano un’unità inscindibile: è impossibile fare la rivoluzione senza abbracciare la filosofia. Una filosofia che chiedeva ai lavoratori non solo la partecipazione alla rivoluzione, ma anche il rifiuto di Dio e di ogni religione, perché «oppio del popolo».
I due sistemi (socialista-cristiano e marxista-ateo) viaggiavano in parallelo, scrutandosi con un comportamento di «guerra fredda» tra est e ovest. Questo frontismo, come tutti sanno, durò a lungo, fino al crac del 1989, reso emblematico dalla caduta del muro di Berlino. L’est si è frantumato.
M a anche l’ovest è in «crisi». I paesi occidentali sono preoccupati, perché l’oriente asiatico si affaccia sempre di più sul nostro mercato, i paesi arabi avanzano. L’occidente sventola la bandiera del vincitore; si dichiara un sistema positivo ed efficace. In realtà conta molte matasse da sbrogliare.
Anche gli italiani si avvertono sempre di più soli, chiusi in se stessi. Le case sono diventate piccoli castelli, quasi come nei tempi andati, con cancelli elettrici, cinte sempre più alte, citofoni, videocamere e mastini. Si ha paura di tutto e tutti. Sentendosi sempre di più persi, gli interrogativi aumentano e le risposte tardano ad arrivare. Intanto ci si riempie di oggetti… «che ci fanno sentire vivi», offuscando i veri valori. La tecnologia sfoa ogni giorno nuove attrattive, foendo gingilli che ci sembrano indispensabili, ma sono tali solo in forza della pubblicità. L’importante è vendere, creando una buona economia. Ordine tassativo: «costruire» acquirenti il più possibile. Siamo nell’era della comunicazione o della confusione?
Siamo tutti come bambini viziati: appena ci sentiamo vuoti, acquistiamo qualcosa per riempirci, sentendoci momentaneamente «vivi» per poi ritrovarci «morti». Si possiede solo per lo sfizio d’avere, senza chiedersi se sia veramente utile o no.
Nuovo millennio, vecchi bisogni! E le nostre paure aumentano.

N oi ragazzi non vogliamo metterci sul terrazzo e fare solo da spettatori. Né vogliamo soltanto criticare. Vogliamo metterci in discussione: fermarci, respirare e capire quale sia la nuova strada da percorrere. E ben venga chi, più esperto di noi, ci darà una mano.

Millennium bluff?

Nel mondo sono stati spesi tre milioni di miliardi di lire per sconfiggere il millennium bug. Parola del TG1.
Noi dell’associazione PeaceLink non abbiamo speso una lira e i nostri computer funzionano benissimo. Come mai? Semplice: bastavano pochi ed elementari controlli di routine. Invece è stata regalata agli «esperti» e alle multinazionali dell’informatica una montagna di soldi per risolvere un problemino aritmetico da quinta elementare.
Tuttavia il millennium bug, anche se i mass media non lo diranno, ha le sue vittime invisibili: cento milioni di persone moriranno nei prossimi dieci anni, private delle risorse investite per sconfiggere il millennium bug.
Mentre diciamo queste cose, siamo considerati fuori dal mondo. La lotta ad un improbabile baco viene, ovviamente, prima di quella alla fame in questa «ragionevole società del capitalismo reale». I bambini possono anche morire. Ma i computer non possono sbagliare data!
Detta così, la cosa può creare sconcerto. Facciamo allora qualche calcolo. Le statistiche documentano una mortalità per fame, malattie e povertà variabile da 30 mila a 40 mila vittime al giorno. Cifre che, ovviamente, non devono turbare l’opinione pubblica e che, quindi, la TV dà raramente. Qualcosa trapela quando esce il rapporto dell’Unicef.

R itorniamo ai tre milioni di miliardi che – a detta del TG1 del 2 gennaio 2000 – il mondo ha speso per il «baco».
Informiamoci: potremo sapere che bastano 500 mila lire l’anno per adottare un bambino a distanza. Armiamoci di carta, penna e tabelline: potremo calcolare che, se si fosse speso anche solo la metà dei miliardi destinati al millennium bug, si sarebbero potuti adottare a distanza per dieci anni 300 milioni di bambini poveri, sfamandoli, curandoli, mandandoli a scuola per prepararli al lavoro, aiutandoli a costruirsi un futuro senza dover emigrare.
Nei prossimi dieci anni che fine faranno quei 300 milioni di bambini? Purtroppo non saranno sufficientemente bravi a gestire le 1.500 lire che le statistiche affidano loro quale reddito pro-capite giornaliero; non riusciranno (gli sciuponi!) neppure a pagare il debito estero della loro nazione nel nuovo millennio.
Pertanto, come si è detto, se ne perderanno per strada più di 30 mila al giorno, insieme alle loro mamme e ad altre persone deboli, affamate e malate di lebbra o Aids. E, nel 2010, di quei 300 milioni ben 100 milioni saranno scomparsi dall’anagrafe dei vivi: 100 milioni di desaparecidos che il «capitalismo reale» considera una perdita fisiologica e tollerabile per la civile coscienza dei suoi fans. Costoro avranno sicuramente delle statistiche per documentare che, nel medioevo, la mortalità infantile era in percentuale maggiore.
Quindi, tutto sommato, viviamo in tempi più che mai fortunati.

N el 2010, in soli dieci anni del nuovo millennio, 100 milioni di vittime del capitalismo reale pareggeranno la bilancia con le vittime di 60 anni di comunismo reale.
D’accordo, il capitalismo reale non le uccide. E che bisogno ci sarebbe? Tanto muoiono da sole. Saranno cento milioni in meno, che non peseranno sulle borse di New York o di Tokyo, che non appesantiranno lo stato sociale né nostro né dei paesi poveri e che voleranno in cielo assicurando prosperità al mondo computerizzato.
Eh sì, perché spendere tre milioni di miliardi nel millennium bug crea sviluppo, spendee anche solo la metà per salvare vite umane in un pianeta già così popolato… no! Se per il mercato globale la vita delle persone contasse, le associazioni umanitarie sarebbero quotate in borsa. Invece no.

I l baco ha fatto da paravento al millennium business: nel più grottesco dei modi. L’opinione pubblica si è, alla fine, accorta di essere stata manipolata dai mass media. Ma, quando la consapevolezza si stava diffondendo, è stata iniettata una nuova dose di propaganda. Bill Gates ha detto: «Il baco non è ancora sconfitto, attenti ai prossimi mesi». Sganciate altri soldi, insomma. Se lo dice lui, che è un cervellone, cosa potrà ribattere l’ignaro inesperto?
In realtà Bill ed «esperti» si sono indegnamente arricchiti grazie al millennium bluff.

Giovanni Fumagalli




Segni di speranza – Dopo il vertice di Seattle

D al 30 novembre al 3 dicembre 1999 a Seattle (Usa) ha avuto luogo l’atteso Millennium Round, della Organizzazione mondiale del commercio (Wto). I delegati dei 135 stati membri dovevano trovare un accordo per liberalizzare il commercio, adeguandolo ai processi di globalizzazione.
Tutti sapevano che sarebbe stato arduo ridurre le barriere tariffarie e superare il protezionismo in agricoltura; ma nessuno aveva previsto che la rabbia dei poveri e la rivolta della coscienza morale contro la logica del neoliberismo tecnologico avrebbero contribuito a far fallire l’incontro.
Il primo scontro si è avuto a proposito dello sfruttamento infantile. La «clausola sociale», posta da Clinton (cioè la richiesta di embargo per quei paesi che non eliminano il lavoro minorile), è apparsa sospetta. Come credere alla sincerità dei paesi ricchi, quando affermano di guardare esclusivamente alla difesa dei diritti umani? Chi non sa che, per i ragazzi dei paesi in via di sviluppo, l’alternativa a un misero lavoro non sono lo studio e la formazione, ma la delinquenza o la morte per fame?
Rimane, perciò, il dubbio che i paesi ricchi cercassero un pretesto, sia per mantenere un po’ più elevato il costo del lavoro nei paesi terzi (e neutralizzae la concorrenza), sia per poter continuare a imporre l’embargo contro paesi ostili (come Cuba). Oltre tutto – si è fatto notare – spetta all’Ufficio internazionale del lavoro (e non alla Wto) tutelare le condizioni del lavoro: quindi combattere lo sfruttamento minorile e promuovere forme alternative di apprendistato.
Il secondo scontro tra coscienza morale e logica neoliberista si è verificato in tema di commercio degli alimenti e di sostegno all’agricoltura. I manifestanti, provenienti da ogni parte del mondo e in rappresentanza di svariate organizzazioni ambientaliste, sindacali e del volontariato sociale sono scesi rumorosamente in piazza, per denunciare la mancanza di garanzie effettive di fronte al progressivo estendersi dell’inquinamento ambientale e delle manipolazioni genetiche. Molto forte è stata la contestazione contro i «cibi transgenici» e ogni forma d’intervento tendente a modificare i geni vegetali e animali.

N on sono mancati a Seattle gruppi estremisti, che hanno tentato di far degenerare la protesta in forme inaccettabili di violenza e nel rifiuto assoluto e ideologico della globalizzazione, che è ugualmente da rigettare. Tuttavia le ragioni di chi ha manifestato il proprio dissenso in modo civile e democratico restano meritevoli di considerazione. Lo sviluppo è un problema che riguarda tutti e non possono essere solo i ricchi a decidere; né esso si può ridurre in termini solo di mercato o monetari. I paesi meno favoriti vanno piuttosto aiutati a essere i protagonisti del proprio sviluppo.
Il rifiuto dell’orientamento dell’economia generale in senso puramente neoliberista e la reazione della coscienza morale contro la cultura libertaria soggiacente (quali si sono manifestati a Seattle) vanno salutati come un segno di speranza. Di essi si dovrà tener conto per impostare diversamente il prossimo Round.

Questo testo è pubblicato dalle riviste associate alla Fesmi (Federazione della stampa missionaria italiana), di cui Missioni Consolata è membro.

Riviste associate FESMI




Musulmani diventati cristiani

Caro direttore,
faccio alcuni rilievi su un problema che sento vivissimo e su cui ho letto quanto Angela Lano ha scritto in Missioni Consolata: riguarda la conversione all’islam di alcuni cattolici italiani.
È mio vivo desiderio che la fede cristiana si rafforzi anche di fronte all’islam, che è oggi all’assalto non solo in Africa, dove usa mezzi a volte violenti (Somalia, Sudan), ma anche in Europa.
Pertanto, trattando di conversioni all’islam, è necessario usare accortezza, poiché sappiamo che, mentre la verità oggettiva è in Gesù Cristo, soggettivamente le persone possono essere affascinate da altre proposte.
Mi permetto le seguenti due osservazioni.
a) Gli articoli della Lano dimostrano comprensione verso chi è diventato musulmano. L’insieme della presentazione richiederebbe anche una affermazione chiarificatrice sull’oggettiva grandezza di Gesù Cristo, che i convertiti all’islam non hanno purtroppo conosciuto o conosciuto male: è sintomatico che nessuno di loro parli di Gesù Cristo.
Mi auguro che Missioni Consolata presenti l’«unicità di Cristo», altrimenti si lascia nel lettore l’impressione che i convertiti abbiano fatto bene a diventare musulmani.
Le riviste missionarie non hanno solo il dovere di informare, ma anche di presentare Gesù Cristo Salvatore di tutti, compresi i musulmani. Se già tutte le pubblicazioni cristiane dovrebbero avere questo scopo, tanto più una rivista missionaria.
b) La seconda, più che una osservazione, è una proposta. Anche in Italia (e un po’ in tutta l’Europa) ci sono musulmani che sono diventati cattolici o cristiani di altre chiese. Propongo di parlare anche di loro, così come avete fatto per i cattolici diventati musulmani. Sarebbe opportuno parlare pure di quanti fanno tale apostolato tra i musulmani.

Osservazioni assai pertinenti queste di padre Paolo, nostro prezioso corrispondente dal Kenya. L’«unicità di Cristo» va sempre ricordata. Missioni Consolata, nel citato numero speciale sul giubileo, ha titolato: «Davvero come Lui non c’è nessuno».
Abbiamo anche intenzione di parlare dei musulmani convertiti al cristianesimo. Però c’è uno scoglio: se occorre prudenza nel presentare le conversioni dei cristiani all’islam, se ne richiede di più nel processo inverso. Infatti i convertiti a Cristo dall’islam rischiano ritorsioni dai loro precedenti correligionari.

Paolo Tablino




Anche negli USA critiche alla guerra

Egregio direttore,
scrivo per congratularmi con lei e con Paolo Moiola per quanto avete scritto sulla guerra in Serbia-Kosovo. Eccezion fatta per gli anti-imperialisti di professione, le cui opinioni sono in parte predeterminate, pochissimi in Italia hanno avuto il coraggio di riportare con il giusto peso fatti «scomodi» e di dire quel che non era difficile capire. In Europa il panorama non sembra migliore.
Solo in America e Inghilterra si sono levate voci critiche dal mondo politico «rispettabile», sia da destra che da sinistra.
Kissinger, in un articolo del 31/5/1999 su Newsweek, dice che la guerra è stata forzata bloccando le possibili soluzioni pacifiche. L’associazione di studi politico-militari Strategic Studies (della destra repubblicana) accusava il capo della missione Ocse, l’americano Walker, di aver «fabbricato» il massacro di Racak (gennaio 1999). Sulla base di testimonianze di osservatori dell’Ocse, pubblicate anche su Le Figaro e Le Monde, la «fossa comune» sarebbe stata creata mettendo insieme i corpi dei caduti negli scontri tra esercito serbo e Uck. Le foto dei cadaveri di Racak, apparse su tutti i rotocalchi, sono state considerate il «grilletto» della guerra…
Del Kosovo la nostra stampa non parla quasi più: arrivano solo echi della polemica (proveniente dall’America) sul numero delle vittime delle «atrocità serbe». Da centinaia di migliaia si è arrivati a 10 mila, mentre stime attendibili danno un massimo di 2 mila, per lo più comunque uccise dopo l’inizio dei bombardamenti. Non si sa se i rilievi siano più accurati che a Racak.
Intanto, come denuncia il recente rapporto di Amnesty Inteational, la violenza in Kosovo continua e forse peggiora, a danno dei serbi, rom, ma soprattutto degli albanesi moderati. Vittime «indegne», a cui la stampa dedica poco spazio.
Continua anche la sistematica distruzione delle chiese. Ne sono state distrutte un’ottantina, tra di esse anche antiche chiese medievali con i loro preziosi affreschi, incluse nel patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Per confronto, la «violenza serba» ha distrutto solo una moschea.

Il signor Boldrighini ricorda altri interventi critici statunitensi contro la guerra in Serbia-Kosovo. Ad esempio, quelli di Kenney, già responsabile nel Dipartimento di stato per la Jugoslavia ai tempi di Bush, di Binder, ex corrispondente del New York Times dai Balcani, di Chomsky, professore e commentatore politico. Anche il candidato presidenziale Pat Buchanan, già uomo di spicco della destra di Reagan, è stato critico sull’intervento armato nei Balcani.

Carlo Boldrighini




Al suono dello Shofar

Spettabile redazione,
sono abbonato a tre riviste missionarie, che leggo per essere cattolico, cioè universale, e che mi consentono di conoscere la politica mondiale, cosa che non trovo nei nostrani ottusi e scandalosi mass media.
Ultimamente le tre riviste sono uscite con un loro «numero speciale»: una si è soffermata su un anniversario del suo istituto, un’altra ha presentato l’Africa e… Missioni Consolata ha parlato del giubileo. Devo dire che Missioni Consolata mi è piaciuta di più. Ho trovato troppo celebrativo il «numero speciale» sull’istituto, mentre quello sull’Africa è molto confuso e ripetitivo: non nomino le due riviste, perché apprezzo anch’esse.
Il numero di Missioni Consolata sul giubileo, oltre che chiaro nell’impostazione, è anche originale, proprio perché «cattolico»; inoltre attualizza il giubileo della bibbia e quello di Gesù affrontando argomenti scabrosi, che qualche italiano vorrebbe rimuovere (vedi pena di morte, emarginazione dei paesi poveri, ecc). Grazie.

Srgio Macchi




Palle di vetro

B eppe aveva sette anni quando, nel 1950, vide per la prima volta San Pietro. In quell’anno santo il papà ritoò da Roma con una strabiliante palla di vetro, che racchiudeva la celebre basilica. La mamma sistemò il ricordo del giubileo sul comò. Beppe non solo mirava quella palla, ma la prendeva in mano scuotendola: così facendo, il cielo sulla piazza si animava di minuscole falde di neve, che poi si posavano lentamente sul cupolone. Finché il soprammobile gli scivolò… per frantumarsi sul pavimento.
«Mamma, ho rotto San Pietro!», singhiozzava disperato Beppino. «Ma va’ là! San Pietro non è mica una palla di vetro!» replicò la mamma.
A questo episodio della propria infanzia pensò Beppe, l’altro giorno, ascoltando il suo parroco. Erano in pellegrinaggio verso Roma. «Non abusate con i ricordini – diceva il don -. Un rosario va bene. Il resto è inutile quanto costoso. Non cadiamo nel consumismo religioso. Siamo in quaresima».

D i fronte al giubileo in corso, Vittorio Messori ha denunciato troppe porte sante, messe solenni, messaggi, benedizioni, esortazioni, processioni, concerti, «miele buonista di monsignori» (cfr. Corriere della Sera, 27 dicembre 1999). Talora non sono liturgie, ma «paraliturgie» nel senso peggiore del termine. O megashow.
Tutto magnificato dalla tivù.
Inoltre imperversano «le palle di vetro», la paccottiglia. Sono in vendita persino due fucili: una doppietta e un soprapposto, della Casa Beretta (Brescia), con l’incisione «P. Beretta Giubileo» (cfr. Armi e Tiro, dicembre 1999).
«Siamo in quaresima» diceva il parroco di Beppe. Dunque: «tempo forte» per la sobrietà, la coerenza, l’impegno. Nelle chiese risuonano testi biblici che non ammettono scantonamenti. E non bastano i digiuni materiali, perché non servono «sacrifici di tori», dietro i quali si nascondono calcoli economici.
È vero che digiunate – dice il profeta Isaia -. Ma, nello stesso tempo, fate grossi affari e maltrattate i lavoratori. Litigate, urlate, fate a pugni. «Per digiuno io intendo un’altra cosa: rompere le catene dell’ingiustizia, rimuovere tutti i pesi che opprimono gli uomini, rendere la libertà agli oppressi» (Is 58, 6).
Ma qualcuno risponde stizzito: «Evitate il
facile moralismo e le colpevolizzazioni
sommarie!».
Intanto ogni giorno 19 mila bambini muoiono per denutrizione, mentre in Europa si spendono 18 mila miliardi all’anno in gelati. Bill Gates, Robson Walton e il sultano del Brunei continuano ad ammassare ricchezze pari al reddito complessivo di 42 paesi poveri.
Per non parlare della corruzione politica.
Ma questo non è un macigno insormontabile. Potrebbe essere una fragile… palla di vetro. Dipende dai nostri «sì» o «no».
Anche al supermercato.
La redazione

la redazione