Il gran signore

Cioè fratel Modesto Zeni,missionario della Consolata.
Nato a Cavedago (TN) nel 1921e morto a Torino
il 6 novembre 1999.Ha trascorso oltre 50 anni
in Tanzania.Lo chiamavano anche «il moro».

Un aggiustatutto

Che fratel Modesto Zeni sia stato un veterano d’Africa, con alle spalle oltre 50 anni di Tanzania, è noto probabilmente a tanti addetti ai lavori della missione.
Pochissimi, invece, sanno che tra le sue molteplici attività missionarie (muratore, meccanico, idraulico, elettricista, capomastro di conventi e cattedrali, distributore di viveri e materiale edilizio, benzinaio, fabbro, aggiustatutto…) fratel Modesto sia stato anche un esperto ed appassionato arbitro di calcio, anzi il maestro e capo degli arbitri nella città di Iringa.
Al termine di ogni santo giorno dell’anno, egli dedicava qualche ora di tempo al calcio e all’arbitraggio. Oltre a tenere d’occhio lo svolgimento delle partite e controllare dalla panchina il comportamento degli arbitri e dei giocatori, fratel Modesto doveva pure, come giudice supremo, dirimere tutte le beghe calcistiche, assolvendo o condannando con relative squalifiche, sospensioni e multe.
Ciononostante Modesto era l’uomo più amato nel mondo calcistico di Iringa.
E un suo rientro in l’Italia, per ragioni di salute, aveva lasciato il vuoto. Quasi uno smarrimento generale. Ma il fatto risale ad una decina di anni or sono.

Arrivederci presto

La sera prima che fratel Modesto se ne andasse, i suoi fans e, soprattutto, il collegio arbitrale gli si strinsero attorno per una festicciola di saluto, affettuosa e sincera.
Dopo poche portate, qualche birra e coca-cola… ma tanti e commossi «grazie!», «buon viaggio!» e «arrivederci presto!», la serata si concluse con la seguente e originale preghiera d’ispirazione biblica:
O Dio,
Padre onnipotente ed eterno,
tu che ti sei posto
come una colonna di fuoco
affinché la tua nazione eletta, Israele, non fosse attaccata
dagli egiziani;
tu che, con la mano santissima,
hai diviso il Mar Rosso
per far passare il tuo popolo
sull’asciutto;
tu che, con grande potenza
hai salvato la vita del tuo amato
figlio Gesù, facendolo sfuggire
dalle mani di Erode,
noi ti preghiamo, Padre buono:
assisti il nostro fratello
Modesto Zeni
nel suo lungo viaggio;
mandagli tanti angeli,
affinché gli stiano vicini in questo viaggio di andata e ritorno
senza lasciarlo mai.
E tu, Signore nostro Gesù Cristo, che dopo la risurrezione
ti sei accompagnato con i discepoli nel cammino verso Emmaus
e discutevi con loro
senza che ti conoscessero,
ti preghiamo:
sii accanto al nostro fratello Modesto Zeni lungo la strada
che porta in Italia,
parla con lui e proteggilo sempre,
finché ritoerà ancora fra noi.
Amen!
Così pregarono gli «arbitrini», i calciatori semiscalzi e tanti tifosi di Modesto, sinceramente preoccupati della sua eia ombelicale.

Il moro

Fratel Modesto superò bene l’intervento chirurgico e ritoò a «fischiare» sui campi da foot ball.
Non solo, ma riprese in mano anche la bolla, la saldatrice, la chiave inglese… per riparare Land Rover e Toyota, costruire asili, scuole, ospedali. Ma, nella festa solenne dell’inaugurazione di tutte le «sue» chiese, Modesto non appariva mai. Si eclissava. Il microfono, il palco e l’applauso lo infastidivano un po’. Non lo diceva a parole, bensì con un timido sorriso. Anche in chiesa si inginocchiava all’ultimo posto…
Il 5 novembre scorso lo incontrai a letto, a Torino, e gli mormorai: «Ciao, bwana mkubwa!» (gran signore). Dagli occhi semichiusi sgorgarono poche lacrime. Al che, commosso anch’io, mormorai: «Sei davvero un gran signore!»… Poco dopo moriva di tumore.
Anche senza la salma, in Tanzania iniziò subito il kilio (pianto pubblico). Un kilio con tanta gente, accorato, di affetto e riconoscenza per un missionario, detto anche «il moro». Al di là del colore marcatamente scuro della sua pelle, fratel Modesto Zeni è stato soprattutto uno di «loro».

a cura di un “tifoso”




Metropoli e personaggi – Naipaul

Un caleidoscopio di «intoccabili» e «maharaja», atei e credenti, conservatori e progressisti, indù, musulmani, sikh, cristiani.
E non solo.

«Per me l’India è un paese
difficile.
Non è, né può essere la mia
patria, eppure non riesco
a respingerla, né a esserle
indifferente; non posso
visitarla semplicemente
da turista.
Le sono al tempo stesso
troppo vicino
e troppo lontano».

Così scrive Vidiadhur S. Naipaul nel suo saggio «India: una civiltà ferita», frutto del viaggio nel paese tra agosto 1975 e ottobre 1976. Ancora più traumatica fu la visita nel 1962, da cui scaturì «Un’area di tenebra».
Nel 1989 Naipaul, ormai scrittore affermato a livello internazionale, rivisitò l’India con l’occhio reso più acuto dall’esperienza e incontrò figure emblematiche nei contesti più disparati di un paese velato ancora da un’aura di mistero.
«India», frutto di questo nuovo viaggio, è una serie di mirabili affreschi in cui i personaggi, intervistati dallo scrittore con profondità psicologica, sono immersi in uno scenario che presenta i mutamenti avvenuti negli ultimi 30 anni e cattura eventi culturali ancora vivi, malgrado il peso dei secoli, nella vita quotidiana degli indiani.

«Bombay… C’erano ora su entrambi i lati della strada file di edifici di cemento, ammuffiti ai piani alti dal clima (troppo sole, troppa pioggia, troppa calura) e sudici ai piani bassi, come se assorbissero la sporcizia della brulicante umanità che si muoveva a livello del marciapiede, come se quell’umano sudiciume procedesse verso l’alto, superando una dopo l’altra le linee di marea fino a raggiungere i piani ammuffiti…
La chiesa nominata dall’autista era la celebre cattedrale della Goa dov’è sepolto san Francesco Saverio. La cattedrale e gli altri edifici portoghesi della città vecchia, un po’ rientrati rispetto al fiume Mandovi, hanno un effetto sconcertante in questa coice: così lontani dall’Europa… in quella luce così abbacinante, con le spiagge bianche che ricordano più le isole deserte del Nuovo Mondo… che villaggi e cittadine sovraffollate della vecchia India, con il suo passato intricato…».
nn In una Bombay cosmopolita e caotica Naipaul è colpito da una «coda lunga un paio di chilometri», formata dai dalit (intoccabili), decorosamente vestiti «per rendere omaggio al loro santo da lungo tempo sepolto, a quel dottor Ambedkar che nella fotografia indossava una cravatta all’europea».
Intervista Namdeo, poeta dalit e fondatore nel 1974 delle Dalit Panther, che afferma: «C’era un’epoca in cui eravamo trattati come animali. Adesso viviamo come esseri umani. E tutto grazie ad Ambedkar».
Sempre a Bombay, metropoli di opportunità e disperazione, lo scrittore incontra un giovane pujari, cresciuto in un ashram, fedele esecutore di riti complessi secondo la tradizione indù, e il ventinovenne Papu, agente di borsa di successo e fedele seguace di Giano: perciò vegetariano e impegnato la domenica mattina come volontario nella bidonville di Dharewi.
Anwar, giovane musulmano, è invece attendibile testimone delle continue violenze tra indù e musulmani.

«L a gente ora aveva più soldi a disposizione: si vedeva chiaramente anche dalla campagna del Kaataka, lungo la strada a sud di Goa. La povertà indiana non era scomparsa, c’erano ancora mucchi d’immondizia, le case e i vicoli dall’aspetto cadente, ma i campi di canna da zucchero, di cotone e di altri prodotti agricoli avevano un’aria lussureggiante e ben tenuta; nei villaggi le case erano spesso pulite, con i muri intonacati e i tetti di tegole rosse. Non c’era traccia dell’indigenza che avevo visto 26 anni prima dall’autobus lento che si fermava ad ogni passo; non più quegli scheletri ambulanti dagli sguardi allucinati. La rivoluzione agricola lì era una realtà, la disponibilità di cibo era visibile…».
nn Invitato a colazione da Prakash, ministro del governo del Kaataka, lo scrittore osserva la lunga fila di gente in attesa di udienza e favori, perché «i ministri sono gli odiei maharaja» e godono di molti privilegi concessi a chi «detiene il potere». «I maharaja avevano perso il titolo nel 1956, ma disponevano ancora di un appannaggio reale».

«A Bangalore hanno la sede istituzioni scientifiche di ogni disciplina. Le strade, fiancheggiate dagli alberi della città-giardino dei maharaja, sono ormai invase dai rumori, dalla puzza e dai gas di scarico dei veicoli a tre ruote e delle automobili. Certo non è più la città in cui passeggiare piacevolmente…».
nn A Bangalore Naipaul apprende dal giornalista scientifico Deviah la storia di Ayappa, il cui tempio attira folle di pellegrini; incontra il dottor Srinivasan, presidente della Commissione indiana per l’energia atomica, e altri due scienziati, i cui antenati erano «sacerdoti», che lo erudiscono sulla complessa storia di quelle regioni e lo inducono a commentare: «Da quell’incontro (tra il sapere difficile dei sacerdoti, l’attenzione a compiere con precisione rituali complessi, il silenzio che accompagnava taluni riti e la nuova educazione) era nata una nuova generazione di scienziati».

«Non ero mai riuscito ad adattarmi a Madras, per quanto fosse una città ospitale e piena di movimento. Le piramidi scolpite delle torri del tempio, le palme, i bramini a torso nudo in mezzo alle antiche colonne di pietra, la cisterna d’acqua di Mylapore con i suoi gradini tutt’intorno, enorme e bellissima, sembravano cose viste nelle vecchie stampe europee…».
nn Visitando Madras Naipaul afferma: «Ci voleva tempo a capire che era avvenuto un rovesciamento di poteri, che i bramini erano sulla difensiva, pur essendo ancora musicisti e danzatori, cuochi e sacerdoti dei templi».
È quanto emerge dalle interviste a Veeramani, guida dal 1973 del Movimento progressista dravidico. In quell’anno era morto il fondatore Periyar, ateo e razionalista. Il Movimento aveva vinto per la prima volta le elezioni nel 1967 e ha continuato a vincere, anche se è anti-braminico e non abbraccia tutte le caste, ma solo quelle medie. Alla gente di infimo livello il Movimento non offre alcuna protezione.

«Per anni e anni si diceva che Calcutta stava morendo. Le città… non muoiono solo quando vengono abbandonate. Forse le città muoiono quando perdono i piaceri che sono loro propri: gli stimoli visivi, la sensazione più acuta delle possibilità umane, e diventano semplicemente luoghi con troppe persone, e le persone soffrono… Nel 1946 ci furono i massacri tra indù e musulmani. Segnarono l’inizio della fine per la città. L’anno dopo, l’India era indipendente, ma divisa. Anche il Bengala fu diviso. Un numero enorme di profughi indù arrivò a Calcutta e vi si accampò e Calcutta, cui mancava anche solo un centesimo della capacità di recupero dell’Europa, non si riprese mai».
nn A Calcutta Naipaul raccoglie le testimonianze di due superstiti del Partito comunista indiano, nato nel 1969: Dipanjan, docente di scienze in un college, si era appassionato alla causa dei braccianti, ma intraprese azioni violente e fu imprigionato; Debu, importante dirigente di una grossa società, si unì al Partito, ma fu testimone di vicende cruente e devastatrici.
Commenta Naipaul: «Dalla compassione immediata e l’umiliazione per i poveri e il proprio paese al suicidio culturale e economico, a nuove coercizioni e violazioni, a una causa insomma molto lontana dalla fame dei contadini».
Il padre di Chidananda Das Gupta, altro interlocutore di Naipaul, aveva speso la sua vita come predicatore-bramino, la cui fede «unisce l’essenza dell’insegnamento upanishadico con alcuni elementi cristiani… Credeva nel diritto delle donne all’educazione, negli ideali democratici e nell’abolizione del sistema di casta».

L’ultimo bastione dell’India musulmana è Lakhnau, capitale dello stato dell’Uttar Pradesh. Naipaul vi incontra Amir, raja di Mahmudabad. Il padre era stato membro della Lega musulmana tra gli anni ’30-40 e, nel 1945, aveva offerto il figlio di soli 2 anni all’imam, per servire la fede sciita.
Con l’indipendenza di India e Pakistan nel 1947, Amir iniziò una vita di peregrinazioni. La guerra indo-pakistana del 1965 permise al governo indiano di confiscare tutte le proprietà del genitore e l’atroce conflitto indo-pakistano per il Bangladesh del 1971 lo condusse, due anni dopo, alla tomba; fu sepolto nel tempio di Mashhad nell’Iran orientale.

La famiglia di Vishwa Nath, settantenne editore di Woman’s Era, viveva a Delhi da 400 anni. Dal 1931, anno della marcia del sale di Gandhi, l’editore ha sempre indossato il khadi, il tessuto di cotone filato a mano, affermando: «Gandhi ha fatto di noi una nazione. Eravamo come topi e fece di noi degli uomini».
«Il tempio d’oro sorge ad Amristar, lo stagno del nettare, perché si dice che lì vi fosse uno stagno noto al primo guru. La doratura, riflessa tutt’intorno al lago artificiale, produce un effetto magico» scrive Naipaul, che è riuscito ad intervistare alcuni stretti collaboratori di Bhindranwale, famoso capo sikh, che nel tempio trovò la morte dopo un attacco delle forze governative.
Iniziato per alleviare le «sofferenze del popolo», perché i sikh vedono «Dio come un liberatore», il movimento si trasformò in un covo di terroristi. Il giornalista Dalip commenta: «Bhindranwale arrivò al tempio d’oro il 20 luglio 1982. Ne uscì morto il 6 giugno 1984. Ha danneggiato i sikh come di più non si poteva… Ha danneggiato il Punjab e l’India».
Silvana Bottignole

Silvana Bottignole




L’opinione – I popoli sono come le nuvole

Vidiadhur S. Naipaul

Nato a Trinidad (Piccole Antille) nel 1932,
è uno dei massimi scrittori viventi.
Il 19 giugno scorso ha ricevuto
il premio internazionale Grinzane Cavour
“Una vita per la letteratura”.
Dotato di un inglese raffinato,
Vidiadhur S. Naipaul ha scritto romanzi e saggi, frutto di una ricerca rigorosa
e una forte tensione morale.
Lo scrittore, che non sopporta la superficialità dei giornalisti, ha risposto ad alcune domande durante una conferenza-stampa.

Signor Naipaul, lei ha viaggiato anche in paesi islamici e ha scritto «Fra credenti». Pensa che ci sia una rinascita del mondo islamico, una rivoluzione modea?
Ho visitato, per esempio, l’Iran nel 1979-80. Gran parte del linguaggio dei fondamentalisti islamici pareva una mimica del linguaggio della rivoluzione marxista. Per questo i marxisti in Iran hanno avuto tanti guai. Si sono dati alla causa religiosa e ne sono stati consumati. Quella non era una rivoluzione religiosa, ma un’azione reazionaria in gran parte nelle mani di persone senza cultura. Dobbiamo essere molto cauti e non lasciarci sedurre dalle parole apparentemente civili.
So che alcuni studiosi degli Stati Uniti ritengono che il fondamentalismo abbia aspetti positivi: stanno soltanto proteggendo il loro lavoro. Abbiamo visto e, ancora oggi, vediamo tutta la faccia nefasta del fondamentalismo in Afghanistan.
L’Iran è una tirannia. Non dobbiamo, però, frapporci tra le rivoluzioni e ciò che la gente vuole. Gli iraniani hanno voluto questa rivoluzione «farsa». È giusto che l’abbiano e che ne paghino il prezzo.

Le migrazioni hanno sempre caratterizzato la storia? Che ne pensa?
Se si potesse vedere la storia, come su foto inviate da un satellite, si vedrebbero le popolazioni in movimento come le nuvole. Se potessimo andare ai tempi dell’antica Roma, vedremmo le invasioni dei teutoni nel sud della Francia, dove Cezanne ha dipinto i suoi quadri famosi. L’Andalusia, regione della Spagna, ha preso il suo nome dai vandali dell’Europa orientale (la parola «anda» deriva da «vandalo»), mentre i turchi per secoli si sono accampati presso le rovine delle città dell’antica Grecia. In quest’ottica anche gli spagnoli hanno poi invaso il Nuovo Mondo.
Questo genere di migrazioni non può, però, essere paragonato alle attuali migrazioni «economiche» a cui forse state pensando.

Ebbene, come giudica le odiee migrazioni «economiche»? Conflittuali o incontri di cultura?
L’odiea migrazione è permessa e persino incoraggiata dai governi con le loro politiche. I kosovari in Italia potrebbero essere definiti «i migranti della Nato». La Nato ha fatto grande pubblicità. Ne siete preoccupati?

Lei lo sarebbe?
Se fossi italiano credo proprio di sì.

Cosa pensa dei molti conflitti che lacerano il mondo, in India come nell’ex Jugoslavia? Sono causati da motivi tribali?
Abbiamo parlato di «movimenti storici». Non userei l’aggettivo «tribale», perché penso che lo si possa applicare solo, forse, a sparuti gruppi che vivono nell’Antartico… Nessuno può pensare ad un mondo tribale o incoraggiare il mondo ad esserlo!
Il conflitto dei Balcani non è soltanto etnico. Le popolazioni locali hanno vissuto per decenni senza libertà, senza istituzioni libere, senza leggi in cui riporre speranza, senza valide tradizioni. La storia insegna che un popolo si sente potente nella propria etnia (che poi si rivela una trappola), quando non ha fiducia nelle istituzioni. Alle nuove generazioni dell’ex Jugoslavia bisognerebbe insegnare la democrazia e, con questa, sviluppare la fiducia nelle istituzioni.
Non userei l’aggettivo «tribale» anche perché penso che ogni persona possa avere cinque, sei, sette… idee di se stessa.
Per esempio, guardate questa signora (indicava la sottoscritta, che mi ero presentata come collaboratrice di una rivista missionaria): è italiana, giornalista, scrive per un periodico impegnato, ha una sua cultura, avrà visitato paesi del sud del mondo, conosciuto culture diverse…

Nel suo romanzo «Alla curva del fiume», ambientato in Congo, il protagonista Samir è di origine indiana e appare come una persona onesta, mentre la figura del despota racchiude i tratti di numerose dittature. Ha voluto sottolineare alcune caratteristiche universali?
Quando scrivo non mi chiedo se il protagonista è onesto: scrivo e basta. Sarà il lettore o il critico a giudicare i diversi personaggi.
Nel presentare la figura del dittatore in Congo, avevo in mente Mobutu e ho cercato di descriverlo. Non so se Mobutu sia «universale». Se tale despota ne ricorda altri, non è mio compito dirlo. Nei romanzi cerco di raccontare situazioni reali in un determinato contesto e momento storico.

Che cosa pensa degli scrittori indiani come Narayan?
Narayan è un grande scrittore indiano di lingua inglese: oggi ha più di 90 anni. Però è uno scrittore spirituale, mistico e nega la realtà. Ha perso la moglie quando era molto giovane e questo ha condizionato la sua opera. Scrive nell’illusione, nega le osservazioni della realtà. Per lui la realtà è falsa.
Scrivere un romanzo significa, invece, affermare che il mondo è reale, significa illustrare la solidità del mondo. Attenti, dunque, agli scrittori che cercano di raccontare la complessa realtà indiana imitando Joyce, Marquez o Hemingway!

Quali scrittori apprezza o apprezzava da studente?
Sono uno scrittore, non un lettore. Da giovane leggevo decine di libri per volta. Di ogni testo scorrevo con attenzione 50-60 pagine, cercando di sentire la musica nella scrittura. Ho apprezzato molto Maupassant.

Pare che il suo rapporto con i giornalisti sia terribile. Eppure non l’ho rilevato nei suoi scritti. Perché?
La mia irritazione non è causata dai giornalisti, ma dal loro bluff (inganno, boria). Personalmente non mi sognerei mai di diventare editore del Musical Express, perché non so nulla di musica. Ma purtroppo ci sono giornalisti che pretendono di intervistare uno scrittore senza aver letto almeno uno dei suoi libri o che scrivono copiando materiale d’archivio. Questi giornalisti sono un bluff, perché sciupano sia il proprio tempo che quello dello scrittore e commettono una frode nei confronti dei lettori, che non ricevono il servizio dovuto.
È un’occasione perduta per il giornalista, al quale chiedo: «Qual è il valore del tuo lavoro? Che rispetto hai di te stesso? Fai così settimana dopo settimana? Che cosa offri ai tuoi lettori? Come ti senti?».

P. S.
Non mi sognerei mai di fare domande ad uno scrittore senza aver letto almeno due dei suoi libri e aver deciso che vale la pena di intervistarlo.
Nel caso di Naipaul, avevo capito che è uno scrittore di valore, ma che non sarebbe stato facile incontrarlo.
Durante la conferenza-stampa, ho suggerito ad un collega di leggere «Una casa per il signor Biswas», in cui Naipaul è critico e ironico verso i giornalisti e direttori di giornali, oppure «Alla curva del fiume», in cui il protagonista è inorridito della superficialità con cui i giornalisti occidentali hanno descritto i massacri degli arabi lungo la costa dell’Africa orientale.
Naipaul ha apprezzato il mio suggerimento e ha commentato: «Vedo che lei si è preparata bene. Per quale rivista scrive?».
«Missioni Consolata» ho risposto.
S. B.

Silvana Bottignole




Beirut rivuole il paradiso

Il piccolo paese mediorientale è un laboratorio
religioso: cristiani, musulmani-sunniti
e musulmani-sciiti cercano una via di convivenza.
Ma i problemi non sono pochi. Dopo due guerre civili
(1958 e 1975), oggi il Libano patisce
una doppia occupazione (Siria e Israele) e ospita
mezzo milione di profughi palestinesi (musulmani).
Certamente la loro presenza ha contribuito
a rompere il fragile equilibrio del paese,
spostando l’ago della bilancia a favore
della componente islamica.
Per la «terra dei cedri» tornare alla prosperità
di un tempo è un sogno difficile da realizzare.

Francesca ha tanti amici in tutto il paese. Un paese piccolo e molto popoloso, il Libano, dove è facile incontrarsi, specialmente se si visitano i luoghi legati alla sua millenaria storia. Quando si incontrano, i libanesi si baciano tre volte, sulle guance, con affetto e simpatia. Possono essere drusi o armeni oppure maroniti, come lei. Ma per Francesca un amore ancora non c’è anche se sono passati già 13 anni da quella sera di pasqua, quando il suo ragazzo fu ucciso da un cecchino.
Si era nell’86 e i due giovani, che si erano conosciuti all’università, si erano dati appuntamento la sera, per uscire insieme. «Pensavo mi avesse fatto uno scherzo; per cui non volli cercarlo, per ripicca». Quando il mattino seguente la radio annunciò più volte la morte del ragazzo, Francesca ascoltava, ma non capiva. Sentiva ripetere quel nome «Samir, Samir…» e sua madre la guardava e non osava parlarle. «Era bello, intelligente, di buona famiglia, avevamo gli stessi interessi, gli stessi ideali». Per 7 anni Francesca non volle vivere, lavorava soltanto. Studiava e lavorava agli scavi archeologici, una sua passione. La vita continuava, ma la ferita era troppo grande. Molti giovani uomini sono caduti durante i 17 anni di guerra civile. Pare però che le ragazze libanesi siano molto richieste, come mogli, da europei e americani che ne apprezzano le doti.
Francesca mi accompagna in questo viaggio e mi ringrazia per aver avuto il coraggio di ritornare, a oltre 4 anni dalla mia prima visita. Le cose non stanno andando bene, come si sperava allora.

Al mio arrivo dall’Italia ho assistito al corteo festoso che attendeva l’arrivo in aeroporto da Tel Aviv, via Francoforte, di 5 ostaggi liberati dagli israeliani. Ieri un’auto-bomba, guidata da un «martire» hezbollah, ha ferito alcuni civili, mentre tentava di colpire una colonna israeliana.
Il fatto è avvenuto a pochi chilometri da Tiro, nel sud vicino al confine con Israele. Il sud è un altro mondo: la costa è verde di piantagioni e bananeti; la collina è ricoperta di ulivi. Entrando in città, vedo un manifesto con la bandiera a stelle e strisce, dove le stelle sono teschi e le strisce grondano sangue. Le scritte denunciano le responsabilità degli Stati Uniti nel dramma irrisolto del sud occupato; altri cartelli portano le immagini di capi sciiti con barba e turbante.
Tiro è Terra santa. Qui, secondo una tradizione, ricordano ancora i luoghi prediletti dalla Madonna per sostare in attesa del figlio, entrato in città a predicare. Visitiamo i resti grandiosi della città, che il mito dice patria di Europa, la bellissima amata da Giove. Settimio Severo, l’imperatore di Leptis, la volle abbellire, ma gran parte dei resti antichi di 6.000 anni giacciono sotto i nuovi palazzi, che non saranno mai demoliti. Li occupano le famiglie degli eroi della guerra, e dalle loro finestre si abbraccia il porto fenicio, l’ippodromo immenso, l’acquedotto e le vie lastricate col colonnato e la necropoli.
Sento che qualcosa ci lega profondamente a questa terra. Prima di arrivare a noi, la cultura d’Oriente si è fermata su queste rive, ha preso forma nella parola scritta, si è arricchita e si è irradiata in tutto il mondo. Il mare lambisce queste rovine malinconiche. Unici visitatori siamo noi, con una famiglia di libanesi di Montreal, per la prima volta a Tiro coi loro bambini. «In Canada si vive benissimo, ma vogliamo far conoscere il Libano ai ragazzi». Mi dice il padre. Forse non toeranno mai più. C’è tristezza nelle sue parole.
Ho incontrato libanesi nei luoghi più remoti, tutti impegnati negli affari. Gestiscono alberghi e imprese commerciali. La maggioranza è benestante, unita in associazioni che mantengono stretti legami con la madrepatria. Quasi tutte le famiglie libanesi all’estero hanno un figlio o un parente a Beirut.
Siamo nel Chouf, la valle dei drusi, a pochi chilometri da Beirut. Deir el Qamar era il sogno di Fakardino, l’emiro druso che fu profondamente influenzato dall’educazione cristiana e dai contatti con la cultura italiana.
Accanto a eleganti palazzi, una sinagoga (ebrei spagnoli giunsero qui nel ’700) e moschee di pietra dorata, c’è una chiesa del quinto secolo, Sayidet et-Tallè, dove incontro Frate Raimondo, un giovane maronita che ha scelto la famiglia francescana per aiutare i poveri. Indossa il saio e non teme di usarlo anche quando è a Tiro, la sua città nel sud occupato dagli israeliani. Parliamo dei problemi della popolazione, degli hezbollah che continuano a lottare per liberare la loro terra.
«In questo paese le fila delle lotte armate sono tenute in mani lontane, in paesi stranieri che fanno i loro interessi. Ma non è così anche in Italia?». Fuori stazionano guardie armate. Forse sono siriani anche questi giovani col mitra, che sorridono contenti di essere fotografati.
La storia del Libano è anche quella di personaggi carismatici e delle loro grandi famiglie. La storia dei drusi è affascinante, la loro fede misteriosa, esoterica. Il feudo della famiglia Jumblatt (nobili signori drusi, legatissimi alle vicende del paese) è molto esteso. I palazzi sono di un’eleganza raffinata, in stile arabo con influenze fiorentine. La storia di Kamal, che studiò dai padri lazzaristi e fu ucciso nel 1977 dagli uomini di Assad, è riassunta nel museo a lui dedicato; e ora suo figlio Walid Jumblatt è uno dei politici più in vista, in questo Libano pesantemente controllato dalla Siria.

Nabil è un soldato druso, e lo si capisce dall’andatura e dalla stazza. Ora fa l’autista, ma al tempo della guerra ha combattuto, sui monti tra Aley, la sua città, e la valle della Bekaa, la valle dove, secondo la leggenda, Caino uccise Abele. Suo padre, che era nella polizia, morì a 50 anni d’infarto, lasciando una vedova con 9 figli. Una vedova saggia, che seppe crescere la numerosa prole nella cultura tradizionale.
I saggi, presso i drusi, sono coloro che hanno la conoscenza, gli unici a poter accedere ai testi sacri. Sin da bambini devono dimostrare di possedere una particolare sensibilità, e ricordare le vite vissute precedentemente. Allora vengono cresciuti dagli anziani, sulla base delle scritture, che comprendono, oltre al corano, anche i primi cinque libri della bibbia, il vangelo e le lettere degli apostoli. Sono loro che continueranno la tradizione, all’interno di una comunità che ha forte coesione e non può fare proseliti.
Il classico costume nero, con il lungo velo bianco per le donne e il copricapo per gli uomini, viene ormai indossato solo dagli anziani, che abitano queste montagne o alcune regioni del sud della Siria e in Israele. Le sorelle di Nabil sono tutte sposate e vivono in Canada e in Brasile.

Rientro tardi dalla messa in San Francesco, quando il traffico sempre intenso si è fermato: pare che nelle strade buie di Hamra vi sia il coprifuoco. Padre Jussuf, il parroco cappuccino che non porta il saio per non urtare la sensibilità degli abitanti del quartiere, tutti musulmani, mi ha fatto gli auguri. Poi mi ha raccomandato i poveri della parrocchia. Vedove o mogli di carcerati, tutte musulmane e molte anziane e sole, che possiamo «adottare» con offerte che consentano loro una vita dignitosa.
Salendo a piedi, tra le botteghe ancora chiuse per il ramadan, sento gli scoppi di petardi e sussulto. Non sono segni di festa, tra questi edifici ancora segnati dalla guerra, che le luci al neon e le facciate nuove non riescono a nascondere. Uno scoppio a poca distanza, sulla strada, con il fumo acre e passi nel buio che mi fanno sussultare. Col nodo alla gola rientro, passando veloce davanti al gigantesco portiere in tuba e giacca con le code. Un uomo imponente, con baffi neri girati all’insù, che sembra uscito da un circo equestre. Gli altri, i siriani della sicurezza o i poliziotti, che passeggiano tra ingresso e vie laterali, hanno il solito aspetto guardingo. Chissà a quale gruppo, a quale milizia appartengono. Al «Bristol» pare scendano personaggi importanti.
L’altra sera un tabellone annunciava la presenza dell’ambasciatore iraniano, per un convegno del partito Amal. Stasera invece vedo gruppi di libanesi eleganti, accompagnati da donne forse troppo truccate. Sostano nella hall, poi entrano nel salone dove ci sarà la festa. La musica è orientale, le luci sono basse e l’ambiente fumoso.
Troveremo il solito traffico intenso sulle arterie che ci portano a nord est. In Libano vi è una vettura ogni due abitanti e i servizi pubblici sono rari. Prima sostiamo in piazza dei martiri, davanti all’albero di natale coperto di palline rosse di luce. I contorni della chiesa armena, rimasta intatta, sono illuminati da file di lampade che la fanno sembrare più imponente. In fondo al piazzale vuoto scompaiono nel buio le moschee, ex antichissime chiese cristiane. Oltre, si intravedono le sagome delle nuove, lussuose costruzioni, ancora vuote, del progetto Solidère dell’ex primo ministro Hariri. Un quartiere nuovo e miliardario, tra le moschee e il nuovo porto turistico.
Superiamo la «linea verde», che tagliava la piazza e separava la zona musulmana da quella cristiana. Le insegne al neon, commerciali e natalizie, ci seguono lungo la direttrice che porta verso nord est. Superiamo Antelias, il quartiere armeno con la chiesa e la sede del catholicos, e attraversiamo Jounieh, tutta decorata di luci, presepi e slitte con le renne e i babbi natali. Lassù in cima al monte vigila la gigantesca statua della madonna di Harissa. Forse è troppo ostentata la potenza della chiesa, in questo paese oramai in gran parte islamico.
Con il loro carretto ricolmo, i venditori di fave aspettano clienti. Noi ci fermiamo presso la grotta dedicata a San Giorgio, per accendere un cero insieme ai devoti.

Hanno riaperto il «Casino du Liban». Era un luogo mitico, pare, negli anni dorati di Beirut, prima della guerra. L’edificio ricostruito del casinò si affaccia ora su un promontorio verde di giardini, con vista sulla città e la baia. Abbiamo un tavolo riservato per la festa di mezzanotte: oggi è il 31 dicembre del 1999 e in tutte le capitali del mondo si preparano i festeggiamenti.
«Chi non ha vissuto a Beirut, prima della guerra, non sa cosa sia il paradiso sulla terra». Sembra esagerata questa affermazione della signora armena seduta con la figlia accanto al mio tavolo, nella sala martingala, al primo piano del casinò.
È una donna malinconica, dal lungo naso e dagli occhi neri e penetranti, che ricorda con rimpianto gli anni in cui la vita a Beirut era proprio bella. Vedova, la signora Zekunian è tornata a Beirut, dopo quindici anni di esilio forzato a Parigi. «Per nove anni, fino all’83, abbiamo resistito qui, sperando che la guerra sarebbe finita presto. Poi mio marito ha trasferito gli affari in Francia, dove mia figlia ha compiuto i suoi studi. Sono tornata ora, perché sono rimasta sola. Qui sono le mie radici, qui abitano i miei parenti e noi libanesi siamo molto legati alla famiglia».
Nel 1982 infatti i palestinesi ricchi avevano lasciato Beirut, Arafat si era trasferito in Tunisia, e i grandi capitali erano stati ritirati dalle banche libanesi. Il paese era entrato in crisi e la lira libanese aveva subìto una pesante svalutazione. La speranza ora sta nella figura carismatica e, pare, onesta del presidente Lahoud, il generale che liquidò Aoun.
La vita a Beirut non sarà mai più la stessa. La lunga guerra non ha solo devastato il paese, alterando col cemento della ricostruzione l’armonia delle città e del paesaggio mediterraneo; ne ha inquinato l’anima, seminando diffidenza, sfiducia e anche paura tra gente che aveva sempre convissuto bene, da secoli. Facendosi i propri affari e lasciandoli fare agli altri. Dall’oggi al domani, durante quegli anni, chi era amico poteva diventare nemico, e viceversa.
La mezzanotte arriva, ma non vi è un segno che lo indichi. Guardiamo l’orologio, mentre nel resto del mondo si festeggia con fuochi d’artificio, che forse qui fanno paura. Il profilo della città pare tranquillo, attraverso la vetrata, mentre il pianista indugia ancora nel suonare canzoni francesi di mezzo secolo fa. Al piano terreno hanno sospeso per poco i giochi e le slot machines per assistere a una rumorosa processione di suonatori che salgono e scendono dalle scalinate. Donne in abito lungo e giornielli vistosi sostano interdette dallo spettacolo. Hanno distribuito i cotillones, ma dopo pochi minuti nessuno è disposto a continuare di fingere divertimento. La musica ora è quella napoletana, per noi che abbiamo scelto questo luogo per entrare nel 2000.

UN GIGLIO IN MEZZO ALLE SPINE

Rappresentano la più numerosa tra le varie comunità cristiane presenti in Libano. Nel paese mediorientale vi sono, infatti, anche gruppi di assiri, caldei, siro-cattolici, siro-ortodossi, greco-cattolici, greco-ortodossi, latini, protestanti, armeni-gregoriani e armeni-cattolici.
Marone era un eremita che viveva in odore di santità presso il fiume Oronte, in Siria. Dal suo monastero partivano i missionari, suoi discepoli, tra i quali sono ricordati molti santi, per evangelizzare le genti pagane di lingua aramaica che abitavano i monti del Libano. Tra i cristiani di Siria, i seguaci di Marone furono i soli ad aderire alle decisioni del concilio di Calcedonia: Cristo è vero Dio e vero Uomo. Nel 628 essi accettarono il monotelismo, dottrina di compromesso tra monofisiti e calcedonesi, approvata dal papa. Ricevettero quindi i favori dagli imperatori cattolici, ma ebbero anche molti martiri, a causa di gruppi di monofisiti a loro avversi. Accerchiati dall’islam, con la sconfitta dei bizantini i maroniti furono tagliati fuori dalle vicende della chiesa di Roma. Costretti ad abbandonare il loro monastero, distrutto dagli arabi, si rifugiarono nella valle Qadisha, sul monte Libano, dove nel 939 si stabilì il patriarcato. La «valle santa», ricca di eremi e monasteri, è ancor oggi il loro centro spirituale. Furono di aiuto ai crociati, indicando la via migliore per raggiungere Gerusalemme, e vennero da loro ricordati come valorosi soldati. I crociati porteranno la testa di San Marone in Italia, e ora si trova nel duomo di Foligno.
Non esistono prove di una costante fedeltà a Roma dei maroniti, né di una loro eresia. Essi si considerano gli unici ad essere sempre stati cattolici, anche se in occidente li hanno a lungo considerati tra gli «uniati» (termine spregiativo, usato dagli ortodossi per i membri delle loro comunità tornati all’unione con Roma).
Con la partenza dei crociati, i maroniti subirono la vendetta dei mamelucchi. Alcuni si rifugiarono a Cipro, altri rimasero arroccati nella loro valle, isolati ma fedeli a Roma. Leone X darà loro l’appellativo di «un giglio in mezzo alle spine». A quel tempo, ogni centro maronita aveva un preposto che governava a nome del vicerè di Tripoli, con dignità seconda solo al sacerdote. Sotto la dominazione ottomana viene incoraggiato l’insediamento di agricoltori maroniti nel sud. L’emiro druso Fakardino utilizzava governatori maroniti nei suoi domini e costruì conventi per i cappuccini. Fiorirono a quel tempo gli ordini religiosi e sorsero centri culturali e università, che, promuovendo studi e scambi culturali con l’Europa, furono cerniera tra la cultura d’Oriente e d’Occidente. Con la dinastia sunnita Chehab si ebbero numerose conversioni al cristianesimo. Questa relativa pace spinse i gruppi delle chiese uniate a trasferirsi in Libano: i melchiti nel 1725, gli armeni nel 1739, i siro-cattolici nel 1783. Il patriarca maronita era il solo capo religioso ad essere ricevuto alla corte ottomana come un capo di stato. Tuttavia, vi furono, a volte, persecuzioni e martiri che rifiutavano l’abiura. Nel 1860 il massacro operato dai drusi spinse molti maroniti ad emigrare nelle Americhe. Nel 1943 essi si vedono attribuire, col «patto nazionale», il seggio di presidente della repubblica. C.C.

Claudia Caramanti




Le tappe principali della storia cecena

1552-1556:
I russi conquistano i khanati tatari di Kazan e Astrachan e si insediano stabilmente sulla costa settentrionale del Caspio. Si fanno più frequenti i loro contatti col Caucaso.

XVII secolo:
La Cecenia orientale viene islamizzata da missionari ottomani.

1722:
Pietro il Grande attraversa col proprio esercito il Caucaso fino a Derbent, ma è costretto a ritirarsi.

1770:
I ceceni occidentali (ancora cristiani) sollecitano l’aiuto dei russi, stanchi delle vessazioni dei circostanti popoli musulmani. I ceceni orientali si ribellano all’occupazione russa.

1773-1791:
Per circa 20 anni lo sceicco Mansur Ushurma guida la rivolta cecena. Alla sua cattura i russi scatenano una feroce repressione. I ceceni vengono spinti verso le montagne. Le fertili terre della valle vengono assegnate ai cosacchi del Terek.

1824:
Nel Dagestan ha inizio la rivolta guidata dall’imam Shamil. Egli crea l’«Emirato del Caucaso del nord», uno stato islamico che comprende le zone montagnose di Dagestan e Cecenia.

1859:
Shamil viene battuto e catturato dopo una strenua resistenza contro i russi, che bruciano i villaggi, massacrano gli abitanti, distruggono i raccolti, avvelenano le acque.

1917:
A seguito della rivoluzione di febbraio, si forma una «Alleanza dei popoli montanari del Caucaso del nord e del Dagestan», che proclama l’autonomia politica della regione.

1921:
Dopo anni di guerra civile, viene creata la «Repubblica sovietica autonoma della Montagna», con ampia autonomia.

1924:
Viene sciolta la repubblica della Montagna. Vengono mantenute le divisioni amministrative create al suo interno, tra cui la regione autonoma della Cecenia.

1929:
Ribellione dei ceceni esasperati dalla politica di Mosca, non rispettosa delle tradizioni locali.
1930:
Si giunge a un armistizio. Viene promessa un’amnistia per i rivoltosi.

1931:
Nonostante le assicurazioni vengono giustiziati i capi della rivolta. Nuova ribellione che dura fino al 1936.

1934:
Cecenia e Inguscezia vengono unite e diventano repubblica autonoma.

1943:
Mentre le truppe di Hitler occupano parte del Caucaso, senza però arrivare in Cecenia, i ceceni si sollevano e proclamano l’indipendenza.

23 febbraio 1944:
Su ordine di Stalin, in 24 ore tutti i ceceni, gli ingusci e i caraciai vengono deportati in Asia centrale e in Siberia con l’accusa di collaborazione col nemico. In tutto sono otto i popoli che subiscono simile sorte. La Cecenia-Inguscezia scompare dalle carte geografiche.

1957:
Vengono ricostituite le repubbliche autonome soppresse nel 1944. Gli esiliati possono fare ritorno alle proprie terre: spesso le trovano occupate.

1958:
Scontri in Cecenia tra gli esuli rientrati e i russi che hanno preso il posto.

1991:
Con un referendum la Cecenia proclama l’indipendenza ed elegge presidente Zhochar Dudaev. Mosca attua un blocco economico.

1994-1996:
L’esercito federale invade la Cecenia. Dopo due anni di guerra si giunge a una tregua. La definizione dello status della repubblica viene rimandata al 2001. Il governo secessionista di Grozny, formatosi con le elezioni del 1997, non viene riconosciuto da Mosca.

1999-2000:
Eltsin e Putin riprendono la guerra in Cecenia. Il 6 febbraio viene annunciata la vittoria.

B.B.




La devastante scommessa del Cremlino – CECENIA DOSSIER

Dopo lo zar e Stalin, è toccato a Boris Eltsin e al suo successore, Vladimir Putin, affrontare la «questione cecena». Ufficialmente non si tratta di una guerra, ma di una «operazione antiterrorismo» contro fondamentalisti islamici e malavita organizzata. Tanto che in Russia, dall’uomo della strada a politici, giornalisti, preti ortodossi, tutti si dichiarano a favore di una soluzione drastica. Così, sull’onda di un malinteso orgoglio nazionalistico, si sta consumando una tragedia umana di enormi proporzioni. E una vittoria del potere (e della malavita) sulla democrazia. Perché, con la guerra in Cecenia, Putin e il Cremlino sono riusciti a distrarre i russi e la comunità internazionale dai veri problemi dell’ex superpotenza: difficoltà economiche, corruzione, scandali, strapotere della mafia. Ma, come insegna la storia, passata e recente, i conti veri si faranno soltanto alla fine.

I rapporti tra Russia e Cecenia sono stati nei secoli oltremodo tormentati. Anche dopo la «pacificazione» del Caucaso ad opera dell’esercito zarista, conclusasi nella seconda metà del secolo scorso, i ceceni sono sempre stati per la Russia sudditi alquanto irrequieti e hanno approfittato di ogni difficoltà del potere centrale per rivendicare la propria indipendenza. Nel nostro secolo si contano diversi tentativi di secessione, a cominciare da quello messo in atto subito dopo la rivoluzione di febbraio del 1917, fino alla dichiarazione d’indipendenza pronunciata da Zhochar Dudaev nell’ottobre del 1991.
Nel 1991 le 15 repubbliche dell’Unione hanno avuto la possibilità di diventare stati indipendenti, diritto che la costituzione sovietica riconosceva loro. Questa trasformazione ha interessato anche le tre repubbliche nazionali del Caucaso meridionale o Transcaucasia: Armenia, Georgia e Azerbaigian. Il Caucaso settentrionale o Ciscaucasia, che apparteneva amministrativamente alla «Repubblica socialista federale sovietica della Russia» ha continuato a fae parte quando nel 1991, con lo scioglimento dell’URSS, la repubblica è divenuta a sua volta stato indipendente col nome di «Federazione Russa».
Di conseguenza, ogni tentativo della Cecenia di rendersi indipendente va a ledere il principio della intangibilità dei confini della «Federazione, sul cui territorio vivono molti popoli diversi per origini etniche, lingua, religione. È comprensibile, quindi, che Mosca tema il nascere di movimenti secessionisti entro i propri confini e sospetti che la Cecenia possa costituire un esempio contagioso. Inoltre, il controllo della Ciscaucasia ha anche importanza economica per la presenza del petrolio e per gli oleodotti e i gasdotti che la attraversano per raggiungere i porti del Mar Nero.
La Russia ritiene, dunque, che, volenti o nolenti, i ceceni debbano rassegnarsi a restare nel suo abbraccio. Per domare le loro resistenze e il desiderio di libertà, dapprima l’Impero russo, poi l’URSS e, infine, la Federazione russa non hanno risparmiato energie e hanno adottato le misure più drastiche e terribili: terra bruciata, deportazioni di massa, bombardamenti.
Visto in questa prospettiva ciò che sta accadendo oggi in Cecenia non ha niente di straordinario e imprevedibile.
Sul modo in cui risolvere l’annosa «questione cecena» oggi concordano perfettamente le opinioni delle massime autorità dello stato e dell’ultimo dei cittadini russi, a ulteriore conferma del fatto che, per quanto la gente ami sparlare dei propri governanti e addossare loro le colpe di tutti i mali, essi sono pur sempre il riflesso della base che li ha espressi. Il primo ministro Vladimir Putin ha riassunto la posizione del governo con una frase divenuta ormai proverbiale: ha giurato che i terroristi ceceni sarebbero stati «raggiunti e accoppati fin nei cessi».
Simile popolana eloquenza ho ritrovato nelle parole di un taxista (i taxisti sono notoriamente la più schietta ed indicativa vox populi), il quale mi spiegava cosa bisogna fare in Cecenia: «Non c’è da starci tanto a pensare. Prima tiriamo giù tutto e poi ricostruiremo di nuovo».
In modo più o meno sfumato questa posizione viene di fatto sostenuta anche dall’intelligencija, la parte più consapevole e responsabile della società russa. Con amarezza e con rassegnazione, senza la tronfia bellicosità del taxista, uomini di cultura e di chiesa accettano i bombardamenti delle città e dei villaggi ceceni come l’unica soluzione rimasta. La formula che viene usata per giustificare l’uso di misure così drastiche è: «A mali estremi, estremi rimedi».
UN’INQUIETANTE
UNANIMITÀ
Le ultime elezioni politiche in Russia si sono avute il 19 dicembre 1999. Durante la campagna elettorale nessuna delle forze politiche, neppure quelle più liberali, si è schierata contro l’operato del governo in Cecenia, sapendo che su questo punto esso godeva di un ampio consenso tra l’elettorato.
La precedente guerra cecena del 1994-’96 era stata accolta in tutt’altro modo: contro di essa si erano subito levate voci di dissenso, diventate sempre più numerose, tanto da dare vita a un movimento trasversale di opposizione, appoggiato dagli organi d’informazione indipendenti.
Gioali e televisioni cercavano di informare il pubblico su quello che stava realmente accadendo nelle zone del conflitto, denunciavano i tentativi di disinformazione degli organi governativi e cercavano di fornire le cifre reali del disastro umanitario. Allora c’erano state perfino dimostrazioni pubbliche contro la guerra, guidate da alcuni politici progressisti, come Egor Gajdar.
Oggi, invece, tranne alcune eccezioni, tutti approvano. Stampa e televisioni (a parte poche testate e il canale NTV) ripetono gli asettici comunicati ufficiali. Il pubblico vede solamente le immagini girate tra le linee russe, sente solo i commenti dei generali e soldati dell’esercito federale. Lo stesso Gajdar non nasconde la propria soddisfazione nel ritrovare tra la gente un atteggiamento diametralmente opposto a quello di alcuni anni fa: «È il segno di una società matura, che comprende la differenza tra le ragioni della guerra del 1994-1996 e quella del 1999», ha detto in una recente intervista.
DAGLI ATTENTATI
AL TRIONFO DI PUTIN
In che cosa consiste questa differenza? Innanzitutto, nel fatto che l’attuale conflitto non viene presentato come una guerra contro un piccolo popolo secessionista, ma una lotta senza quartiere contro il terrorismo islamico e la malavita organizzata.
Ufficialmente non si è mai parlato di guerra, ma di «operazione antiterrorismo». E che i terroristi ci siano è stato tragicamente dimostrato dalle bombe contro abitazioni che, in settembre, hanno fatto centinaia di vittime a Mosca e in altre città della Federazione russa. Sull’onda dell’indignazione e della rabbia suscitate in tutta la Russia da quegli odiosi attentati, si è deciso subito di lanciare una grossa offensiva contro le bande armate che da tempo terrorizzavano la popolazione dentro e fuori i confini della Cecenia. In agosto uno di questi gruppi, che fa capo all’ormai leggendario Shamil Basaev, era riuscito a sconfinare nel vicino Dagestan, impegnando le truppe russe con vere e proprie azioni di guerriglia.
Fin qui il quadro sembra abbastanza chiaro. Ma ci sono alcuni elementi che lo complicano. Per cominciare, la matrice cecena degli attentati terroristici non è stata ancora dimostrata, tanto che qualcuno ha paragonato le bombe di Mosca all’incendio del Reichstag a Berlino, appiccato dalle camicie brune, ma attribuito da Hitler agli oppositori politici.
Fa pensare anche il modo inconsueto con cui gli attentati sono stati messi a segno. Come obiettivi non sono stati scelti i classici simboli del potere, né edifici governativi o personaggi politici in vista, né luoghi pubblici nevralgici o mezzi di trasporto, ma, per la prima volta, sono state colpite case private in quartieri decentrati, e proprio mentre la gente era nel sonno. Un atto che sembra pensato apposta per scatenare reazioni inconsulte e suscitare, più che disorientamento e panico indefinito, odio e aggressività. Questi attentati hanno convinto i russi che c’è bisogno di una «soluzione finale» per la Cecenia.
A settembre l’uomo in grado di affrontare l’emergenza con decisione c’era. I russi se lo erano improvvisamente trovato di fronte il 9 agosto 1999, quando Eltsin lo aveva posto a capo del governo.
Vladimir Putin era un volto nuovo per il grande pubblico, che quasi nulla sapeva di lui, dei suoi meriti e delle sue qualità. In poco tempo, però, egli ha visto crescere il proprio indice di popolarità da un iniziale 5% al 50% circa di dicembre, fino al 65% di gennaio. In così pochi mesi un uomo politico, pur abile e intelligente, può difficilmente dare prova sostanziale delle proprie capacità e dell’efficacia della propria linea soprattutto in materia di economia, che per i russi è oggi il problema più urgente e quotidiano. Eppure, nonostante la vaghezza del proprio programma, il neonato partito «Unità» (è stato costituito lo scorso autunno), da lui sostenuto, alle elezioni di dicembre ha ottenuto il 23,3%, superando d’un balzo gli altri partiti e piazzandosi a ridosso dei comunisti di Gennodij Zjuganov (24,2%).
Alla popolarità di Putin non ha neppure nociuto il fatto che egli si presenti come il continuatore della linea politica di Eltsin e del suo entourage, entrambi ampiamente discreditati nel paese per le grosse difficoltà economiche in cui versa la Russia, per la dilagante corruzione e per gli scandali che li hanno coinvolti.
Il 31 dicembre 1999 il quadro elettorale ha trovato un inaspettato, ma, a ben vedere, logico completamento nelle dimissioni anticipate del presidente Eltsin, mossa che assicura a Putin, nei confronti degli altri candidati alla presidenza, un vantaggio giudicato ormai incolmabile. Difatti, già ai primi di gennaio molti (politici, governatori, sindaci) si sono affrettati a mettersi dalla sua parte.
Cosicché, a conti fatti, se la guerra in Cecenia non ci fosse stata, si sarebbe dovuta inventare.
COLPI DI PRECISIONE?
Nel frattempo, cosa stava accadendo nel Caucaso? Nell’iniziare il 22 settembre l’«operazione antiterrorismo», le autorità civili e militari russe hanno tranquillizzato il paese sulle possibilità che essa si trasformasse, come la guerra precedente, in una campagna estenuante e rovinosa, sia per l’esercito federale che per la popolazione civile. Tutti assicuravano che non si sarebbero ripetuti gli errori della volta prima, che le operazioni si sarebbero concluse in brevissimo tempo e, soprattutto, che si sarebbe fatto di tutto per risparmiare la vita di soldati e civili, utilizzando armi di alta precisione e colpendo esclusivamente le basi dei terroristi. Il riferimento alla strategia della Nato in Kosovo era evidente.
Già il 31 ottobre, però, «Memorial», associazione russa per la difesa dei diritti civili, pubblicava un documento dal titolo: Colpi di precisione. Violazione dei diritti civili e delle norme del diritto umanitario durante il conflitto armato in Cecenia, in cui venivano denunciati una serie di attacchi dell’aviazione e dell’artiglieria a centri abitati e luoghi pubblici.
I fatti, documentati dagli osservatori in Cecenia e Inguscezia, dimostravano il contrario di quanto si andava dichiarando: dimostravano che città, villaggi, vie di comunicazione venivano bombardate in modo indiscriminato seminando terrore e morte tra i civili. Quanto, d’altronde, la «strategia dei colpi di precisione» potesse essere effettivamente applicata dall’esercito federale lo si poteva immaginare dalle premesse.
Difatti, come ricorda il documento di Memorial, già all’inizio di settembre, si erano verificati problemi. Durante le operazioni contro i guerriglieri di Basaev in Dagestan, che avevano un raggio molto più circoscritto di quelle in Cecenia e si svolgevano in un territorio meglio controllato dai russi, l’aviazione e l’artiglieria federali erano riuscite in diverse occasioni ad aprire il fuoco sui loro stessi reparti, lasciando sul terreno parecchi uomini.
MASCHADOV,
PRESIDENTE DI CARTA
Al termine della guerra del 1994-’96, la Cecenia era un paese in rovina, in profonda crisi economica o morale, con un potere centrale troppo debole per far fronte all’emergenza di una sempre maggiore criminalizzazione della vita pubblica. L’abitudine a combattere, l’alto numero di armi presenti nel paese, l’impossibilità di trovare un lavoro favorirono il moltiplicarsi nel paese di bande armate, che avevano recentemente scoperto un modo comodo per rifoirsi di denaro: i sequestri di persona.
Aslan Maskhadov, il presidente eletto nel 1997, non aveva la forza e la volontà sufficienti per opporsi alle bande che ormai si erano spartite il territorio della repubblica. Le autorità russe, a loro volta, non avevano nessun interesse a collaborare con quelle cecene per riportare l’ordine pubblico e far ripartire l’economia di una repubblica che aveva dichiarato la propria indipendenza, retta da un governo secessionista che Mosca non riconosceva. Al contrario, per Mosca, valeva la regola del tanto peggio tanto meglio.
Tuttavia, se a livello operativo i russi preferivano non collaborare con le autorità della repubblica, intorno alla Cecenia giravano ingenti somme stanziate da Mosca per la sua ricostruzione, di cui solo in parte molto minima hanno beneficiato i comuni cittadini. Si aggiunga che, da tempo, sono noti i legami della criminalità russa con quella cecena, che opera su tutto il territorio della federazione e soprattutto a Mosca. Nella capitale russa fanno i propri affari potenti banditi ceceni, non estranei, tra l’altro, al business dei sequestri di persona.
Ci sono poi altre circostanze che complicano il quadro dei rapporti tra Russia e Cecenia.
L’AMBIGUITÀ DI BASAEV
Shamil Basaev, considerato uno dei più temibili capibanda ceceni, il nemico pubblico numero uno, ha iniziato la propria carriera combattendo nel 1993, a fianco dei secessionisti abkhazi nella guerra che li contrapponeva alla Georgia, di cui l’Abkhazia era parte integrante.
In quell’occasione Mosca aveva appoggiato di fatto, anche se non ufficialmente, il movimento secessionista con l’intento di indebolire una Georgia troppo indipendente e di assicurarsi un maggior controllo sulla regione del Mar Nero. In Abkhazia vivevano 250 mila georgiani e 90 mila abkhazi. È evidente che da sola la minoranza non avrebbe potuto sfrattare dalla regione la maggioranza, come fece, in un conflitto che, secondo le stime, costò la vita a 25 mila persone.
Nel giugno del 1995 Basaev divenne improvvisamente noto alle cronache di tutto il mondo per aver guidato un commando di un centinaio di guerriglieri fino a Budjonnovsk, un centro nella provincia russa di Stavropol, dopo aver percorso indisturbato i 120 chilometri che separano quella città dal confine ceceno.
Si è cercata una spiegazione a questo incredibile episodio nella corruzione che dilaga tra l’esercito. Ciò non fa che confermare gli intrecci di interessi che esistono, a tutti i livelli, tra russi e ceceni e la grossolanità dello stile con cui Mosca si muove. Tanto più che il fatto è accaduto non in tempo di pace, ma mentre era in corso un conflitto armato nella regione. Prima si permette a un convoglio di guerriglieri di arrivare fin nel cuore della provincia russa e prendere in ostaggio un intero ospedale; poi si tenta di liberare gli ostaggi con l’intervento dei corpi speciali, provocando la morte di un centinaio di persone; infine si lasciano andare ostaggi e guerriglieri in Cecenia, dove, i primi vengono liberati e i secondi si involano tra le montagne.
Oggi le cose non sono molto diverse. Ci si chiede, ad esempio, come abbia fatto lo stesso Basaev a spostare munizioni e uomini – e questa volta si parla di 2 mila guerriglieri – da una parte all’altra del confine tra Cecenia e Dagestan. Nel tentativo mal riuscito di ricacciarli indietro, l’esercito russo ha bombardato le abitazioni di civili. Come si lamenta un abitante del posto in un’intervista al giornale «Novaja Gazeta»: «Prima i soldati russi hanno lasciato uscire Basaev, e poi hanno distrutto la nostra casa».
È vero che non sempre è facile sorvegliare un confine che passa per impervie zone montane. Sappiamo, però, che l’ex-Unione Sovietica ha avuto in materia di sorveglianza delle proprie frontiere una lunga e gloriosa tradizione. E se adesso si parla apertamente di corruzione a tutti i livelli dell’amministrazione civile e dell’esercito, vuol dire che il paese dovrebbe sanare le proprie piaghe intee prima di affrontare, in maniera più limpida e coerente, il problema dei propri rapporti con un Caucaso da sempre insofferente del suo giogo.
Invece la politica della Russia nel Caucaso continua ad essere contraddittoria e ambigua; un’ambiguità che contraddistingue anche la conduzione di questa seconda campagna cecena.
Si pubblicizza molto la presenza, a fianco delle truppe federali, di un distaccamento di ceceni, anch’essi desiderosi di liberare la propria terra dai banditi. Sono guidati da Beslan Gantamirov, ex-sindaco di Grozny, condannato in Russia a una lunga pena detentiva per peculato. All’inizio di novembre i russi lo hanno liberato di prigione con l’intento di creare un docile leader ceceno da opporre all’attuale presidente Maskhadov.
La pratica di servirsi di «alleati» ceceni, evidentemente infidi e temporanei, viene correntemente usata. In novembre l’esercito è entrato senza colpo ferire a Cadermes, seconda città della Cecenia, perché il capobanda Sulim Jamadaev, che ne controllava il territorio, ha deciso di non opporre resistenza. Anziché «sterminare i banditi», lo slogan con cui si giustifica la carneficina in atto in Cecenia, il comando russo ha pensato di conquistarli alla propria causa e ha fatto di Jamadaev, noto criminale, sequestratore di persone, il vice-comandante della città, e dei suoi uomini una specie di poliziotti. Cosicché, invece di deporre le armi, ora essi le portano con l’autorità dei custodi dell’ordine.
Se non si capisce bene da che parte stiano i terroristi, i banditi e i mafiosi in questa guerra feroce, una cosa appare, invece, certa: essa sta facendo migliaia di vittime innocenti tra la popolazione civile. Di questi morti in Russia non si sa niente. Gli organi di informazione non ne parlano e i comunicati di Putin e dei generali si limitano alla formula: «Tutto procede secondo i piani».
Eppure si teme che questa guerra si rivelerà ancora più spaventosa di quella precedente.
L’ALTRA INFORMAZIONE
Le autorità russe cercano in tutti i modi di limitare l’attività dei giornalisti nella regione. Con la chiusura a fine ottobre dei confini con l’Inguscezia, chi voglia informare su quello che succede dall’altra parte del fronte può farlo solamente, come il corrispondente di «Radio Libertà», Andrej Babickij, penetrando illegalmente attraverso le linee russe. Oramai la principale fonte di informazioni sono i profughi che giungono di continuo in Inguscezia.
Le organizzazioni umanitarie che operano nella regione (Memorial, Human Rights Watch, Amnesty Inteational, Grazhdanskoe sodejstvie) cercano di fornire un quadro, sebbene parziale, della situazione interrogando i profughi, effettuando sopralluoghi nei campi dove essi sono raccolti, utilizzando i dati foiti da ospedali e amministrazioni locali in Inguscezia.
Particolarmente attiva in quest’opera si sta dimostrando l’associazione «Memorial», che redige una Breve cronaca dei bombardamenti, in cui giorno per giorno elenca gli episodi di cui i suoi osservatori sono venuti a conoscenza. A seguito delle indagini effettuate Memorial scrive: «La propaganda federale continua a parlare di “colpi di precisione” e smentisce le notizie sulla morte di civili sotto i bombardamenti e il fuoco dell’artiglieria. Tuttavia, anche solo sulla base di questa breve cronaca, possiamo concludere che l’artiglieria e l’aviazione federali colpiscono i centri abitati e le strade della Cecenia; non si tratta di “colpi di precisione”, ma di attacchi indiscriminati; i comunicati sui “corridoi umanitari” per l’uscita della popolazione dalle zone del fuoco sono inattendibili: questi percorsi non sono sicuri».
Dai racconti registrati risulta che ogni veicolo in movimento sulle strade può costituire un bersaglio per l’aviazione o l’artiglieria. Molti civili muoiono proprio mentre sono in viaggio con la propria auto o altri mezzi di trasporto; intere famiglie sono state distrutte in questo modo. In montagna il bombardamento di strade e ponti rende molto difficile ai civili l’uscita dai propri villaggi. Un lungo viaggio a piedi sarebbe più rischioso e, comunque, impensabile per le persone anziane e i malati. Così essi rimangono intrappolati nelle proprie case soggetti ai continui attacchi dell’esercito. I villaggi di montagna ospitano anche numerosi profughi scappati dalle città e dai paesi della pianura. Esemplare è il caso di Elistanzhi, di cui parla la cronaca di Memorial.
«Dopo il bombardamento del 7 ottobre (44 morti, contando coloro che sono deceduti successivamente per le ferite), il villaggio di Elistanzhi è stato colpito altre volte. In seguito a incursioni aeree in ottobre sono morti 20 abitanti, all’inizio di novembre altri 7 (…). Il 14 novembre nel cimitero del villaggio sono state seppellite 75 persone morte in seguito ad attacchi aerei. Contrariamente alla tradizione locale, si è smesso di seppellire i morti nei villaggi natali, poiché un veicolo che esce dai confini del villaggio è oggetto di attacco dall’aria. I morti vengono sepolti di notte, in quanto di giorno gli aerei bombardano qualsiasi assembramento di gente».
Il documento di Memorial riporta decine di questi fatti; e sono soltanto quelli di cui si è potuto raccogliere testimonianza da chi, ha visto e vissuto. È una cronaca scaa. Con impersonale laconicità vengono elencati i luoghi, il numero e i nomi di morti e feriti, i nomi di chi ha raccontato e registrato il fatto. Ecco alcuni racconti tipici.
6 o 7 novembre – Un aereo dell’aviazione federale ha lanciato un razzo contro il tratto di strada che va dal paese di Cheorach’e, nei sobborghi di Grozny o il villaggio di Aldy, è morta la famiglia Baladovvj (padre, figlio e figlia), che stavano viaggiando in macchina.
11 novembre – Alle 13 l’artiglieria ha aperto il fuoco su Argun. Uno degli ordigni è finito su una casa. Jasonva ChadizXat (nipote del narratore), 14 anni, per lo spavento è scappata in strada. È stata uccisa dalle schegge dell’ordigno successivo.
23 novembre – Un missile sganciato da un aereo è caduto a Itum-Kale in una casa privata. Sono morti Ajzan Muchanova e i due figli.
Gioo dopo giorno uno stillicidio di morti insensate: l’uomo che esce per dar da mangiare alla mucca, la coppia di anziani coniugi russi che sta spaccando la legna, il bambino che gioca nel cortile di casa.
STERMINARE I CECENI?
Secondo il censimento del 1989, nell’allora repubblica autonoma di Cecenia-Inguscezia vivevano 1 milione e 300 mila abitanti, tra ceceni, ingusci e russi.
Poi ci sono state: la scissione tra Cecenia e Inguscezia; una guerra che ha fatto, secondo le stime, 80 mila morti; l’emigrazione verso altre regioni della Federazione di buona parte dei russi. La Cecenia si è lentamente svuotata. Si calcola che, prima dello scorso settembre, vi abitassero dalle 600 alle 700 mila persone. Secondo l’ufficio immigrazione dell’Inguscezia, fino al 16 dicembre nella repubblica sono arrivati 249.307 rifugiati dalla Cecenia. Altri 25 mila si trovano in campi allestiti nel territorio ceceno occupato dai russi. Queste cifre danno l’idea della tragedia in atto.
«È da tempo che i ceceni sono stufi di guerre, banditi e sequestratori. Essi vogliono stabilità per tornare a fare una vita normale e rimettere in piedi la loro disastrata economia. Sono sicuro che, se Mosca avesse risposto realmente a questo bisogno, avrebbe avuto l’appoggio della popolazione. C’era spazio per lavorare e collaborare. Aggredendo tutto il popolo, invece, essa si è fatta potenzialmente tanti nemici quanti sono i ceceni. Un ceceno cui si distrugge la casa e si ammazza la famiglia non starà certo a guardare. Imbraccerà il fucile e si unirà agli altri combattenti per difendere la propria gente e vendicarla».
Chi parla è Viktor Popkov, cornordinatore di un comitato, sorto nel giugno del 1996 con lo scopo di verificare che Russia e Cecenia rispettassero gli impegni assunti durante i colloqui di pace. Popkov crede che, volendo, ci sarebbero le basi per una soluzione diversa del problema. Dopo anni di impegno nella regione e di contatti con i ceceni egli ha maturato precise convinzioni a proposito.
Egli fa osservare che la Cecenia è integrata con le strutture russe. Tutte le famiglie cecene hanno membri che abitano in altre parti della Federazione. Molti di loro vivono e hanno la propria attività in Russia. La presenza di numerose comunità di ceceni su tutto il territorio federale è anche, secondo Popkov, un grosso deterrente al diffondersi del terrorismo. Insomma, i ceceni avrebbero tutto l’interesse a intrattenere buoni rapporti con la Russia, da cui, in sostanza, economicamente dipendono. La Russia, però, li tratta come cittadini di seconda categoria. Essi sono discriminati, disprezzati.
Effettivamente, fa impressione la violenza verbale, la spietatezza con cui molti oggi in Russia parlano dei ceceni. Non solo l’uomo della strada, ma politici, giornalisti e perfino il patriarca Alessio II, nei confronti di guerriglieri e di presunti terroristi, non usano altro termine che sterminare. Non catturare, fermare, disarmare, ma proprio sterminare. Ed ogni ceceno è sospettato di appartenere a questa categoria.
PER UN FUTURO DIVERSO
Nel Caucaso non si giocano solo le sorti dei ceceni, ma anche quelle dei russi, intesi non come i cittadini della grande Russia o dell’Impero o della superpotenza, ma come uomini e donne che desiderano creare veramente le condizioni perché la loro casa sia prospera, i loro figli sereni.
Finora in Russia stenta a formarsi una società civile che rivendichi una partecipazione nella gestione della cosa pubblica e ponga dei limiti all’arroganza del potere. Perché ciò avvenga occorre tempo, occorrono enormi energie, occorre rinunciare alla facile tentazione di credere che il male, l’ostacolo alla propria felicità, sia in qualche luogo o in qualcuno fuori di noi: un tempo il nemico del popolo, adesso i ceceni o chi per loro.
Non è una Cecenia ridotta a un fumante ammasso di rovine, ma trattenuta all’interno dei confini federali, che renderà la Russia più potente. Alla fine di questa guerra il paese si ritroverà più povero e disperato di prima. Le uniche ad accorgersene sembrano solo le madri dei soldati, che, unitesi in un comitato, fanno di tutto per difendere la vita dei propri figli e denunciare come essi vengano mandati allo sbaraglio da politici e generali irresponsabili.
I russi che pensano di guadagnarsi a poco prezzo un futuro migliore, risolvendo con le bombe il problema del Caucaso, non si rendono conto che è la loro casa a crollare insieme alle abitazioni cecene.

Biancamaria Balestra




Novanta minuti intensi

Kenya: celebrazione in swahili e samburu

N el villaggio di Serolevi, diocesi di Marsabit (Kenya), la messa è finita alle 12,30… «Attraversiamo il ponte e troveremo un po’ d’ombra per mangiare un boccone» mi dice padre Coelio Dalzocchio. Il ponte è quello che il niño del 1997 ha inclinato di 30 gradi. Lo è tuttora, e tutti si chiedono come faccia a reggere con i pesanti camion che vi transitano da Nairobi o dall’Etiopia. «Imezoea sasa» (ormai si è abituato) mi disse un giorno uno dei poliziotti che controllano il passaggio degli automezzi.
Proseguiamo di qualche chilometro verso Marsabit e ci sistemiamo sotto una pianta spinosissima. Mentre mangio, non faccio che pensare alla catechesi e alla messa testé terminate. Sono quasi 30 anni che conosco padre Coelio, ma non avevo mai avuto l’occasione di assistere ad una sua liturgia.
Dico a me stesso: «Se un missionario avesse le qualità distribuite fra i miei confratelli sessantenni, sarebbe un evangelizzatore perfetto. Se avesse, ad esempio, l’interiorità di padre Gallina, la concretezza pastorale di padre Tallone, la giovialità di padre Davoli (novantenne), l’amore allo studio di padre Gasparini, le capacità tecniche di padre Giuliani, il cuore generoso di padre Vettori, la conoscenza della lingua e dei costumi di padre Pedenzini, il senso del dovere di padre Pronzalino, il rapporto con la gente di padre Da Fre’, la tenacia di padre Gorzegno…».
Mi fermo, perché, se ricordassi anche i più giovani e quelli trasferiti altrove o andati in paradiso, si avrebbe non solo un missionario straordinario, ma un santo.
Padre Coelio non sa che sto pensando anche a lui, al suo impegno liturgico e catechetico, al suo volto affilato con il naso aquilino che si confà al suo abito austero: camicia e pantaloni lisi, sandali rozzi e l’inseparabile crocetta di legno sul petto.
Stamane l’ho osservato mentre celebrava l’eucaristia e commentava la parola di Dio. Ero seduto al fondo della chiesetta tra la gente che arrivava lentamente: i marmocchi dell’asilo, una nutrita scolaresca delle elementari, le donne che, compatte, prendevano posto a destra nei loro vestiti sgargianti, multicolori e un’abbondanza di collane variopinte, orecchini, pendagli e altri oamenti in testa e sulle braccia. Un po’ più tardi sono arrivati gli educated people, maestri e studenti in vacanza, non ricchi, ma ben messi. Infine le maestre, le studentesse e altre donne vestite all’europea, qualcuna decisamente elegante. Tutti si sono sistemati sulla sinistra.

M entre padre Coelio e il catechista preparano l’altare, le donne attaccano ex abrupto (un grido improvviso che mi fa quasi sobbalzare) un canto robusto (chiaramente un ritmo tradizionale) con una solista: alta e squillante la voce dell’assolo; ben armonizzato il coro. Al canto delle donne segue un breve silenzio. Poi, dalla parte opposta, è la volta delle ragazze delle scuole, cui si uniscono i ragazzi: un canto in swahili, più misurato e dal ritmo meno tribale del precedente; uno dei canti ormai diffusi in tutte le chiese cattoliche del Kenya e raccolti in un libro.
Non posso fare a meno di pensare che, pure in un remoto angolo del mondo quale Serolevi, si alternano già due generi musicali: quello in swahili, pacato e lineare, e quello tribale, più andante e variamente armonizzato.
Alle 11 padre Coelio, dopo una breve preghiera, inizia la catechesi: voce forte e chiara; swahili semplice e corretto; soprattutto un filo logico nel discorso, con un tema preparato con cura.
Il discorso è sul «credo». Il sacerdote spiega la morte di Gesù Cristo e, più precisamente, i motivi della sua morte redentrice. Gesù fu rifiutato – dice – dai capi e sacerdoti del popolo, perché non capirono che egli non era venuto a «distruggere», ma a «completare». Il missionario si sofferma su questa verità, sottolineando che oggi molti samburu non accettano il vangelo perché «non comprendono che Gesù non è venuto a cancellare quanto di valido c’è nella loro cultura, bensì a correggere quanto è contrario alla legge naturale, ad elevare con la grazia la nostra volontà di bene e completare con la rivelazione divina quanto era già conosciuto nel passato».
Il tema è svolto con ampiezza. I presenti seguono con attenzione. Ne resto ammirato: una catechesi di oltre 40 minuti, così aderente ai problemi vivi, preparata con cura e svolta prima della messa, non l’avevo più sentita da tempo in Kenya. E faccio un serio esame di coscienza su di me, sulle mie prediche inserite nella messa: perciò brevi e, purtroppo, poco preparate.

A lle 11,45 l’eucaristia. Ancora una volta padre Coelio dimostra idee chiare. Ha abituato i fedeli a seguire lui, che presiede davvero la celebrazione. Capisco ora come possa dilungarsi nella catechesi prima della messa: infatti non permette che la celebrazione seguente si prolunghi con elementi non essenziali, tendenti a sfuggire alla direzione di chi è il primo responsabile della liturgia, cioè il sacerdote. Egli stesso canta con voce suadente, quasi monastica, le preghiere e il prefazio. Anche i saluti sono cantati con accenti raccolti.
I canti dell’assemblea sono pochi e appropriati, non lasciati al caso e senza quelle processioni danzate (a volte persino tre), spesso eseguite con movenze per nulla africane, miranti solo ad accontentare la vanità di singoli o gruppi, incuranti delle lungaggini. Questo costringe il prete ad accorciare l’omelia, affinché la celebrazione (che già si aggira su un’ora e mezza) non si prolunghi ad infinitum.
Anche la celebrazione di padre Coelio dura 90 minuti, ma oltre 40 sono dedicati alla catechesi e i rimanenti alla messa. La parola di Dio viene proclamata dal catechista in lingua samburu, preceduta da una presentazione in swahili del celebrante. Le preghiere dei fedeli sono pure sobrie. Dal prefazio in avanti tutto è in samburu.
È la prima volta che partecipo ad una eucaristia in samburu. Non capisco le parole, ma ne conosco il contenuto e, soprattutto, mi aiuta la voce raccolta (e capace di creare raccoglimento) del celebrante. Seguo la liturgia con animo pensoso e commosso ad un tempo.
Al termine ringrazio padre Coelio e gli dico: «Se mi permetti, su questa catechesi e messa vorrei scrivere qualcosa». Interpreto «ma va’ là» del missionario come un «sì».
Paolo Tablino

Paolo Tablino




Sulle ali di un jumbo

«In volo verso l’Italia per le vacanze, agevolato dalla quiete nottua nell’aereo, penso ai missionari che, continuamente, attraversano oceani e continenti obbedendo all’imprescindibile comando di Gesù: “Andate e annunciate…”.
Rifletto sul mio “andare”. Colgo alcuni segni legati
al “viaggio del missionario”».

Il ponte

Come l’aereo collega due aeroporti, due paesi, due culture, così il missionario è un ponte che collega la sua patria con la povertà e le sofferenze dei popoli presso i quali lavora. Inoltre egli diventa il testimone e il portavoce della ricchezza culturale e spirituale di tante giovani chiese sparse nei vari continenti…
Lavoro tra i pastori seminomadi del deserto (samburu e turkana), nel nord del Kenya. Niente città, niente agglomerati come nelle baraccopoli delle grandi periferie urbane, ma gente sparsa un po’ dovunque che vive nella propria capanna in perfetta sintonia con le greggi. Il bestiame è l’unica fonte di sostentamento ordinario.
Un contesto sociale che potremmo chiamare arcaico. Certamente, nel mondo d’oggi, ce ne sono pochi più precari. Basta una siccità prolungata, e il bestiame soffre e muore per mancanza di pascolo e acqua. Le conseguenze sono denutrizione e fame, debolezza fisica, malaria e tubercolosi. Alla siccità è legato anche il fenomeno del nomadismo, inteso come dispersione in luoghi lontani, con l’affievolimento o la scomparsa temporanea delle tradizioni sociali e religiose che sostengono alla base la cultura.
Nonostante la durezza e precarietà della loro esistenza, le popolazioni fra cui vivo non perdono mai la fiducia nella provvidenza divina. Il pastore nomade continua a pregare il «suo» Dio anche nelle situazioni più drammatiche. Nella prosperità o nella miseria, Dio non viene mai mandato in esilio. E, così, rabbia e maledizione non esistono.
Questi pastori sono l’icona biblica e vivente di Giobbe, che riscopre Dio nelle difficoltà e nell’ostilità.
La fusoliera
La fusoliera dell’aereo unisce un gruppo di persone che si mettono insieme per realizzare lo stesso progetto: raggiungere una meta…
Nella missione, la fusoliera è rappresentata dalla cappellina che il missionario si preoccupa sempre di allestire come luogo d’incontro, dove le persone si riuniscono con la stessa motivazione: vivere la propria fede nella preghiera e la celebrazione dei sacramenti.
Questa fede può esprimersi nella forma cristiana o delle religioni tradizionali, a seconda della gente presente. Per i cristiani il centro della preghiera è rappresentato dall’eucaristia. Il primato dello spirituale è indiscutibile. Tuttavia si fa grande attenzione a non cadere in uno spiritualismo disincarnato, incapace di cogliere i problemi di tutti i giorni della popolazione. La preghiera deve avere una dimensione sociale.
Quindi i missionari parlano sempre di più di «spiritualità politica». Sembrano termini contraddittori, quasi blasfemi, ma non lo sono. La preghiera biblica e la vera eucaristia ci portano sempre a imitare il Dio liberatore del suo popolo, ci fanno aprire gli occhi sulle sofferenze, le problematiche, le alienazioni della gente e spronano a risolverle.
Il missionario, se crede nella «fusoliera-cappella», si dà da fare anche per l’asilo, la scuola, le strade, le case, l’acqua, la dieta, la salute.
La mia missione comprende una quindicina di villaggi distanti anche 60 chilometri, spesso con grosse difficoltà per raggiungerli: a volte occorrono tre ore di viaggio. Di villaggio in villaggio, di cappella in cappella, di scuoletta in scuoletta, c’è sempre un bisogno, una situazione che richiede il mio tempo, il mio impegno, la mia carità di missionario.
Il radar
L’aereo viene guidato dal radar, che indica la rotta per giungere a destinazione…
Il radar che orienta l’andare del missionario è il vangelo predicato con la vita. Si tratta di un libro iniziato tanto tempo fa, ma che continua ad essere scritto con la vita e, talora, con il sangue diventando un martirologio. In esso sono scritti i nomi dei primi cristiani fino alla lunga lista dei missionari uccisi ai nostri giorni. Agli occhi del mondo – dice il libro della Sapienza – questi individui appaiono irresponsabili, stolti, incoscienti, ma agli occhi di Dio vivono nella pace e nell’immortalità.
Persone come padre Luigi Graiff, martirizzato nel 1981, e padre Luigi Andeni, ucciso nel 1998, hanno avuto come radar il vangelo. Con padre Graiff ho anche lavorato e di padre Andeni ho ereditato la missione di Archer’s Post.
Il carburante
L’aereo vola per la spinta dei motori che bruciano carburante…
Il carburante, per il missionario, è il fuoco della carità che, alimentato dallo Spirito Santo, diventa scintilla che deve contagiare ogni comunità cristiana.
Carità esige attenzione e rispetto per le altre culture e tradizioni religiose; accoglienza degli stranieri e degli immigrati; tensione missionaria che si esprime nel desiderio di condividere le proprie ricchezze spirituali e materiali con i poveri del terzo mondo.
L’«équipe»
Durante il volo l’aereo viene manovrato da uno staff di piloti e tecnici che formano un’équipe.
Così l’attività missionaria. Oggi non si esprime più attraverso «navigatori solitari», ma in gruppi pastorali composti da sacerdoti, religiosi e laici che fanno vita comunitaria.
Nelle varie missioni dove ho lavorato ho cercato di realizzare una pastorale in équipe con l’aiuto dei catechisti della zona e alcuni laici. Ci si spostava sempre insieme. Giunti a destinazione, ognuno svolgeva il suo ruolo particolare: convocatori dell’assemblea, incaricati di mantenere l’ordine e il decoro, animatori dei canti, lettori della parola, traduttori nei vari dialetti, catechisti preparati per offrire ai bambini una pastorale loro adatta.
L’équipe si rendeva più facilmente conto della realtà religiosa e sociale dell’ambiente, ne coglieva gli aspetti positivi e negativi. E, al termine di ogni mese, in occasione del ritiro, i problemi venivano affrontati insieme per cercare delle soluzioni; quindi si programmava per il mese successivo.
La leggerezza
Infine, come l’aereo solca il cielo «distaccato» da ogni struttura e vola tanto più veloce quanto più è leggero, così il missionario deve puntare alla leggerezza, all’essenziale…
Una sola struttura, un solo strumento, un solo libro: il vangelo vissuto e annunciato.
Ciò che sa di «struttura» può servire a chi annuncia, ma non a chi ascolta il messaggio e, meno ancora, al messaggio stesso, che deve emergere con tutta la sua forza di convinzione dalla testimonianza di vita del missionario. E non dai mezzi materiali che possiede…
L’aereo vola quasi alla perfezione. E come procede il missionario?

Coelio Dalzocchio




Mozambico – Cantare la fede

La versione del libro dei Salmi in lingua macua
costituisce un importante contributo all’inculturazione
della fede in una delle più popolose etnie del Mozambico. Un lavoro che supera la semplice traduzione, per diventare un’autentica fusione tra messaggio biblico e cultura locale.

D a oltre cinque anni condivido la sfida dell’evangelizzazione che i missionari della Consolata stanno affrontando nel Niassa, nel nord del Mozambico, per esprimere e trasmettere il vangelo con metodi e linguaggi comprensibili alla cultura ed esperienza umana del popolo macua. Si tratta di una evangelizzazione inculturata che abbraccia vari settori dell’attività missionaria: modo di apprendere la fede (catechesi), di pregare (liturgia), di vivere quotidianamente il vangelo (spiritualità) e di organizzare l’apostolato (pastorale).
Fin dal primo arrivo nel Niassa sono rimasto impressionato dal desiderio dei cristiani di «tenere» nelle proprie mani la parola di Dio e dall’interpretazione creativa che ne fanno. Per soddisfare questa sete, padre Giuseppe Frizzi sta lavorando da molti anni alla traduzione della bibbia e libri liturgici in lingua macua-scirima. Una mole di lavoro che egli porta avanti con ottimi risultati, grazie alla sua preparazione biblica, alla profonda conoscenza della lingua e cultura locale e alla preziosa collaborazione di vari animatori di comunità. Tale traduzione è guidata da una duplice preoccupazione: fedeltà al testo originale e sforzo di rivestire e trasmettere il messaggio biblico con gli elementi linguistici e culturali della gente.
Dopo la pubblicazione del Nuovo Testamento (Watana wa Nanano) nel 1998, in questi mesi ha visto la luce il Libro dei salmi (Masalmu. Eyinlo y’Ekristu). Intanto continua la traduzione degli altri libri dell’Antico Testamento, in modo da riuscire presto a pubblicare una edizione completa della bibbia in lingua macua.
Per quanto riguarda il libro dei salmi, non si tratta di una semplice traduzione del testo sacro, ma di una edizione a uso liturgico. Già da molti anni, infatti, le comunità del Niassa pregano con i salmi. Con questa nuova pubblicazione si è voluto mettere nelle mani dei cristiani di lingua macua-scirima uno strumento di preghiera e formazione personale e comunitaria, da usare in famiglia e nei vari raduni e incontri parrocchiali.
«È un prezioso contributo per la celebrazione dei 500 anni del primo annuncio del vangelo in Mozambico – afferma mons. Luís Ferreira da Silva, vescovo di Lichinga, nella prefazione del libro – e un nuovo strumento per cantare la lode di Dio nel grande giubileo dei 2000 anni dalla nascita di Cristo».

T enendo presente lo scopo e la destinazione del libro, sono stati introdotti speciali accorgimenti redazionali, che accompagnano ogni salmo: introduzione, illustrazione, citazioni bibliche, proverbi macua, ritoelli, proposte di canti e preghiera finale. Un indice speciale suddivide i salmi per temi e per settimane, secondo la struttura della liturgia delle ore.
Nella breve sintesi introduttiva viene presentato il tema del salmo e i suoi addentellati con il Nuovo Testamento, soprattutto con la persona e la missione di Cristo. Le citazioni bibliche ne permettono l’approfondimento. La preghiera finale aiuta a trasformare l’incontro con la parola di Dio in comunione e contemplazione.

N ovità assoluta di tale edizione: accanto a ogni salmo sono riportati vari proverbi macua, sempre in sintonia con il tema. «I proverbi – afferma padre Frizzi – sono “semi del Verbo”, “riflessi della Verità eterna” che illuminano i macua nel loro cammino verso Dio. Essi contengono tutta la sapienza di questo popolo e ne manifestano la profondità della ricchezza culturale, morale e religiosa, spaziando dalla pratica del diritto all’amore e alla verità, dallo spirito di generosità all’attenzione per il prossimo, dalla serenità nelle difficoltà all’aiuto reciproco, dalla fede in Dio nelle avversità alla speranza nella sua giustizia incorruttibile. La gente si serve dei proverbi per sottolineare e rafforzare il proprio pensiero e la propria presa di posizione».
Fin dall’inizio del suo lavoro nel Niassa, padre Frizzi, insieme a un’équipe di collaboratori, ha raccolto e catalogato migliaia di proverbi macua, mettendo insieme un materiale etnografico vasto e di grande valore. E conoscendone il potere pedagogico, padre Giuseppe li usa abbondantemente nella predicazione e nella catechesi. Per questo, ogni salmo è accompagnato da quattro o cinque proverbi, che aiutano il lettore a comprendere e ricordare il messaggio del salmo.

L a traduzione dei salmi rispetta con estrema fedeltà il testo ebraico. È evidente, tuttavia, il grande sforzo di far convivere due mondi in un legame concreto: quello biblico, già palese nella cultura macua, e quello locale, già incluso nel mondo biblico, grazie a somiglianze di idee, concetti ed espressioni verbali.
La traduzione della parola di Dio è la prima tappa del processo di inculturazione del messaggio evangelico in una determinata cultura. Ma non basta la versione letterale del testo in un’altra lingua; occorre tradurlo nella rispettiva cultura, attraverso un’operazione linguistica, interpretativa e di comunicazione, per far sì che il Verbo si reincai nella nuova cultura. Avviene così un processo di scambio reciproco tra la parola di Dio e la lingua-cultura che la riceve. La parola di Dio rimane sempre la stessa, ma acquisisce connotazioni nuove e si apre a prospettive simboliche legate alla cultura.
Il lavoro di padre Frizzi per tradurre e inculturare i salmi è stato facilitata dal fatto che queste composizioni sacre, sia nella struttura letteraria sia nei contenuti concettuali, presentano molte analogie con la cultura macua: immagini e simbolismo espressivo, caratteri propri della trasmissione orale, riferimento alla tradizione degli antenati, legami di parentela, unità tra sacro e profano, concezione di Dio creatore, trascendente, onnipresente, misericordioso.

I l canto religioso è uno degli strumenti di evangelizzazione più semplici ed efficaci nelle comunità cristiane del Niassa. Per questo a ogni salmo vengono suggeriti dei canti popolari in sintonia con il testo sacro, che aiutino ad approfondire il messaggio di Dio e rispondere a lui con la gioia del cuore.
Tali canti sono contenuti nel libro di preghiere (Mavekelo ni itxipo) che padre Frizzi ha compilato e pubblicato vari anni fa. Esso contiene 741 inni, composti dalle comunità cristiane del luogo, ispirati alla bibbia e alla vita quotidiana, che costituiscono un compendio di teologia informale.
Quasi un catechismo cantato e ritmato, in piena sintonia con la metodologia pedagogica e comunicativa tradizionale macua.

I nfine ogni salmo è corredato da un disegno, opera di artisti locali, che ne ripresenta e illustra visivamente il contenuto.
È una tradizione affermatasi dappertutto accompagnare le pubblicazioni catechetiche e liturgiche con disegni e immagini. Spesso si ricorre a materiale importato. Le pubblicazioni del Nuovo Testamento e del Libro dei salmi in lingua macua sono corredate da centinaia di disegni di João Torchio, Luís Prisciliano e Ivandro Artur, artisti della scuola d’arte di Maua-Nipepe. Anche questa è una novità scaturita dall’iniziativa di padre Frizzi.
Lo studio della letteratura orale macua-scirima lo ha spinto a interessarsi di altri aspetti complementari di questa cultura, come pittura, scultura e musica. È sorta così la scuola d’arte di Maua-Nipepe, dove si stanno facendo interessanti esperienze in questo settore. La decorazione dei luoghi di culto, per esempio, ha adottato motivi macua per rappresentare i misteri cristiani. Tale scelta non risponde solo a necessità di carattere didattico e catechetico, ma a una teologia dell’incarnazione.
Le illustrazioni e disegni che accompagnano i singoli salmi, oltre a essere un commento visivo al testo biblico e una «lettura biblica visualizzata», rappresentano uno strumento con cui lo Spirito rivela il suo messaggio di vita e di bellezza, adattandosi al genio della cultura macua. E il popolo ne è fiero.

Rogerio Alarcon




Lo sciamano, messaggero di Dio

Sono 82 le etnie indigene della Colombia. Un milione di indios (su un totale di 37 milioni
di colombiani) che occupano l’ultimo gradino nella scala sociale del paese.
Eppure, a differenza degli altri stati latinoamericani,
la Colombia dispone di una legislazione molto avanzata in questo campo.
La Costituzione del 1991 ha ufficializzato un paese plurietnico e multiculturale,
riconoscendo alle popolazioni indigene il diritto all’autonomia
(territoriale, politica, economica e culturale).
In questi inserti, cercheremo di descrivere alcuni aspetti della cosmogonia, antropologia
e vita quotidiana degli indigeni colombiani, con particolare riferimento all’etnia nasa-paez.
Cominciamo con la figura dello sciamano o medico tradizionale.

In lingua nasa si chiama «tke» (si legge: thè), che significa «tuono» e dunque «messaggero di Dio». Lo sciamano o medico tradizionale è l’uomo dell’armonia con la madre terra, è colui che conosce il mondo degli spiriti e di conseguenza il modo per entrare in contatto con loro. Egli è l’intermediario tra l’uomo e l’aldilà e quindi ha una funzione sacrale, sacerdotale.
All’interno della comunità lo sciamano è investito di molteplici funzioni. Conoscendo i segreti della natura, sa curare le malattie attraverso le erbe. Conoscendo l’aldilà, può prevedere la morte e i pericoli. Sa purificare, liberando le persone dagli spiriti cattivi. Il medico tradizionale è dunque il centro della vita nasa, più importante del cabildo (l’organo collegiale e decisionale della comunità) e del governatore. «Quando – spiega padre Roattino – si decidono gesti importanti, per esempio l’occupazione della Panamericana, mai si procede senza il preventivo permesso dello sciamano».
Ma come si diventa medico tradizionale? «Per tradizione o per vocazione. C’è una sorta di “chiamata” o un sogno che indica la strada. Poi, i chiamati si mettono nelle mani di un medico tradizionale che, nel giro di qualche anno, con determinati rituali fa uscire allo scoperto i loro poteri».
Naturalmente non tutti rivestono con merito questo ruolo. «È innegabile – scrive Luz Marina Quiguanas Conda, rappresentante nasa – che non tutti gli sciamani sono stati o sono buoni medici: alcuni si sono venduti al nemico di tuo, si sono lasciati ingannare o comprare o hanno lavorato contro l’armonia della comunità; altri chiedono soldi per il loro servizio o vogliono competere con i medici occidentali, approfittando dei poteri curativi delle piante medicinali, diventando così dei semplici “curanderos”».
Ci sono donne medico? «Sono rare, ma quelle poche hanno poteri molto forti. Va ricordato che gli sciamani non sono tutti uguali. In America Latina quelli dell’Amazzonia sono i più noti e rispettati. Qui, in Colombia, i più conosciuti sono quelli provenienti dal Putumayo, regione confinante con l’Amazzonia».
L’iconografia dello sciamano parla di gesti e rituali particolari. È vero? «Sì, lo sciamano ha tutto un suo alfabeto. Così, se sente lo spirito salire dalla mano destra e scendere dalla sinistra, è un buon segno, mentre è cattivo se avviene il contrario. Poi ci sono i riti che utilizzano la coca, le erbe, l’acqua…».
A prima vista, sacerdote e medico tradizionale sembrerebbero figure in competizione, entrambe intermediarie tra il mondo umano e quello spirituale… «Un tempo lo sciamano era demonizzato o ridicolizzato anche dalla chiesa cattolica. Oggi, per fortuna, le cose sono molto cambiate.
Il nostro rapporto con i medici tradizionali è più che buono. Essi riconoscono la figura del sacerdote e i sacramenti. Sono battezzati e vengono a messa. Nei loro rituali hanno assunto simboli ed elementi della tradizione cattolica. Quando, ad esempio, sono chiamati al “refresco”, una sorta di benedizione del nuovo cabildo e del bastone del governatore, molte volte gli sciamani chiedono la presenza del sacerdote, che benedirà l’acqua che essi useranno nel rito. E sulle loro insegne ci sono spesso immagini cristiane».
Rispetto a voi, le sètte evangeliche si comportano diversamente… «Altro che! Per gli evangelici gli sciamani sono l’incarnazione del diavolo».
Pa.Mo.

Paolo Moiola