Kenya: celebrazione in swahili e samburu
N el villaggio di Serolevi, diocesi di Marsabit (Kenya), la messa è finita alle 12,30… «Attraversiamo il ponte e troveremo un po’ d’ombra per mangiare un boccone» mi dice padre Coelio Dalzocchio. Il ponte è quello che il niño del 1997 ha inclinato di 30 gradi. Lo è tuttora, e tutti si chiedono come faccia a reggere con i pesanti camion che vi transitano da Nairobi o dall’Etiopia. «Imezoea sasa» (ormai si è abituato) mi disse un giorno uno dei poliziotti che controllano il passaggio degli automezzi.
Proseguiamo di qualche chilometro verso Marsabit e ci sistemiamo sotto una pianta spinosissima. Mentre mangio, non faccio che pensare alla catechesi e alla messa testé terminate. Sono quasi 30 anni che conosco padre Coelio, ma non avevo mai avuto l’occasione di assistere ad una sua liturgia.
Dico a me stesso: «Se un missionario avesse le qualità distribuite fra i miei confratelli sessantenni, sarebbe un evangelizzatore perfetto. Se avesse, ad esempio, l’interiorità di padre Gallina, la concretezza pastorale di padre Tallone, la giovialità di padre Davoli (novantenne), l’amore allo studio di padre Gasparini, le capacità tecniche di padre Giuliani, il cuore generoso di padre Vettori, la conoscenza della lingua e dei costumi di padre Pedenzini, il senso del dovere di padre Pronzalino, il rapporto con la gente di padre Da Fre’, la tenacia di padre Gorzegno…».
Mi fermo, perché, se ricordassi anche i più giovani e quelli trasferiti altrove o andati in paradiso, si avrebbe non solo un missionario straordinario, ma un santo.
Padre Coelio non sa che sto pensando anche a lui, al suo impegno liturgico e catechetico, al suo volto affilato con il naso aquilino che si confà al suo abito austero: camicia e pantaloni lisi, sandali rozzi e l’inseparabile crocetta di legno sul petto.
Stamane l’ho osservato mentre celebrava l’eucaristia e commentava la parola di Dio. Ero seduto al fondo della chiesetta tra la gente che arrivava lentamente: i marmocchi dell’asilo, una nutrita scolaresca delle elementari, le donne che, compatte, prendevano posto a destra nei loro vestiti sgargianti, multicolori e un’abbondanza di collane variopinte, orecchini, pendagli e altri oamenti in testa e sulle braccia. Un po’ più tardi sono arrivati gli educated people, maestri e studenti in vacanza, non ricchi, ma ben messi. Infine le maestre, le studentesse e altre donne vestite all’europea, qualcuna decisamente elegante. Tutti si sono sistemati sulla sinistra.
M entre padre Coelio e il catechista preparano l’altare, le donne attaccano ex abrupto (un grido improvviso che mi fa quasi sobbalzare) un canto robusto (chiaramente un ritmo tradizionale) con una solista: alta e squillante la voce dell’assolo; ben armonizzato il coro. Al canto delle donne segue un breve silenzio. Poi, dalla parte opposta, è la volta delle ragazze delle scuole, cui si uniscono i ragazzi: un canto in swahili, più misurato e dal ritmo meno tribale del precedente; uno dei canti ormai diffusi in tutte le chiese cattoliche del Kenya e raccolti in un libro.
Non posso fare a meno di pensare che, pure in un remoto angolo del mondo quale Serolevi, si alternano già due generi musicali: quello in swahili, pacato e lineare, e quello tribale, più andante e variamente armonizzato.
Alle 11 padre Coelio, dopo una breve preghiera, inizia la catechesi: voce forte e chiara; swahili semplice e corretto; soprattutto un filo logico nel discorso, con un tema preparato con cura.
Il discorso è sul «credo». Il sacerdote spiega la morte di Gesù Cristo e, più precisamente, i motivi della sua morte redentrice. Gesù fu rifiutato – dice – dai capi e sacerdoti del popolo, perché non capirono che egli non era venuto a «distruggere», ma a «completare». Il missionario si sofferma su questa verità, sottolineando che oggi molti samburu non accettano il vangelo perché «non comprendono che Gesù non è venuto a cancellare quanto di valido c’è nella loro cultura, bensì a correggere quanto è contrario alla legge naturale, ad elevare con la grazia la nostra volontà di bene e completare con la rivelazione divina quanto era già conosciuto nel passato».
Il tema è svolto con ampiezza. I presenti seguono con attenzione. Ne resto ammirato: una catechesi di oltre 40 minuti, così aderente ai problemi vivi, preparata con cura e svolta prima della messa, non l’avevo più sentita da tempo in Kenya. E faccio un serio esame di coscienza su di me, sulle mie prediche inserite nella messa: perciò brevi e, purtroppo, poco preparate.
A lle 11,45 l’eucaristia. Ancora una volta padre Coelio dimostra idee chiare. Ha abituato i fedeli a seguire lui, che presiede davvero la celebrazione. Capisco ora come possa dilungarsi nella catechesi prima della messa: infatti non permette che la celebrazione seguente si prolunghi con elementi non essenziali, tendenti a sfuggire alla direzione di chi è il primo responsabile della liturgia, cioè il sacerdote. Egli stesso canta con voce suadente, quasi monastica, le preghiere e il prefazio. Anche i saluti sono cantati con accenti raccolti.
I canti dell’assemblea sono pochi e appropriati, non lasciati al caso e senza quelle processioni danzate (a volte persino tre), spesso eseguite con movenze per nulla africane, miranti solo ad accontentare la vanità di singoli o gruppi, incuranti delle lungaggini. Questo costringe il prete ad accorciare l’omelia, affinché la celebrazione (che già si aggira su un’ora e mezza) non si prolunghi ad infinitum.
Anche la celebrazione di padre Coelio dura 90 minuti, ma oltre 40 sono dedicati alla catechesi e i rimanenti alla messa. La parola di Dio viene proclamata dal catechista in lingua samburu, preceduta da una presentazione in swahili del celebrante. Le preghiere dei fedeli sono pure sobrie. Dal prefazio in avanti tutto è in samburu.
È la prima volta che partecipo ad una eucaristia in samburu. Non capisco le parole, ma ne conosco il contenuto e, soprattutto, mi aiuta la voce raccolta (e capace di creare raccoglimento) del celebrante. Seguo la liturgia con animo pensoso e commosso ad un tempo.
Al termine ringrazio padre Coelio e gli dico: «Se mi permetti, su questa catechesi e messa vorrei scrivere qualcosa». Interpreto «ma va’ là» del missionario come un «sì».
Paolo Tablino
Paolo Tablino