Dopo lo zar e Stalin, è toccato a Boris Eltsin e al suo successore, Vladimir Putin, affrontare la «questione cecena». Ufficialmente non si tratta di una guerra, ma di una «operazione antiterrorismo» contro fondamentalisti islamici e malavita organizzata. Tanto che in Russia, dall’uomo della strada a politici, giornalisti, preti ortodossi, tutti si dichiarano a favore di una soluzione drastica. Così, sull’onda di un malinteso orgoglio nazionalistico, si sta consumando una tragedia umana di enormi proporzioni. E una vittoria del potere (e della malavita) sulla democrazia. Perché, con la guerra in Cecenia, Putin e il Cremlino sono riusciti a distrarre i russi e la comunità internazionale dai veri problemi dell’ex superpotenza: difficoltà economiche, corruzione, scandali, strapotere della mafia. Ma, come insegna la storia, passata e recente, i conti veri si faranno soltanto alla fine.
I rapporti tra Russia e Cecenia sono stati nei secoli oltremodo tormentati. Anche dopo la «pacificazione» del Caucaso ad opera dell’esercito zarista, conclusasi nella seconda metà del secolo scorso, i ceceni sono sempre stati per la Russia sudditi alquanto irrequieti e hanno approfittato di ogni difficoltà del potere centrale per rivendicare la propria indipendenza. Nel nostro secolo si contano diversi tentativi di secessione, a cominciare da quello messo in atto subito dopo la rivoluzione di febbraio del 1917, fino alla dichiarazione d’indipendenza pronunciata da Zhochar Dudaev nell’ottobre del 1991.
Nel 1991 le 15 repubbliche dell’Unione hanno avuto la possibilità di diventare stati indipendenti, diritto che la costituzione sovietica riconosceva loro. Questa trasformazione ha interessato anche le tre repubbliche nazionali del Caucaso meridionale o Transcaucasia: Armenia, Georgia e Azerbaigian. Il Caucaso settentrionale o Ciscaucasia, che apparteneva amministrativamente alla «Repubblica socialista federale sovietica della Russia» ha continuato a fae parte quando nel 1991, con lo scioglimento dell’URSS, la repubblica è divenuta a sua volta stato indipendente col nome di «Federazione Russa».
Di conseguenza, ogni tentativo della Cecenia di rendersi indipendente va a ledere il principio della intangibilità dei confini della «Federazione, sul cui territorio vivono molti popoli diversi per origini etniche, lingua, religione. È comprensibile, quindi, che Mosca tema il nascere di movimenti secessionisti entro i propri confini e sospetti che la Cecenia possa costituire un esempio contagioso. Inoltre, il controllo della Ciscaucasia ha anche importanza economica per la presenza del petrolio e per gli oleodotti e i gasdotti che la attraversano per raggiungere i porti del Mar Nero.
La Russia ritiene, dunque, che, volenti o nolenti, i ceceni debbano rassegnarsi a restare nel suo abbraccio. Per domare le loro resistenze e il desiderio di libertà, dapprima l’Impero russo, poi l’URSS e, infine, la Federazione russa non hanno risparmiato energie e hanno adottato le misure più drastiche e terribili: terra bruciata, deportazioni di massa, bombardamenti.
Visto in questa prospettiva ciò che sta accadendo oggi in Cecenia non ha niente di straordinario e imprevedibile.
Sul modo in cui risolvere l’annosa «questione cecena» oggi concordano perfettamente le opinioni delle massime autorità dello stato e dell’ultimo dei cittadini russi, a ulteriore conferma del fatto che, per quanto la gente ami sparlare dei propri governanti e addossare loro le colpe di tutti i mali, essi sono pur sempre il riflesso della base che li ha espressi. Il primo ministro Vladimir Putin ha riassunto la posizione del governo con una frase divenuta ormai proverbiale: ha giurato che i terroristi ceceni sarebbero stati «raggiunti e accoppati fin nei cessi».
Simile popolana eloquenza ho ritrovato nelle parole di un taxista (i taxisti sono notoriamente la più schietta ed indicativa vox populi), il quale mi spiegava cosa bisogna fare in Cecenia: «Non c’è da starci tanto a pensare. Prima tiriamo giù tutto e poi ricostruiremo di nuovo».
In modo più o meno sfumato questa posizione viene di fatto sostenuta anche dall’intelligencija, la parte più consapevole e responsabile della società russa. Con amarezza e con rassegnazione, senza la tronfia bellicosità del taxista, uomini di cultura e di chiesa accettano i bombardamenti delle città e dei villaggi ceceni come l’unica soluzione rimasta. La formula che viene usata per giustificare l’uso di misure così drastiche è: «A mali estremi, estremi rimedi».
UN’INQUIETANTE
UNANIMITÀ
Le ultime elezioni politiche in Russia si sono avute il 19 dicembre 1999. Durante la campagna elettorale nessuna delle forze politiche, neppure quelle più liberali, si è schierata contro l’operato del governo in Cecenia, sapendo che su questo punto esso godeva di un ampio consenso tra l’elettorato.
La precedente guerra cecena del 1994-’96 era stata accolta in tutt’altro modo: contro di essa si erano subito levate voci di dissenso, diventate sempre più numerose, tanto da dare vita a un movimento trasversale di opposizione, appoggiato dagli organi d’informazione indipendenti.
Gioali e televisioni cercavano di informare il pubblico su quello che stava realmente accadendo nelle zone del conflitto, denunciavano i tentativi di disinformazione degli organi governativi e cercavano di fornire le cifre reali del disastro umanitario. Allora c’erano state perfino dimostrazioni pubbliche contro la guerra, guidate da alcuni politici progressisti, come Egor Gajdar.
Oggi, invece, tranne alcune eccezioni, tutti approvano. Stampa e televisioni (a parte poche testate e il canale NTV) ripetono gli asettici comunicati ufficiali. Il pubblico vede solamente le immagini girate tra le linee russe, sente solo i commenti dei generali e soldati dell’esercito federale. Lo stesso Gajdar non nasconde la propria soddisfazione nel ritrovare tra la gente un atteggiamento diametralmente opposto a quello di alcuni anni fa: «È il segno di una società matura, che comprende la differenza tra le ragioni della guerra del 1994-1996 e quella del 1999», ha detto in una recente intervista.
DAGLI ATTENTATI
AL TRIONFO DI PUTIN
In che cosa consiste questa differenza? Innanzitutto, nel fatto che l’attuale conflitto non viene presentato come una guerra contro un piccolo popolo secessionista, ma una lotta senza quartiere contro il terrorismo islamico e la malavita organizzata.
Ufficialmente non si è mai parlato di guerra, ma di «operazione antiterrorismo». E che i terroristi ci siano è stato tragicamente dimostrato dalle bombe contro abitazioni che, in settembre, hanno fatto centinaia di vittime a Mosca e in altre città della Federazione russa. Sull’onda dell’indignazione e della rabbia suscitate in tutta la Russia da quegli odiosi attentati, si è deciso subito di lanciare una grossa offensiva contro le bande armate che da tempo terrorizzavano la popolazione dentro e fuori i confini della Cecenia. In agosto uno di questi gruppi, che fa capo all’ormai leggendario Shamil Basaev, era riuscito a sconfinare nel vicino Dagestan, impegnando le truppe russe con vere e proprie azioni di guerriglia.
Fin qui il quadro sembra abbastanza chiaro. Ma ci sono alcuni elementi che lo complicano. Per cominciare, la matrice cecena degli attentati terroristici non è stata ancora dimostrata, tanto che qualcuno ha paragonato le bombe di Mosca all’incendio del Reichstag a Berlino, appiccato dalle camicie brune, ma attribuito da Hitler agli oppositori politici.
Fa pensare anche il modo inconsueto con cui gli attentati sono stati messi a segno. Come obiettivi non sono stati scelti i classici simboli del potere, né edifici governativi o personaggi politici in vista, né luoghi pubblici nevralgici o mezzi di trasporto, ma, per la prima volta, sono state colpite case private in quartieri decentrati, e proprio mentre la gente era nel sonno. Un atto che sembra pensato apposta per scatenare reazioni inconsulte e suscitare, più che disorientamento e panico indefinito, odio e aggressività. Questi attentati hanno convinto i russi che c’è bisogno di una «soluzione finale» per la Cecenia.
A settembre l’uomo in grado di affrontare l’emergenza con decisione c’era. I russi se lo erano improvvisamente trovato di fronte il 9 agosto 1999, quando Eltsin lo aveva posto a capo del governo.
Vladimir Putin era un volto nuovo per il grande pubblico, che quasi nulla sapeva di lui, dei suoi meriti e delle sue qualità. In poco tempo, però, egli ha visto crescere il proprio indice di popolarità da un iniziale 5% al 50% circa di dicembre, fino al 65% di gennaio. In così pochi mesi un uomo politico, pur abile e intelligente, può difficilmente dare prova sostanziale delle proprie capacità e dell’efficacia della propria linea soprattutto in materia di economia, che per i russi è oggi il problema più urgente e quotidiano. Eppure, nonostante la vaghezza del proprio programma, il neonato partito «Unità» (è stato costituito lo scorso autunno), da lui sostenuto, alle elezioni di dicembre ha ottenuto il 23,3%, superando d’un balzo gli altri partiti e piazzandosi a ridosso dei comunisti di Gennodij Zjuganov (24,2%).
Alla popolarità di Putin non ha neppure nociuto il fatto che egli si presenti come il continuatore della linea politica di Eltsin e del suo entourage, entrambi ampiamente discreditati nel paese per le grosse difficoltà economiche in cui versa la Russia, per la dilagante corruzione e per gli scandali che li hanno coinvolti.
Il 31 dicembre 1999 il quadro elettorale ha trovato un inaspettato, ma, a ben vedere, logico completamento nelle dimissioni anticipate del presidente Eltsin, mossa che assicura a Putin, nei confronti degli altri candidati alla presidenza, un vantaggio giudicato ormai incolmabile. Difatti, già ai primi di gennaio molti (politici, governatori, sindaci) si sono affrettati a mettersi dalla sua parte.
Cosicché, a conti fatti, se la guerra in Cecenia non ci fosse stata, si sarebbe dovuta inventare.
COLPI DI PRECISIONE?
Nel frattempo, cosa stava accadendo nel Caucaso? Nell’iniziare il 22 settembre l’«operazione antiterrorismo», le autorità civili e militari russe hanno tranquillizzato il paese sulle possibilità che essa si trasformasse, come la guerra precedente, in una campagna estenuante e rovinosa, sia per l’esercito federale che per la popolazione civile. Tutti assicuravano che non si sarebbero ripetuti gli errori della volta prima, che le operazioni si sarebbero concluse in brevissimo tempo e, soprattutto, che si sarebbe fatto di tutto per risparmiare la vita di soldati e civili, utilizzando armi di alta precisione e colpendo esclusivamente le basi dei terroristi. Il riferimento alla strategia della Nato in Kosovo era evidente.
Già il 31 ottobre, però, «Memorial», associazione russa per la difesa dei diritti civili, pubblicava un documento dal titolo: Colpi di precisione. Violazione dei diritti civili e delle norme del diritto umanitario durante il conflitto armato in Cecenia, in cui venivano denunciati una serie di attacchi dell’aviazione e dell’artiglieria a centri abitati e luoghi pubblici.
I fatti, documentati dagli osservatori in Cecenia e Inguscezia, dimostravano il contrario di quanto si andava dichiarando: dimostravano che città, villaggi, vie di comunicazione venivano bombardate in modo indiscriminato seminando terrore e morte tra i civili. Quanto, d’altronde, la «strategia dei colpi di precisione» potesse essere effettivamente applicata dall’esercito federale lo si poteva immaginare dalle premesse.
Difatti, come ricorda il documento di Memorial, già all’inizio di settembre, si erano verificati problemi. Durante le operazioni contro i guerriglieri di Basaev in Dagestan, che avevano un raggio molto più circoscritto di quelle in Cecenia e si svolgevano in un territorio meglio controllato dai russi, l’aviazione e l’artiglieria federali erano riuscite in diverse occasioni ad aprire il fuoco sui loro stessi reparti, lasciando sul terreno parecchi uomini.
MASCHADOV,
PRESIDENTE DI CARTA
Al termine della guerra del 1994-’96, la Cecenia era un paese in rovina, in profonda crisi economica o morale, con un potere centrale troppo debole per far fronte all’emergenza di una sempre maggiore criminalizzazione della vita pubblica. L’abitudine a combattere, l’alto numero di armi presenti nel paese, l’impossibilità di trovare un lavoro favorirono il moltiplicarsi nel paese di bande armate, che avevano recentemente scoperto un modo comodo per rifoirsi di denaro: i sequestri di persona.
Aslan Maskhadov, il presidente eletto nel 1997, non aveva la forza e la volontà sufficienti per opporsi alle bande che ormai si erano spartite il territorio della repubblica. Le autorità russe, a loro volta, non avevano nessun interesse a collaborare con quelle cecene per riportare l’ordine pubblico e far ripartire l’economia di una repubblica che aveva dichiarato la propria indipendenza, retta da un governo secessionista che Mosca non riconosceva. Al contrario, per Mosca, valeva la regola del tanto peggio tanto meglio.
Tuttavia, se a livello operativo i russi preferivano non collaborare con le autorità della repubblica, intorno alla Cecenia giravano ingenti somme stanziate da Mosca per la sua ricostruzione, di cui solo in parte molto minima hanno beneficiato i comuni cittadini. Si aggiunga che, da tempo, sono noti i legami della criminalità russa con quella cecena, che opera su tutto il territorio della federazione e soprattutto a Mosca. Nella capitale russa fanno i propri affari potenti banditi ceceni, non estranei, tra l’altro, al business dei sequestri di persona.
Ci sono poi altre circostanze che complicano il quadro dei rapporti tra Russia e Cecenia.
L’AMBIGUITÀ DI BASAEV
Shamil Basaev, considerato uno dei più temibili capibanda ceceni, il nemico pubblico numero uno, ha iniziato la propria carriera combattendo nel 1993, a fianco dei secessionisti abkhazi nella guerra che li contrapponeva alla Georgia, di cui l’Abkhazia era parte integrante.
In quell’occasione Mosca aveva appoggiato di fatto, anche se non ufficialmente, il movimento secessionista con l’intento di indebolire una Georgia troppo indipendente e di assicurarsi un maggior controllo sulla regione del Mar Nero. In Abkhazia vivevano 250 mila georgiani e 90 mila abkhazi. È evidente che da sola la minoranza non avrebbe potuto sfrattare dalla regione la maggioranza, come fece, in un conflitto che, secondo le stime, costò la vita a 25 mila persone.
Nel giugno del 1995 Basaev divenne improvvisamente noto alle cronache di tutto il mondo per aver guidato un commando di un centinaio di guerriglieri fino a Budjonnovsk, un centro nella provincia russa di Stavropol, dopo aver percorso indisturbato i 120 chilometri che separano quella città dal confine ceceno.
Si è cercata una spiegazione a questo incredibile episodio nella corruzione che dilaga tra l’esercito. Ciò non fa che confermare gli intrecci di interessi che esistono, a tutti i livelli, tra russi e ceceni e la grossolanità dello stile con cui Mosca si muove. Tanto più che il fatto è accaduto non in tempo di pace, ma mentre era in corso un conflitto armato nella regione. Prima si permette a un convoglio di guerriglieri di arrivare fin nel cuore della provincia russa e prendere in ostaggio un intero ospedale; poi si tenta di liberare gli ostaggi con l’intervento dei corpi speciali, provocando la morte di un centinaio di persone; infine si lasciano andare ostaggi e guerriglieri in Cecenia, dove, i primi vengono liberati e i secondi si involano tra le montagne.
Oggi le cose non sono molto diverse. Ci si chiede, ad esempio, come abbia fatto lo stesso Basaev a spostare munizioni e uomini – e questa volta si parla di 2 mila guerriglieri – da una parte all’altra del confine tra Cecenia e Dagestan. Nel tentativo mal riuscito di ricacciarli indietro, l’esercito russo ha bombardato le abitazioni di civili. Come si lamenta un abitante del posto in un’intervista al giornale «Novaja Gazeta»: «Prima i soldati russi hanno lasciato uscire Basaev, e poi hanno distrutto la nostra casa».
È vero che non sempre è facile sorvegliare un confine che passa per impervie zone montane. Sappiamo, però, che l’ex-Unione Sovietica ha avuto in materia di sorveglianza delle proprie frontiere una lunga e gloriosa tradizione. E se adesso si parla apertamente di corruzione a tutti i livelli dell’amministrazione civile e dell’esercito, vuol dire che il paese dovrebbe sanare le proprie piaghe intee prima di affrontare, in maniera più limpida e coerente, il problema dei propri rapporti con un Caucaso da sempre insofferente del suo giogo.
Invece la politica della Russia nel Caucaso continua ad essere contraddittoria e ambigua; un’ambiguità che contraddistingue anche la conduzione di questa seconda campagna cecena.
Si pubblicizza molto la presenza, a fianco delle truppe federali, di un distaccamento di ceceni, anch’essi desiderosi di liberare la propria terra dai banditi. Sono guidati da Beslan Gantamirov, ex-sindaco di Grozny, condannato in Russia a una lunga pena detentiva per peculato. All’inizio di novembre i russi lo hanno liberato di prigione con l’intento di creare un docile leader ceceno da opporre all’attuale presidente Maskhadov.
La pratica di servirsi di «alleati» ceceni, evidentemente infidi e temporanei, viene correntemente usata. In novembre l’esercito è entrato senza colpo ferire a Cadermes, seconda città della Cecenia, perché il capobanda Sulim Jamadaev, che ne controllava il territorio, ha deciso di non opporre resistenza. Anziché «sterminare i banditi», lo slogan con cui si giustifica la carneficina in atto in Cecenia, il comando russo ha pensato di conquistarli alla propria causa e ha fatto di Jamadaev, noto criminale, sequestratore di persone, il vice-comandante della città, e dei suoi uomini una specie di poliziotti. Cosicché, invece di deporre le armi, ora essi le portano con l’autorità dei custodi dell’ordine.
Se non si capisce bene da che parte stiano i terroristi, i banditi e i mafiosi in questa guerra feroce, una cosa appare, invece, certa: essa sta facendo migliaia di vittime innocenti tra la popolazione civile. Di questi morti in Russia non si sa niente. Gli organi di informazione non ne parlano e i comunicati di Putin e dei generali si limitano alla formula: «Tutto procede secondo i piani».
Eppure si teme che questa guerra si rivelerà ancora più spaventosa di quella precedente.
L’ALTRA INFORMAZIONE
Le autorità russe cercano in tutti i modi di limitare l’attività dei giornalisti nella regione. Con la chiusura a fine ottobre dei confini con l’Inguscezia, chi voglia informare su quello che succede dall’altra parte del fronte può farlo solamente, come il corrispondente di «Radio Libertà», Andrej Babickij, penetrando illegalmente attraverso le linee russe. Oramai la principale fonte di informazioni sono i profughi che giungono di continuo in Inguscezia.
Le organizzazioni umanitarie che operano nella regione (Memorial, Human Rights Watch, Amnesty Inteational, Grazhdanskoe sodejstvie) cercano di fornire un quadro, sebbene parziale, della situazione interrogando i profughi, effettuando sopralluoghi nei campi dove essi sono raccolti, utilizzando i dati foiti da ospedali e amministrazioni locali in Inguscezia.
Particolarmente attiva in quest’opera si sta dimostrando l’associazione «Memorial», che redige una Breve cronaca dei bombardamenti, in cui giorno per giorno elenca gli episodi di cui i suoi osservatori sono venuti a conoscenza. A seguito delle indagini effettuate Memorial scrive: «La propaganda federale continua a parlare di “colpi di precisione” e smentisce le notizie sulla morte di civili sotto i bombardamenti e il fuoco dell’artiglieria. Tuttavia, anche solo sulla base di questa breve cronaca, possiamo concludere che l’artiglieria e l’aviazione federali colpiscono i centri abitati e le strade della Cecenia; non si tratta di “colpi di precisione”, ma di attacchi indiscriminati; i comunicati sui “corridoi umanitari” per l’uscita della popolazione dalle zone del fuoco sono inattendibili: questi percorsi non sono sicuri».
Dai racconti registrati risulta che ogni veicolo in movimento sulle strade può costituire un bersaglio per l’aviazione o l’artiglieria. Molti civili muoiono proprio mentre sono in viaggio con la propria auto o altri mezzi di trasporto; intere famiglie sono state distrutte in questo modo. In montagna il bombardamento di strade e ponti rende molto difficile ai civili l’uscita dai propri villaggi. Un lungo viaggio a piedi sarebbe più rischioso e, comunque, impensabile per le persone anziane e i malati. Così essi rimangono intrappolati nelle proprie case soggetti ai continui attacchi dell’esercito. I villaggi di montagna ospitano anche numerosi profughi scappati dalle città e dai paesi della pianura. Esemplare è il caso di Elistanzhi, di cui parla la cronaca di Memorial.
«Dopo il bombardamento del 7 ottobre (44 morti, contando coloro che sono deceduti successivamente per le ferite), il villaggio di Elistanzhi è stato colpito altre volte. In seguito a incursioni aeree in ottobre sono morti 20 abitanti, all’inizio di novembre altri 7 (…). Il 14 novembre nel cimitero del villaggio sono state seppellite 75 persone morte in seguito ad attacchi aerei. Contrariamente alla tradizione locale, si è smesso di seppellire i morti nei villaggi natali, poiché un veicolo che esce dai confini del villaggio è oggetto di attacco dall’aria. I morti vengono sepolti di notte, in quanto di giorno gli aerei bombardano qualsiasi assembramento di gente».
Il documento di Memorial riporta decine di questi fatti; e sono soltanto quelli di cui si è potuto raccogliere testimonianza da chi, ha visto e vissuto. È una cronaca scaa. Con impersonale laconicità vengono elencati i luoghi, il numero e i nomi di morti e feriti, i nomi di chi ha raccontato e registrato il fatto. Ecco alcuni racconti tipici.
6 o 7 novembre – Un aereo dell’aviazione federale ha lanciato un razzo contro il tratto di strada che va dal paese di Cheorach’e, nei sobborghi di Grozny o il villaggio di Aldy, è morta la famiglia Baladovvj (padre, figlio e figlia), che stavano viaggiando in macchina.
11 novembre – Alle 13 l’artiglieria ha aperto il fuoco su Argun. Uno degli ordigni è finito su una casa. Jasonva ChadizXat (nipote del narratore), 14 anni, per lo spavento è scappata in strada. È stata uccisa dalle schegge dell’ordigno successivo.
23 novembre – Un missile sganciato da un aereo è caduto a Itum-Kale in una casa privata. Sono morti Ajzan Muchanova e i due figli.
Gioo dopo giorno uno stillicidio di morti insensate: l’uomo che esce per dar da mangiare alla mucca, la coppia di anziani coniugi russi che sta spaccando la legna, il bambino che gioca nel cortile di casa.
STERMINARE I CECENI?
Secondo il censimento del 1989, nell’allora repubblica autonoma di Cecenia-Inguscezia vivevano 1 milione e 300 mila abitanti, tra ceceni, ingusci e russi.
Poi ci sono state: la scissione tra Cecenia e Inguscezia; una guerra che ha fatto, secondo le stime, 80 mila morti; l’emigrazione verso altre regioni della Federazione di buona parte dei russi. La Cecenia si è lentamente svuotata. Si calcola che, prima dello scorso settembre, vi abitassero dalle 600 alle 700 mila persone. Secondo l’ufficio immigrazione dell’Inguscezia, fino al 16 dicembre nella repubblica sono arrivati 249.307 rifugiati dalla Cecenia. Altri 25 mila si trovano in campi allestiti nel territorio ceceno occupato dai russi. Queste cifre danno l’idea della tragedia in atto.
«È da tempo che i ceceni sono stufi di guerre, banditi e sequestratori. Essi vogliono stabilità per tornare a fare una vita normale e rimettere in piedi la loro disastrata economia. Sono sicuro che, se Mosca avesse risposto realmente a questo bisogno, avrebbe avuto l’appoggio della popolazione. C’era spazio per lavorare e collaborare. Aggredendo tutto il popolo, invece, essa si è fatta potenzialmente tanti nemici quanti sono i ceceni. Un ceceno cui si distrugge la casa e si ammazza la famiglia non starà certo a guardare. Imbraccerà il fucile e si unirà agli altri combattenti per difendere la propria gente e vendicarla».
Chi parla è Viktor Popkov, cornordinatore di un comitato, sorto nel giugno del 1996 con lo scopo di verificare che Russia e Cecenia rispettassero gli impegni assunti durante i colloqui di pace. Popkov crede che, volendo, ci sarebbero le basi per una soluzione diversa del problema. Dopo anni di impegno nella regione e di contatti con i ceceni egli ha maturato precise convinzioni a proposito.
Egli fa osservare che la Cecenia è integrata con le strutture russe. Tutte le famiglie cecene hanno membri che abitano in altre parti della Federazione. Molti di loro vivono e hanno la propria attività in Russia. La presenza di numerose comunità di ceceni su tutto il territorio federale è anche, secondo Popkov, un grosso deterrente al diffondersi del terrorismo. Insomma, i ceceni avrebbero tutto l’interesse a intrattenere buoni rapporti con la Russia, da cui, in sostanza, economicamente dipendono. La Russia, però, li tratta come cittadini di seconda categoria. Essi sono discriminati, disprezzati.
Effettivamente, fa impressione la violenza verbale, la spietatezza con cui molti oggi in Russia parlano dei ceceni. Non solo l’uomo della strada, ma politici, giornalisti e perfino il patriarca Alessio II, nei confronti di guerriglieri e di presunti terroristi, non usano altro termine che sterminare. Non catturare, fermare, disarmare, ma proprio sterminare. Ed ogni ceceno è sospettato di appartenere a questa categoria.
PER UN FUTURO DIVERSO
Nel Caucaso non si giocano solo le sorti dei ceceni, ma anche quelle dei russi, intesi non come i cittadini della grande Russia o dell’Impero o della superpotenza, ma come uomini e donne che desiderano creare veramente le condizioni perché la loro casa sia prospera, i loro figli sereni.
Finora in Russia stenta a formarsi una società civile che rivendichi una partecipazione nella gestione della cosa pubblica e ponga dei limiti all’arroganza del potere. Perché ciò avvenga occorre tempo, occorrono enormi energie, occorre rinunciare alla facile tentazione di credere che il male, l’ostacolo alla propria felicità, sia in qualche luogo o in qualcuno fuori di noi: un tempo il nemico del popolo, adesso i ceceni o chi per loro.
Non è una Cecenia ridotta a un fumante ammasso di rovine, ma trattenuta all’interno dei confini federali, che renderà la Russia più potente. Alla fine di questa guerra il paese si ritroverà più povero e disperato di prima. Le uniche ad accorgersene sembrano solo le madri dei soldati, che, unitesi in un comitato, fanno di tutto per difendere la vita dei propri figli e denunciare come essi vengano mandati allo sbaraglio da politici e generali irresponsabili.
I russi che pensano di guadagnarsi a poco prezzo un futuro migliore, risolvendo con le bombe il problema del Caucaso, non si rendono conto che è la loro casa a crollare insieme alle abitazioni cecene.
Biancamaria Balestra