La voglia di un’esistenza meno dura e le pressioni estee spingono molti indios del Cauca a coltivare piante da droga. Canapa indiana, coca, papavero da oppio stanno sostituendo le coltivazioni
tradizionali. Con gravi danni ambientali, culturali
e sociali. E mentre i contadini non migliorano
la loro condizione, qualcuno accumula profitti.
Corinto. Alla fine del lungo rettilineo si intravede un posto di blocco. «(…)! – esclamo -. Non ho portato il passaporto…». Padre Ezio Roattino, che è al volante, si gira verso di me con faccia perplessa, ma poi, notando la mia agitazione, prova a rassicurarmi: «Forse non serve».
I militari sono in tuta mimetica, pesantemente armati. «Scendete» ci ordina un giovane nero col mitra a tracolla. Facce rivolte al fuoristrada, mani appoggiate sul tettuccio, gambe larghe, aspettiamo la perquisizione. «Sono un padre della parrocchia di Toribio», spiega il missionario. Momenti di silenzio. «Va bene, padre. Potete proseguire» ci dice uno dei militari. Risaliamo in macchina e, mentre io riprendo a respirare e riacquistare il colorito, entriamo a Corinto.
È questa una piccola città, abitata da meticci, neri e indios. Conosciuta per la sua violenza, Corinto fu sede dei colloqui di pace tra il governo colombiano e il gruppo guerrigliero «Movimiento 19 de Abril» (M-19), che nel marzo 1990 depose le armi dopo 16 anni di lotta.
Dopo un veloce spuntino, cerchiamo di informarci come si raggiunge «La Capilla», la località montana dove padre Ezio dovrebbe benedire una laguna, considerata dagli indigeni un luogo sacro.
Sulla stradina che da Corinto porta verso la montagna c’è un nuovo posto di blocco. E qui si ripete la scena avvenuta all’entrata del paese. Potenza della chiesa, carisma del missionario o scaramanzia dei soldati? Chissà… Ora entriamo in territori soggetti ad un’altra autorità: qui comandano le «Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia» (le Farc) e i militari si guardano bene dall’avventurarsi in queste zone.
Una ragazza che sta salendo a piedi si offre di accompagnarci. La Mitsubishi prosegue senza difficoltà, nonostante la stradina sia ripida e sconnessa. Nei pressi di uno slargo, c’è una jeep ferma. Una decina di metri più in alto, dalla folta vegetazione, spunta un contadino che ci grida di lasciare l’auto e salire da lui. Il sentirnerino, ripidissimo, è segnato da piantine di coca. Quando lo raggiungiamo, il campesino ci accoglie con un grande sorriso. Piccolo di statura, età incerta, viso caffelatte segnato dalla vita all’aria aperta, porta i blue-jeans infilati negli stivaloni di gomma, coperti di fango. Cordialissimo, il contadino ci presenta la moglie e i figlioletti. La famiglia vive in una casetta in legno e adobe, abbellita con molti vasi di fiori. Due lati dell’abitazione sono occupati dalle piante di marijuana, recise e poste ad essiccare. Ci offrono agua panela (acqua con canna da zucchero) e tinto (caffè), ma non c’è tempo. In compenso, accettiamo volentieri che la giovanissima signora ci accompagni, dato che il cammino per raggiungere la laguna non è facile da trovare.
La salita si fa faticosa, anche per via del fango. Passiamo altre abitazioni in legno, nascoste tra la vegetazione e sempre più isolate. Al nostro passaggio altre persone si aggregano, andando ad allungare la fila indiana che, spedita e silenziosa, procede verso la laguna.
Percorriamo sentirneri resi fangosi dalla recente pioggia. Superiamo cancelletti in legno e qualche filo spinato, che appena si nota, tanto è sommerso dalla natura esuberante.
Ecco, la laguna. Laguna? Di acqua ne è rimasta veramente poca. In compenso, non mancano fastidiosissime zanzare e insetti vari che lasciano del tutto indifferente la gente del posto, abituata alla loro presenza. Alcuni uomini, in pochi minuti, recuperano dei tronchi per fare un altare, improvvisato ma funzionale. Il luogo e i presenti (una ventina di persone) creano un’atmosfera particolare e molto coinvolgente. È un peccato che il medico tradizionale, lo sciamano, non sia venuto.
Padre Ezio celebra la messa in spagnolo e nasa. Il fatto che il missionario abbia imparato la lingua indigena (molto difficile, soprattutto a livello di pronuncia) gli ha attirato molta ammirazione, ma anche qualche problema. Nonostante da qualche tempo si stia tentando un recupero dell’idioma, i più giovani tra gli indigeni nasa conoscono soltanto alcune parole. Come «ewcxa» (si legge: eucià), che significa «pace» e che il padre distribuisce a destra e manca.
Lasciamo la laguna per andare verso il cimitero, sistemato più in basso, in un posto da cui si ammira un panorama verde che allarga il cuore. Il camposanto ha poche tombe, tutte sommerse da rigogliose piante di marijuana.
Mentre scendiamo, ne approfitto per parlare con i campesinos, ben disposti verso chi è arrivato con padre Roattino.
– Chi occupa questa zona?, chiedo.
– Il sesto fronte delle Farc.
– La guerriglia vi procura dei problemi?
– A noi certamente no.
– E se mi fossi avventurato per questi boschi da solo?
– Ti avrebbero fatto prigioniero.
– Ah… E perché?
– Per capire chi sei e soprattutto se sei una spia.
– Che cosa coltivate?
– Banani, caffè, qualche cereale, tuberi.
– E questa?, chiedo con faccia da tonto indicando una piantagione di marijuana, confusa tra il caffè e i banani. Mi rispondono tutti con una sonora risata. La coca e la marijuana le ho viste, mi manca soltanto l’«amapola», il papavero da oppio. Mi spiegano che cresce più in alto, perché la pianta preferisce un clima fresco.
Finalmente arriviamo alla base di partenza, dove abbiamo lasciato l’auto. Questa volta accettiamo volentieri la tazza di agua panela che ci viene offerta. Il buio incombe e il ritorno è lungo. Salutiamo il parroco di Corinto e i suoi accompagnatori, che andranno in direzione opposta alla nostra.
Per tornare a Toribio noi abbiamo deciso di fare la strada di montagna, più breve. La zona è piuttosto impervia, regno ideale sia per la guerriglia che per il narcotraffico.
Si chiude una bella giornata ed io mi trovo a pensare perché dovrei giudicare negativamente queste famiglie di campesinos soltanto perché coltivano piante da droga. È molto difficile essere obiettivi, giudicare la situazione. Questi contadini vivono in condizioni difficili, isolati, con nugoli di figli da mantenere, stretti tra le Farc da una parte e l’esercito dall’altra. Sono condannabili perché arrotondano il magro bilancio familiare con qualche coltivazione illecita?
«È vero – mi spiega padre Ezio -che molti campesinos seminano queste piante illecite per poter sopravvivere. Però, tu sai che il denaro facile, soprattutto per i giovani, è una tentazione grande. Un contadino semina un ettaro per pagare i vestiti o l’iscrizione dei figli a scuola. Poi, pensa: “perché non ne seminiamo due, così abbiamo anche la moto”. Io ho visto ciò che è accaduto nella zona del massiccio centrale, dove nascono i grandi fiumi Magdalena e Cauca, con il diffondersi su larga scala delle coltivazioni di amapola. La gente mi dice: “Padre, qui qualche anno fa facevamo la fame. Non c’erano strade, non c’era niente. Oggi abbiamo un mercato pieno di cose, dal mattino alla sera”. Purtroppo, la ricchezza improvvisa ubriaca la gente».
Sembra una strada senza uscita… «Una via c’è, anche se è difficile. In primo luogo, occorre un cambio a livello politico, cioè la scelta di aiutare l’agricoltura con una reale riforma agraria che riporti il nostro popolo a lavorare la terra. Occorre poi un cambio etico, coscientizzare la gente sui danni che le droghe producono nel mondo, ma anche a livello locale».
Da tempo la droga rappresenta la fonte di autofinanziamento delle Farc. Nelle regioni controllate, esse fungono da esattori per produttori e commercianti.
Esprimo a padre Ezio la mia delusione di fronte a una guerriglia che sembra aver mutato il proprio Dna, più interessata al business del narcotraffico che alla liberazione del popolo. «Questa è un’impressione comune a molta gente. Ma credo che non si debba generalizzare. C’è sempre una linea (al momento non maggioritaria) che ha la giustizia sociale come orizzonte, ritenendo che l’impalcatura dello stato colombiano privilegi un ristretto gruppo a discapito di tutti gli altri. Costoro propongono un cambio sociale attraverso le armi. Personalmente ritengo che questa strada sia sbagliata, soprattutto nell’epoca della globalizzazione. Né va dimenticato che, senza il consenso dell’imperialismo nordamericano, in Colombia non può esistere alcun governo alternativo. Però, quello che tu dici è vero: anche la guerriglia è un blocco del potere, come lo stato, le forze armate e il narcotraffico. Nei colloqui con il governo le Farc mirano a ottenere il riconoscimento formale di un potere effettivo che già detengono».
Passiamo varie «veredas», isolate ma quasi tutte raggiunte dalla corrente elettrica. Attraversiamo anche Tacueyò, paese difficile dove lavora padre Thomas, tanzaniano, missionario della Consolata.
Mentre cominciano a intravvedersi le luci di Toribio, la radio «Caracol» trasmette il notiziario, tutto incentrato sulle notizie della guerra. Attentati e sequestri, ma anche le speranze accese dai colloqui tra le Farc ed il governo colombiano.
Paolo Moiola