Serbia – I patriarchi tra re e dittaori

I serbi cominciarono a diventare cristiani nell’VIII secolo, ma solo nel XII tutti accettarono la religione cristiana. Quando, nel 1054, la chiesa cristiana si spaccò (diventando cattolica ad Occidente e ortodossa ad Oriente), in un primo momento il governatore serbo Mihailo Vojislavic riconobbe il papa come capo supremo della chiesa e il papa lo premiò con l’arcivescovado indipendente di Bar.
Anche il grande Nemanja, il personaggio con il quale comincia la storia del regno serbo, fu battezzato con il rito occidentale. Successivamente, egli accettò la religione ortodossa che diventò la religione del suo popolo. Mantenne però sempre buoni rapporti con il papa. Nel 1183 Nemanja diventò indipendente dall’impero bizantino e allargò i confini del suo stato. Nemanja aveva tre figli: Vukan, Stefan e Rasko.
Rasko si fece monaco col nome di Sava e nel 1219 fondò la chiesa autocefala serba, di cui fu il primo vescovo. Anche Nemanja diventò monaco con il nome di Simeon; trascorse la fine della sua vita nel monastero di Hilandar sul monte Atos, dopo aver lasciato il suo secondo figlio a governare.
Il figlio maggiore, Vukan, spinto dalla gelosia e dall’invidia per la decisione del padre, promise al papa Innocenzo III (1198-1216) di proclamare la religione cattolica religione ufficiale dello stato serbo, se l’avesse aiutato a prendere il potere. Con l’aiuto del papa, nel 1202 Vukan raggiunse lo scopo e tutta la chiesa serba fu sottomessa a Roma.
Ma il potere di Vukan durò poco, perché Stefan ridiventò sovrano della Serbia. Anch’egli diventò amico del papa, che lo proclamò re. Però il papa perse l’influenza sulla chiesa serba, che toò ad essere ortodossa.
I due fratelli in lotta furono riconciliati dal fratello Sava, che con il suo lavoro diplomatico e illuminato, diventò il personaggio più importante della storia serba. La chiesa lo proclamò santo e il 27 gennaio di ogni anno si celebra santo Sava.
Il figlio di Stefano, Dusan (1331-1355), fece della Serbia lo stato più potente dei Balcani e la chiesa diventò patriarcato. Il codice di Dusan fu il più famoso di tutto il Medioevo. Dopo Dusan, la Serbia perse la sua potenza, ma tutti i sovrani erano molto religiosi e costruivano chiese e monasteri, dei quali la maggior parte si trova nell’attuale Kosovo. I monasteri erano centri dell’istruzione, dell’arte e della cultura serba.
In Kosovo, dopo la famosa battaglia di Kosovo Polje del 28 giugno 1389, la Serbia perse la sua indipendenza, cadendo per 5 secoli sotto il dominio musulmano dei turchi ottomani. La popolazione cominciò a spostarsi verso nord. Lo spostamento più grande avvenne alla fine del XVII secolo, guidato dal patriarca Arsenije Caojevic.
Al nord i serbi ricevettero molti privilegi dall’impero austro-ungarico, a patto che difendessero i confini dell’impero dai turchi. Così Krajina, Slavonia e Vojvodina divennero roccaforti dell’impero, con una maggioranza di popolazione serba. Però la popolazione fu, fino al XIX secolo, sotto la pressione dei vescovi cattolici.
Nel 1878, con la pace di Berlino, la Serbia diventò di nuovo indipendente, grazie alle rivolte e al lavoro diplomatico di Milos Obrenovic. E nel 1882 diventò regno con la dinastia Karagiorgevic. La chiesa ebbe un ruolo importante.

T ra le due guerre mondiali tutti i re serbi ebbero un grande rispetto per la chiesa. Il re doveva essere benedetto dal patriarca.
Dopo il secondo conflitto mondiale, con la vittoria del comunismo, anche se formalmente era riconosciuta la libertà di religione, tutte le forme di religiosità furono combattute con una fortissima propaganda. La sorte peggiore toccò proprio alla chiesa ortodossa.
Le terre e ricchezze della chiesa furono espropriate dallo stato. Non c’era più l’insegnamento della religione nella scuola e chi andava in chiesa difficilmente poteva trovare lavoro. Per lavorare, era necessaria «l’attitudine morale-politica»: e questo voleva dire essere ateo. Il marxismo diventò la nuova religione, che entrò nelle scuole. Marx, Engels, Lenin e Tito erano i nuovi dèi.
Era nata e cresciuta una generazione di non battezzati, senza alcuna educazione religiosa, diventando a loro volta genitori di un’altra generazione senza fede.
Dopo Tito, con l’aumentare della crisi economica, cominciò lentamente il risveglio religioso della popolazione.
Nella Serbia di Milosevic non si lavora a natale e pasqua: questa è l’unica concessione ai credenti. Nelle scuole non si insegna religione e i matrimoni celebrati in chiesa debbono essere ripetuti in municipio per essere legali.
S.Pe.

Snezana Petrovic




Serbia – dal partito di Tito a quello di dio

M i hanno battezzata di nascosto… La nonna mi ha raccontato che di notte piangevo sempre e dovevano tenermi tra le braccia per farmi dormire. Lo facevano a tui: nonna, nonno, mamma.
Vedendo che la situazione non migliorava, la nonna concluse che mi comportavo così perché i diavoli mi maltrattavano, non avendo ottenuto la protezione di Dio tramite il battesimo. Ma non aveva il coraggio di parlare con suo figlio (mio papà) dei suoi timori, perché egli era un comunista convinto, iscritto al partito. In sua presenza non si poteva parlare di religione o di chiesa. Ma la nonna aveva un piano in testa…
Un giorno, quando papà partì per un viaggio di lavoro, mandò la mamma in città a fare la spesa. Chiamò sua figlia (mia zia), un suo cugino e tutti insieme mi portarono nella chiesa più vicina per il battesimo. Era primavera, ma faceva ancora freddo.
L’anziano prete mi bagnò così tanto con l’acqua, che la nonna si preoccupò che mi ammalassi.
Fecero tutto talmente in fretta che non diedero neanche i dati per iscrivermi nel registro dei battezzati.
Quando tornammo a casa, la mamma non era ancora rientrata e nessuno si accorse di niente. Però quella notte, per la prima volta, io dormii senza piangere. Per la nonna era la conferma che aveva ragione.
Dopo alcuni giorni, quando anche la mamma si accorse del cambiamento (di notte non piangevo più), la nonna raccontò cosa avevamo fatto. Ma decisero di non dire nulla a papà.

D a piccola, prima di andare a scuola, passavo molto tempo in campagna nella casa della nonna. Lei era vedova. Il nonno era morto quando avevo due anni e, da quel giorno, iniziano i miei ricordi.
La nonna mi portava in chiesa quando c’erano le feste del paese; nella bella stagione, perché d’inverno c’era troppa neve ed era molto difficile muoversi. Mi ricordo del cortile profumato e pieno di fiori del monastero, delle suore vestite in nero, di atmosfere festose e solenni. Mi ricordo delle candele che si accendevano per i vivi e i morti e del prete con la barba lunga, che mi faceva un po’ di paura.

N ella scuola elementare eravamo tutti bambini «pionieri di Tito». Per noi Tito era come un padre, un nonno, l’incarnazione di bontà, giustizia e saggezza.
«Il comunista morale» era un libriccino di Marx in cui si parlava di come deve essere un vero comunista. Io lo lessi e lo scelsi a mia guida di comportamento. Ero molto ambiziosa e volevo iscrivermi al partito. Ce la feci: il 7 marzo 1973 fui ammessa nell’organizzazione.
Ricordo che, prima di andare alla riunione, temevo che mi chiedessero delle mie convinzioni religiose. Mi spaventava l’idea di rinnegare Dio, anche se tutta la mia educazione era stata senza religione. Mi avevano insegnato che tutto – la vita presente e futura – è nelle nostre mani, che la vita dura fino alla morte e poi non c’è più nulla. Dall’esistenza si passa all’inesistenza. Chi nella vita crea un’opera significativa, resterà nella memoria dell’umanità finché durerà la sua opera.
Ivo Andric parlava dell’eterno bisogno dell’uomo di lasciare tracce dietro di sé, le tracce della sua esistenza, incapace di accettare il fatto che tutto passa, si disfa, marcisce… Io volevo diventare scrittrice: lasciare ai posteri dei libri come testimonianza della mia esistenza.

M i sono sposata con un italiano, cattolico, non praticante. Volevo sposarmi in chiesa, non per motivi religiosi, ma per il sogno romantico di un lungo vestito bianco e la solennità della cerimonia accompagnata con la musica dell’organo. E anche per superstizione. Ci siamo sposati in comune. Perché mi dissero che avrei dovuto convertirmi al cattolicesimo per sposarmi in una chiesa cattolica. Non era vero, ma allora non lo sapevo. Sapevo solo che non avrei cambiato la mia religione. Quale religione, se non ero religiosa? Mi rivolgevo a Dio solo se ero in difficoltà: lo mettevo alla prova e Lui mi aiutava sempre. Io ero il centro dell’universo e giudicavo ogni cosa secondo la mia convenienza.
C ominciò la guerra civile. Non c’era più la Jugoslavia, ma un enorme fronte, un manicomio, un mattatornio. Volevano sapere se ero serba, croata o bosniaca. Dicevo di essere jugoslava, ma quella nazione non esisteva più. Volevo capire il perché. Ho riletto la storia. Ho cominciato a studiare le religioni delle etnie in conflitto. Ho capito che quella jugoslava non era una guerra di religione. Era, al contrario, una guerra in un paese «ateizzato» e, proprio per questo, facile preda dei signori della guerra. Sono andata alla ricerca della religione cristiana ortodossa, scoprendo che essa fa parte inseparabile della mia identità nazionale.
Mi sono messa in viaggio verso Gesù e Lui mi è venuto incontro. Ho scoperto i doni del vangelo. Ho scoperto il volontariato e la gioia del lavoro gratuito come espressione dell’amore per il prossimo. Ho capito che non sono il centro dell’universo, ma solo un anello nella catena della vita e debbo stare attenta che questo anello non si arrugginisca.

D opo 13 anni di matrimonio, con due bambini già grandi, ci siamo sposati in chiesa con il rito ortodosso. E, come da bambina avevo smesso di piangere dopo essere stata battezzata, così… ho cessato di litigare con mio marito, come prima facevamo. È diventato più semplice educare i figli e risolvere ogni problema.
Per ogni cosa Gesù ha la risposta giusta e un consiglio saggio. Ora andiamo a messa tutte le feste e, in casa, commentiamo le prediche di don Enrico, il nostro parroco.
Una volta al mese ospitiamo padre Milivoj, il prete ortodosso che due volte al mese celebra la liturgia a Vicenza, in una chiesa prestataci per le funzioni religiose dai fratelli cattolici.
Nella nostra regione, il Trentino-Alto Adige, ci sono circa 3.600 serbi; nelle province di Vicenza, Verona e Padova sono oltre 6.000. Il nostro prete è, come l’apostolo Paolo, senza dimora fissa, ospitato dalla sua gente: ci insegna a vivere secondo l’insegnamento di Gesù, a comportarci da veri cristiani. Battezza i non battezzati e celebra i matrimoni; raccomanda di insegnare ai nostri figli lingua, usi e costumi della terra d’origine.

I o cerco di rispettare le regole della mia chiesa per ciò che riguarda digiuno, confessione e comunione; mio marito e i figli seguono le norme cattoliche. Siamo una famiglia ecumenica, e io prego con tutto il cuore che un giorno le nostre chiese si uniscano superando le divergenze dogmatiche.

Snezana petrovic




Serbia – E’ tempo di girare pagina

Pregare per chi sta al potere è una consuetudine della chiesa ortodossa. Ma quando il potere
è contro il popolo e il vivere cristiano, opporsi
è dovere di ogni credente. Oggi la Serbia
è distrutta dai bombardamenti della Nato
e 14 milioni di persone sono strangolate
da tirannia, miseria e sanzioni economiche.
Per questo il patriarca Pavle invita
il presidente Milosevic a uscire di scena.
Senza ulteriori spargimenti di sangue.

Oltre ai 10 comandamenti, la chiesa ortodossa serba chiede ai suoi fedeli di rispettare altre regole: andare alla liturgia tutte le domeniche e feste religiose; digiunare (cioè non mangiare carne) prima delle feste principali (pasqua, natale, apostoli Pietro e Paolo e assunzione di Maria), nonché ogni mercoledì e venerdì; confessarsi e fare la comunione dopo i periodi di digiuno; digiunare quando lo ordina il vescovo a causa di qualche disgrazia collettiva; non contrarre matrimoni nei periodi di digiuno; non leggere libri eretici; non adoperare oggetti che si usano in chiesa; rispettare i sacerdoti; pregare per quanti sono al potere.
Dunque, pregare per chi detiene il potere è un comandamento della chiesa ortodossa. Essere al vertice di un paese, è una responsabilità enorme, che l’uomo da solo non potrà mai sostenere se non aiutato da Dio. E, per esserlo, serve la preghiera non solo sua personale, ma anche comunitaria.
Ma che fare se al potere c’è un non cristiano? Quando egli stesso non rivolge alcuna preghiera a Dio per essere aiutato a svolgere il suo dovere verso il popolo? Quando non va in chiesa e non rispetta né i comandamenti di Dio né, tanto meno, quelli della chiesa? Quando considera la chiesa solo un’istituzione da sfruttare a suo vantaggio?
Così è accaduto in Serbia a partire dal 1945, in Russia dalla rivoluzione d’ottobre, in Romania e Bulgaria. Questi paesi, in cui la religione principale era quella cristiano- ortodossa, hanno sperimentato un potere contro ogni tipo di religiosità: contro la chiesa, contro i sacerdoti, contro Dio stesso.
«La religione è l’oppio dei popoli – tuonava Lenin -. Preti, vescovi e cristiani sono tutti parassiti, inutili e nocivi, da eliminare insieme ai capitalisti». Ne erano pieni i campi di concentramento di Stalin e degli altri capi comunisti. Sorsero nuovi martiri che perdevano la vita per testimoniare la fede, come ai tempi dei romani.
Eppure, nonostante tutto, è rimasta la regola di pregare per quelli che sono al potere, perché la preghiera cristiana non ha limiti.
Gesù ci insegna a pregare anche per i nemici (Mt 5, 44) e gli apostoli Pietro e Paolo invitano a rispettare e ubbidire a quelli che sono al potere (1Pt 2, 13-17; Rom 13, 1-7).
Ma, allorché i governanti portano in rovina il popolo, quando ciò che chiedono è in contraddizione con i comandamenti di Dio e del vivere cristiano, è dovere di ogni cristiano disubbidire, opporsi.

La chiesa ortodossa è apolitica. «Non ha il potere di costringere, ma di proporre con parole di verità, indicando quello che è peccato, male individuale o collettivo, disgrazia in questa vita e in quella eterna». Essa si preoccupa, innanzitutto, per l’anima della gente. Ma ora che la sopravvivenza fisica e spirituale del popolo è minacciata, la chiesa ortodossa serba ha alzato la voce. Per la prima volta nella sua storia, si è schierata contro un potere: il potere di Milosevic.
All’inizio la chiesa sostenne il presidente, perché riteneva che fosse l’uomo giusto per riunire tutti i serbi in un unico stato. Presto, però, si accorse che la politica del presidente portava i serbi alla rovina.
Oggi il paese sta affogando con i suoi 14 milioni di abitanti, soffocato dalla tirannia, dalla miseria, dalle sanzioni che hanno reso impossibile qualsiasi progresso: distrutto dai bombardamenti della Nato.
Il 10 agosto 1999, a Belgrado, i vescovi della chiesa serba hanno ricordato agli uomini del potere che hanno il dovere davanti a Dio, al popolo e alla storia di trovare una via d’uscita alla situazione.
In base a tale dovere e responsabilità, per prima cosa hanno chiesto all’attuale presidente, se non desidera trasformare il suo popolo in ostaggio, portandolo a sicura rovina, di permettere che altri assumano la guida dello stato, in modo democratico e pacifico, senza versare altro sangue.
«Ci aspettiamo elezioni libere e democratiche. La chiesa non ha mai suggerito per chi votare. Abbiamo soltanto invitato i nostri fedeli a riflettere prima di scegliere. Se uno è credente, non dovrebbe dare il proprio voto a partiti o persone non credenti».

La chiesa ha chiesto alle Nazioni Unite e alle forze di pace in Kosovo di porre fine ai crimini contro la popolazione serba e alle distruzioni di chiese, monasteri e interi villaggi. Da quando si è ritirato l’esercito serbo dal Kosovo, il presidente Milosevic non ha rivolto una parola né al popolo rimasto nella regione né ai profughi che si sono rifugiati nella Serbia settentrionale.
Il patriarca Pavle è andato due volte in Kosovo, per incoraggiare i serbi a non abbandonare le loro case e avere fiducia nelle forze inteazionali. Ha supplicato i rappresentanti inteazionali di proteggere il popolo indifeso e minoritario, di difendere chiese e monasteri carichi di storia.

Snezana Petrovic




Missionari in pensieri, parole e opere

Sintetizzare il pensiero missionario del beato Giuseppe Allamano non è facile.
Si rischia di essere riduttivi. Ma alcuni punti sono precisi, irrinunciabili.
Li ricordiamo… in occasione della sua festa: il 16 di questo mese.

Il primo annuncio

Nel 1901 il beato Giuseppe Allamano fonda i missionari della Consolata per annunciare il vangelo a persone, gruppi e popoli presso i quali non è ancora conosciuto… E questa è l’identità del missionario della Consolata, sacerdote, suora e fratello. Ciò comporta crescere nella «passione» di far conoscere il Signore al maggior numero possibile di persone, e fare proprie le parole dell’apostolo Paolo: «Guai a me se non evangelizzassi!» (1 Cor 9, 16).
«Tutto io faccio per il vangelo» dice ancora san Paolo. E l’Allamano incalza: «Tutto, tutto! Mi sacrificherò per questo, fino ad accorciare o anche donare la vita. Per questo ci vuole fuoco»: il fuoco dell’amore per Dio e i fratelli in attesa dell’annuncio di salvezza e di aiuto fraterno nelle loro necessità.
Solo questo giustifica l’impegno per la missione, l’apertura all’universalità, la sollecitudine per i fratelli di ogni razza e lingua. Se non si arde – continua l’Allamano – non si farà mai nulla. Si condurrà una vita amorfa, insignificante. Tale ideale va sempre riproposto, perché sia «al primo posto», «in cima a tutti i pensieri». Altrimenti «ci si guasta», non si è più come si deve essere.
Andare oltre
Anche se situazioni di «prima evangelizzazione» sono oggi presenti in ogni ambiente, la prospettiva dell’Allamano è quella dell’universalità: chiede di non rimanere chiusi entro i propri confini territoriali, stretti dalle proprie necessità, ma di guardare a quelle più grandi in altri paesi. E ciò in obbedienza al comando di Cristo «andate in tutto il mondo» e a testimonianza della natura «cattolica» della chiesa. Se essa pensasse soltanto alle sue urgenze, non sarebbe fedele a Cristo.
Fa parte della vocazione dei missionari della Consolata l’uscire dai propri confini nazionali, culturali e religiosi, per annunciare il vangelo negli avamposti del mondo, in ogni parte della terra, dove esistono situazioni che manifestano una lontananza dal Dio di Gesù Cristo e dagli ideali del suo regno.
Pur operando sempre in Italia, l’Allamano stesso vive la dimensione missionaria dell’«andare oltre». Egli ne intuisce la portata all’interno di ogni chiesa: opera (e fatica) per cambiare una mentalità chiusa, incoraggiando a superare gli schemi della pastorale ordinaria, per sostenere iniziative nuove, affrontare situazioni di emergenza, settori bisognosi di evangelizzazione anche a Torino: il mondo della moda, il settore della stampa, la classe operaia, l’azione cattolica, le cornoperative…
Questo spirito è oggi più che mai attuale, e impone ai missionari di dae una speciale testimonianza.
Sette Atteggiamenti
missionari
Nel realizzare la missione ad gentes il beato Allamano indica anche degli atteggiamenti che esprimono il suo stile.

1. Dedizione totale
Le proposte dell’Allamano sono sempre esigenti, conformi alla radicalità del vangelo. Egli è comprensivo della debolezza umana, pronto a capire, perdonare, incoraggiare ad «andare avanti», ma non sopporta la mediocrità. La missione esige impegno totale e perpetuo. Essa, secondo l’idea dell’Allamano codificata dalle Costituzioni, «deve permeare la nostra spiritualità, guidare le scelte, qualificare la formazione e le attività apostoliche, orientare totalmente l’esistenza».
L’Allamano vuole missionari coraggiosi, energici, generosi.

2. Qualificazione
Di conseguenza chiede che i missionari siano qualificati. Ne è tanto convinto da ricorrere a espressioni insolite sulle sue labbra: «Dobbiamo essere tutti di prima classe. Qui voglio solo roba scelta, vasi ripieni di liquore prelibato». Per la missione, prima attività della chiesa, si deve dare il meglio.
È convinto che, più del numero, valga la qualità: meglio pochi, ma in gamba, capaci di fare per molti. Non pensa a superdotati. «Non abbiamo bisogno di aquile, ma di buone e ferme volontà».
Oggi la qualificazione è necessaria per essere mediatori culturali, veicoli d’incontro tra popoli, culture, religioni.
Inoltre la missione ad gentes è destinata alle frontiere, a situazioni-limite. Si deve confrontare con la globalizzazione economica, il pensiero postmoderno, i movimenti religiosi, il numero crescente di battezzati che hanno perso il senso della fede e appartenenza alla chiesa, la secolarizzazione di un mondo che pretende costruirsi su basi che prescindono da Dio e dai principi morali.
Ciò richiede evangelizzatori preparati, capaci di far leva sugli aspetti positivi di fenomeni in gran parte negativi.

3. Primato dello spirito
La qualificazione è soprattutto di carattere spirituale e morale. Il missionario è una persona attiva, che però pone a fondamento la ricerca di Dio. L’Allamano afferma: «Prima santi e poi missionari». È un «prima» riferito a tanti aspetti: preghiera, consacrazione religiosa, studio, pratica delle virtù umane e cristiane, impegno in ogni campo.
Per essere missionari ci vuole una marcia in più, o (se si vuole usare una delle parole più frequenti nell’Allamano) «uno spirito».
Che cosa egli intenda è detto bene nel documento preparatorio al X Capitolo generale dei missionari della Consolata: «Egli parla di spirito di povertà, spirito di obbedienza, spirito di sacrificio, spirito di preghiera, spirito di silenzio, spirito di umanità, spirito di fede, spirito di lavoro, spirito di distacco, spirito di carità. Spirito è una realtà che penetra, regge e nobilita altre. È profondità, intensità. È intuizione. È l’opposto di ogni formalismo. È totalità. È verità, soprattutto nell’essere missionari. È andare all’essenza delle cose. È farle bene».
«Voi – dice l’Allamano – dovete avere lo spirito dei missionari della Consolata nei pensieri, nelle parole, nelle opere».

4. Unità di intenti
La missione non è un’attività individuale, secondo criteri personali. È azione di chiesa in spirito di comunione, «in unità di intenti». Questa è una intuizione fondamentale, un principio basilare, un’idea fissa.
Si tratta di uno «spirito di famiglia» o «spirito di corpo», che per l’Allamano è il segreto di riuscita, l’obiettivo da realizzare ad ogni costo. Nel lavoro missionario l’unità è la condizione «più necessaria» e «più importante», senza la quale si rischia di lavorare invano.
La comunione tra i missionari diventa anche metodo di lavoro, estendendosi ai collaboratori, ai catechisti e ai membri più sensibili delle comunità cristiane. Si esprime all’interno e all’esterno: essere tutti per uno e uno per tutti.

5. Collaborazione con i laici
Proprio perché pensa sempre alla missione nell’unità, Giuseppe Allamano si adopera di coinvolgere anche le comunità cristiane, iniziando da quanti frequentano il santuario della Consolata di Torino, cui è rettore. La sua opera non sarebbe riuscita senza tale partecipazione.
Oggi è maturata una visione teologica che fa meglio comprendere l’impegno di ogni comunità cristiana nell’annuncio del vangelo. Il battesimo conferisce il diritto-dovere di impegnarsi, sia come singoli sia in associazioni, perché l’annunzio della salvezza sia conosciuto e accolto da ogni uomo, in ogni luogo; tale obbligo li vincola ancora di più nelle situazioni in cui gli uomini non possono ascoltare il vangelo e conoscere Gesù se non per mezzo loro» (cfr. Redemptoris missio, 71).
Questa collaborazione, espressa in varie forme nell’ambito dell’istituto dell’Allamano, ha aperto ai laici nuove vie d’impegno nei paesi di missione come in Italia.

6. Stare con la gente
I missionari portano il «lieto annuncio». Devono farlo stando dalla parte di chi ha più bisogno di essere sollevato, colmato di gioia, anche alleviando mali fisici e morali causati da malattia, emarginazione, povertà, ignoranza.
L’Allamano raccomanda di «stare con la gente», andare a trovarla dove vive. È l’espressione del cuore compassionevole di Dio che diventa consolazione. È un programma iscritto nel nome stesso che i missionari portano: quello della «Consolata». Sul modello di Maria sollecita del bene dell’umanità, la missione tende a instaurare il regno di Dio, che è amore, bontà, misericordia.
Le Costituzioni dell’istituto hanno accolto tale istanza, proponendo di «essere presenti tra la gente con cui lavoriamo in modo semplice e fraterno, con contatti personali e con attenzione ai loro problemi e necessità concrete».

7. La promozione dell’uomo
Non è difficile scorgere l’intima correlazione tra la consolazione-liberazione-promozione e la missione. Dio, che ha visto la miseria del suo popolo e ha ascoltato il grido di aiuto, ha inviato Mosè a liberarlo dall’oppressione (cfr. Es 3, 7-11). Chiaramente la consolazione-liberazione è missione divina, dono del Cristo salvatore.
A noi è stato affidato il ministero di portarlo a tutti – si legge nel documento preparatorio al X Capitolo generale -. Senza difficoltà si può riconoscere che, nel nostro metodo di lavoro, evangelizzazione e promozione umana si sono sempre accordate. L’insegnamento del fondatore su questo è esplicito e frequente. E prese posizione per difendere questo suo principio… Noi dobbiamo assumere la condizione della gente e apprezzare i suoi valori. Le nostre certezze e pretese di superiorità, la nostra supposta e indiscussa dignità da salvaguardare si oppongono a una metodologia di comunione.

Gottardo Pasqualetti




Dopo il fiasco di Seatte

Spettabile redazione, ho letto su Missioni Consolata di ottobre/novembre gli aggioamenti sul Millenium Round. Ne ho parlato con alcuni amici, che come me seguono con preoccupazione la vicenda: ci siamo chiesti se in Italia esiste un cornordinamento per la mobilitazione contro il negoziato. Esiste qualche documento comune da sottoscrivere, per non disperdersi troppo in iniziative particolari?

Il Millenium Round ha avuto luogo a Seattle (USA) dal 30 novembre al 3 dicembre 1999. Ed è stato un fiasco. Ecco alcuni problemi irrisolti.
Agricoltura: lo scontro si è concentrato sui sussidi della Commissione di Bruxelles ai prodotti dell’Unione Europea; gli Stati Uniti e i paesi in via di sviluppo vorrebbero abolirli, perché rendono meno competitivi i propri prodotti agricoli. Lavoro: gli Stati Uniti vorrebbero fissare standard mondiali per i diritti dei lavoratori; i paesi nel sud del mondo li bocciano, perché alzano il costo della manodopera e frenano le esportazioni. Biotecnologie: sono sponsorizzate dagli Stati Uniti, ma respinte dai paesi in via di sviluppo, che temono il tracollo della propria agricoltura.
Il terzo mondo e numerosi movimenti hanno contestato l’operato dell’Organizzazione mondiale del Commercio (WTO), che nella globalizzazione economica penalizza soprattutto i paesi poveri. È immorale e scandaloso che il reddito di tre individui nel nord del mondo sia pari a quello di 600 milioni di persone nel sud.
Prima del Vertice di Seattle, è nata la «Rete lillipuziana». Ne abbiamo parlato nell’editoriale di gennaio. Nella Rete sono entrate tante associazioni (anche se modeste), per essere più influenti e lottare insieme contro le schiavitù della globalizzazione.
Per ulteriori informazioni, contattare:
Centro nuovo modello di sviluppo
tel 050/826354, fax 827165, e-mail «cornord@cnms.it».

Piermario Pertusio




Per gli emigrati

O Gesù, che fin dai primi giorni di vita hai dovuto lasciare con la mamma Maria e Giuseppe il paese natio, per sopportare in Egitto le pene e i disagi dei poveri emigranti, guarda i nostri fratelli costretti dal bisogno ad abbandonare la patria. Lontani da tutto ciò che è loro più caro, in cerca di lavoro, essi vivono fra disagi e pericoli per l’anima e il corpo.
Signore, sii loro guida nell’incerto cammino, aiuto nella fatica, conforto nel dolore; conservali nella fede, nella moralità dei costumi, nell’affetto ai figli, alle mogli e ai genitori lontani. Amen.

Preghiera inviataci da Maria Fasano, di Lecce. Una regione dove il problema «emigrati» è drammatico. Però la gente, non ricca, è ospitale. Ma l’ospitalità non basta.

o




Povere figlie!

Cari missionari,
chiedo una preghiera alla Consolata per le mie figlie.
Una è senza lavoro, si sente depressa, perché ha avuto una delusione amorosa; ha tentato persino il suicidio.
Un’altra figlia è stata otto anni a Torino, infermiera all’ospedale Regina Margherita, e frequentava anche il santuario della Consolata: santuario dove ho pregato anch’io, ammirata dal suo splendore. Poi mia figlia è tornata al paese natale, nel sud. Oggi, purtroppo, si sta separando dal marito carabiniere, anch’egli ritornato nel meridione dopo aver prestato servizio presso la stazione torinese di San Salvario.
Mio genero è un prepotente: è un «militare» anche in casa, persino con i bambini. Mia figlia dice di cercare il bene dei figli e che la separazione rappresenta il male minore…
Vi chiedo una preghiera affinché riescano a capirsi.

Cara signora, con lei e noi prega anche il beato Allamano, che raccomandava a tutti i missionari di avere a cuore i problemi della gente.

lettera firmata




Un “no” meschino

Signor direttore,
restituisco il volume «Yanomami» che mi ha prestato, ringraziandola sinceramente.
Purtroppo non mi è stato possibile utilizzarlo per l’esame di antropologia culturale, in quanto il docente non accetta testi che non risultino nel programma del corso, benché trattino lo stesso argomento.
È stata una lettura molto interessante e piacevole allo stesso tempo: un testo completo e ricco, con spiegazioni semplici, chiare e straordinarie illustrazioni.

Il tuo «purtroppo», Sonia, è molto eloquente sugli… orticelli provinciali della cultura italiana. Altro che università!

Sonia di Martino




L’erba “esigo” di una musulmana

Spettabile redazione,
ho letto con disappunto l’articolo «Le altre vie di Allah» («Missioni Consolata», giugno 1999). Riferendomi all’intervista posta alla sottoscritta da Angela Lano, esigo una smentita, non riconoscendomi in ciò che mi è stato attribuito.
Ho affermato che le motivazioni della mia conversione all’islam sono state la ricerca della verità, il desiderio di giustizia e soprattutto la necessità razionale dell’unicità di Dio; però non ho dichiarato che, se avessi guardato alle società islamiche (vengono specificati tre paesi che non ho menzionato), non sarei mai diventata musulmana. Ho detto che per un occidentale, che normalmente eguaglia l’islam al comportamento di alcuni paesi arabi, può essere difficile capire una conversione, dal momento che si attribuiscono all’islam soprusi che non hanno nulla di islamico.
Contrariamente a quanto è stato scritto, non avrei alcun problema ad abitare in un paese musulmano (anche se, ovviamente, amo la mia nazione, dati gli affetti che mi legano). Ho visitato alcuni stati islamici di cui mi sono innamorata per la serenità della vita, basata su principi che la nostra società sta eliminando, fondata sulla ricerca del divino, lontana dallo stress del potere occidentale e dall’imposizione dei ritmi alienanti del capitalismo.
La domanda «quante donne possono lavorare nei paesi musulmani?» se l’è posta la giornalista, non io. Ho risposto affermando che la percentuale delle donne lavoratrici nei paesi islamici è inferiore a quella dei paesi occidentali; ma credo che tale realtà sia legata alla scelta delle donne di privilegiare l’aspetto familiare e all’elevata disoccupazione dei paesi in via di sviluppo.
Pongo io una domanda: «Quante donne occidentali vorrebbero licenziarsi per occuparsi dei figli?». La necessità imposta dalla società le costringe a mantenere ritmi lavorativi stressanti e, a volte, poco dignitosi.
È scandaloso che la giornalista si sia permessa di trarre affermazioni sulla mia vita privata, quando l’intervista era indirizzata alla mia conversione. Ritengo che i matrimoni «misti» siano più difficili rispetto a quelli tra persone dello stesso paese, per le possibili incomprensioni culturali generate da una diversa educazione. Ma non mi ritengo una moglie infelice (come mi ha qualificato la giornalista) e la decisione di sposarmi è stata anche motivata dalla certezza di felicità che sarebbe derivata dall’unione con mio marito. Credo che gli scontri in un matrimonio tra persone di culture differenti non siano in percentuale diversa da altre unioni, se i fondamenti del matrimonio sono il rispetto, l’unicità degli scopi e l’amore reciproco.
L’«hijab» non è l’aspetto più faticoso (attributo della giornalista, non mio) da osservare, ma è difficile per le discriminazioni e derisioni a cui può essere sottoposta una donna, solo per il fatto che applica una legge divina, esteando la sua fede con un velo che per l’occidentale è motivo di scherno.
Spero che con questo scritto venga colto il senso vero della mia intervista…

«L’erba “voglio” non cresce neppure nel giardino del re». Così si replica talora a chi s’impone con: «Da te io voglio…». Che dire, poi, di chi coltiva l’erba «esigo»? È un’erba che non ci piace. Inoltre diciamo: la verità di Mariangela non vale di più di quella di Angela Lano, che conosciamo per serietà e professionalità.
La lettera-fax pubblicata ci è giunta il 27 ottobre 1999. Perché è stata scritta quasi a cinque mesi di distanza dall’articolo contestato? Ci assale un dubbio: che la musulmana abbia scritto su dettatura di un altro musulmano, che non ha gradito «Le altre vie di Allah».
Probabilmente Mariangela replicherà ancora più sdegnata: «Come vi permettete una tale insinuazione?». Ma il dubbio rimane.
E… in dubio libertas.

Mariangela




Caro “baco”, quanto ci costi!

C aro esperto, il millennium bug ha arricchito anche te. Tu sapevi che «il baco del millennio» non avrebbe bloccato i computer. Sapevi che la stragrande maggioranza di loro non avrebbe avuto problemi nel cambio di data. Solo i computer con vecchi chip bios o antiquati sistemi operativi Microsoft avrebbero potuto falsare i conti nel cambio di data (da 99 a 00). Avresti potuto scrivere una lettera di protesta a Bill Gates, per essersi fatto i soldi vendendo un sistema operativo obsoleto.
Tu sapevi, ma sei rimasto zitto.
Tu sapevi che si stava montando un bluff: il «baco» era in agguato solo se il programmatore fosse stato uno sprovveduto. E sapevi che tantissimi programmatori avevano già inserito un’istruzione di controllo: un semplice «se… allora», per varcare il 2000 senza problemi.
Caro esperto, tu sai che per scrivere un tale algoritmo basta la quinta elementare. Già in liceo risolvevi sui computer problemi ben più complessi del millennium bug. Ma poi hai capito che, per fare colpo, non occorre realizzare cose difficili. Basta solo farle «apparire» tali.
Come per il millennium bug.
Bastava che la Presidenza del consiglio avesse fatto uno spot, non con quell’inutile pupazzetto, disegnato per le masse, ma con alcune informazioni per l’autodiagnosi del computer. Bastava insegnare pochi e semplici controlli.
Oppure era sufficiente che un giornalista ti avesse intervistato e che tu avessi spiegato le poche cose da fare.
Ma alcuni giornalisti, pagati per confondere la gente, hanno fatto a gara per dire cose assurde, pur di accreditare «la santa crociata digitale». E le multinazionali dell’informatica li avranno lautamente ringraziati per i loro servigi di comunicatori della stupidità.
Tu hai visto politici far spendere allo stato somme insensate. E poi dicono che aiutare il terzo mondo è giusto… «ma purtroppo ora non abbiamo i soldi». Eh sì, perché li hanno sganciati per il millennium bug e per qualche loro amico, esperto di computer.
Tu avresti potuto ridicolizzare questa messa in scena mortificante, questo ennesimo raggiro di chi guarda la tivù come fosse la verità.
Ma hai taciuto, perché la tua parcella di esperto veniva prima della verità dei fatti.
I soldi, spesi così male, ammontano ad una cifra che darebbe speranza per 10 anni ad oltre 300 milioni di piccoli disperati. Soldi finiti nelle tasche dei ricchi, come sempre.
Ma anche nelle tue.
Allora, caro esperto, ti chiediamo una riparazione. Impiega una parte di quanto ti ha fruttato il millennium bug per debellare la lebbra, che condanna 12 milioni di persone. Sei ancora in tempo a dialogare con la tua coscienza. Un malato di lebbra può guarire con 250 mila lire.
Spiccioli rispetto ai 3 milioni di miliardi spesi per «il baco del millennio».

Alessandro Marescotti