Prima il profitto poi i brevetti


Le multinazionali farmaceutiche investono nei settori dove maggiore è la possibilità di guadagnare,
indipendentemente dai bisogni. I brevetti sono ostacoli insormontabili. Insomma, i farmaci sono trattati alla stregua di un qualsiasi altro prodotto. Questa politica comporta gravi conseguenze per una larga fetta dell’umanità.

Un pomeriggio di ottobre del 1999, nella Cambogia nord-orientale. Stiamo percorrendo una pista che costeggia il fiume Mekong, risalendone il corso.
Andiamo a verificare lo svolgimento di un programma di controllo delle malattie parassitarie, gestito dal ministero della sanità con il nostro supporto tecnico. Il programma sembra andar bene, e siamo orgogliosi di aver abbattuto i tassi di mortalità per queste malattie nella regione.
Decidiamo di concederci una sosta per sgranchirci un po’ e bere dell’acqua. Ci fermiamo in un grazioso villaggio, affacciato su una bella insenatura del grandioso fiume. L’aria è pulita e profumata, e la luce dell’imminente tramonto colora di violetto le acque del fiume, incoiciato dal verde della esplosiva vegetazione. Mi allontano un po’ dalla Toyota, e mi fermo sotto una delle casupole, tutte uguali, tutte estremamente precarie: un pavimento di bambù su quattro alti pali (le case sono così, anche per proteggersi dalle inondazioni), quattro pareti di foglie di palma intrecciate e un tetto, anch’esso di foglie. Una bambina sorridente sta appoggiata alla ripida scala che conduce all’interno, e in alto sua madre – così credo – è seduta intenta a eliminare le scorie da una manciata di riso. Mi sorride. Così mi tolgo le scarpe e salgo.
Seduta sul pavimento, la donna ha sulle gambe un fagotto, che si muove ritmicamente. Lei sposta un lembo degli stracci e scopre un bimbetto (10-12 mesi) ansimante, viso affilato, occhi spalancati e una colata di muco dal naso. Chiamo l’interprete, per avere notizie di quel piccolo visibilmente sofferente. È così, mi dicono, da 3-4 giorni; ha anche smesso di succhiare il seno. Lo tocco: è bollente. Avvicino un orecchio al suo dorso: polmonite. Non si lamenta mentre lo esamino, continua solo ad ansimare rumorosamente.
Apro la borsa per vedere cosa abbiamo di utile in quella condizione: trovo delle compresse di ampicillina e di paracetamolo. Dovrebbero andare. Poi l’interprete spiega alla mamma come fare: bollire dell’acqua, schiacciare una compressa in una ciotola, scioglierla e dae un cucchiaio al bimbo ogni 8 ore; poi reidratarlo con acqua, zucchero e sale, poi il paracetamolo… cose banali insomma, una serie apparentemente semplice di istruzioni.
Ma la preoccupazione sul volto della mamma sembra indicare tutto il contrario: manovre complicate, quasi impossibili, gesti del tutto estranei alla quotidianità della sua vita. Ci allontaniamo dalla casupola lasciando il rantolo del bambino con la polmonite alle nostre spalle.
L’indomani, sulla via del ritorno, ci fermiamo di nuovo. La mamma in lacrime ci dice che la sera prima il bimbo ha chiuso gli occhi dopo il tramonto e durante la notte ha smesso di respirare.

Cosa ha di particolare questa storia? Nulla, assolutamente nulla. Rivela semplicemente quanto accade ogni giorno, in migliaia di villaggi, per milioni di bambini.
Ricordo la prima volta che misi piede in Africa, fresco di studi di medicina tropicale. Aspettavo con ansia di vedere malati affetti da quei misteriosi e «affascinanti» morbi esotici. Rimasi quasi deluso quando, nella prima giornata di consultazioni mediche, vidi solo bambini gravemente malati o prossimi al decesso per banali infezioni.
Diarrea, infezioni delle vie respiratorie: sono queste le prime cause di morte nei paesi in via di sviluppo. Il 95% dei decessi sono dovuti a malattie infettive, per le quali esistono efficaci trattamenti. Ma un terzo della popolazione mondiale non ha accesso ai farmaci basici. Gran parte di queste malattie sarebbero facilmente curabili; però, proprio là dove più servono, i farmaci relativi non sono disponibili, spesso perché troppo costosi.
La causa di questa discrepanza tra bisogni e offerta risiede in rigide leggi di mercato, in base alle quali i prezzi dei farmaci, protetti da brevetto, sono fissati sulla disponibilità a pagarli nei mercati dei paesi industrializzati. Alla base di gran parte dei disastri sanitari, dell’impossibilità a gestire epidemie o endemie, a prevenirle, a impedire la morte per banali infezioni, alla base di tutto possiamo affermare oggi con certezza che c’è un problema di farmaci. Vediamo di capire di cosa si tratta.
Anzitutto mancano nuovi farmaci utili in medicina tropicale, che siano poco tossici, a basso costo ed efficaci per debellare le malattie (parassitarie, ad esempio), causa di sofferenza e morte.
Basta un dato: negli ultimi 20 anni, tra i 1.233 nuovi farmaci offerti dal mercato internazionale, solo 11 avevano come indicazione malattie tropicali, e di questi 7 venivano dalla ricerca veterinaria. Per cui appena lo 0,3% della ricerca farmaceutica contemporanea è indirizzata alle malattie ai vertici di ogni classifica mondiale di morbosità e mortalità. Perché? Semplice, perché queste malattie imperversano in mercati poco remunerativi. Le priorità sono, quindi, più di ordine economico-commerciale che medico.
Da un lato fiumi di miliardi vengono investiti sulla ricerca di nuove pillole contro l’obesità e l’impotenza, dall’altro quasi niente per malattie tropicali. Se poi talvolta (e c’è l’evidenza) una multinazionale farmaceutica giunge a sintetizzare un farmaco attivo su una malattia tropicale, spesso il fabbricante decide di non commercializzarlo, poiché la sua vendita sarebbe poco remunerativa nei paesi dove i pazienti interessati sono concentrati.
A volte, per le stesse ragioni, farmaci già disponibili, efficaci e semplici da somministrare scompaiono improvvisamente, come è stato il caso della sospensione oleosa di cloramfenicolo, usata per trattare la meningite meningococcica (malattia capace di uccidere in 24 ore). Tale farmaco era l’alternativa al trattamento con ampicillina, che richiede 4 infusioni endovenose al giorno, contro un paio di iniezioni intramuscolari in tre giorni per il cloramfenicolo. Una bella differenza, per trattare pazienti in strutture sanitarie carenti di materiale e igiene.
Altro esempio, quello della efloitina. Questo farmaco serve per trattare lo stadio avanzato della tripanosomiasi, più conosciuta come malattia del sonno (trasmessa dalla famosa mosca tse-tse). Bene, mentre il vecchio farmaco usato (un derivato dell’arsenico estremamente tossico e somministrabile in dolorose iniezioni) diveniva anche inefficace per l’insorgenza di ceppi di parassiti resistenti, appare questo nuovo ritrovato. Sfortunatamente due anni fa la ditta produttrice, detentrice del brevetto, ha deciso di sospendee la produzione per motivi commerciali. E i circa 300 mila malati si vedono rioffrire il vecchio melarsoprol.
Questo è quanto accade, in questo mercato globalizzato.

Uno dei problemi principali è causato dal brevetto che protegge il farmaco. Il brevetto rappresenta un diritto sacrosanto dell’industria per salvaguardare i frutti dei sui investimenti in sperimentazioni. Accade però che i brevetti si tramutino in micidiali armi che limitano l’accesso ai farmaci.
Esistono paesi definiti in via di sviluppo, ma in realtà detentori di tecnologie sufficienti per una produzione farmaceutica. Nazioni come India, Thailandia, Sudafrica o Brasile sono in grado di produrre farmaci utili per le loro popolazioni e quindi rivenderli a prezzi accessibili. Il prezzo di farmaci come il fluconazolo, efficace in gravi infezioni fungine, crolla così dai 20 dollari al giorno per un trattamento in Kenya, dove è importato, a meno di un dollaro al giorno in Thailandia, dove è prodotto da una azienda nazionale.
Questo è reso possibile da una norma che si chiama compulsory licensing, o licenza obbligatoria (vedi box).
A questo punto, la domanda che sorge è: etica e sviluppo economico del settore farmaceutico sono obiettivi incompatibili?
Le più autorevoli riviste mediche inteazionali (ad esempio, British Medical Joual e JAMA) sostengono che l’etica è compatibile con l’economia. Per questo i medici, che operano in questi contesti, sono stanchi di dover pensare, di fronte all’ennesima morte di un loro paziente: «Mi spiace. Stai morendo a causa di una inadeguatezza del mercato».
Il caso dell’AIDS mostra poi cifre apocalittiche. Il 95% dei malati di Aids nel mondo non ha accesso a farmaci efficaci per restituire salute e dignità. Ma (fatto ancor più grave) i trattamenti per ridurre significativamente la trasmissione verticale dell’infezione da madre sieropositiva a figlio al momento del parto non sono disponibili proprio nei paesi dove questa modalità di trasmissione sta segnando le nuove generazioni, condannando a morte entro 5-8 anni un bambino già al momento della sua nascita.
Farmaci come l’Azt o la nevirapina, efficaci anche se somministrati per solo 4 settimane intorno alla data del parto, sono vittime delle stesse regole di mercato. Spietati brevetti ne permettono la vendita a prezzi proibitivi e ne impediscono la produzione da parte di altre aziende. Se è vero, si può sempre applicare la licenza obbligatoria. Ci ha provato la Thailandia iniziando a produrre Azt per le sue donne (tantissime) incinte e sieropositive. Il farmaco ha avuto il costo abbattuto del 7000%.
La reazione degli USA, dove risiede la ditta detentrice del brevetto, è stata: non possiamo impedirtelo, ma possiamo però ridurre le importazioni dalla Thailandia… Cosa questa insostenibile in questo momento di crisi economica.
Ecco come vanno le cose.
Farmaci che ci sono, ma costano troppo; farmaci che esistono, ma non vengono prodotti, germi che divengono resistenti ai comuni trattamenti (TBC, leismaniosi, tripanosomiasi, ecc.), ma la ricerca farmaceutica ha altri obiettivi… e le cifre di morte e malattia continuano ad avere parecchi zeri nei paesi dei poveri del mondo. Quello che basterebbe è esigere un «diritto alla salute per tutti».
Già sentito?

Carlo Urbani




KENYA – Tra passato e futuro

Squarci di vita di un’importante tribù.
È vivo il desiderio di far convivere tradizione e modeità.
In questo contesto si innesta l’opera della chiesa, pastorale e di promozione umana.
Anche con l’aiuto di generosi… piemontesi.

D ire «Piemonte» significa evocare le montagne, richiamare alla mente il mormorio di mille ruscelli, sorgenti, fontane ancora ricche d’acqua fresca e cristallina, elemento indispensabile per la nascita di una vegetazione brillante e rigogliosa.
Dire «Africa» significa, invece, quasi sempre evocare immagini di deserto, aridità, sete. E non è un caso, allora, che la generosità di alcuni piemontesi abbia fatto sì che uno dei beni più preziosi per gli esseri viventi potesse giungere in un pezzo d’Africa povero e assetato.
I piemontesi in questione sono il cuneese fratel Mario Beardi, missionario della Consolata (che ha costruito 10 pozzi), e un benefattore che desidera restare anonimo e ha fornito all’intraprendente missionario i mezzi economici per realizzare il suo obiettivo.
UNA MISSIONE E TANTI POZZI
La terra africana di cui stiamo parlando è Chiga: una missione «giovane» (appena 10 anni di vita), che fa parte dell’archidiocesi di Kisumu, città sulle sponde del lago Vittoria, la terza del Kenya in popolazione, commercio e industria.
Chiga è una delle quattro parrocchie legate alla cattedrale di Santa Teresa e si estende su un’area lunga 22 km e larga 15, con una popolazione di circa 80 mila persone, distribuite su una superficie di 330 kmq. La missione comprende 26 villaggi, ciascuno dei quali ha la scuola elementare (spesso molto povera), una chiesetta di frasche, paglia, fango e un «centro di salute», dove un infermiere governativo arriva ogni tanto a distribuire medicinali.
Delle 26 scuole, 16 sono sponsorizzate dall’archidiocesi e offrono il loro servizio a circa 8 mila alunni, suddivisi negli otto anni dell’obbligo. Ma ogni scolaro deve pagare una retta; per cui soltanto il 70% di loro può permettersi di frequentare la scuola. Vi sono anche quattro scuole superiori, che danno la possibilità di completare gli studi e ottenere il diploma di licenza con cui accedere all’università.
Tutti i villaggi fanno capo alla parrocchia di Santa Maria, sede dei missionari. Qui, in questi ultimi tre anni, sono sorte importanti opere che toccano tutti i settori della vita sociale e che non avrebbero potuto vedere la luce se l’impegno di fratel Mario, nella costruzione di pozzi, non avesse permesso di far vivere oltre i limiti della pura sopravvivenza una terra difficile e singolare.
Singolare, perché la zona che circonda il lago Vittoria riceve acqua (e a volte anche in abbondanza); ma il terreno impermeabile non è in grado di accoglierla. Ecco quindi che, a mesi di grande siccità, si alternano periodi di vere e proprie inondazioni.
Vita, dunque, non facile quella dei luo, il popolo in mezzo al quale è sorta la missione di Chiga. Questa popolazione si è insediata da secoli sulle sponde orientali del lago Vittoria: vanta tradizioni di grande interesse, come la sacralità del matrimonio, il rispetto per l’anziano… valori che la nostra società modea, forse, si è affrettata a dimenticare (vedi inserto). Proprio qui sta il pericolo: che l’esasperata modeizzazione porti anche i luo a perdere la propria identità, adottando atteggiamenti e usi che non sono i loro.
Ma l’arcivescovo di Kisumu, Zacchaeus Okoth, è stato lungimirante: dopo aver esortato, nel 1992, i missionari della Consolata ad assumere la responsabilità della parrocchia, ha accolto con entusiasmo la loro proposta: nel 1995 ha sostituito il parroco, l’italiano Luigi Bruno, con un luo, Matthew Ouma, attualmente coadiuvato da un viceparroco, pure luo, John Wao Onyango.
Nessuno meglio di padre Matthew è in grado di coniugare gli aspetti positivi del mondo moderno con la preziosa tradizione del suo popolo. Ed è proprio questo che sta facendo, impegnandosi ad aiutare la sua gente a non dimenticare il significativo cerimoniale nella celebrazione dei matrimoni, cerimoniale che invece i luo (purtroppo attratti dall’aspetto omologato del matrimonio all’europea) tendono a trascurare.
Padre Matthew li guida con discrezione e intelligenza, cercando di evidenziare il lato negativo di un comportamento troppo lontano dalle loro tradizioni e troppo vicino al consumismo, capace di spazzare via decenni di consuetudini e valori.
Anche presso i luo il denaro e la concezione di una posizione sociale, che si conquista più con l’apparenza che con la sostanza, cominciano a mietere molte vittime: la prova più evidente la si riscontra in occasione del funerale, quando la famiglia del defunto arriva a indebitarsi pesantemente pur di offrire ai partecipanti un banchetto tanto indimenticabile quanto costosissimo.
I due sacerdoti sono costantemente impegnati su questo fronte, che ritengono di loro stretta competenza; mentre un gran numero di iniziative le lasciano invece ai vari comitati parrocchiali: liturgico, pastorale, pubblica istruzione, consiglio dei giovani, comunità di base…
I parrocchiani, giovani e vecchi, sono coinvolti e tutti sono fieri di appartenere a un gruppo nel quale, attraverso riunioni settimanali o quindicinali, organizzano le più svariate attività. Vi sono poi 76 piccole comunità di base che funzionano con tanto di presidente, consiglio e segretario: si radunano ogni settimana per pregare e preparare i sacramenti. Questi gruppi funzionano indipendentemente dalla presenza del parroco, che (al massimo) può essere invitato a esprimere la sua opinione.
Se i fedeli non fossero responsabilizzati e non si gestissero autonomamente, sarebbe troppo arduo il compito di padre Matthew. Questi già spende gran parte delle sue energie per cornordinare il tutto e visitare settimanalmente i centri disseminati sul vasto territorio parrocchiale.
FANTASIA DI OPERE
Sono proprio questi centri ad avere beneficiato della capacità tecnica di fratel Mario Beardi. Il missionario è riuscito, in ciascuno di essi, a scavare un pozzo e installare una pompa a mano; oppure, dove c’è energia elettrica, una pompa che spinge l’acqua in una cisterna da cui la gente può attingere.
A noi (abituati ad aprire il rubinetto d’acqua) può sembrare poca cosa; ma, per la gente di Chiga, si tratta di un bene preziosissimo: anche se non è sufficiente per tutti gli usi, soprattutto agricoli, l’acqua del pozzo almeno disseta e allontana le malattie.
L’acqua piovana non è mai potabile, poiché ristagna nelle crepe che si sono aperte durante il periodo di siccità e forma pericolose pozzanghere che richiamano zanzare, portatrici di malaria. I primi ad essee colpiti sono bambini e anziani, ma tutta la popolazione è a rischio per colera o dissenteria, malattie spesso mortali.
La costruzione dei pozzi è la dimostrazione di come sia indispensabile, prima di avviare un processo di evangelizzazione, offrire alla gente la possibilità di sopravvivere dignitosamente. Solo così la missione diventa un centro di promozione dello sviluppo, dove la popolazione, nonostante malattie, carestie o epidemie, cresce e trova nella comunità cristiana un punto di riferimento; non solo per ricevere assistenza spirituale, ma anche per essere soggetto di sviluppo umano e progresso sociale.
Il pozzo non è certamente l’unica «trovata». C’è anche l’«Istituto tecnico magistrale della Consolata» (Cttc), con candidati scelti tra gli studenti che terminano l’ottavo anno della scuola d’obbligo. Qui fratel Mario Beardi esplica tutte le sue capacità: oltre a dirigere la scuola, sovrintende ai vari corsi di falegnameria, meccanica, elettricità e sartoria, aperti a ragazzi e ragazze, tenuti unicamente da maestri locali. Inutile sottolineare la grande importanza del Cttc, che ha il delicato compito di permettere ai giovani di mantenere la loro identità, attraverso la possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro.
Non lontano dall’Istituto tecnico, sorge la «Piccola Casa», dove sono raccolti bambini poliomielitici. È un’opera caritativa che, sostenuta da benefattori italiani, si propone di seguire i bambini più gravi, abbandonati spesso dai genitori, vittime di tabù ed ignoranza dei parenti. Spesso questi bambini si trovano soli, in quanto le malattie e l’Aids li hanno privati dei genitori.
Essendo la percentuale degli orfani molto alta (15%), la parentela non sempre è in grado di assorbirli completamente. Ecco, allora, che per loro si apre la porta della «Casa degli orfani», dove hanno la possibilità di frequentare la scuola, cominciando dall’asilo nido. Questo è dedicato a Luca Delfino, un giovane cuneese, morto tragicamente all’età di 21 anni.
Ancora una volta un forte legame unisce il Piemonte all’Africa, grazie ad una mamma che, invece di chiudersi nel suo dolore, ha voluto offrire a tanti bimbi la possibilità di crescere, come era cresciuto il suo Luca. L’antica conoscenza tra mamma Lucia e fratel Mario è stata l’occasione per far nascere questa importante opera, punto di partenza dello sviluppo sociale di Chiga. L’asilo è guidato dalle suore della Beata Vergine e accoglie bambini di quattro anni, che in un biennio si preparano alla scuola dell’obbligo.
Di grande importanza sociale è pure la «Casa delle vedove», dove sono ospitate alcune donne. Queste, se non avessero un luogo in cui rifugiarsi, sarebbero costrette a sottostare al fratello del marito defunto in condizione di semischiavitù, private della possibilità di decidere autonomamente del loro futuro.
Recentemente è sorto, accanto alla bella e ampia chiesa, il Centro pastorale, ove si radunano catechisti e maestri cattolici. Questo è il «cuore apostolico» della missione: qui si svolgono incontri, seminari e conferenze; qui hanno sede i diversi gruppi caritativi, il catecumenato e l’assistenza agli orfani e alle vedove.
Vi è, infine, il «Centro sociale per la gioventù e lo sviluppo», nel quale i giovani organizzano feste, convegni e iniziative varie. Un’idea «invidiata» da altre parrocchie.

L a missione di Chiga ha compiuto passi da gigante. Con il contributo di generosi benefattori, si è avviata verso un futuro meno… grigio.
Ora rimane aperta una sfida: saprà il popolo luo fare tesoro di queste realizzazioni e valorizzarle anche in seguito? Saprà mantenere il senso di responsabilità e comunione anche quando i missionari, terminato il loro compito di «seminatori», se ne andranno?
È questo, per ogni missionario, il compito più difficile: evitare di fare perennemente da stampella, bensì educare all’autogestione responsabile. Solo così i soggetti, pur tra errori e difficoltà, impareranno a camminare con le proprie gambe.
I padri Matthew, John e fratel Mario continuano a seminare, mantenendo quel prezioso legame di fratellanza e solidarietà tra il popolo italiano e quello luo, ben sapendo che il futuro dell’Africa dovrà restare nelle mani degli africani. Lavorando, affinché questi imparino a riconoscere il bene con umiltà, riceverlo con dignità e restituirlo con altrettanta generosità.

Teresa de Martino




Il dio dei desideri – La chiesa in Asia

Il vangelo ha varcato pure i palazzi imperiali di Cambalùc, cioè Pechino.
Non solo, ma ha raggiunto tutti i paesi dell’Asia. Con grandi difficoltà, numerosi errori e scarsi risultati.
La chiesa in Asia riafferma la scelta dell’uomo, soprattutto se povero,affidandosi alla forza e intuizione
dello Spirito, che soffia come, dove e quando vuole.

UNO SGUARDO AL PASSATO

La storia della chiesa in Asia è antica quanto la chiesa stessa. Infatti è in terra d’Asia che Gesù donò lo Spirito Santo ai suoi discepoli e li inviò sino ai confini della terra, perché proclamassero il vangelo e riunissero le comunità di credenti. «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi» (Gv 20, 21). Seguendo il comando del Signore, gli apostoli predicarono ovunque la Parola.
Da Gerusalemme la chiesa si diffuse ad Antiochia, a Roma e oltre, raggiungendo l’Etiopia a sud, la Russia a nord e l’India a est, dove, secondo la tradizione, san Tommaso apostolo giunse nel 52 d.C.
Straordinario fu lo spirito missionario, nel III e IV secolo, della comunità siriana dell’est, avente come centro Edessa. Le comunità ascetiche della Siria rappresentarono una forza fondamentale dell’evangelizzazione in Asia dal III secolo in poi, e foirono l’energia spirituale della chiesa, specialmente durante i tempi di persecuzione. L’Armenia fu la prima nazione ad abbracciare il cristianesimo: essa si sta ora preparando a celebrare il 1700° anniversario del suo battesimo.
Alla fine del V secolo il messaggio cristiano aveva raggiunto i regni arabi, ma per molte ragioni (incluse le divisioni tra i cristiani) non si radicò fra questi popoli.
Mercanti persiani portarono il vangelo in Cina nel V secolo, e la prima chiesa cristiana fu costruita all’inizio del VII secolo. Durante la dinastia t’ang (618-907 d.C.) la chiesa fiorì per circa due secoli. Il declino della vivace chiesa in Cina, alla fine del primo millennio, è uno dei capitoli più tristi nella storia del popolo di Dio nel continente asiatico.
Nel XII secolo la «buona notizia» fu annunciata ai mongoli, ai turchi e, ancora una volta, ai cinesi. Ma il cristianesimo quasi scomparve per diverse cause: l’insorgere dell’islam, l’isolamento geografico, l’assenza di un adattamento alle culture locali e, soprattutto (forse), la mancanza di preparazione ad incontrare le grandi religioni dell’Asia.
Alla fine del XIV secolo si verificò un drammatico ridimensionamento della chiesa in Asia, eccetto nell’India del sud. La chiesa doveva attendere una nuova era missionaria. Le fatiche apostoliche di san Francesco Saverio, la nascita della congregazione di Propaganda Fide e le direttive ai missionari di rispettare e apprezzare le culture locali produssero, nel XVI e XVII secolo, risultati più positivi.
Nel secolo XIX vi fu un risveglio dell’attività missionaria e varie congregazioni religiose si dedicarono a tale compito. Fu riorganizzata Propaganda Fide; fu posto un maggiore accento sull’edificazione delle chiese locali; attività educative e caritative andarono di pari passo con la predicazione del vangelo. La «buona notizia» continuò così a raggiungere un più vasto numero di persone, specialmente tra i poveri e gli svantaggiati, ma anche tra élites sociali e intellettuali. Furono effettuati nuovi tentativi di inculturazione del vangelo, anche se non si rivelarono sufficienti.
Nonostante una plurisecolare presenza e i numerosi sforzi, la chiesa in Asia era considerata straniera e, spesso, associata alle potenze coloniali.
L’IMPULSO DEL vaticano II
Questa era la situazione alla vigilia del Concilio ecumenico Vaticano II. Grazie, tuttavia, all’impulso che esso foì, la chiesa maturò una nuova comprensione della propria missione. E si accese una grande speranza.
L’universalità del piano salvifico di Dio, la natura missionaria della chiesa e la conseguente responsabilità di ogni cristiano costituirono il quadro di riferimento di un impegno rinnovato.
Pur tra difficoltà, oggi la chiesa in Asia è inserita fra popoli che dimostrano un intenso desiderio di Dio e sa che tale desiderio può essere pienamente soddisfatto da Gesù Cristo, parola di Dio per tutte le nazioni. I padri del Sinodo per l’Asia hanno auspicato che si focalizzasse questo aspetto e si incoraggiasse la chiesa a proclamare con vigore, in parole e opere, che Gesù Cristo è il salvatore.
Lo spirito di Dio, sempre all’opera nella storia della chiesa in Asia, continua a guidarla. I tanti elementi positivi delle chiese locali rafforzano la speranza di una «nuova primavera di vita cristiana».
Solida ragione di speranza è l’incremento di laici maggiormente formati ed entusiasti, più coscienti della propria vocazione nella comunità ecclesiale. Fra questi va reso omaggio ai catechisti. Inoltre i movimenti apostolici e carismatici sono un dono dello spirito, poiché infondono nuovo vigore nella formazione delle famiglie e della gioventù.
Infine le associazioni ecclesiali, che si impegnano nella promozione della dignità umana e della giustizia, rendono tangibile l’universalità del messaggio evangelico della comune adozione a figli di Dio (Cfr. Rm 8, 15-16).
SETE DI «ACQUA VIVA»
In Asia continua il dialogo d’amore tra Dio e l’uomo, preparato dallo Spirito Santo e realizzatosi nel mistero di Cristo. In questo i vescovi, i sacerdoti, i consacrati e i laici hanno un ruolo essenziale da svolgere, memori delle parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo e mi sarete testimoni a Gerusalemme… fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8).
La chiesa è convinta che nel cuore degli uomini, delle culture e religioni dell’Asia vi sia sete di «acqua viva» (Cfr. Gv 4, 10-15), che lo Spirito stesso suscita e che solo Gesù salvatore potrà pienamente saziare.
Guidata dallo Spirito nella missione di servizio e amore, la chiesa può offrire un incontro fra Gesù Cristo e i popoli alla ricerca della pienezza della vita. Solo in tale incontro può essere trovata l’«acqua viva», cioè la conoscenza dell’unico vero Dio e del suo inviato, Gesù Cristo.
Nelle complesse realtà dell’Asia, la chiesa sa di dover disceere la chiamata dello Spirito a testimoniare Gesù salvatore in modi nuovi ed efficaci. La piena verità di Gesù e della salvezza, da Lui ottenuta per noi, è sempre un dono e mai il risultato di uno sforzo umano. «Lo Spirito ci attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Rm 8, 16-17).
Perciò la chiesa grida incessantemente: «Vieni, Santo Spirito! Invadi i cuori dei tuoi fedeli e accendi il fuoco del tuo amore!».
Con tale sentimento, i padri del Sinodo hanno individuato le principali sfide missionarie che la chiesa deve affrontare in Asia, mentre varca la soglia del terzo millennio.
L’UOMO SOPRATTUTTO
Gli uomini e le donne, non la ricchezza o la tecnologia, sono gli agenti primari e i destinatari dello sviluppo.
Pertanto il progresso che la chiesa promuove va al di là delle questioni economiche: inizia e termina con l’integrità della persona, creata ad immagine di Dio e dotata di dignità e diritti inalienabili.
Le diverse dichiarazioni inteazionali sui diritti umani e le molte iniziative da esse ispirate sono segno di una crescente attenzione a livello mondiale alla dignità della persona. Spesso, però, tali dichiarazioni sono violate nella pratica. A 50 anni dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, molte persone sono ancora soggette a degradanti forme di sfruttamento e manipolazione, che le riducono a vere schiavitù in balìa dei più potenti, di ideologie, del potere economico, di sistemi oppressivi, della tecnocrazia scientifica o dell’invadenza dei mass media.
I padri del Sinodo sono apparsi ben coscienti della violazione dei diritti umani in tante parti del mondo; in modo particolare in Asia, dove decine di milioni di persone soffrono discriminazione, sfruttamento e povertà. Essi hanno espresso la necessità che tutto il popolo di Dio giunga alla consapevolezza della sfida inevitabile e irrinunciabile, connessa con la difesa dei diritti umani e la promozione della giustizia e della pace.
preferenza per i poveri
Nella ricerca della promozione della dignità umana, la chiesa dimostra un amore preferenziale per i poveri e senza-voce, perché il Signore si è identificato con loro in modo speciale (Cfr. Mt 25, 40). Tale amore non esclude alcuno, ma incarna una priorità di servizio testimoniata dalla tradizione cristiana.
È una caritas che abbraccia folle di affamati, mendicanti, senzatetto, privi di assistenza medica e, soprattutto, senza speranza di un futuro migliore: non si può non prendere atto di tali realtà. L’ignorarle significherebbe assimilarci al ricco epulone, che fingeva di non conoscere Lazzaro, il mendico fuori della sua porta (Cfr. Lc 16, 19-31).
Ciò è particolarmente vero in Asia, continente con abbondanti risorse e grandi civiltà, ma dove si possono trovare nazioni misere e dove oltre la metà della popolazione soffre privazioni e sfruttamento.
I poveri trovano le migliori ragioni di speranza nel comandamento di amarsi «come Cristo ci ha amati». Ma la chiesa non può non sforzarsi di adempiere, in parole e opere, il comando del Signore nei confronti dei bisognosi.
la globalizzazione
I padri del Sinodo hanno riconosciuto l’importanza della globalizzazione economica nel considerare la promozione umana in Asia.
Pur riconoscendo gli aspetti positivi della globalizzazione, hanno anche rilevato che essa si è risolta a svantaggio dei poveri per l’intrinseca tendenza a spingere le nazioni più deboli ai margini dei rapporti inteazionali di carattere economico e politico. Molti paesi asiatici non sono in grado di inserirsi in una economia globale di mercato.
Forse ancora più significativa è la globalizzazione culturale, oggi possibile con i mezzi di comunicazione: essa sta rapidamente attirando le società asiatiche in una cultura consumistica e materialistica. Ne risulta l’erosione della famiglia tradizionale e dei valori sociali che finora hanno sostenuto popoli e società.
Tutto questo rende evidente che gli aspetti etici e morali della globalizzazione devono essere affrontati dai capi delle nazioni e dalle organizzazioni coinvolte nella promozione umana.
La chiesa insiste sulla necessità di una globalizzazione senza marginalizzazione. I padri del Sinodo hanno invitato tutte le chiese, specialmente quelle dell’occidente, a far sì che la dottrina sociale della chiesa abbia il dovuto impatto nella formulazione delle norme etiche e giuridiche che regolano il mercato mondiale e i mezzi di comunicazione sociale. I leader e professionisti cattolici dovrebbero spronare le istituzioni governative e inteazionali della finanza e del commercio a rispettare tali norme.
L’antico Israele insisteva sull’inscindibile legame tra l’adorazione di Dio e la cura del debole, rappresentato da vedove, stranieri, orfani (Cfr. Es 22, 21-22): le categorie più esposte alla minaccia dell’ingiustizia. Negli ammonimenti dei padri sinodali si odono i profeti biblici: Dio vuole «l’amore e non il sacrificio». E Gesù fece sue tali parole (Cfr. Mt 9, 13).
L’appello del Sinodo per lo sviluppo e la giustizia è nello stesso tempo antico e nuovo: è antico, perché sorge dalle profondità della tradizione cristiana; è nuovo, perché tocca la situazione di moltissime persone oggi.
IL CORO DEI TESTIMONI
I programmi di formazione e le strategie sono fondamentali nella missione. Ma, alla resa dei conti, è il martirio che rivela l’essenza profonda del messaggio cristiano. La parola «martire» significa testimone, e quanti hanno sparso il proprio sangue per Cristo hanno dato la testimonianza estrema all’autentico valore del vangelo.
Nella bolla di indizione del giubileo del 2000, Incaationis mysterium, il papa scrive: «Dal punto di vista psicologico, il martirio è la prova più eloquente della verità della fede, che sa dare un volto umano anche alla più violenta delle morti e manifesta la sua bellezza anche nelle più atroci persecuzioni».
L’Asia, lungo i secoli, ha dato alla chiesa e al mondo un grande numero di martiri della fede. Da tanti angoli del continente si innalza il canto: Te martyrum candidatus laudat exercitus (Ti loda la candida schiera dei martiri). È questo il grido giornioso di quanti sono morti per Cristo nei primi secoli, come pure nei tempi recenti: Paolo Miki, Lorenzo Ruiz, Andrea Dung Lac, Andrea Kim Taegôn e tutti i loro compagni.
Come i «testimoni» di ieri, i cristiani d’oggi sono chiamati a proclamare, sempre e ovunque, niente altro che la potenza della croce del Signore.

Francesco Beardi




ETIOPIA – Crescere da rifugiati

Vivere in un campo-profughi è un’esperienza drammatica.
Ma per i bambini, cresciuti nella precarietà, c’è sempre
un modo per divertirsi. Dopo una guerra durata 30 anni,
oggi le relazioni tra Etiopia ed Eritrea sono tornate
molto tese. E i rifugiati rischiano di aumentare.

In Etiopia, la casa procura dei missionari della Consolata si trova a Makanissa, una zona della periferia sud di Addis Abeba. Questa parte della città era stata assegnata, ai tempi del negus Hailé Selassié, agli handicappati e ai lebbrosi. Ora ci vivono anche (e sono dunque nostri vicini di casa) alcune migliaia di rifugiati, provenienti da Asmara (Eritrea).
Sono i profughi della guerra d’indipendenza dell’Eritrea, che durò ben 30 anni (finì nel 1991). Arrivarono qui nel 1992 e fu loro assegnata un’area non abitata alla periferia di Addis Abeba.

L e tende delle Nazioni Unite, a poco a poco, si sono trasformate in abitazioni stabili. Insomma, la tenda fa da «casa». L’acqua viene distribuita da un serbatornio per due-tre ore al giorno e, ovviamente, c’è sempre una coda di gente per avere questo elemento così prezioso.
Quando l’acqua manca del tutto si rivolgono alla missione. Allora si fa scorrere un tubo di plastica oltre il muro di cinta del seminario e lo si collega alla pompa elettrica e al pozzo. Si chiama anche un guardiano a distribuire l’acqua e mantenere l’ordine.
Sia le famiglie che i bambini parlano correntemente due lingue, il tigrigna (lingua dell’Eritrea e del Tigrai, che i piccoli imparano dalle mamme) e l’amarico imparato dai papà, ex militari dell’esercito di Menghistu.
La condizione di essere tutti rifugiati non elimina certo i problemi «etnici». Al primo campo di Makanissa prevalevano le famiglie di lingua tigrigna, rari gli amara, oromo e sidamo. Un altro campo rifugiati a nord-est di Addis Abeba aveva invece diverse etnie. La vita là non era facile. Ci furono grossi bisticci, tanto che alla fine un numero di rifugiati fu trasferito a Makanissa; si formò così un secondo campo, in pratica la continuazione del primo, ma in condizioni più precarie, con spazio più ristretto, attaccato alla strada, e abitazioni più piccole.
Conoscere i rifugiati è stata per me una nuova esperienza. I bambini rifugiati sono quelli che danno vita al quartiere: giocano, gridano, corrono ai bordi della strada, un po’ come si vede nelle campagna. Fanno giochi tipo «la settimana» o «palla prigioniera», molto simili a quelli che giocavamo noi in Italia. La palla è sempre una vecchia calza o un sacco di plastica legato e riempito di stracci.
Diversi vengono all’oratorio di sabato e domenica. Se non hanno il tesserino di riconoscimento richiesto per entrare (sono state emesse più di mille «cards») o perché l’hanno perso o perché è caduto nell’acqua (!) o non l’hanno mai avuto, cercano di passarselo l’un l’altro da sotto il cancello, tanto il guardiano non vede…

I bambini rifugiati ti invitano sempre a visitare le loro «case». Luàm e Nebiàt, due sorelline di nove e undici anni, sono un po’ speciali a voler condurre tutte le persone importanti alla loro tenda. Sovente senti Luàm raccontare che quell’ospite straniero (che parlava solo poche parole d’inglese) o quell’abba (padre) nuovo arrivato (che non sapeva una parola di amarico) sono stati a visitare la sua capanna. La mamma prepara per gli ospiti il tradizionale caffè e talvolta i pop-co, arrostiti su una piastra di ferro; il combustibile sono rametti e foglie secche raccattati all’intorno.
Un giorno di festa, in cui ero stato invitato per il caffè, mi ero avviato verso casa, e Nebiàt venne ad accompagnarmi. Non è facile trovare la strada in mezzo al campo rifugiati. Il villaggio è diventato una micro-città con strade strettissime dei sentirnerini), che girano e si intersecano in tutte le direzioni in mezzo alle case e casette (le ex tende).
Avevamo appena girato attorno alle prime capanne, che a Nebiàt venne in mente di farmi uno scherzo: «Addio brother, io debbo tornare a casa ad aiutare la mamma». Il significato – lo capii subito – era che io mi sentissi disorientato, e trovandomi in mezzo a quel labirinto di viuzze, avrei dovuto certamente chiederle aiuto per farmi accompagnare all’uscita del campo, che tra l’altro è anche in parte cintato col filo spinato. Io però non mi spaventai: «Va bene, grazie. Io giro a destra, poi ancora a destra attorno alla capanna diroccata, poi seguo il sentirnero che va zigzagando fino alla strada principale, dove non avrò difficoltà a orientarmi. Ciao» (ciao si usa anche in Etiopia). Fra me e me pensai: qui nel campo non ci sono ladri e malintenzionati; forse avrei più paura in certe zone della città…
I bambini rifugiati provano una certa fierezza a fare da guida ad un forengi (straniero) in mezzo al loro complicato villaggio. Unico avvertimento per il visitatore: stare attento a non picchiare la testa contro i pali sporgenti dai tetti, dato che le case sono molto basse.
I bambini del campo-profughi non sono oziosi: in maggioranza frequentano la scuola elementare di Makanissa. C’è chi si industria comprando e vendendo aranci o cipolle ai bordi della strada per pochi centesimi. Ibrahim, Motekù e Samuel fanno i lustrascarpe agli incroci delle vie principali e ai capolinea dei bus. Quello del lustrascarpe è un mestiere molto diffuso tra i bambini di strada di Addis Abeba. Bisogna dire che fanno bene e da competenti il loro lavoro, veloci e con una tecnica tutta particolare. Anche la gente benestante, impiegati e funzionari, si fanno lucidare le scarpe da loro.

Un giorno vedo passare, veloci tra una capanna e l’altra, dei bambini con dei grandi vassoi. Gridano: «Komidore, komidore». Guardo cosa c’è nei vassoi e vedo dei bei «pomidori». Mi pareva che ciò che sentivo gridare avesse un suono familiare!
Parole italiane sono entrate nel loro linguaggio. Infatti vengono da Asmara, città italiana per tanti anni. Esempi: «koporta» per «coperta»; «fornello», «fuo» o «bani» per «pane». Anche alcuni nomi di persona: «Rosa» e «Fiori» (l’equivalente amarico è Abeba. Addis Abeba significa «Nuovo Fiore»).
Questa sera dalla casa regionale ho sentito gridare sulla strada: «Fiori! Fiori!». Sono loro che giocano, e una bambina si chiama appunto «Fiori».

Si vedono tra i rifugiati anche atti di generosità. Bzuayehu vive nel campo e ha il papà con un lavoro fisso. Ma potrebbe la sua famiglia permettersi un esoso affitto per una casa fuori dal campo? Poco migliore poi dell’abitazione presente? Bzuayehu parla poco, è molto intelligente e va bene a scuola. È compagna di Nebiàt. Tra gli scolari del campo è l’unica a portare i libri in uno zainetto moderno, come usano oggi gli studenti più fortunati.
Un giorno vedo Nebiàt tornare da scuola con uno zainetto per i libri. «Dove l’hai trovato?». Mi sembra impossibile che la sua famiglia l’abbia comprato: costa più di 100 birr, un lusso.
«Me l’ha regalato Bzuayehu, suo fratello ne ha portato uno da Dire Dawa». Dire Dawa è una città nell’est dell’Etiopia, dove arrivano dal mare molte mercanzie a prezzi ribassati. «Bzuayehu aveva già uno zainetto. Allora ha dato l’altro a me».

Vincenzo Clerici




CAMBOGIA – Se mine e aids scomparissero

Un futuro già compromesso?
Si muore di diarrea o di Aids. O per lo scoppio
di una mina. Ma la Cambogia non è solo questo:
è anche natura esuberante, frutti succosi,
fiori profumati, sorrisi disarmanti.
Ricordo di un paese dove violenza e dolcezza
convivono fianco a fianco.

M olte sono le immagini che hanno rappresentato la Cambogia in articoli, saggi, libri. Immagini quasi sempre drammatiche: campi disseminati di ossa e teschi, bande di guerriglieri con lanciagranate in spalla, terreni minati, vittime delle mine per le vie di Phnom Penh o nei villaggi di campagna. Tutte cose assolutamente vere e realistiche, ma non sufficienti a raccontare la Cambogia.

I n questo strano paese gli estremi si mescolano in un solo ricordo. E così, accanto ai drammi di una popolazione violata, si aggiungono immagini di volti dolcemente sorridenti e, accanto a immagini di corpi in fin di vita per l’Aids, quelle delle danze aggraziate apsara. Ricordo molto di più la dignità che la disperazione, negli animi delle persone con le quali ho lavorato e vissuto per oltre un anno.
È incredibile come qui convivano due anime: quella della violenza e quella della disarmante dolcezza. Ad esempio, per le vie di Phnom Penh, trasudanti caldo e polvere, durante il giorno era evidente l’aspetto sofferente della città: cupe abitazioni, giungla di fili elettrici abusivi, amputati e poveri medicanti a popolare i bordi di strade inesistenti, la povertà evidente dei piccoli mercati. Ma la sera, lungo il Tonle Sap o intorno al Wat Phnom, centinaia di famigliole, sedute su stuoie nei prati e sul lungofiume, gustavano uova sode o pesce affumicato, in un quadro di bei colori ed armonia. E nelle province, nei remoti villaggi, dove miseria e malattie dettano le regole di una stentata sopravvivenza, non mancano i fiori davanti alle case in legno e bambù, né vengono risparmiati sorrisi al visitatore.
Né posso dimenticare lo splendore di una natura esuberante, di frutti succosi (non ricordo di aver conosciuto altri posti con tale varietà di frutti), fiori profumati (il frangipane la sera, o dopo la pioggia, diffonde a tutta la città il suo profumo) e fiori colorati (i flamboyantes che adoano i viali della capitale come i sentirneri dei villaggi). In questo splendore tutto a volte assume un aspetto solenne e celebrativo, soprattutto quando i mille colori del tramonto tingono meravigliosamente fiume e risaie.

D ella Cambogia ricordo lo splendore dei tetti oro e smeraldo del palazzo reale, i luminosi viali di Phnom Penh, i mille tetti delle innumerevoli pagode che appaiono ovunque, le colorate cerimonie con i solenni bonzi dal cranio rasato e le tuniche arancio, il delizioso pesce-elefante pescato nel Mekong e servito con profumate salse al mango verde.
E come non collegare il ricordo della Cambogia al mistero e al fascino di Angkor Wat, il cuore del paese, che merita da solo un viaggio in Indocina. Cammini per ore nella giungla soffocante, tra templi ricamati, imponenti colonnati, i quattro volti di Bayon, fino a raggiungere un’immagine che toglie il respiro: l’enorme complesso di Angkor, memoria storica e intima del popolo khmer.
Nonostante questo, chi è stato in Cambogia non da turista non può evitare di sentirsi come in un immenso sacrario, dove le sofferenze inaudite di un popolo hanno innaffiato di sangue gran parte della attuale vegetazione. Per fortuna, questo pesantissimo ricordo è vissuto dai khmer con discrezione, quasi come una vergogna da coprire.

P er me e la mia famiglia è stato come conoscere i sopravvissuti di Auschwitz, vittime dell’ennesimo olocausto.
Avrei avuto voglia di interrogarli, ascoltare i loro racconti, le loro vite difficili da immaginare. Ma loro discreti scivolavano sul passato, fino a quando, magari passeggiando alla sera, ti raccontavano come una storia qualsiasi di quando videro massacrare a bastonate i loro cari, in quel delirio che erano i «campi di rieducazione» o, con minor eufemismo, i «killing fields», i campi dell’uccisione.
Ancora oggi i cambogiani sono un popolo costretto a subire violenze quotidiane: una corruzione senza vergogna, l’arroganza illimitata di chi detiene il potere (magari conferito dai proventi di traffici illeciti), fino al drammatico disboscamento che sta minacciando l’equilibrio ecologico del paese. Come se ciò non bastasse, c’è la piaga dell’Aids, che trova nella capillare rete di prostituzione e bordelli l’ideale terreno di coltura per una crescita esponenziale, proprio lì dove i farmaci per curare l’infezione e le complicanze sono introvabili.
Si muore di Aids; si muore di diarrea nei lontani villaggi delle province di Ratanakiri o Stung Treng; si muore ancora su una mina a Anlong Veng o vicino Battambang. E la fabbrica delle protesi è forse l’unica industria dal roseo avvenire nel paese.
In Cambogia centinaia di Ong e agenzie di cooperazione si sono date appuntamento, forse con un esubero eccessivo e con finalità non sempre compatibili con un reale sviluppo del paese.

Oggi, nella mia mente, rivedo le persone che ci sorrisero, per rincuorarci nei momenti difficili, quando tutti avevamo paura, o per esprimere la loro fiducia nel nostro lavoro. Ecco, i mille sorrisi di quella gente costituiscono, per me e la mia famiglia, ricordi indelebili di un anno indimenticabile.

Carlo Urbani




CAMBOGIA – Finito l’incubo rimane la miseria

Una vita di pura sopravvivenza
Corruzione diffusa, prostituzione,
sfruttamento minorile, soldi di provenienza ambigua.
Nel paese asiatico il disordine sociale
ed economico regna sovrano.
Favorendo una esigua minoranza di cambogiani
e di compagnie straniere.

Il nonno di Tung era monaco buddista. A 25 anni lasciò il convento, si sposò ed ebbe 14 figli da 3 mogli. Il padre di Tung si chiama Vech Savey, (Vech vuol dire monaco). Nel 1974, durante il regime di Pol Pot, mentre serviva nell’aviazione cambogiana come paracadutista, venne a sapere delle purghe e delle deportazioni. Fu così che riuscì a portare in salvo la famiglia.
Lasciarono la casa di Siem Reap su di un carro trainato da buoi, carico di bambini, vecchi, riso e masserizie. Dovevano raggiungere le aree più remote del nord est, per mettersi in salvo. Durante il viaggio, che durò più di tre mesi, si nutrirono di quello che potevano cacciare con trappole, arco e frecce. Cinghiali, orsi, cervi, ma anche topi, lucertole, rane e serpenti. Tung allora era bambino, ora è un giovane fortunato, che ha potuto studiare un poco d’inglese a Phnom Phen, anche se per pochi mesi. La vita è cara, nella capitale, per un ragazzo di campagna.

La Cambogia ha molte ricchezze, che non sono solo minerali, pietre preziose, petrolio. Uno splendido passato ha lasciato templi affascinanti. Il complesso di Angkor, al centro di una zona fertile e ricca d’acqua, rappresentava il centro spirituale e temporale del regno khmer dal IX al XIV secolo. Dalla foresta tropicale emergono i grandiosi edifici sacri, costruiti idealmente intorno al mitico monte Meru, dimora degli dei nell’olimpo hindu. Avvolti da una densa vegetazione, sono circondati da bacini d’acqua che simboleggiano l’oceano. Rampicanti e liane filtrano la luce del giorno, creando effetti fantastici nei corridoi e nei cortili ingombri di pietre e fregi spezzati .
In questo contesto che affascina i visitatori (i quali oggi arrivano più numerosi di un tempo) si è organizzata una «corte dei miracoli», che fa urlare di sdegno. Hanno raccolto le mostruosità della guerra e dei campi minati per sfruttarle. Vittime di terribili amputazioni, storpi e ciechi con le orbite vuote e trafitte, vengono sistemati la mattina davanti ai sontuosi portici di pietra grigia, lungo i camminamenti che attraversano le vasche sacre, accanto agli splendidi, lugubri templi khmer. Uno spettacolo atroce, fatto per commuovere.
Fuori, seminascosti dai cespugli di bambù e dalle palme, ci sono loro, i banditi con le grosse moto. Controllano costantemente la raccolta di offerte e denaro, foendo di bibite, cartoline e sciarpe uno stuolo di bambini, che hanno il compito di avvicinare, circondare e intenerire i visitatori. Aspettano fino a sera, poi se li portano via, i loro schiavi, chi sa dove, fino al giorno dopo.
Poi ci sono i bambini in vendita. Li ho incontrati nei templi più remoti, quelli che sembrano lottare contro una natura troppo forte, che li abbraccia e li stritola. Ci aspettavano. Ci guardavano e ci seguivano, con occhi già vecchi, tra le pietre coperte di muschio. Sono i bambini che non vendono sciarpine colorate. Vendono se stessi. Li hanno anche intervistati, e chi ha visto alla televisione quel filmato e ha udito i racconti ingenui e precisi di cosa fanno con gli stranieri di passaggio, ne è rimasto sconvolto.

Piove molto in Cambogia, tutto l’anno. A volte sono scrosci fortissimi, che lasciano pozze d’acqua e di fango. A volte è una pioggia fine, leggera. L’umidità è forte. La terra è satura d’acqua, specialmente in autunno, quando il grande lago riceve le acque lontane del Mekong in piena e si allarga invadendo le campagne. Nella stagione secca si ritirerà, a un quinto della sua grandezza. Quello che era forse il bacino interno più ricco di pesce al mondo, che alimentava l’esportazione e dava cibo e proteine alla gente, ora sta morendo. In questi lunghi anni di guerra sono state gettate nelle acque del lago Tonle Sap armi chimiche e sostanze velenose. L’hanno fatto per annientare la popolazione?
Qui vivono anche molti vietnamiti. Sono stranieri, odiati, perché nemici da sempre. Non hanno diritto alla terra: quindi vivono sulle loro misere barche, dove coltivano ortaggi e cercano di allevare pesci in rudimentali gabbie di legno. La Cambogia è fertile e poco abitata, e loro sono rimasti dopo l’invasione.
Qui arrivano anche le ragazze, quelle più carine, reclutate nei villaggi vietnamiti. Sono loro le prostitute disponibili in tutti gli alberghi.
Alcuni dei progetti miliardari di alberghi si sono ridimensionati. I flussi turistici non sono ancora adeguatamente forti: restano le strutture di cemento vuote, nelle vie fangose. Una misera tendopoli, fatta di teli di plastica azzurra tirati da corde, è sorta accanto a un cantiere, unico riparo per decine di profughi. I pullman di turisti indifferenti e ciechi vi passano accanto, per poi fermarsi nel negozio di pietre preziose poco lontano. A causa delle condizioni disumane in cui vivono, i profughi sono vittime di Tbc, lebbra, Aids e altro. Vengono dal confine con la Tailandia, dove dicono che i ribelli khmer siano ancora attivi, dove in realtà si cerca di far sgombrare tutta la popolazione. Quelli sono i territori più ricchi di risorse, che devono venire sfruttate senza lasciare nulla al popolo.

Sono passati quasi 5 anni dalla mia prima visita. Sorita, una bella signora in costume tradizionale, era stata la mia guida. Ricordo che non aveva voluto entrare a Tuol Sleng, l’ex liceo trasformato dai khmer rossi nel centro di torture S-21 e oggi museo dove sono conservate le testimonianze delle torture e dei massacri perpetrati dal 1975 al ’79: il ricordo e il dolore erano troppo recenti.
Durante il regime di Pol Pot, Sorita perse 38 dei suoi familiari, intellettuali imparentati con la famiglia reale. Quando i khmer rossi ordinarono a tutta la popolazione della capitale di evacuare la città, la famiglia di Sorita fu deportata nelle campagne per i lavori forzati. A quei tempi, Phnom Penh era passata da 500 mila a quasi 2 milioni di abitanti, a causa dei profughi fuggiti dal Vietnam.
Centinaia di migliaia di persone furono buttate sulla strada, tutte insieme, con poche cose prelevate da casa all’ultimo momento. Fu un esodo lento e terribile, a piedi, nel fango, vecchi, donne e bambini. Chi si ribellava veniva ucciso. Chi non poteva dimostrare di avere origini umili veniva eliminato.
Sorita dovette lavorare giorno e notte nei campi sorvegliati dai khmer. Lei così miope senza gli occhiali, distrutti perché pericoloso segno di cultura. Poi venne il giorno delle «nozze» di gruppo. I giovani in età di matrimonio furono convocati e a ciascuno fu abbinato una compagna. Naturalmente ci fu anche il controllo, affinché l’unione fosse effettivamente consumata.
Sorita fu fortunata. Il giovane con cui fu accoppiata era un medico che aveva finto di essere meccanico di biciclette. Nacquero 3 figli che cementarono quell’unione con l’amore. Non tutti ebbero la stessa fortuna.

Già 5 anni fa mi avevano colpito i bambini. Ci guardavano silenziosi, assorti, senza un sorriso. Anche nella miseria, in tutto il mondo i bambini giocano, ridono e ti sorridono. Sono loro il futuro di un paese. Oggi i piccoli cambogiani sanno sorridere, ma in modo ambiguo. Tendono la mano, chiedono, sono già «corrotti». E tanto più poveri e disperati.
Allora la capitale Phnom Phen era percorsa da un frenetico attivismo commerciale e di ricostruzione, segno evidente della voglia di risorgere dalle macerie della guerra. Oggi per la maggior parte degli abitanti, arrivati dalle campagne in cerca di una vita migliore, la situazione è sempre la stessa: case fatiscenti, alveari di cemento che danno su vicoli fangosi. Allora si sperava, c’era da ricostruire un paese. Sapevo che anche i salesiani erano stati chiamati a dare una mano, per le scuole.
Ora il paese si presenta in uno stato di disordine morale, economico, sociale. Ci sono molti traffici, operatori stranieri che cercano di fare affari in un paese allo sbando, con un re vecchio e balordo, e un primo ministro (Hun Sen) coinvolto in scandali e corruzione. Una corruzione che impedisce lo sviluppo e il miglioramento delle condizioni di vita della gente.
L’albergo che ci ospita nella capitale, di proprietà straniera, è nuovissimo, di un lusso incredibile, ma vuoto. Si può contrattare il prezzo di una stanza, che risulta poi ben inferiore a quello di listino. Sono investimenti fatti con denaro di provenienza ambigua. Si parla dei signori della droga o di militari, che in questi paesi hanno le redini del potere.
La guerra è finita? Non credo. Ci sono altre battaglie che andrebbero combattute, ma qui chi comanda sono i banditi e la gente rimane sola, povera e ignorante. Da anni si dice che la Cambogia soccomberà un giorno, stretta tra due potenze aggressive: la forte Thailandia e il Vietnam, affamato di terra per i suoi 75 milioni di cittadini.

Claudia Caramanti




CAMBOGIA – I sopravissuti di Phnom Pehn

Un paese in lenta convalescenza

Vessati e massacrati dai «khmer» rossi
dal 1975 al 1979, i cambogiani stanno ancora rimarginando le profonde ferite.
Bisogna ricostruire il paese sotto ogni profilo.
La gloriosa civiltà di Angkor è una buona risorsa
per attirare visitatori stranieri, ma certo non basta…
Diario di un turista tra mendicanti e mutilati.

L a prima sensazione che si prova arrivando a Phnom Penh, capitale della Cambogia, è di vivere al rallentatore.
Il traffico automobilistico non è certo intenso e procede a bassa velocità. Analogamente il viavai, molto più sostenuto di moto e bici, si muove in una specie di ipnosi. Però non si tratta di pacatezza, ma di vera lentezza.
Il fatto è indice, forse, della «convalescenza» del paese, dopo qualche lustro di guerra civile culminata con il regime, durato quattro anni, dei khmer rossi… Oggi la nazione sta cercando di riprendersi, dopo la distruzione totale di ogni risorsa economica che non fosse la vanga e la zappa.
LA grande follia OMICIDA
I khmer rossi, dopo aver preso il potere il 17 aprile 1975, costrinsero i cambogiani a vivere in campi di lavoro, dove faticavano anche 14-18 ore al giorno con una scodella di riso e acqua.
I crudeli padroni uccisero e torturarono sistematicamente gente innocente, cercarono di distruggere il passato, compresa la religione buddista, trucidando ogni persona che avesse un titolo di studio o anche solo una competenza professionale, per rifondare una società basata sull’oblio della tradizione e su attività puramente agricole esercitate in modo arcaico.
Non si può, oggi, parlare della Cambogia senza iniziare da questa allucinata esperienza, che causò circa 1 milione e 700 mila cittadini uccisi da malattie e fame, oppure trucidati per lo più a randellate. Fu un incubo, in cui i bambini dovevano lavorare come adulti, e gli adulti erano mortificati come bambini.
I figli giovani, selezionati e sottoposti al lavaggio del cervello in campi di rieducazione, venivano poi inseriti nella «milizia nazionale» per spiare gli adulti, compresi i genitori; erano impiegati come soldati anche per eseguire omicidi. Tutti, comunque, venivano trattati da bestie, che però erano meglio nutrite.
Il nucleo familiare fu oggetto di distruzione da parte dei khmer rossi. Sotto il loro governo, diretto da Pol Pot, la stessa parola «famiglia» ha perso il suo significato autentico e originale, assumendo quello riduttivo di «sposa».
I khmer combinavano pure i matrimoni, soddisfacendo (fra l’altro) le brame dei dirigenti del partito verso le ragazze più belle. Però i figli venivano sottratti immediatamente alla cura delle madri e affidati a enti dello stato.
Il regime si concluse nel 1979.
FRA MUTILATI E MENDICANTI
Il dolce panorama delle campagne nell’area centrale del paese e la sorprendente ricchezza dei monumenti storici dell’antica civiltà khmer passano in secondo piano, osservando la miseria della popolazione e il numero impressionante di mendicanti spesso mutilati. Non si può distogliere lo sguardo da centinaia e centinaia di bambini che si industriano a raggranellare qualche soldo durante la giornata.
In ogni angolo si è circondati da schiere di adulti, che vendono bibite fresche, prodotti artigianali, raccolte di fotografie dei monumenti o rotoli di film per macchina fotografica. Però non c’è insistenza; basta dire «no, grazie», perché il venditore si ritiri e tenti la sorte presso un altro passante.
Il caldo è elevato e la traspirazione è tale da inzuppare anche i leggeri abiti estivi. Questo, oltre a favorire un’imponente vendita di bibite (tutt’altro che a buon prezzo), genera anche gesti simpatici da parte specialmente di bambine: ti si avvicinano con lo sguardo di chi teme una possibile reazione di fastidio e provano a farti vento con il classico ventaglio di fibra vegetale, a forma di cuore, comune anche in Thailandia. Lo fanno per avere una mancia, ma generano un problema nell’utente del servizio, che non dovrebbe fare preferenze di fronte a tantissime offerte. Problema penoso, la cui soluzione finisce sempre per deludere le molte offerenti.
Una bambina, di circa sei anni, mi si è avvicinata per vendere qualcosa. Ma io le ho chiesto di fotografarla, in cambio di una mancia: ha accettato con una riverenza, come fanno le piccole in questi casi; con un rapido tocco della mano si è rassettata i fluenti capelli neri e, con un sospiro di rassegnazione, si è messa in posa senza un sorriso sottoponendosi a qualcosa che proprio non le piaceva.
Ci si trova sempre a disagio a fotografare una persona sconosciuta. Ma, nel caso descritto, il disagio è stato maggiore, trattandosi di una creatura a cui è stata rubata l’infanzia e l’adolescenza non presenta rosee prospettive.
In un’altra occasione, scendendo lungo un sentirnero ripido e sconnesso, un bambinetto si è affiancato a mia moglie Adelaide, senza dire una parola, il visino serissimo, indicandole con la mano dove porre il piede per rendere più agevole la discesa. Anch’egli si ingegnava di fare qualcosa per ricavare un piccolo gruzzolo.
tra luci e ombre
Oggi in Cambogia si impone un difficile lavoro di ricostruzione, anche del morale della popolazione. Il governo locale è sotto esame delle Nazioni Unite, che gestiscono i programmi di aiuti.
Finalmente, nel 1979, si è fermato lo sterminio da parte dei khmer rossi con l’intervento dell’esercito del Vietnam, che però era responsabile dell’armamento e addestramento militare dei khmer stessi. In seguito, invasa la Cambogia, il Vietnam non è stato pronto a ritirarsi. Né si deve dimenticare che l’attuale capo del governo cambogiano, Hun Sen, si era fortemente compromesso con il regime di Pol Pot, il famigerato capo dei khmer rossi.
Per ricostruire la Cambogia, occorrono imponenti investimenti di capitali, che probabilmente si stanno muovendo, anche perché la politica economica ha abbandonato le regole comuniste e si è allineata agli schemi occidentali. Però la debolezza dell’attuale governo è tale da rendere possibili abusi e corruzioni.
Un residente europeo a Phnom Penh ha raccontato che, in tempi recenti, il governo non aveva soldi per pagare gli stipendi dei dipendenti statali. Allora è intervenuto un uomo d’affari cinese, che ha erogato il denaro per qualche mese (si dice per sei mesi) e non ne ha richiesto la restituzione, ma «solamente» alcuni privilegi!
A dispetto della diffusa miseria che si osserva in Cambogia, sulla riva del fiume Tonle Sap è ormeggiata un’imponente nave, di proprietà cinese, che incorpora anche un casinò. E le quantità di denaro che vi si spendono non provengono certo da tasche cambogiane.
Segni di speranza
Non manca qualche buona realizzazione.
Ad esempio: un medico svizzero, col denaro di una fondazione elvetica di solidarietà, ha costruito, partendo da zero, un ospedale per curare gli occhi dei bambini. Il trattamento è gratuito: quindi il numero dei pazienti è elevato. L’anziano medico è circondato non solo da stima, ma anche da venerazione. L’opera è talmente positiva che ora è in corso la costruzione di un analogo ospedale in un’altra area. Esiste pure un ospedale costruito gratuitamente dai giapponesi; ma la degenza è a pagamento.
Alcuni quartieri di Phnom Penh (pochissimi invero) sono stati rifatti (spesso con l’aiuto del governo francese, che è molto attivo per ragioni storiche): si presentano impeccabili, in stile coloniale, nel fulgore della vegetazione tropicale dei curatissimi giardini.
Il governo ha ristrutturato completamente nella capitale un albergo di lusso, con tariffe da capogiro persino a Manhattan. Però questo ha pure un aspetto positivo: infatti la presenza di uomini d’affari o turisti facoltosi comporta un introito di denaro per le casse dello stato.
Invece intatto rimane il sinistro edificio dell’ex scuola superiore Tuol Sleng, trasformata in carcere di sicurezza (S-21) dai khmer rossi: un luogo di tortura, dove sono transitate 17 mila persone, trucidate sul posto o in un campo di sterminio alla periferia della capitale.
A Siem Reap, dove sono visibili gli straordinari monumenti antichi di Angkor, sono stati costruiti alberghi di varie categorie, che rappresentano dei motori per l’economia locale.
Gli splendori di Angkor
Un viaggio in Cambogia non può prescindere dalla visita alle rovine di Angkor.
Su un’area vastissima si trovano vestigia di raffinati insediamenti urbani, spesso cintati da mura e con stagni artificiali, che rimandano ad alcune capitali fondate dai sovrani khmer dal X al XII secolo, nel periodo del loro massimo splendore (ndr: il popolo khmer, insieme a quello mon, risiede in Cambogia fin dal I secolo d. C.). Si tratta generalmente di templi. Il tutto è patrimonio dell’umanità, protetto dall’Unesco.
Lo splendore dei luoghi e i lavori di preservazione degli edifici stanno tramutandosi, grazie al turismo, in una buona fonte di denaro. Le rovine sono immerse in una vegetazione lussureggiante: talora viene un po’ sfoltita, pur mantenendo l’aspetto fascinoso della giungla che inghiotte e nasconde antiche costruzioni.
Gli edifici sono anche circondati da vasche, che si riempiono d’acqua specialmente nella stagione delle piogge. Succede di sentirsi attratti dal rumore di un tonfo nell’acqua… e di scorgere poi un serpente, caduto nello stagno, che nuota velocemente, raggiunge i muri coperti di erbe e vi si nasconde con movenze rapidissime.
Queste aree culturali sono oggi protette da organi di sicurezza, anche contro i ladri di reperti archeologici. Le misure sono così drastiche che le zone aperte al pubblico, alla chiusura serale, vengono minate e liberate il giorno dopo, prima dell’inizio delle visite dei turisti.
I templi testimoniano l’evoluzione della religione nella società khmer, che ha subìto nei secoli una frote influenza della cultura indiana. Infatti la prima religione è stata l’induismo, con una successiva evoluzione verso il buddismo «mahayana». Il buddismo, però, si è sovrapposto all’induismo senza cancellarlo: per cui si possono vedere statue di Budda, ritratto in posizioni classiche, accanto a statue di Shiva.
Il buddismo «mahayana» verso il X secolo è stato sostituito da quello «hinayana» della corrente «theravada».
TRE RACCOLTI DI RISO
L’ANNO
Tra giugno e luglio inizia la stagione delle piogge, che si presenta con mattinate terse, nuvole vaganti nel pomeriggio e un immancabile temporale notturno. Spettacolari i cieli azzurri, trapunti di bianchi cumuli di nubi, che generano un incanto in contrasto con quanto si avviene sulla terra.
Le campagne (sminate) sono oggi regolarmente coltivate, consentendo persino tre raccolti di riso all’anno, grazie anche alla rete idrica.
I khmer fin dal X secolo avevano perfezionato un sistema di canali e bacini artificiali, che assicuravano l’acqua durante l’intero anno immagazzinando le piene del fiume Mekong. Inoltre la rete idrica presenta una peculiarità.
Infatti, durante la stagione delle piogge, il Mekong raccoglie dal suo vasto bacino un’ingente quantità d’acqua. L’affluente Tonle Sap, prima di confluire nel Mekong, forma un lago. Ma la portata d’acqua del Tonle Sap, specie nella stagione delle piogge, è così scarsa rispetto a quella del Mekong che questo si riversa sull’affluente. Il Tonle Sap, allora, inverte il percorso e incomincia a riempire il lago: quindi allarga il suo letto anche otto volte rispetto a quello dei periodi di secca.
Questa particolarità è stata sfruttata dalla civiltà di Angkor che, con il contributo di canali e bacini artificiali, era in grado di incamerare l’acqua delle piene del Mekong riuscendo a farla durare un anno, fino alla piena successiva.
Oggi questo permette di avere anche tre raccolti di riso l’anno. Inoltre i fiumi e il lago Tonle Sap sono molto pescosi. Senza scordare che la natura tropicale è generosa di frutta e verdure.
È comprensibile, pertanto, l’interesse dimostrato sempre dalla Cina sulla Cambogia. I cinesi hanno cercato di estendere il loro controllo nel sud dell’Asia fin dai tempi dell’invasione mongola. L’interesse esiste tuttora, come dimostra la sanguinosa storia degli ultimi decenni che ha coinvolto pure il Vietnam.

Nonostante la tragica eredità lasciata dal regime di Pol Pot, si può essere moderatamente fiduciosi sul futuro della Cambogia. Ma è necessario controllare e a vanificare le mire degli khmer rossi, non ancora completamente messi a tacere, e le possibili deviazioni di masse di denaro controllate da persone senza scrupoli.

Giorgio Motta




CAMBOGIA – Sotto il peso della storia – Introduzione –

Dopo i fasti della civiltà khmer, il piccolo paese
asiatico ha conosciuto soltanto tragedie.
Dalla folle dittatura di Pol Pot all’occupazione
vietnamita fino all’attuale situazione,
caratterizzata da instabilità politica, corruzione
e una diffusa miseria.

Claudia Caramanti, Giorgio Motta, Carlo Urbani




Meno tecnologia, più spiritualità

Musica e solidarietà, un mero abbinamento pubblicitario o un sincero
interessamento per i più sfortunati? Può la musica arrivare dove altri falliscono?
Ne abbiamo parlato con due componenti dei «Nomadi», il complesso italiano
che da anni appoggia la causa del Tibet, paese schiacciato dalla dominazione cinese.
Il racconto della loro visita a Dharamsala e l’ammirazione nei confronti
del Dalai Lama, capo politico e spirituale del popolo tibetano.

Per alcuni i «Nomadi» fanno pensare ad un noto complesso pop degli anni ’60. I Nomadi, invece, continuano a esistere: producono dischi, fanno oltre 150 concerti all’anno, hanno un nutrito stuolo di fans e, ciò che più ci interessa, spendono la loro immagine a favore di molte cause e di molti popoli oppressi. Noi li ricordiamo, tra l’altro, come testimonials per la Colombia e il Caquetà nella giornata conclusiva della campagna «Non di sola coca».
Impegnati da anni a far conoscere nel nostro paese la tragedia del Tibet, conquistato ed oppresso dalla Cina comunista, i Nomadi hanno suonato nell’ottobre scorso a Milano in un concerto tenutosi in occasione della visita in Italia del Dalai Lama.

A biamo incontrato, durante le prove del concerto milanese, Beppe Carletti (tastierista e membro storico del gruppo) e Danilo Sacco (cantante e frontman).
I Nomadi sono noti anche per il loro impegno in molte attività umanitarie. Ma, tra le tante cause per cui lottare, perché avete scelto proprio il Tibet?
Danilo: «In generale, ogni popolo che soffre riceve la nostra attenzione. Il Tibet ci ha colpito particolarmente, perché è un polmone di cultura e fede. Se questa cultura fede andassero perdute, credo che il mondo ne risentirebbe moltissimo. E, purtroppo, questa perdita è già in atto, perché i cinesi con la loro repressione hanno distrutto gran parte dei monasteri e deportato tantissima gente.
Pur vivendo nell’epoca dei mass media, del Tibet si conosce poco e soprattutto non si sa della repressione che ha subìto e sta ancora subendo. Purtroppo, se non passa in televisione, la gente pensa che queste cose non esistano… Invece eccome se esistono: c’è un popolo che sta soffrendo da decine di anni e ci sono stati già più di un milione e 200 mila morti.
Il nostro impegno allora è questo: testimoniare ciò che sta accadendo. Noi quindi facciamo prima di tutto una campagna di informazione.
Il Tibet per noi è importante, anche perché abbiamo conosciuto sua santità il Dalai Lama, una persona che ci ha colpiti molto. Ci hanno stupito la sua dolcezza e tenerezza incredibili. Egli è il capo spirituale – e anche politico – di un popolo che è stato massacrato. Ci chiediamo sempre come faccia a mantenere la scelta per la nonviolenza, a voler seguire con il suo popolo questa strada, qualunque cosa accada. Questa è la cosa che più ci ha impressionato».
Beppe: «Già nel ’95, in occasione del disco Tributo ad Augusto (Augusto Daolio, già cantante dei Nomadi, morto per un cancro il 7 ottobre 1992, n.d.r.), abbiamo voluto devolvere gli introiti del disco a 3 associazioni: una che si occupa dei bambini palestinesi, una di un orfanotrofio a San Paolo del Brasile e la terza di bambini tibetani. Ci sembrava giusto beneficiare tre realtà così diverse e lontane. In seguito, io sono stato tre giorni in un monastero tibetano, a Sheherezed, nel sud dell’India, dove ho potuto incontrare i bambini tibetani che là erano ospiti. Tra l’altro, questa sera ci sono dei coristi che vengono proprio da Sheherezed.
Nel ’95 siamo stati tutti insieme a Dharamsala, un paese nel nord dell’India, abitato completamente da profughi tibetani. Qui abbiamo incontrato il Dalai Lama, che in quella occasione ci ha detto una cosa molto bella: cioè che la musica può fare tanto per la causa tibetana. E in effetti è vero: non è necessario suonare musica tibetana, ma quando noi saliamo sul palco a inneggiare al Tibet e alla sua liberazione, questo è qualcosa che la musica fa… Perché quello del Tibet è un popolo che ha bisogno non tanto di denaro quanto soprattutto che si sappia cosa accade.
E poi, come sottolineava Danilo, il Dalai Lama ha una spiritualità ed un sorriso grandissimi… Mi ha colpito molto quando ha detto “si deve perdonare, ma non si deve dimenticare”. È stato un incontro incredibile, di oltre un’ora, e non è comune poter avere un incontro così lungo con lui, premio Nobel per la Pace, capo spirituale e politico di una nazione.
Quando eravamo là, c’era con noi un amico carissimo, di Reggio Emilia, che subito ha detto: “Bene, possiamo organizzare una manifestazione davanti all’ambasciata cinese…”. Ma Dalai Lama ha risposto: “No! Non fate queste cose, non c’è bisogno… Noi vinceremo con il sorriso…”. E lui ti accoglie con questo sorriso che, da solo, ha la grande prerogativa di farti stare bene e di metterti a tuo agio. Non so se sia lui come persona o ciò che rappresenta, ma è così. Vale la pena di portare avanti questa causa. Noi, con la nostra musica, crediamo di poter fare qualcosa».
Danilo: «C’è un’altra frase che, secondo me, fotografa bene quello che è il Dalai Lama. Egli è soprattutto un capo spirituale, il capo spirituale dei buddisti tibetani mahayana. E proprio lui dice: “Non dovete cambiare religione. Non cambiate religione: le religioni sono tutte positive. Cambiate voi stessi!”».
Beppe: «Anche a quelli che vogliono avvicinarsi al buddismo egli dice: “È bene che lo facciate, così potete capire meglio anche la vostra religione”. Lui non vuole “rubare” fedeli alle altre confessioni. Questo è molto bello».
Danilo: «Questo è un punto da mettere in evidenza: il buddismo mahayana non ha mai cercato di fare proselitismo. Ed è bello che questo stesso principio ci sia stato ripetuto anche da Dwayne, sciamano e capo spirituale della tribù sioux dakota. Anch’egli ci ha detto: “Non dovete cambiare religione per cercare qualcosa di diverso. Per cercare una maggiore armonizzazione, cambiate voi stessi”. Lo stesso concetto espresso da due persone completamente diverse, che vivono a migliaia di chilometri di distanza».
Voi avete incontrato il Dalai Lama, siete stati a Dharamsala… Il popolo tibetano è composto in gran parte da monaci. Cosa vi ha colpito di queste persone?
Danilo: «Prima di tutto, quando si incontrano culture così lontane dalla nostra, è importante lasciare completamente a casa i preconcetti di uomo europeo. Soltanto aprendo il cuore si può riuscire a capire quello che queste persone hanno da dire. I tibetani hanno fatto una scelta opposta della nostra: noi abbiamo demandato tutta la nostra vita alla tecnologia: più tecnologia, meno spiritualità… Essi hanno fatto l’esatto opposto: meno tecnologia, più spiritualità. Di conseguenza noi siamo convinti di essere avanzati, perché abbiamo il telefonino, la macchina eccetera… In realtà poi non è così: conoscendo bene le loro opinioni e le loro idee, credo che il vero progresso sia il loro, perché progrediscono dentro e non fuori. Io sono convinto, ad esempio, che la scienza e la medicina europee si avvicineranno sempre di più a questa cultura, perché ha molto da insegnarci».
Beppe: «Noi a Dharamsala siamo stati tre giorni, e quello che ci ha colpito è stata la spiritualità che essi vivono così a fondo. E poi il sorriso che ha il Dalai Lama lo hanno tutti… Dharamsala è un paese, di circa 1.500 abitanti, popolato totalmente da tibetani. Anche se geograficamente è in India, si entra in un altro mondo. Si incontrano i monaci, che sono quasi continuamente in preghiera. La cosa bella è questa: vivono totalmente la loro spiritualità, te la trasmettono, ti fanno stare bene quando sei con loro. La spiritualità si “respira” è nell’aria, non si può fare a meno di incontrarla.
Al monastero di Sheherezed, per esempio, i monaci iniziavano la preghiera al mattino all’alba e andavano avanti fino a sera tarda, con alcuni che portavano da mangiare e bere, perché gli altri non interrompessero la preghiera. Questa è una cosa bellissima, che colpisce e fa riflettere. Insomma, ti rimane dentro».
L’incontro con una cultura così diversa può cambiare la vita delle persone?
Beppe: «Posso parlare per me. Io non so se sono cambiato. Sinceramente se dicessi “sì, sono cambiato, mi ha fatto cambiare”, sarei un bugiardo. Se sono cambiato non me ne sono accorto, anche perché il tempo in cui sono stato là è poco rispetto ad una vita. Però sono sensazioni che mi porto dentro. Anche se non sono cambiato io, può darsi che io trasmetta queste emozioni ad altri che mi ascoltano…».
Danilo: «Per me questo incontro è stato importante soprattutto perché ogni cultura, diversa dalla tua, ti arricchisce molto, se tu ovviamente tu non la rifiuti. E questo è già essenziale.
Si dovrebbe imparare ad accogliere tutte le diversità, ad avere voglia di confrontarsi. La fusione delle culture, prendendo il meglio da ciascuna, credo che sia l’unica salvezza del mondo. E la cultura tibetana è una delle più importanti e antiche. Se la salviamo, salviamo anche una parte di noi stessi».

Ugo Finardi




kinshasa (Congo R. D. ) – Pelle a rischio

Nella spirale di violenza che ha insanguinato
la capitale della Repubblica Democratica del Congo padre Stefano ha condiviso con la gente rischi e pericoli, fino a sentire un mitra puntato alle tempie.
La presenza dei missionari continua
a infondere nella popolazione semi di speranza.

L a chiamano «guerra mondiale africana». Tra paesi e gruppi ribelli si contano 19 soggetti in stato di guerra. È stato firmato un documento di «cessate il fuoco» tra l’esercito di Kabila e quello dell’Uganda e Rwanda, ma si continua a sparare. I gruppi ribelli continuano a frammentarsi e boicottare gli sforzi di pace, rivendicando fette di territorio e potere.
Tra le varie aggregazioni, quella di «Bemba» riscuote le maggiori simpatie da parte della gente. Figlio di un ministro di Mobutu e ancora al governo con Kabila, Bemba è diventato a poco a poco uno degli uomini più ricchi del Congo, padrone di quasi un terzo del paese. Anche lui rivendica la sua fetta di potere.
Tre quarti del territorio nazionale sono controllati da eserciti stranieri e forze ribelli. Troppi interessi sono in gioco e la guerra potrebbe durare molti anni. Alla fine il vecchio Zaire potrebbe essere smembrato in tre stati indipendenti. E sarebbe il male minore.
UNA CITTÀ ARRABBIATA
La situazione economica e sociale è allo sfascio. Kinshasa, capitale del Congo, fa paura: 8 milioni di abitanti cercano di sopravvivere in condizioni di precarietà. Non c’è lavoro. Chi ha un impiego non viene pagato, come maestri e professori, che continuano a insegnare per non perdere il posto.
Per la penuria di benzina i trasporti sono allo sbando: tanta gente fa a piedi 6-7 km al giorno per raggiungere il posto di lavoro, con la prospettiva di non essere pagata. Il denaro non circola; eppure la vita continua, per una sorta di miracolo cittadino, dove ognuno s’inventa un modo di sopravvivenza.
La gente è arrabbiata contro Kabila: in più occasioni gli ha tirato i sassi. Cacciato Mobutu e raggiunto il potere con l’aiuto di rwandesi e ugandesi, il nuovo presidente aveva suscitato grandi aspettative, finendo per scontentare tutti, a partire dagli alleati. Ritenendoli ormai troppo ingombranti, Kabila pensò di sbarazzarsene prendendoli a calci, innescando così una guerra che ha ripiombato il paese nel caos e, all’inizio dell’agosto 1998, ha affogato in un bagno di sangue la capitale congolese.
In quei giorni, al colmo della rabbia, la gente ha sfoderato gli istinti più bassi della sua umanità, iniziando una feroce «caccia ai ribelli» e divertendosi nel bruciarli vivi: un copertone attorno al collo, inzuppato di benzina, un fiammifero… e lo spettacolo era assicurato!
La fobia del «ribelle» aveva sparso la voce che le spie nemiche si fossero infiltrate in Kinshasa travestite da dementi: persone malvestite che si aggiravano per la città, barboni e vagabondi sorpresi a rovistare tra le immondizie, tutta gente ignara dell’esistenza di una guerra, furono scambiati per spie e bruciati vivi.
La psicosi collettiva sembrava cancellare ogni senso d’umanità: si giunse a misurare il naso della gente, per decidere se uno era o meno un ribelle ugandese, e ad assassinare amici e conoscenti sospettati di collaborazionismo. Perfino le treccine legate ai capelli furono sospettate di essere veicolo per portare i messaggi al nemico: tale moda scomparve dalla circolazione in un baleno.
Ho visto scene da fare accapponare la pelle. In alcuni casi sono intervenuto, rischiando grosso, per salvare qualche vittima di tanta follia; ma ho ottenuto solo che il condannato non venisse sacrificato sotto gli occhi dei bambini.
TRE GIORNI DI FUOCO
I momenti più drammatici iniziarono quando gli ugandesi si organizzarono per conquistare Kinshasa e cacciare Kabila. Una parte dell’esercito ribelle si attestò sulla collina di Mont Ngafula, dove ci sono la nostra parrocchia e il seminario filosofico. Rimanemmo per una settimana alla mercé di 3.000 militari ugandesi, mentre i soldati di Kabila erano fuggiti per organizzare la difesa.
Bisognosi di cibo e medicine, i ribelli cominciarono a visitare conventi e fattorie della zona. A fae le spese erano soprattutto le galline. Vennero anche nelle nostre case e, devo confessarlo, si comportarono correttamente. Ci dissero di stare tranquilli, perché ce l’avevano solo con Kabila. Chiedevano da mangiare e medicine; poi se ne andavano.
Prima che scoppiassero le ostilità, pensammo bene di mandare studenti e suore nel seminario teologico verso il centro città, a una ventina di chilometri da Mont Ngafula. Per percorrere quel tragitto di una quindicina di minuti in auto, fratel Paolo Ferrari e padre Giovanni Torres, che accompagnavano gli studenti e le suore, impiegarono più di tre ore. Dovettero superare 25 sbarramenti militari e ogni volta bisognava scendere dall’auto, aprire le borse, identificarsi e sottoporsi a interrogatori.
Anche per me, rimasto a custodire la casa con tre seminaristi, quel viaggio fu un autentico calvario. In costante contatto telefonico con padre Vincenzo Mura, direttore del seminario teologico, mi sentivo morire dentro e mi domandavo cosa fosse loro capitato.
Il 2 agosto 1998 cominciò l’offensiva. La gente del quartiere era terrorizzata e non sapeva cosa fare. Gli uomini erano fuggiti per paura di essere presi dai soldati; donne e bambini, rimasti soli, si rifugiarono nella nostra casa. Condividemmo quel po’ di riso e quant’altro rimaneva delle scorte del seminario. Un gesto di solidarietà che è stato ampiamente ripagato: in seguito la gente ci ha aiutato, soprattutto vigilando sulla nostra casa, affinché non diventasse oggetto di rapine e saccheggi.
Per tre giorni, tappati in casa, sentivamo le pallottole fischiare senza interruzione e senza sapere cosa capitasse fuori. Nessuno fiatava. La notte, poi, senza luce elettrica, tensione e paura diventavano palpabili. Dovendo comunicare a Roma la nostra situazione, accendevo un piccolo generatore che, essendo alquanto rumoroso, spegnevo al più presto possibile, per non attirare l’attenzione, limitandomi a trasmettere le notizie essenziali e in modo telegrafico.
LA FUGA
Quando si sparse la notizia che i soldati di Kabila avrebbero bombardato Mont Ngafula, la gente cominciò a fuggire all’impazzata verso il fondovalle. Mi convinsi che non valeva la pena rischiare la pelle per restare a guardia della casa. Infilai i documenti essenziali in uno zainetto e raggiunsi la gente che sciamava.
Tutto avvenne in maniera improvvisa e precipitosa, da non permettere alcuna pianificazione. Una fiumana di persone scendeva la collina, ciascuno tirandosi dietro i bambini, una pentola, due stracci, in una fuga frenetica e disordinata, per arrestarsi di fronte ai blocchi militari.
Ad ogni barriera mi sentivo nell’occhio del ciclone: fui minacciato e molestato più degli altri. «Perché ce l’hanno tanto con me» pensai. Forse qualcuno aveva riferito ai soldati della nostra radiofonia, usata per restare in contatto con i confratelli del nord, e del telefono, che ci permette di comunicare con l’estero. Di conseguenza potevo essere sospettato di complicità con i ribelli e, soprattutto, di seminare zizzania, diffondendo all’estero notizie false sul paese.
In uno di quei blocchi non ricordo cosa sia successo: mi trovai inginocchiato per terra, con un mitra puntato alla testa. Un soldato urlava contro i bianchi, colpevoli di avere alloggiato i ribelli. «Voi preti, soprattutto, avete aperto le chiese e accolto i ribelli». Era vero. I soldati ugandesi erano entrati nelle nostre chiese. Cosa avremmo potuto fare contro 3.000 soldati armati fino ai denti?
Col mitra puntato alle tempie, dapprima rimasi muto per l’incredulità; poi stordito e pieno di paura; infine chiusi gli occhi e mi sentii pervaso da una grande pace. Non so quanto tempo restai in quella posizione: un minuto o un’eternità. Ricordo solo che, quando riaprii gli occhi, non vidi più nessuno attorno a me. Mi alzai di scatto e rincorsi la gente, sentendomi risuscitato.
Rimasi nel fondovalle per tre giorni. Avrei potuto raggiungere il seminario teologico verso il centro città, ma preferii restare con la gente, accampata sulla strada, senza acqua né cibo, con i bambini che piangevano.
I cannoni sparavano contro la collina. Non fu difficile inventare qualche battuta scherzosa per sdrammatizzare e raffreddare la tensione. In un momento di calma, raggiunsi un convento di suore e telefonai a Roma per rassicurare i superiori che confratelli, seminaristi e suore erano tutti al sicuro.
La domenica, cessato il bombardamento, sperimentai uno dei momenti più commoventi della vita. La gente mi circondò per dirmi: «Grazie, padre, perché sei rimasto con noi» e tante parole piene di amicizia e solidarietà. Poi arrivarono i confratelli che in quei giorni mi avevano cercato, pieni di apprensione per la mia sorte. È stato bellissimo riabbracciarsi.
IL RITORNO
La domenica pomeriggio le truppe di Kabila avanzarono verso la collina e cominciarono il rastrellamento. Gli ugandesi fuggirono nella foresta, dove furono massacrati.
La mattina seguente decisi di tornare a casa. Avevo fatto i primi passi con i tre seminaristi e alcuni amici, quando, come per incanto, la gente si accodò in massa dietro a noi. Più salivamo più la processione s’ingrossava. La fuga precipitosa del venerdì si era mutata in un rientro giornioso e pieno di speranza, tra i canti dei bambini.
Più in alto la visione era raccapricciante e l’aria irrespirabile per il fumo delle case distrutte e il fetore dei corpi bruciati e in decomposizione. Arrivati in seminario, ricevemmo la sgradita visita dei soldati di Kabila: ci derubarono di tutto, dopo averci fatto patire le pene dell’inferno.
Ci recammo in visita ai confratelli della parrocchia, che ci raccontarono la loro storia. Quel venerdì padre Fedele Crippa stava celebrando la messa, quando, al momento della comunione, i ribelli fecero irruzione nella chiesa, sparando in ogni direzione. Il celebrante rimase imperterrito, deciso a terminare la celebrazione, ma si ritrovò con la chiesa vuota: la gente, strisciando sotto i banchi, era scappata in sacrestia.
Quando i soldati si furono allontanati, i missionari si rifugiarono nella casa parrocchiale e vi rimasero intrappolati, con alcuni fedeli, per tutto il tempo del bombardamento. Grazie a Dio, erano tutti incolumi.
RICOSTRUIRE LA GENTE
DAL DI DENTRO
Tutti hanno apprezzato il fatto che siamo rimasti con loro e affrontato gli stessi rischi e sofferenze. In effetti è questo il significato principale della nostra presenza. La situazione di guerra in cui vive il paese non ci permette di fare grandi opere. È la terza volta che ci distruggono tutto e che dobbiamo ricominciare da capo. Stando con la gente, condividendone la precarietà e confusione del presente e l’incertezza del futuro, siamo un segno di speranza per un avvenire nuovo e migliore.
Tuttavia continuiamo a domandarci come possiamo essere segno più efficace per questa popolazione che, oggi più che mai, riscopre la propria religiosità e la convinzione che il futuro è nelle mani di Dio. Per aiutarla a sopravvivere, cerchiamo di stimolare e coinvolgere la gente in varie forme di collaborazione, piccoli progetti, cornoperative di lavoro e commercio. Le donne, soprattutto, giocano un ruolo di grande importanza: sono esse le più creative nella ricostruzione del tessuto sociale, organizzando, per esempio, giornate di lavoro comunitario per riparare le strade e altre strutture di comune utilità.
Al tempo stesso guardiamo anche lontano, per progettare un lavoro a lunga scadenza. A tal proposito, credo che dobbiamo dare priorità alla scuola, ormai completamente trascurata dallo stato. In un paese come il Congo, dove la corruzione è elevata a sistema di vita e di sopravvivenza, c’è bisogno di ricostruire la gente dal di dentro.
Sarà questa la sfida del futuro: formare le nuove generazioni a un maggiore senso di responsabilità, amore per la pace e il bene comune.

Stefano Camerlengo