Spettabile redazione,
ho letto con disappunto l’articolo «Le altre vie di Allah» («Missioni Consolata», giugno 1999). Riferendomi all’intervista posta alla sottoscritta da Angela Lano, esigo una smentita, non riconoscendomi in ciò che mi è stato attribuito.
Ho affermato che le motivazioni della mia conversione all’islam sono state la ricerca della verità, il desiderio di giustizia e soprattutto la necessità razionale dell’unicità di Dio; però non ho dichiarato che, se avessi guardato alle società islamiche (vengono specificati tre paesi che non ho menzionato), non sarei mai diventata musulmana. Ho detto che per un occidentale, che normalmente eguaglia l’islam al comportamento di alcuni paesi arabi, può essere difficile capire una conversione, dal momento che si attribuiscono all’islam soprusi che non hanno nulla di islamico.
Contrariamente a quanto è stato scritto, non avrei alcun problema ad abitare in un paese musulmano (anche se, ovviamente, amo la mia nazione, dati gli affetti che mi legano). Ho visitato alcuni stati islamici di cui mi sono innamorata per la serenità della vita, basata su principi che la nostra società sta eliminando, fondata sulla ricerca del divino, lontana dallo stress del potere occidentale e dall’imposizione dei ritmi alienanti del capitalismo.
La domanda «quante donne possono lavorare nei paesi musulmani?» se l’è posta la giornalista, non io. Ho risposto affermando che la percentuale delle donne lavoratrici nei paesi islamici è inferiore a quella dei paesi occidentali; ma credo che tale realtà sia legata alla scelta delle donne di privilegiare l’aspetto familiare e all’elevata disoccupazione dei paesi in via di sviluppo.
Pongo io una domanda: «Quante donne occidentali vorrebbero licenziarsi per occuparsi dei figli?». La necessità imposta dalla società le costringe a mantenere ritmi lavorativi stressanti e, a volte, poco dignitosi.
È scandaloso che la giornalista si sia permessa di trarre affermazioni sulla mia vita privata, quando l’intervista era indirizzata alla mia conversione. Ritengo che i matrimoni «misti» siano più difficili rispetto a quelli tra persone dello stesso paese, per le possibili incomprensioni culturali generate da una diversa educazione. Ma non mi ritengo una moglie infelice (come mi ha qualificato la giornalista) e la decisione di sposarmi è stata anche motivata dalla certezza di felicità che sarebbe derivata dall’unione con mio marito. Credo che gli scontri in un matrimonio tra persone di culture differenti non siano in percentuale diversa da altre unioni, se i fondamenti del matrimonio sono il rispetto, l’unicità degli scopi e l’amore reciproco.
L’«hijab» non è l’aspetto più faticoso (attributo della giornalista, non mio) da osservare, ma è difficile per le discriminazioni e derisioni a cui può essere sottoposta una donna, solo per il fatto che applica una legge divina, esteando la sua fede con un velo che per l’occidentale è motivo di scherno.
Spero che con questo scritto venga colto il senso vero della mia intervista…
«L’erba “voglio” non cresce neppure nel giardino del re». Così si replica talora a chi s’impone con: «Da te io voglio…». Che dire, poi, di chi coltiva l’erba «esigo»? È un’erba che non ci piace. Inoltre diciamo: la verità di Mariangela non vale di più di quella di Angela Lano, che conosciamo per serietà e professionalità.
La lettera-fax pubblicata ci è giunta il 27 ottobre 1999. Perché è stata scritta quasi a cinque mesi di distanza dall’articolo contestato? Ci assale un dubbio: che la musulmana abbia scritto su dettatura di un altro musulmano, che non ha gradito «Le altre vie di Allah».
Probabilmente Mariangela replicherà ancora più sdegnata: «Come vi permettete una tale insinuazione?». Ma il dubbio rimane.
E… in dubio libertas.
Mariangela