QUESTA RUBRICA
Nel corso degli ultimi anni si è assistito ad un miglioramento globale della salute delle popolazioni. Tuttavia resta ancora elevatissimo il numero di individui, soprattutto nei paesi della fascia intertropicale, che non hanno accesso alle cure sanitarie, e lo scarto tra poveri e meno poveri si è ulteriormente approfondito.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), 2 miliardi di individui vivono nella povertà, e di questi 700 milioni vivono in situazioni di estrema precarietà. Per queste persone l’accesso a servizi sanitari e a cure mediche non è assolutamente assicurato, quando addirittura impossibile. La povertà genera malattie, attraverso la mancanza di igiene, strutture sanitarie e adeguati trattamenti, educazione. Per questo in molti paesi l’attesa di vita alla nascita non supera i 50 anni, e sono malnutrizione e tutta una serie di malattie tropicali a compiere la decimazione soprattutto nei primi anni di vita.
Nel 1977 i governi e l’OMS nell’Assemblea generale hanno fissato l’obiettivo di garantire la salute per tutti i popoli del mondo entro l’anno 2000. Purtroppo tale traguardo sembra ancora ben lontano, e addirittura in alcune aree si è assistito ad un deterioramento della situazione sanitaria e della qualità della vita.
Per chi vive in un paese sviluppato è in genere difficile immaginare la situazione nella quale la gran parte dell’umanità vive nei paesi in via di sviluppo. E di molte delle malattie più diffuse al mondo si sa quasi nulla, spesso anche il nome suona del tutto insignificante, come avitaminosi, schistosomiasi, dracunculosi, dengue, e così via. Si impiegano nel mondo risorse enormi per la ricerca sul cancro, o le cardiopatie, o le malattie vascolari, ma non tutti sanno che non è per queste malattie che la maggioranza dell’umanità soffre e muore.
In questa rubrica, attraverso brevi resoconti di giornate di lavoro in alcuni paesi tropicali, ci racconteremo qualcosa che riguarda la salute, o meglio l’assenza di salute, in questo mondo dei più sfortunati, dove povertà e malattia si generano a vicenda. Ca.U.
L’ATR72 della «Royal Air Cambodge» sfiora con il carrello le cime di alcuni alberi. Dopo aver posato rumorosamente le ruote sulla corta pista in terra battuta, le turbine frenano con un ruggito la corsa dell’aereo. Un’ora abbondante di volo ci ha portati all’aeroporto di Stung Treng, nel nord-est della Cambogia, dove il Sesan e il Sekong si versano nel Mekong, a circa 40 chilometri dalla frontiera con il Laos.
Pochi minuti prima, seduto vicino al finestrino, osservavo il paesaggio sotto di me e, nei varchi tra i cumuli di condensa tipici di quell’ora, intorno a mezzogiorno, scorrevano lentamente risaie, foreste e fiumi. Il corso del Mekong, visto dall’alto, lascia immaginare l’imponenza di questo fiume, che disegna ampie curve nel verde intenso della vegetazione. A stento si possono vedere i piccoli villaggi sulle sue sponde, giusto una linea di quadratini di un altro colore, tra cui è magari identificabile il tetto variopinto di una pagoda. Ed è difficile immaginare in questo stupendo quadro quante incredibili atrocità siano state consumate, e quanta sofferenza sia nascosta sotto quegli alberi. Il verde intenso della foresta a tratti scompare, per lasciare il posto ad ampie macchie grigiastre, testimonianza della deforestazione selvaggia che incombe nella regione.
Ora, sbarcati nell’aeroporto di Stung Treng, ci prepariamo a risalire un tratto del Sekong, per andare a visitare gli abitanti di un gruppo di villaggi più a monte. Poco più tardi stiamo già scivolando sulle acque blu e perfettamente lisce del fiume, tra due pareti di impenetrabile verde. Con me viaggiano due medici e due microscopiste cambogiani. Trasportiamo farmaci e materiale di laboratorio.
Sulla piroga sventola la bandiera di Médecins Sans Frontières (MSF), che dal 1993 cerca di far fronte in questa regione al grave problema della schistosomiasi. Oggi stiamo andando a verificare la presenza della malattia in una zona molto remota, ed eventualmente distribuire il farmaco che trasportavamo, il praziquantel.
La schistosomiasi è uno dei problemi sanitari più importanti dei paesi della fascia intertropicale, e la forma diffusa lungo il fiume Mekong è una delle più gravi. In Cambogia le dimensioni del problema sono state comprese solo di recente, grazie all’intervento di MSF che ne ha identificato l’area più colpita e ha messo in opera delle misure di controllo. In molti villaggi lungo il Mekong i segni della malattia sono drammaticamente evidenti.
Gran parte dei bambini soffrono di dolori addominali cronici, emettono feci con sangue e muco, il loro addome si gonfia progressivamente per l’ingrossamento di milza e fegato, ed a partire dagli anni dell’adolescenza sviluppano i primi sintomi della cirrosi epatica, la stessa malattie che colpisce gli alcolisti. Si forma acqua nella pancia (ascite), si gonfiano le vene sulla superficie dell’addome e si formano varici nell’esofago. Negli stadi avanzati della malattia il soggetto è estremamente emaciato, sofferente, con una enorme pancia, gambe magre ed edematose, fino a che la rottura delle varici esofagee e la conseguente emorragia ne causa il decesso. Coloro che sono infettati da molti parassiti hanno anche un arresto della crescita e dello sviluppo sessuale, così che l’età apparente trae spesso in inganno e un ventenne può essere facilmente preso per un bambino di 11-12 anni.
La schistosomiasi è causata da un piccolo verme che vive nelle vene intorno alla parete dell’ultimo tratto dell’intestino. Se le uova prodotte con le feci arrivano nelle acque del fiume, si chiudono e liberano un piccolo organismo che, nuotando, viene attirato particolarmente da un certo mollusco, una piccola conchiglia che vive nelle fessure delle rocce semisommerse nel fiume. All’interno della conchiglia il parassita matura e forma una piccola larva. Questa lascia la conchiglia e si libera nelle acque del fiume. Se entra in contatto con la pelle umana, è in grado di perforarla ed attraversarla. Una volta penetrato il parassita si lascia trasportare dal sangue e, dopo un complicato percorso, raggiunge la sede definitiva del suo sviluppo, appunto le vene intorno all’intestino, per diventare adulto.
Il problema principale è causato da quelle uova che, prodotte dalla femmina, non riescono a mescolarsi alle feci come previsto, ma vengono portate via dalla corrente sanguigna nelle piccole vene dove i vermi vivono. Queste uova finiscono intrappolate nel fegato, causandone l’ingrossamento, la fibrosi, e poi la cirrosi. Questo fa ingrossare la milza e fa aumentare la pressione del sangue nella vena porta. Questa «ipertensione» causa l’ascite e la formazione di varici esofagee. Più sono numerosi i vermi adulti, più grave è la malattia. Ne deriva che solo i soggetti continuamente esposti a nuove infezioni sviluppano gravi sintomi. Essere esposti all’infezione significa avere molti contatti con l’acqua del fiume, nelle zone dove ci sono quelle conchiglie e dove nelle acque finiscono le feci umane. In zone disabitate la trasmissione non può esistere. E chi ha più contatti con il fiume? Basta arrivare in un villaggio per capirlo.
La nostra piroga quel pomeriggio è arrivata a Sdau, un villaggio di un migliaio di abitanti, lungo il Sekong. È quasi il tramonto: i colori del fiume e del cielo sono stupendi. Spento il motore dell’imbarcazione per arrivare dolcemente sulla riva, piombiamo in un piacevole silenzio, nel quale è facile sentire le grida dei bambini che giocano poco lontano, tutti immersi nell’acqua del fiume… vicino le rocce dalle quali si tuffano. Ecco il primo bersaglio della malattia: i bambini.
Il loro contatto con l’acqua del fiume è importante. È forse l’unico gioco disponibile e offre un piacevole ristoro nell’afa soffocante. E poi correre nei campi non è, forse, così raccomandabile… in un paese con una delle più alte concentrazioni al mondo di mine antiuomo! Poco più vicine alla riva le sorelle più grandi, sedute sulle rocce semiaffioranti, a lavare i poveri panni o intente a sciacquare gli umili utensili domestici: un cesto di bambù, un mestolo, o qualche ciotola. E sulla riva qualche bambino più piccolo, che fa la cacca nel fiume. Una scena normale lungo un fiume tropicale, ma è questo il ritratto della trasmissione della schistosomiasi. Bambini infetti fanno la cacca, dove probabilmente ci sono delle uova di schistosoma. Poco lontano le rocce ospitano la conchiglia che fa diventare infettante la larva, e nella stessa zona altri che nuotano, ed il cerchio si chiude. Incuriositi dal nostro arrivo i bambini escono all’asciutto, mostrando i loro enormi ventri, costellati di tante piccole cicatrici. Ci accompagnano silenziosi lungo il sentirnero che sale al villaggio.
Girando nelle case, palafitte di legno o di bambù per i più poveri, incontriamo altri bambini, quelli che non hanno abbastanza forza per andare a schiamazzare nel fiume. Sono seduti sulla scala che sale al piano rialzato, con lo sguardo più triste degli altri, e la pancia ancora più grossa. Alcuni adulti sanno che quei bambini sono malati di qualcosa che ha a che vedere con il fiume, ma sanno anche che per loro, gli abitanti di Sdau, come per quelli di tantissimi altri villaggi in Cambogia, non ci sono cure. L’ospedale più vicino è a due ore di piroga, e poi bisogna pagare le medicine, e quassù soldi non ce ne sono. Non è facile avvicinare le persone, tutti sembrano diffidenti, ed anche un po’ spaventati. La strategia del terrore fa ancora sentire il suo alito in Cambogia. In questi villaggi è facile morire anche per molto meno: basta una diarrea o una polmonite, quando poi non si accanisca su questa gente una epidemia di febbre emorragica o di malaria. Le donne partoriscono nelle loro capanne senza alcuna assistenza sanitaria ed in precarie condizioni igieniche. Ci dicono che a volte i bambini muoiono vomitando sangue (la rottura delle varici esofagee). Nonostante l’evidenza decidiamo di esaminare alcuni campioni di feci per confermare la presenza della malattia.
Intanto do un’occhiata al resto del villaggio, mentre penso a cosa servirebbe per restituire la salute a queste persone. Sono colpito dalla loro povertà. L’unico bene che custodiscono in casa è una piccola riserva di riso e qualche utensile. Nella «passeggiata» mi accompagna Huong, silenzioso ragazzino con una fionda appesa al collo, un viso pallido e affilato, ed un enorme ventre che lo obbliga a camminare con la schiena curvata indietro, come una donna alla fine della gravidanza. Mi osserva curioso e, dal modo di sorridere, sembra evidente che si aspetta qualcosa da me.
Passiamo la notte nel villaggio, rassicurati dagli abitanti che ci mostrano i loro AK47, con i quali ci difenderebbero dai khmer rossi. Al mattino cominciamo a distribuire il farmaco. Verrebbe voglia di curare anche tutte le polmoniti, congiuntiviti, anemie e quanto altro scorre sotto i nostri occhi. Purtroppo, quando le risorse sono carenti, occorre stabilire delle priorità e la schistosomiasi, per la grave malattia e la mortalità che ne derivano, qui a Sdau rappresenta una priorità. Distribuiamo la dose di praziquantel ad ogni abitante. In queste situazioni costa meno trattare tutti che esaminare tutti e trattare solo le persone infette. È una delle regole in simili programmi di sanità pubblica nei paesi in via di sviluppo.
Huong vuole essere il primo a ricevere la medicina, e rimane vicino a noi ad assistere al trattamento degli altri del villaggio. Si fa anche fotografare orgoglioso il suo ventre enorme. La medicina tradizionale di queste regioni tratta il dolore addominale facendo delle piccole bruciature con dei tizzoni ardenti sulla pelle. Per questo le pance di chi ha la schistosomiasi qui sono piene di cicatrici: sono le bruciature che i bambini crescendo accumulano, ogni volta che si lamentano dei loro dolori. Purtroppo chi è già gravemente malato non beneficia del trattamento: la cirrosi del fegato è una malattia irreversibile.
Trattae i sintomi per allungare la sopravvivenza è possibile, ma tali trattamenti sono completamente fuori della portata di chi vive in villaggi come Sdau. Dopo due giorni lasciamo il villaggio, con almeno un problema in meno, ma allontanandoci lo immaginiamo sprofondare di nuovo nell’isolamento e nella mancanza totale di cure mediche.
In zone come queste la schistosomiasi interessa anche l’80% dei bambini, e il trattamento costa 12 centesimi di dollaro: circa 180 lire. Ma moltiplicare le 180 lire per le decine di migliaia che aspettano di essere trattati fa diventare il costo insostenibile per il paese, e poi la mancanza di infrastrutture ne rende difficile la distribuzione, e negli ospedali non c’è personale formato per controllare la distribuzione del farmaco e l’evoluzione della malattia, e ancora in molte aree l’accesso è difficile a causa dell’insicurezza: khmer rossi, banditi, anche gli infermieri cambogiani hanno paura ad andare in certe zone. Così un problema in apparenza semplice diventa in realtà difficile in paesi (e non sono pochi) come la Cambogia.
Quando, sei mesi dopo, torniamo a Sdau, Huong è già morto, ma in tanti altri l’infezione è scomparsa. L’infermiere che ci assisteva sa ora riconoscere agevolmente i malati attraverso i sintomi. E la gente è un po’ più fiduciosa.
A piccoli passi il programma sta dando i suoi frutti. Dopo tre anni di attività, in molti villaggi le «pance grosse» stanno scomparendo, ma ne restano altri in attesa. Di un po’ di salute e pace. E magari di una piroga di MSF.
LA SCHISTOSOMIASI (BILARZIOSI)
La schistosomiasi, anche conosciuta come bilarziosi, in alcune aree del pianeta è la seconda più diffusa malattia tropicale, dopo la malaria, ed è causa di una malattia potenzialmente grave. È causata dall’infezione di un parassita, le cui diverse specie causano o una schistosomiasi urinaria o una intestinale. La forma intestinale da Schistosoma mekongi rappresenta forse la forma più grave di queste infezioni, ed è diffusa in un tratto del Mekong nel sud del Laos, e in Cambogia, lungo il tratto superiore del Mekong che la attraversa ed in alcuni suoi affluenti. Si stima dell’ordine di decine di migliaia il numero dei soggetti infetti, e l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto in questa malattia una delle priorità in termini di salute pubblica nell’area.
La malattia che ne deriva è causata essenzialmente da una migrazione aberrante delle uova prodotte dal verme adulto nei plessi venosi del grosso intestino. Queste uova causano fibrosi e cirrosi del fegato, e conseguente ipertensione portale. Infezioni ripetute causano un aumento del numero di parassiti, e quindi una maggiore gravità della malattia. Per le loro abitudini i bambini rappresentano il gruppo più colpito. Non sono efficaci misure di controllo mirate, indirizzate contro l’ospite intermedio (una conchiglia che vive nelle fessure delle rocce del fiume), ma è notevolmente efficace un trattamento periodico di tutta la popolazione esposta al rischio di infezione, con una singola dose di praziquantel.
Il farmaco ha scarsissimi effetti collaterali, ed il suo impiego per campagne di trattamenti di massa ha ormai una enorme esperienza. Altre strategie di controllo, abbinate al trattamento di massa, sono l’educazione sanitaria e, quando possibile, migliorare l’igiene ambientale. L’educazione sanitaria mira a ridurre il versamento delle feci umane nei corsi d’acqua e a evitare il contatto delle persone con l’acqua dei tratti rocciosi del fiume. Questo dovrebbe fornire il risultato di diminuire il numero di infezioni successive. La costruzione di latrine rappresenta un importante traguardo, e non solo per la schistosomiasi. Ma il costo rende questo obiettivo irraggiungibile.