DOSSIER GIUDIZI E PREGIUDZISotto tutte le latitudini

PAGINE BIANCHE
Bellaria (RN), 13 settembre 1998. Al termine del Convegno missionario nazionale, il vescovo Renato Corti esortava a leggere «il libro delle missioni», per conoscere ciò che molti fratelli compiono per il vangelo, a servizio dell’uomo.
«Il libro delle missioni» è gli Atti degli apostoli. Un libro speciale, perché incompiuto, con tante pagine bianche messe a disposizione di chi voglia raccontare la sua fede in Colui che si è fatto uomo, ha patito, è morto e ora resta con noi sino alla fine dei tempi. Molte di queste pagine sono state riempite dai missionari e missionarie della Consolata: costituiscono la rivista Missioni Consolata, giunta alla bella età di 100 anni.

o C’era una volta
L’intuizione (100 anni fa davvero anticipatrice) fu del beato Giuseppe Allamano e del suo geniale collaboratore Giacomo Camisassa. Nel gennaio 1899 fondarono a Torino il mensile La Consolata, organo dell’omonimo santuario, di cui erano rispettivamente rettore e vicerettore.
L’Istituto Missioni Consolata (il capolavoro dei due preti torinesi) era ancora in gestazione, ma già se ne intravvedevano le premesse. Il periodico, infatti, si proponeva di informare sulla devozione alla Vergine Consolata: in Piemonte, specialmente, dove esistevano chiese e cappelle che portavano il suo nome. «Daremo notizie (anche) – scriveva il mensile – sulla devozione alla Consolata nel resto d’Italia, in Francia, Inghilterra e nelle Americhe dove i nostri emigrati portano questo tesoro di pietà e di speranza» (La Consolata, numero 1, 1899).
Questa apertura al mondo si ampliò grandemente con la fondazione dell’istituto missionario. La rivista seguirà il cammino dei missionari della Consolata, fino a occupare la maggior parte delle pagine d’ogni numero. Attraverso testimonianze e reportages, i lettori saranno coinvolti nell’opera missionaria: attratti dall’Africa, dai suoi popoli, dai loro usi e costumi, dalla cultura e religione.

o IL PONTE SPECIALE
Dopo la morte del beato Allamano (1926), data la crescita dell’istituto, si giunse ad una opportuna distinzione. La Consolata si trasformò in due pubblicazioni:
Il santuario della Consolata
e Missioni Consolata.
Ognuna si rivolgeva al proprio campo d’azione. Tuttavia la comune origine contagerà sempre ambedue i giornali e manifesterà il valore del legame tra la Consolata e la missione.
I missionari saranno un «ponte»: porteranno nel mondo la Consolata e, con lei, la fede ricevuta nei paesi di origine, e a questi faranno conoscere i popoli presso i quali operano.
L’Allamano comprese l’importanza dell’informazione che crea scambio, stima e solidarietà: e, fatto significativo per quei tempi, presentò l’abbonamento alla rivista come un mezzo per «aiutare le missioni». Foì i missionari di penna e macchina fotografica, per riprendere e comunicare ciò che incontravano. A ognuno chiedeva notizie sulla salute, le impressioni di viaggio, le difficoltà, l’andamento della missione. E ancora: informazioni sui costumi locali, la geografia, l’etnografia, la storia naturale, nonché conversazioni, detti e proverbi della gente.
L’Allamano aggiungeva: «Mi è impossibile enumerare ciò che dovete dire: vi basti ricordare ciò che fanno le cronache dei giornali e le minute descrizioni che danno dei fatti che succedono».

o UN OCCHIO BENEVOLO
Missioni Consolata, «il libro delle missioni», ha fatto conoscere le genti. Questo non tanto per soddisfare la curiosità dei lettori, ma per farli crescere nell’apprezzamento dei popoli. Non era poco in un tempo di colonialismo, con il senso di superiorità dell’occidente (italiani non esclusi) sul resto del mondo.
E non è poco oggi. C’è bisogno di uscire dai pregiudizi che impediscono la convivenza tra persone e gruppi di cultura diversa.
Fin dall’inizio la rivista ha presentato in modo positivo i popoli presso i quali i missionari lavoravano. I galla (oromo) dell’Etiopia, ad esempio, sono descritti: «gente di carattere schietto, portamento dignitoso e ospitale con lo straniero, facile alla compassione, energicamente fiera, di mente pronta e sveglia». Così i kikuyu, definiti «bella razza, valenti fabbri; sotto la pelle nera hanno un cuore buono e sentire delicato».
I missionari hanno proseguito nella linea tracciata dal fondatore e, nell’arco di 100 anni, la loro rivista ha passato in rassegna i popoli: la loro storia, il sofferto cammino per l’indipendenza, lo sviluppo e la cultura.
Nello stesso tempo i missionari hanno narrato il cammino del vangelo: la nascita e crescita di nuove chiese, frutto della loro evangelizzazione, fino alla maturazione. Anche in questo le indicazioni dell’Allamano erano precise: «Riferire in qual modo accolgono le vostre parole, quali impressioni fanno su di essi; le interrogazioni e obiezioni che vi fanno sulle verità della fede, come accolgono gli insegnamenti religiosi che avete loro fatto».

o FELICI ANCHE IN TERRA
L’Allamano mirava all’«elevazione» dei popoli, per renderli artefici del loro benessere. Il principio ispiratore era: lavorare alla conversione al vangelo, promuovendo lo sviluppo sociale. «Fateli felici anche in terra» ripeteva ai missionari. Una felicità frutto di fede, maturità, responsabilità, lavoro.
Il vangelo è promozione, soprattutto dei poveri e degli indifesi, di coloro ai quali vengano negati i diritti fondamentali.
L’Allamano mandò i missionari a portare «consolazione», che si traduce in presenza, solidarietà, impegno per la giustizia e la pace, sviluppo e liberazione. Questo avviene anzitutto con l’annuncio del vangelo, che suscita il senso di dignità in ogni figlio di Dio, aiuta a «essere di più» anche se «si ha di meno». Ogni popolo ha la capacità di assumere le proprie responsabilità.
L’attenzione all’umano era una caratteristica dell’Allamano, manifestata in ogni ambiente in cui operava. Aveva un atteggiamento che il biografo, Domenico Agasso, ha espresso con «immersione». A Torino era ricercato per l’acutezza delle analisi e la sicurezza dei consigli, perché sapeva immedesimarsi nelle situazioni e farle sue.
Lo stesso fece con l’Africa lontana e a lui sconosciuta. Imparò a conoscerla dai missionari: e pervenne a una comprensione dei problemi con la sicurezza di chi si è preparato con anni di ricerca specifica, proprio perché vi si «immergeva».
L’Allamano è l’uomo della missione modea, con una straordinaria capacità di vivere le situazioni lontane, senza tuttavia muoversi dalla sua terra… «sempre ruminando i problemi di casa sua e dell’Africa» (Agasso).

o IN FESTA
In questo stile è stato celebrato il centenario di Missioni Consolata, che il 24 ottobre 1998 ha riunito a Torino personalità di spicco per discutere un tema di attualità:
Il sud del mondo fra giudizi e pregiudizi.
Ne è scaturito un convegno di alto livello culturale, secondo l’indirizzo che la rivista ha sempre cercato di avere.
La festa è stata pure un’occasione per ricordare chi ha profuso con professionalità le migliori energie nella redazione della rivista: Giacomo Camisassa, Filippo Perlo, ecc. Senza scordare gli ultimi direttori e redattori: sono missionari che lavorano al computer e navigano in internet, affiancati da laici competenti e appassionati.
Anche la loro è «missione», perché diffonde l’amore ai popoli, sollecita solidarietà, crea amicizia. Sotto tutte le latitudini.
p. Gottardo Pasqualetti
superiore dei missionari della Consolata
in Italia

Francesco Beardi




CILEVoglia di sognare

Dal secondo «Congresso latinoamericano
di pastorale giovanile»,
qualche spunto di cronaca e alcune riflessioni.
Per uno scambio tra mondi, ritenuti a volte
un po’ lontani, e per imparare anche da loro:
per esempio, ad essere più audaci e creativi.

D al 3 all’11 ottobre scorso si è svolto a Santiago del Cile il secondo Congresso dei giovani dell’America Latina: una tappa fondamentale nel cammino di progettazione e riflessione sulla realtà giovanile, già iniziato nel 1992 con il primo Congresso, tenutosi a Cochabamba in Bolivia.
Partecipandovi come invitato per la Pastorale giovanile italiana, ho potuto incontrare e dialogare con giovani, sacerdoti, suore e vescovi di 22 nazioni, che rappresentavano realtà spesso molto diverse tra loro: talvolta anche in contrasto, ma unite da un profondo senso di appartenenza ad una terra con una grande voglia di riscatto, desiderosa di gestire in modo autonomo e democratico il proprio sviluppo sociale e spirituale.
Ho così avuto la possibilità di scoprire un’America Latina molto più matura e responsabile di quella che viene solitamente presentata a noi «occidentali», nell’intento forse di giustificare una tutela economica e politica attuata dai paesi più ricchi e potenti, in primo luogo gli Stati Uniti.
Già il tema del Congresso («I giovani con Cristo, trasformando l’America Latina con giustizia e speranza») ha evidenziato una acuta sensibilità per i problemi di ineguaglianza e discriminazione sociale-economica che affliggono il continente, ma che vengono affrontati con fiducia.
Mi ha affascinato questo atteggiamento positivo e propositivo, che non si lascia sopraffare dagli enormi problemi che investono, in modo diverso, tutto il territorio latino-americano (povertà, narcotraffico, dittatura, violenza…). I giovani riuniti a Santiago sono partiti da un’analisi lucida e dettagliata della realtà attuale (riassunta in una serie di desafios, sfide), che ha rappresentato il terreno dal quale si sono sviluppati, in un secondo momento, i documenti di indirizzo e le linee prioritarie della Pastorale giovanile (definite «lineas de accion»).
Negli atti ufficiali del Congresso si legge un’esplicita condanna, da parte dei giovani, della società neoliberale, «che aumenta l’emarginazione sociale, il debito pubblico, lo sfruttamento minorile, il divario tra ricchi e poveri» (Desafio n. 1).
A questo modello neoliberale, simbolo della contraddizione di un sistema socio-economico mondiale che assicura la vita a pochi e l’indigenza a troppi, i giovani sudamericani contrappongono la necessità di una chiesa che «accompagni i giovani a partecipare nei processi politici». Questo suppone una formazione integrale, basata sulla dottrina sociale della chiesa e capace di individuare alternative economiche di autorealizzazione e autogestione, per contribuire ad un miglioramento della qualità della vita.

U n limite in questa analisi è un’eccessiva semplificazione, che non tiene conto delle complesse conseguenze del processo di globalizzazione. Vengono indicate soluzioni approssimative e vaghe.
Tuttavia ho apprezzato nei giovani latinoamericani una qualità che noi, «occidentali», abbiamo drammaticamente perso: la creatività, ossia la capacità di sognare un mondo diverso da quello attuale, la capacità di immaginare che possano esistere altre ipotesi di organizzazione sociale, al di là dell’attuale struttura socio-economica.
I giovani non si arrendono all’idea di una realtà immodificabile e di un sistema neoliberale insito nel genoma dell’uomo. Però faticano a tradurre il cambiamento desiderato in strategia politica e, soprattutto, in dialogo propositivo con organismi inteazionali, senza il cui appoggio ogni tentativo di modifica è vano.
C’è, infatti, sfiducia nelle reali intenzioni dell’Occidente e nell’intervento diplomatico, ben riassunto nelle parole di Raquel, giovane delegata della pastorale giovanile paraguaiana: «Ho ancora fiducia che, guidati dalla Parola di Dio, si possa riscattare questa terra dai suoi peccati, ma diffido di chi si accorge dei drammi dell’America Meridionale solo per l’uccisione dei bambini da parte della polizia, o il massacro degli indios, e dimentica che ogni giorno, qui, muoiono centinaia di bambini che non hanno quasi mai conosciuto un sorriso… Il problema è economico e sociale e non riguarda solo noi, ma anche gli interessi e l’egoismo di chi si crede buono e democratico in altre parti del mondo».

A ltri temi scottanti affrontati dai giovani al Congresso sono stati:
– il ruolo della famiglia, «riscoperta come progetto di Dio, comunità di vita e amore, in grado di disceere dai valori imposti dalla società e di poter contribuire alla costruzione di una società nuova, segno del regno di Dio» (Linea de accion n. 4);
– la «scelta per i giovani e i poveri del continente, mediante la creazione di forme concrete di partecipazione e l’individuazione di progetti di autofinanziamento economico, che consentano di realizzare i programmi di evangelizzazione, formazione e missione della pastorale giovanile» (Lineas de accion n. 12/18);
– la creazione di «processi di elezione di assessori di pastorale giovanile, che partano da persone proposte all’interno di gruppi giovanili, prendendo in esame criteri come la vocazione, la formazione e la reale scelta preferenziale per i giovani» (Linea de accion n. 21).
Inoltre sono stati approvati documenti che richiamano la pastorale giovanile ad un maggiore impegno per coloro che sono costretti ad emigrare, «vittime dei trafficanti di carne umana, delle politiche discriminatorie dei loro paesi, della droga, della prostituzione» (Pronunciamento para una pastoral juvenil migratoria).
Non manca un invito al papa a farsi portavoce della richiesta di «condono del debito esterno di questi popoli, come un gesto di unità mondiale e come segno concreto della celebrazione del giubileo dell’anno 2000» (Condonacion de la deuda extea).

È utile per noi, giovani italiani e, per la nostra chiesa confrontarci con le proposte e sfide che ci lanciano i fratelli dall’altra parte dell’Oceano. È un importante stimolo per riportare l’attenzione su temi da noi spesso considerati obsoleti, anacronistici: come la capacità di rinnovare la scelta di una vita semplice, attenta ai problemi dell’emarginazione e in grado di testimoniare, con gioia, bontà e entusiasmo, strade nuove di convivenza.
Nello stesso tempo, è altrettanto importante che la chiesa latinoamericana sappia allargare i propri orizzonti, sviluppando con maggiore sforzo e interesse i temi riguardanti la sfera intima di ciascun individuo, accogliendo alcuni spunti di riflessione che animano, invece, intensamente la nostra realtà pastorale.
Colpisce, ad esempio, che fra le oltre 20 linee di azione, individuate come prioritarie per la pastorale giovanile sudamericana, non si faccia mai riferimento a tematiche che i giovani sperimentano quotidianamente: amicizia, rapporto di coppia, sessualità… Un altro limite mi è parso l’uso di un linguaggio «ingessato» e burocratico, nel quale i giovani faticano ad identificarsi, perché molto diverso dal gergo con cui esprimono timori e desideri.
Ogni esperienza di fede, all’interno della chiesa, rappresenta una ricchezza, pur con i suoi limiti e peculiarità. Credo perciò che una reciproca attenzione e una volontà di condivisione siano non solo auspicabili, ma ora più che mai necessarie, in vista della celebrazione del giubileo del 2000. Un giubileo che sarà, anche solo per ragioni geografiche, molto «occidentalizzato».
Pertanto è ancora maggiore il bisogno di individuare forme celebrative, testimonianze di fede, scelte prioritarie diverse fra loro e, tuttavia, comune espressione di una molteplicità di doni spirituali e morali, raccolti nell’universale chiesa di Gesù Cristo.

Massimo Collino




KENYAScommettiamo sui giovani (seconda parte)

Continua il viaggio nella diocesi di Marsabit.
Morijo, Maralal, Wamba: stessi problemi di povertà,
insicurezza, banditismo, impraticabilità delle strade…
E identiche testimonianze di amore e di speranza:
missionari e missionarie della Consolata investono
la loro vita in istruzione e sanità, per un futuro migliore
di queste regioni e del resto del paese.

Morijo: 2.000 metri di altitudine. L’aria è frizzante, ma l’accoglienza di padre Aldo Vettori è calorosa: «Per i superiori questa è una missione ad personam» esordisce con una fragorosa risata. L’ha iniziata 11 anni fa, partendo da zero, dopo aver fondato e organizzato la missione di Barsaloi.
Padre Aldo racconta a ruota libera virtù e miracoli dei suoi samburu; fornisce la sua versione sulle passate lotte tribali; descrive con passione il suo lavoro missionario, catechisti e catecumenati, organizzazione comunitaria impressa alla parrocchia, progetti realizzati o ancora nel cassetto. Rimango a bocca aperta, come 42 anni fa, quando raccontava le avventure di naia e lotte sindacali. Non è cambiato di una virgola: sempre entusiasta di tutto e di tutti. Essendo io cresciuto, faccio mentalmente un po’ di tara.
I fatti mi fanno ricredere. Morijo è un cantiere aperto: nel cortile i meccanici aggiustano le macchine; nella falegnameria stridono pialle e seghe; poco lontano alcune donne sistemano la cucina della scuola, i muratori riparano le case dei maestri, altri costruiscono la sede della polizia. Qui padre Aldo alza la voce: minaccia il governo di sospendere tutto, se non arriva il granoturco promesso per pagare lavoro e materiale. Gli operai gli danno ragione e continuano la costruzione.
Visitiamo il dispensario, la scuola, l’asilo, il laboratorio di taglio e cucito e il serbatornio dell’acqua: fiore all’occhiello della missione. Da lontano sembra un diroccato castello medievale, da vicino un’opera geniale: il fianco d’una collina è stato sbancato, pavimentato e circondato da un muro, per raccogliere l’acqua piovana e convogliarla in un’enorme cisterna. Per le stagioni secche, padre Aldo ha scovato una falda acquifera in una valletta; ha scavato un pozzo di 140 metri e, con un motore, pompa l’acqua nel serbatornio. Le famiglie più isolate, con casa in muratura e tetto di lamiera, sono aiutate dalla missione a costruirsi un modesto serbatornio dove raccogliere l’acqua piovana: è il «progetto anfora».
La visita è quasi finita. Uno stuolo di donne aspetta il missionario per esporgli i loro problemi, sicure di ricevere un aiuto. Ci sono anche alcuni catechisti e uomini armati. «Sono le mie “guardie del corpo” – dice padre Aldo sorridendo -. Ogni notte si dispongono strategicamente attorno al villaggio, per difenderlo dai malintenzionati. Qui mi sento sicuro».
Morijo è l’unica missione senza reticolati, muri di recinzione e cancelli blindati, eretti negli ultimi anni per motivi di sicurezza in tutte le missioni visitate.
Alcune persone sono venute a vendere latte, favi di miele, legna, carbone. Padre Aldo compera tutto, aiutando la gente a guadagnarsi qualche soldo; poi lo rivende ai poveri a minor prezzo di quanto lo ha pagato. Confratelli un po’ maligni raccontano che uno stesso sacco di carbone venga più volte comprato e rivenduto agli stessi poveri. Padre Aldo ha un cuore troppo grande per accorgersi di tali sottigliezze.
A proposito di cuore: padre Aldo, 68 anni, di cui 30 vissuti in Africa da pioniere solitario, ha fatto tre by pass, ma si sente ringalluzzito. «Per ringiovanire l’istituto, ho suggerito al superiore generale di sottoporre i vecchietti alla stessa operazione» dice ridendo sonoramente. Poi confessa di non poter guidare a lungo come una volta; che preferisce il giorno alla notte, perché può muoversi e respirare senza fatica.
I superiori tentano di dargli un collaboratore: ma non è facile trovare chi resista ai suoi ritmi. Gli hanno proposto il trasferimento in una parrocchia più comoda, anche se sanno che, dovunque andasse, comincerebbe a mettersi in proprio e fonderebbe un’altra missione ad personam.

Maralal, ore 6.30, concelebro con padre Marino Gemma: da una collinetta poco lontana un altoparlante vomita musica assordante, seguito da un sermone a squarciagola. «È così ogni mattina – spiega padre Marino -. La chiesa dell’Assemblea di Dio è sempre vuota, ma il pastore fa la predica a tutta la città. Qui i cattolici sono in maggioranza; ma il pullulare di sètte religiose sta creando grande confusione, specie tra i giovani».
I giovani: sono la grande sfida della parrocchia di Maralal; se ne contano a migliaia nelle numerose scuole elementari e superiori della città. Se ne occupa padre Marino quasi a tempo pieno: ogni giorno, al pomeriggio, si reca nelle varie scuole per insegnare religione, incontrare gruppi di Azione cattolica e istruire catecumeni; la sera visita una delle 16 piccole comunità cristiane della città. «Sono quasi tutte formate da kikuyu: è bello vedere come la fede sia radicata nella loro vita; più che nei cristiani di qualsiasi altra etnia».
La parrocchia è il punto di riferimento della gioventù anche fuori della scuola. Ogni fine settimana vengono organizzati toei sportivi e competizioni culturali. «Non si tratta solo di farli divertire – spiega il missionario -, ma di promuovere conoscenza reciproca e amicizia, di cui sentono tanto bisogno.
Le attività giovanili culminano con la Consolata Cup, nel mese di giugno, a cui partecipano tutte le scuole di Maralal».
Altre opere a favore della gioventù sono gestite dalle missionarie della Consolata, come il collegio per studentesse di scuole secondarie e l’«Irene Training Center»: un istituto professionale, dove le ragazze si specializzano in tessitura, cucito, maglieria, lavorazione del cuoio, scienze domestiche, e conseguono un diploma che le abilita all’esercizio di una professione e a insegnare le materie in cui si sono specializzate.
Capoluogo amministrativo del distretto Samburu, Maralal è anche il cuore della diocesi di Marsabit: qui c’è il seminario minore, diretto da padre Paschal Libana, missionario della Consolata tanzaniano; l’ex seminario maggiore (oggi filosofi e teologi studiano a Nyeri) ospita il centro pastorale, dove padre Roberto Sibilia dirige corsi di formazione per animatori e agenti pastorali e cura la pubblicazione di numerosi sussidi catechetici e liturgici in lingua inglese, samburu e swahili; il centro catechetico è in fase di ripensamento, ma continua la formazione dei catechisti nelle singole parrocchie.
La tabella di marcia non mi consente di sostare in tutte le missioni, ma una fugace visita a Suguta Marmar, 30 km da Maralal, è doverosa. Vi incontro un novizio d’eccezione, che emetterà la professione religiosa a metà marzo: è don Pietro Tablino, missionario fidei donum della diocesi di Alba, una vita spesa nelle regioni più inospitali del Marsabit. «In fondo al cuore mi sono sempre sentito missionario della Consolata – dice sorridendo -. È ora che lo diventi anche giuridicamente».
Wamba: la scuola secondaria «Santa Teresa» celebra 25 anni di vita. Nei viali fioriti c’è un indescrivibile viavai di colori, dal bianco e azzurro delle divise delle alunne, alle tinte smaglianti dei vestiti di signore sofisticate, dal nero dei veli musulmani ai variopinti oamenti samburu.
Alle 11 gli invitati affollano il salone parrocchiale. Per tre ore s’intrecciano discorsi, canti, danze e scenette. Comincia la preside, suor Giuseppina, ricordando gli obiettivi raggiunti dalla scuola: «Oltre 1.230 ragazze hanno completato con successo i quattro anni di formazione umana e accademica: sono state stimolate a sfruttare le doti personali e diventare responsabili del proprio e altrui futuro».
Una ventina di prosperose ex alunne raccontano la loro storia: sono insegnanti, infermiere, assistenti sociali, segretarie di provveditorati e aziende, impiegate e imprenditrici; altre frequentano ancora l’università. «Se siamo ciò che siamo, lo dobbiamo alle basi ricevute in questa scuola», affermano le signore Kaparo e Lesirma, rispettivamente mogli del presidente dell’Assemblea nazionale e del segretario del Parlamento.
Il signor Lengala, provveditore agli studi per il distretto Samburu, sottolinea l’eccellenza dei risultati ottenuti fin dagli inizi, che fanno di «Santa Teresa» un esempio per le scuole del distretto e di tutto il territorio nazionale. Poi aggiunge lodi e ringraziamenti per tutti, vivi e defunti: missionari e missionarie che hanno investito vita e mezzi materiali in questa istituzione e continuano a sponsorizzare le ragazze più povere; mons. Carlo Cavallera, primo vescovo di Marsabit, che ha scommesso sull’istruzione e promozione della donna; l’attuale vescovo, mons. Ambrogio Ravasi, che continua a sostenere questa scuola e altre opere sociali.
A parte la retorica di circostanza, Wamba è lo specchio di quanto è avvenuto nell’intero territorio di Marsabit: tutto ciò che esiste, nel campo dello sviluppo e promozione umana, istruzione e sanità, è opera della chiesa e dei suoi missionari.
Per 10 volte padre Lorenzo Rosano si era visto rifiutare dalle autorità coloniali il permesso di stabilirsi a Wamba, essendo zona d’influenza protestante. Ma continuò a fare il missionario ambulante tra Maralal e Wamba, fermandosi per i tre giorni consentiti. «Ironia della sorte – racconta padre Giuseppe Gorzegno -, per tutto il tempo in cui rimaneva a Wamba, padre Lorenzo era ospite di un catechista protestante di nome Filippo. È morto nel 1984. Mentre lo assistevo all’ospedale, mi diceva con orgoglio di essere stato il primo catechista cattolico di Wamba; raccontava della bontà del tenace missionario e dei palloni che gli portava per fare giocare i bambini».
Con l’indipendenza del Kenya, arrivò il sospirato permesso, nel 1965. «Quel giorno padre Rosano scrisse nel diario di aver pianto di gioia» continua padre Gorzegno. Accorse subito mons. Cavallera: piantò la tenda, radunò gli anziani e ottenne il terreno per costruire la scuola e il dispensario. Era la politica del vescovo pioniere: evangelizzare promuovendo istruzione e sanità.
Il ciclo elementare, nel 1973, sfociò nella scuola secondaria: Wamba Boys, per ragazzi, poi nazionalizzata, e «Santa Teresa», per le ragazze, gestita ancora oggi dalle missionarie della Consolata.
Anche le suore sono state protagoniste della crescita di Wamba. Attualmente sono quindici, in maggioranza impegnate nella scuola e ospedale; tre collaborano nelle attività della parrocchia: asili, catechesi, gruppi di donne e giovani, servizio della carità. «Quando qualcuno viene a chiederci aiuto, lo mandiamo da suor Michelita e lei risolve tutti i casi» racconta padre Giuseppe.
Dopo tanti anni di servizio in ospedale, suor Michelita continua a fare l’infermiera ambulante, scorrazzando in bicicletta per tutto il villaggio e dintorni: visita le famiglie povere, assiste gli ammalati a domicilio, distribuisce medicine e consolazione. Quando si ferma, è subito attorniata da un nugolo di poveri: ascolta, fa coraggio e aiuta più che può.

È domenica. Wamba riprende ad animarsi fin dalle prime ore del mattino. Alle sette, la prima messa è affollata da suore, personale medico, studenti infermiere e ragazze della scuola Santa Teresa. La seconda, alle 9.30, dura quasi due ore. Animano la liturgia gli Wamba Boys, che, secondo il costume samburu, cantano con tutta la voce in canna.
Il pomeriggio visito l’ospedale. Pare un giardino: bougainvillee multicolori e sfavillanti oano i viali e pensiline che collegano i vari padiglioni. Ordine e pulizia dappertutto. L’attrezzatura dei vari reparti non ha nulla da invidiare agli ospedali europei.
Il dispensario, nato nel 1965, è cresciuto celermente, diventando un ospedale con oltre 150 letti e, grazie alla dedizione del dottor Prandoni e della sua équipe medica, la sua fama è dilagata sino ai confini dell’Etiopia e Somalia. «I malati arrivano da centinaia di chilometri – afferma padre Giuseppe -. Molti musulmani lo preferiscono agli ospedali governativi più a portata di mano».
Sostenuto e amministrato per molti anni dai missionari della Consolata, l’ospedale di Wamba è passato sotto la responsabilità della diocesi e, attraverso una rete di amici e organismi inteazionali, si è reso autosufficiente. Molti dottori e professori italiani vengono a prestarvi servizi specialistici gratuiti.
Accanto all’ospedale, un’altra prestigiosa istituzione per la costruzione del futuro del Kenya: la scuola per infermiere, l’unica in tutta la diocesi. Gestita da una suora della Consolata, con la collaborazione d’insegnanti formati in loco, la scuola assicura il servizio all’ospedale di Wamba e fornisce personale qualificato e specializzato a quelli governativi.
La visita si conclude alla Huruma home (casa della misericordia), aperta dalla diocesi nel 1990 per bambini handicappati fisici e mentali. Tre suore indiane e alcune donne africane stanno imboccando alcuni bambini. Altri riescono a nutrirsi da soli. «Ne abbiamo 25, tra 2 e 15 anni – spiega la suora direttrice -. Otto di essi fanno fisioterapia nell’ospedale, perché imparino a badare a se stessi il più possibile. Ma il loro male più grave è la mancanza di affetto: sono rifiutati dalla famiglia, che li ritiene una maledizione. Abbiamo tentato inutilmente di convincere i familiari a riprenderli in casa; abbiamo organizzato delle feste per i genitori, con la presenza del vescovo, perché vengano almeno a visitarli; ma pochissimi si sono presentati. Oramai, per queste creature, siamo noi le loro mamme».

Benedetto Bellesi




ARGENTINAI maestri di Menem

La «carpa blanca» dei docenti argentini è simbolo della lotta di tutti i lavoratori contro una concezione economica che non rispetta la dignità delle persone.
E che ha generato quasi 9 milioni di poveri, il 25% della popolazione argentina.

Buenos Aires – È una protesta straordinaria per la durata, la partecipazione, l’originalità. Dal 2 aprile 1997 gruppi di docenti argentini si alternano in uno sciopero della fame effettuato in una grande tenda piantata in «Plaza de los Dos Congresos», proprio davanti al palazzo del parlamento.
L’inquinamento atmosferico (che nella capitale è notevole) ha trasformato il suo colore bianco in un grigio sporco, ma poco importa. Per tutti è la Carpa blanca.
In questi quasi due anni, in essa sono passati più di 600 digiunanti, che si danno il cambio ogni 15/20 giorni. Maestri, precettori, professori, direttori: docenti di tutti i tipi (con l’esclusione dei professori universitari) e di tutte le province argentine si danno il cambio per contribuire di persona a uno sciopero che non ha precedenti nella storia sindacale del paese.
Gli obiettivi della lunghissima battaglia non si limitano a richieste di aumenti salariali (per tutti i livelli e in tutto il paese, da La Quiaca alla Terra del Fuoco), ma sono finalizzati a una revisione integrale del sistema educativo dell’Argentina.
I docenti chiedono la creazione di un «fondo de financiamento educativo» e una nuova legge di «educación pública nacional»; respingono, inoltre, tutti i progetti governativi che prevedano l’introduzione della flessibilità sul lavoro e la soppressione della copertura sanitaria pubblica per i lavoratori dell’educazione.

UNA LEZIONE PER TUTTI

Entriamo da una porticina laterale, quasi in punta dei piedi per timore di disturbare. Ma all’interno c’è molto movimento. Marta Maffei, segretaria generale del CTERA (la «Confederation de Trabajadores de la Educación de la Republica Argentina», che rappresenta 192.000 docenti), è intervistata da un gruppetto di giornalisti. Alcuni studenti parlano con un’insegnante. Altre persone stanno disegnando manifesti di protesta. Ci sono sedie accatastate, tavoloni pieni di carte, lavagne con messaggi di tutti i tipi, un televisore acceso.
Gli scioperanti si riconoscono immediatamente, perché indossano un camice bianco, e una targhetta avverte che sono maestri in sciopero della fame. In tre si offrono di farci da guida. Cesar Olivares è precettore a Moreno, nella provincia di Buenos Aires; Margherita Aqueveque insegna contabilità in una scuola secondaria nel Rio Negro; Alicia Ferrada lavora in un asilo di Esquel, nella provincia di Chubut.
La tenda è divisa in tre parti distinte: a destra (rispetto all’entrata principale) c’è uno spazio per le riunioni, le telefonate e la distribuzione delle bevande; al centro c’è una stanza per accogliere i visitatori; a sinistra c’è l’ambiente più privato, dove sono state sistemate le brande per il riposo.
Chiediamo in cosa consista lo sciopero. «Non assumiamo – ci spiega Margherita – alcun tipo di alimento. Prendiamo soltanto liquidi». E, per farci comprendere meglio l’organizzazione, ci mostra un foglio appeso a un pannello. Esso indica con precisione tutte le bevande da assumere: ogni mezz’ora, a partire dalle 7,30 del mattino, un liquido diverso (thé, mate, Seven-up, ecc.). «Questa tenda – spiega Cesar – è un esempio di pace, di lotta, di solidarietà. Noi qui dentro conviviamo con persone che non conosciamo, provenienti da altre province. C’è gente che viene da molto lontano, lasciando la famiglia per almeno 20 giorni. Gli argentini non vogliono più violenza. Per questo una manifestazione pacifica come la nostra ha l’appoggio della società».
«Il nostro salario è talmente basso che provo vergogna a dirlo» confessa Cesar. La retribuzione media per un insegnante è di 350 pesos mensili. Per comprendere l’esiguità della somma, sono sufficienti due dati: un salario di 300 pesos è considerato un salario da fame o di pura sopravvivenza; d’altra parte, secondo gli istituti di ricerca argentini, una famiglia con due bambini per coprire le necessità basilari avrebbe bisogno di almeno 1.030 pesos al mese.
«Tutti sappiamo – ha detto il deputato Andres Delich – che i problemi educativi non si esauriscono nei bassi salari dei nostri docenti. Tuttavia, allo stesso tempo, sappiamo che senza salari degni risulta impossibile qualsivoglia progetto serio di miglioramento della scuola argentina». Ma non tutti, in Argentina, sono d’accordo. Ancora in luglio, Roque Feández, ministro dell’economia, aveva detto: «È vero che i maestri guadagnano poco, ma è altrettanto vero che lavorano poco».
Marta Maffei, appena riconfermata alla testa del CTERA, porta dei grandi occhiali e un telefonino che squilla in continuazione. Ci dice: «Nella carpa, nelle strade, nelle scuole continuiamo a lottare per un’Argentina giusta per tutti. Noi non vogliamo un maquillaje, chiediamo cambi profondi. Nella carpa de la dignitad, con la forza, la convinzione e la serena fermezza dei maestri abbiamo detto no alla violenza istituzionale, alla rassegnazione, all’isolamento. Abbiamo mostrato un sindacalismo differente che usa strumenti diversi. È bello poter contare sulla solidarietà della gente per combattere contro questo fondamentalismo neoliberista, globale e selvaggio».

PER UN PUGNO DI «PESOS»

Pare che la Carpa blanca dia molto fastidio al presidente Carlos Menem e ai politici della maggioranza. Quando, lo scorso settembre, si parlò di installae una anche davanti alla Casa Rosada, in Plaza de Mayo, intervenne a vietare l’iniziativa il responsabile degli interni, Carlos Corach. Il ministro giustificò il divieto affermando che Plaza de Mayo è un «monumento storico nazionale» e che, pertanto, non può essere fatta oggetto di manifestazioni.
Il governo ha sempre sostenuto che non c’è denaro per finanziare le richieste dei docenti. Per sbloccare la situazione, in settembre i deputati hanno approvato il progetto governativo di un’imposta d’emergenza dell’1% (annuale) sul valore delle automobili: il denaro raccolto in questo modo (700 milioni di pesos, secondo le stime ufficiali) avrebbe dovuto finanziare un aumento dei salari dei docenti. Il progetto è stato però modificato dal Senato e, quindi, è tornato alla Camera, dove è attualmente fermo. Nel frattempo, il mercato dell’auto è crollato dell’11%…

IL DISEGNO DI MENEM

Che il budget statale sia limitato corrisponde a verità. Inoltre, in questi anni di politiche neoliberiste, la situazione sociale è degenerata e il governo ha dovuto riempire più le pance che le teste degli scolari: le spese per dare da mangiare ai bambini hanno prevalso su quelle per l’istruzione.
Secondo dati ufficiali, oggi in Argentina ci sono 1.357.995 famiglie che vivono in condizioni critiche; il numero dei poveri arriva a 9 milioni di persone, circa il 25% della popolazione argentina. Cifre allarmanti, soprattutto davanti ai proclami trionfalistici fatti dal presidente e dai suoi ministri economici. Ma Menem non sembra preoccupato, forse perché ha deciso di rispettare la costituzione non candidandosi (sarebbe stata la terza volta consecutiva) alle elezioni del 1999. È probabile che nella sua testa ci sia un progetto di più lungo respiro: ripresentarsi nel 2003, possibilmente nelle vesti di salvatore della patria.

Paolo Moiola




OCEANIAChiesa in alto mare

Si è svolto a Roma, dal 22 novembre al 12 dicembre
1998, il primo Sinodo dei vescovi per l’Oceania.
Le giovani chiese del continente continuano l’opera
di evangelizzazione e promozione umana
tra innumerevoli sfide: isolamento geografico,
complessità dell’ambiente multiculturale e
multireligioso, confusione provocata dal pullulare
delle sètte fondamentaliste, diversità delle condizioni
socioeconomiche delle popolazioni e scarsità di aiuti.
Un insieme di chiese sorelle che chiede solidarietà.

Non è facile rintracciare sull’atlante la diocesi di mons. Guy Chevalier, Taiohae o Tafenuaenata, nella Polinesia francese. «Vescovo nelle Marchesi – spiega -, a 1.500 km dal più vicino confratello vescovo. Sono abituato a un certo isolamento. Ma c’è un isolamento molto più serio: quello delle piccole comunità cattoliche (isole, villaggi o regioni) che, per la loro collocazione geografica e l’esiguo numero di abitanti, sono abituate a vivere senza sacerdote».
Ancora più problematico scorgere le isole Cook, «molto piccole e isolate, sparse in 240 chilometri quadrati di oceano». Viene da dire: povera chiesa universale, rintracciabile solo con la lente d’ingrandimento!
UNA CHIESA GALLEGGIANTE
Al Sinodo dell’Oceania un vescovo inizia il suo intervento scusandosi di non essere un teologo, ma aggiustatore di motori. C’è da capirlo: quando il fuoribordo va in tilt, non c’è nessuno che lo ripari all’infuori di lui; l’evangelizzazione tira i remi in barca. In Oceania l’attività missionaria non si misura in passi o a chilometri, ma a ore di navigazione. Che la geografia non abbia nulla a che vedere con l’evangelizzazione è opinione da dilettanti.
Le chiese d’Africa, America e Asia, di cui si sono celebrati i sinodi, hanno in comune la terraferma, che consente loro di stabilire i punti di partenza e arrivo, di misurare le distanze prima di spiccare il volo. I popoli continentali hanno qualche goccia di sangue in comune nelle vene. L’Oceania, al contrario, galleggia sugli oceani, dando la sensazione di una piattaforma sballottata dai flutti e senza meta fissa. I suoi popoli vengono da mondi ignoti e migrano verso altri altrettanto sconosciuti.
Anche l’Australia, Nuova Zelanda e Papua Nuova Guinea, pur così immense, fanno parte di quel mondo sparso, che si staglia contro il fondo verde mare, sul quale la missione naviga da due o tre secoli e ha avuto impulso con l’arrivo dei missionari dei Sacri cuori, maristi e Pime: una missione consacrata dal sacrificio di Damiano di Molokai, Pietro Chanel, Giovanni Mazzucconi, Peter To Rot, Mary Mckillop e altri santi e beati.
Un terzo della superficie terrestre ospita poco più di 30 milioni di abitanti; 700 i linguaggi soltanto in Papua Nuova Guinea. A rappresentare questa chiesa non sono stati scelti, come per gli altri sinodi, dei delegati: l’invito è stato rivolto a tutti. Hanno risposto 37 vescovi dell’Australia, 10 della Nuova Zelanda, 19 di Papua Nuova Guinea e Isole Salomone, 15 del Cepac (Conferenza episcopale del Pacifico), comprendente le isole minori come Samoa, Tahiti, Fiji, Nuova Caledonia, Guam, Wallis e Futuna, Kiribati, Marianne, Cook, Vanuatu ecc. Ognuno con il suo carico di problemi e soluzioni mancate.
UN SINODO TUTTO DIVERSO
Di strettamente episcopale c’è in essi la croce, che deve essere pesante e faticosa da portare. Si recano a gruppi verso la sala del sinodo, dondolando le loro cartelle come vecchi compagni di scuola, conversando in inglese con accento coloniale americanizzato che li accomuna, in francese e tedesco. Ne riconosci la provenienza dai nomi: Collins, Gerry, Baes, Loft, Reichert, Kurtz, Chevalier ecc. Non manca l’italiano, anzi il veneziano: è mons. Cesare Bonivento del Pime, vescovo di Vanimo in Papua Nuova Guinea, accompagnato dal giovane assistente indiano, padre Joseph Mathai Pullanappillil. Vengono poi i capi dicastero, i membri di nomina pontificia, esperti, auditori e auditrici.
Tra queste spicca la signora Elsie Heiss, della «nazione aborigena dei wirandjuri», alta, bruna, vestita all’occidentale, con un accento inglese da intellettuale e un leggero tocco di stravaganza che la rende distinguibile a prima vista. È addetta all’ufficio per la Pastorale degli aborigeni nel settore della sanità dell’arcidiocesi di Sydney.
Sono abbastanza numerosi gli aborigeni: circa 400 mila solo in Sydney e quasi altrettanti nella diocesi di Parramatta, suffraganea di Sydney; ma per l’opinione pubblica australiana essi non supererebbero i 300 mila. Sono state abolite le riserve, monumenti eretti dalla discriminazione razziale: dal 1948 gli aborigeni hanno cominciato a essere accolti, a gruppi scelti, nelle scuole cattoliche e in quelle pubbliche. Ma nella chiesa stentano a farsi strada: non ci sono ancora sacerdoti aborigeni, soltanto qualche diacono. «Vorrei dire ai vescovi e cardinali di aprire le porte anche alla mia gente – afferma Elsie -, perché possano diventare sacerdoti. Ne abbiamo bisogno come gli altri».
Il problema aborigeno è affiorato più volte nel sinodo, mentre la signora Heiss ha fatto un intervento di grande ispirazione: «Poiché l’inculturazione – ha detto fra l’altro – rappresenta un termine accettabile per la nostra comunità ecclesiale, noi portiamo alla chiesa i nostri valori spirituali e culturali, che possono contribuire ulteriormente all’arricchimento delle comunità cristiane».
OGNI CHIESA È UN’ISOLA
Il sinodo apre i suoi lavori su «Gesù Cristo e i popoli dell’Oceania» con una panoramica d’insieme esposta all’assemblea dal relatore generale, mons. James Hichey, arcivescovo di Perth in #Australia. Prima di dare lettura della relazione, assicura i presenti che è stata commissionata una mappa della chiesa in Oceania per facilitare la comprensione degli interventi a tutti i partecipanti, compresi gli addetti all’informazione; che è quanto dire: appartenere alla chiesa d’Oceania non significa conoscere tutte le chiese della Melanesia, Micronesia, Polinesia, Australia, Nuova Zelanda e Papua Nuova Guinea, ma cercare in tutti i modi di avvicinare i popoli e le comunità accorciando le distanze che finora li hanno tenuti separati.
La missione, da quando è esistita, ha sempre avuto a che fare con linguaggi e culture, ma qui si è aggiunta un’altra barriera: quella delle distanze. «Navi, battelli, canoe e aerei – dice il relatore – in Oceania sono sempre stati più importanti che automobili e treni». Forse è racchiusa, in questa espressione ovvia, la chiave per comprendere la natura dell’evangelizzazione in Oceania, dove rari sono contatti e scambi, perché qui ogni uomo è un’isola. Non si è mai parlato di distanze nei precedenti capitoli, neppure in quello dell’Asia dove, presumibilmente, il problema esiste, ma su terra ferma.
I temi focalizzati ritornano nelle assemblee e nei lavori di gruppo, che si sono svolti dal 22 novembre al 12 dicembre. A ognuno il compito di metterli sul tavolo in modo comprensibile e condivisibile da tutti.
SFIDE DI CULTURE E SÈTTE
In questa comunità di intenti e nella fede partecipata si riconosce la chiesa di oltre mezzo mondo, rappresentata da un pugno di uomini e di donne. Ritorna con martellante insistenza il tema dell’incontro del vangelo con la cultura, che non avviene in modo indolore, perché ogni penetrazione del vangelo cambia pensiero e vita. Il prefetto apostolico delle isole Marshall, il gesuita C. Gould, invita alla sfida, «laddove la cultura dominante sembra contraria al vangelo e al modo di vivere cristiano».
L’intento è buono, ma la comunità è troppo fragile per resistere alle sollecitazioni della tradizione e delle novità. A volte stravolge il senso del vangelo e ne ricava soluzioni deformanti, come le sètte. Sono queste un fenomeno deviante che non risparmia nessun angolo dell’Oceania. Alcune sono importate, altre di origine locale. «Nelle Samoa americane – dice mons. Quinn, vescovo di Samoa-Pago Pago – gruppi religiosi a tendenza fondamentalista fanno riferimento a comunità religiose della “corrente principale”, sia protestante che cattolica, e attraggono persone di ogni età, grazie allo stile accattivante, compartecipazione, musica e finanziamenti esteri». Preoccupa i vescovi la divisione che le sètte operano in alcuni villaggi, mettendo a nudo «il punto debole del cattolicesimo»; come preoccupa il crescente numero di matrimoni misti e separazioni che ne conseguono.
E qui viene messo in causa il Codice di diritto canonico del 1983: a giudizio di mons. Boyle, vescovo di Donedin (Nuova Zelanda), esso lega le mani a vescovi e sacerdoti più di quello del 1917, al punto che ciò che era permesso prima è vietato oggi, e viceversa. È permesso solo ciò che dice il Codice. Questo criterio, a giudizio del presule e di altri, oltre che creare confusione nei sacerdoti, determina una fuga dalla chiesa a tutto vantaggio delle sètte.
«Talora – annota mons. Lolesio Fuahea, vescovo locale di Wallis Futuna – le sètte sono dei circoli chiusi, formati da gente influente, che cercano di dominare il paese e la chiesa». In Papua Nuova Guinea molte sètte deriverebbero dalla cosiddetta cargo mentality, che intende entrare in possesso dei beni che gli europei hanno sottratto con l’astuzia, facendo uso degli stessi metodi.
LOTTA ALL’IGNORANZA
Il proliferare delle sètte viene attribuito specialmente all’ignoranza religiosa dilagante ovunque. Le scuole cattoliche, che formavano la base per una evangelizzazione intelligente e cosciente, danno segni di cedimento e laicismo. L’allarme sale da più parti. Il vescovo autoctono di Suva nelle Fiji, Petero Macata, teme per il futuro della scuola, a motivo del dilagare dei «nuovi gruppi religiosi (sètte), che offrono un consistente supporto finanziario per colpire i cattolici di spicco proprio nell’istruzione dei loro figli. Soldi per i pesci grossi… Speriamo di poter conservare le nostre scuole». Nel caso contrario, la chiesa perderebbe la base più importante della sua evangelizzazione, che aveva di mira la formazione di un laicato efficiente e responsabile.
Al problema della scuola è direttamente legato quello della formazione dei catechisti e, soprattutto, dei sacerdoti. «Il numero delle vocazioni locali – ammette il card. Tomko – aumenta con buon ritmo, anche se insufficiente». Più esplicito mons. Cesare Bonivento della Papua Nuova Guinea, per il quale il problema non sta solo nella quantità e qualità dei candidati, ma anche nell’impegno dimostrato dai pastori. «Se ci impegneremo poco in questa direzione – avverte – daremo sempre l’impressione che la nostra chiesa è riluttante a diventare chiesa locale».
Molti altri i problemi studiati e dibattuti: comunione e dialogo; diritti umani e insegnamento sociale della chiesa; problema dei sacerdoti soli, dei diaconi sposati, dei catechisti facenti funzione di preti, di comunità rimaste senza eucaristia sei mesi all’anno.
C’è soprattutto un senso di impotenza, a partire dai vescovi stessi, i quali si sentono incapaci di intervenire, perché privi dei collegamenti necessari, non esclusi quelli finanziari. Qualcuno ha espresso la propria «preoccupazione per il fatto che i criteri delle agenzie di benefattori, specialmente quelle cattoliche, possono essere diversi da quelli delle nostre aree in via di sviluppo. Si spera che i criteri di donazione non escludano i bisogni delle chiese particolari in Oceania o in qualunque altro posto».
Un appello alla solidarietà mondiale perché non distingua tra poveri in macchina e poveri in canoa.

Giovanni Tebaldi




LETTERAChi è il più bravo?

Caro direttore,
esprimiamo le nostre perplessità sull’articolo di Piergiorgio Gilli, «Portatori di un vangelo eterno», apparso sul numero speciale per i 100 anni di Missioni Consolata. Non ci ritroviamo nella visione che, del laico volontario ad gentes, l’articolista offre. Consideriamo riduttiva l’interpretazione del documento «I laici nella missione ad gentes e nella collaborazione tra i popoli – Conferenza episcopale italiana (Cei), 1990», anche a partire dall’esperienza di vita che abbiamo maturato come operatori della solidarietà internazionale.
Dal documento della Cei si può tracciare un identikit del laico «in missione» molto più ricco di quello tratteggiato nell’articolo. Per Gilli la funzione del laico si esaurirebbe in una «diaconia permanente». Invece il numero 49 del documento citato, dove si parla degli ambiti in cui si manifesta l’impegno dei laici in missione, oltre ad indicare «una collaborazione diretta con la chiesa locale e con gli istituti in settori strettamente pastorali», non tralascia, come aspetti parimenti importanti, la «cooperazione con la chiesa locale per progetti e iniziative finalizzate alla promozione umana attraverso il qualificato apporto delle professionalità» e il coinvolgimento «in progetti di promozione umana gestiti direttamente o in collaborazione con le istituzioni sociali e politiche del paese».
Inoltre il documento afferma che «il campo della attività evangelizzatrice (dei laici) è il mondo vasto della politica, della realtà sociale, dell’economia…». Del resto, anche il numero 25 ricorda che «i laici hanno un ruolo insostituibile nel mondo, specialmente per la promozione umana e per la carità, nell’impegno per la giustizia e la solidarietà, attraverso le molteplici e multiformi funzioni temporali». Dunque non sono solo operatori pastorali di rincalzo.
Crediamo che gli ambiti della promozione umana, prerogativa e compito dei laici, siano talora poco considerati dalla chiesa come espressione di missionarietà.
Da otto anni siamo impegnati in un organismo di Volontariato internazionale: il Comunità-impegno-servizio-volontariato (Cisv) di Torino, che appartiene alla Federazione degli organismi cristiani di Volontariato internazionale (Focsiv). Il Cisv da decenni cerca di tradurre l’ideale cristiano della solidarietà e dell’attenzione ai più poveri in una vita comunitaria e di azioni concrete nel Sud del mondo, insieme alle popolazioni escluse ed emarginate del pianeta.
Il nostro impegno di volontari ci fa vivere a fianco delle donne del Senegal, per renderle capaci di gestire autonomamente il loro mulino; o dei contadini del Burundi, perché possano migliorare la loro agricoltura e sfamarsi; o dei ragazzi di strada di Rio, perché escano dal circolo vizioso della droga e del crimine e si costruiscano un futuro nel lavoro… Ebbene: crediamo che tale impegno sia un’autentica missionarietà di laici nel mondo.
Tale impegno e vocazione, proprie del laico cristiano immerso nella realtà complessa dei problemi del mondo, non possono passare in subordine rispetto al carisma del «diacono permanente», che fa dell’evangelizzazione esplicita il cuore del suo servizio a fianco dei religiosi.

Federico Perotti e Paolo Martella – Torino

La vostra lettera, cari amici, solleva il problema della differenza tra «laico missionario» e «volontario internazionale cristiano»: il primo sarebbe impegnato di più nell’evangelizzazione e il secondo si dedicherebbe maggiormente alla promozione umana. La questione è rimbalzata anche sul Convegno missionario nazionale di Bellaria (10-13 settembre 1998).
Noi riteniamo che la differenza fra «laico» e «volontario» non debba sfociare in polemica, né, peggio, stabilire chi sia «il più bravo». Voi stessi, Federico e Paolo, nel post scriptum della lettera, auspicate «più miti consigli».
Infatti avete scritto:
«Anziché fomentare guerre tra poveri, accusando le Organizzazioni non governative della Focsiv di non meglio dichiarati «privilegi ecclesiali»), non sarebbe più proficuo cercare vie di collaborazione feconda tra i volontari inteazionali e i laici missionari? Forse questo obiettivo sarà più facilmente raggiungibile quando i credenti, che partono per un servizio «ad gentes», metteranno al centro della loro presenza “il farsi prossimo” a chi è nel bisogno con la propria irripetibile esperienza di umanità; ma, soprattutto, quando non verranno più considerati alla stregua di “sacerdoti mancati”».

Federico Perotti e Paolo Martella




LETTERASubito il digiuno

Caro direttore,
la chiesa, il papa o un’altra autorità appropriata dovrebbe annunciare, per il giubileo del 2000, un «grande digiuno universale», al quale chiamare tutti i cristiani e tutti gli uomini di buona volontà, con l’obiettivo di:
– porre fine al debito dei paesi del Sud del måondo, una volta per tutte;
– ottenere che ogni nazione aderente all’Onu:
a)sospenda tutti i programmi di potenziamento militare (guerre sperimenti nucleari e altro) per 10 anni, come minimo,
b) destini, per almeno 10 anni, l’1,5% delle proprie spese militari per debellare nel mondo, in modo risolutivo, la fame e le malattie dell’infanzia (l’1,5% mi pare sia pure la percentuale indicata come sufficiente da Oms, Fao e Unicef).
Modalità, durata e cadenza del digiuno, fino ad ottenere un pronunciamento positivo dell’Onu, non sono di mia competenza… Che ne dici della proposta?
Edoardo Arrighi
Asti

Proposta ottima. Ma, senza attendere il «sì» dell’Onu, incominciamo subito a realizzarla: in famiglia, parrocchia, città… Le rivoluzioni vere nascono sempre dal basso. Così, ad esempio, è stato per «la banca etica».

Edoardo Arrighi




LETTERAI nostri 100 anni

Cari missionari,
il 24 ottobre 1998 a Torino, nel salone «Beato Allamano», la rivista «Missioni Consolata ha celebrato i 100 anni di attività. Una manifestazione solenne per un pubblico scelto di «addetti ai lavori». Un appuntamento cui non sono potuto mancare. Esprimo il più sentito apprezzamento per quanto l’avvenimento ha inteso rappresentare.
È stato dibattutto «il Sud del mondo, fra giudizi e pregiudizi»: un tema di attualità e di grande interesse, difficile da trattare. Il livello e la personalità dei relatori lasciavano intendere l’opportunità della scelta; e le attese non sono state deluse.
I 100 anni di «Missioni Consolata» hanno segnato anche la storia degli omonimi missionari, iniziata con il loro primo invio in Kenya. La rivista, nell’arco di 100 anni, ha accompagnato la storia di centinaia e centinaia di missionari e missionarie «sulle strade del mondo». Vicende religiose, sociali e politiche hanno coinvolto quattro generazioni, almeno, di lettori in avvenimenti epocali, spesso drammatici.
La riflessione su «il Sud del mondo» ha trovato ascoltatori attenti e particolarmente sensibili. Buona la presenza dei giovani, attratti pure da musiche e canti appropriati in una coice festosa.
Il numero straordinario del centenario di «Missioni Consolata» 100 anni sulle strade del mondo è un prezioso documento da conservare per la storia. Personalmente ho pure molto gradito il libro-omaggio «Uomini e donne senza frontiere» di Benedetto Bellesi.
Alfonso Dellavedova
Torino

Caro direttore,
innanzitutto la ringrazio per la mattinata del 24 ottobre, che ho trovato ricchissima di informazioni, analisi, speranze, amicizia, stimoli all’impegno. Una mattinata veramente «missionaria».
Solo ci ha tutti amareggiati, sul finale, l’atteggiamento aggressivo e razzista del dottor Mario Parker (italiano di origine panamense), che da quasi 30 anni è a Torino e si produce in sterili affondi contro l’occidente cristiano. È grave che abbia un certo seguito tra gli africani sprovveduti.
Parker è stato offensivo soprattutto nei confronti di padre Filipe Couto, classificato «cerebroleso» (perché «colonizzato» dai bianchi cristiani), e di Igor Man, tacciato di xenofobia. Con i nostri applausi abbiamo espresso solidarietà ai due relatori, che hanno risposto bene.
Piergiorgio Gilli
Torino

Nella mente degli organizzatori, il 24 ottobre scorso non è stato un’autocelebrazione, bensì un invito alla riflessione.
«Il Sud del mondo fra giudizi e pregiudizi», dibattuto in occasione dei 100 anni di Missioni Consolata, è pure il tema del dossier di questo numero.

aa.vv.




SE NON LI CURI, LI AMMAZZI

“Iam vacua ardet Roma” (ormai vuota, Roma brucia). Lo scrisse papa Gregorio Magno nel Seicento, allorché «la capitale del mondo» era bottino dei barbari. È una frase-sentenza, continuamente attuale nelle «notti della storia», illuminate solo dal bagliore delle armi.
Brucia ancora l’Africa: Guinea Bissau, Etiopia, Eritrea, Sierra Leone, Congo… nel crepitio delle pallottole. Pallottole non africane!
Ma, come a Roma il papa non si rassegnò allo strazio del popolo, così in Africa qualcuno si ribella al catastrofismo. E diventa propositivo. È questo il senso di una lettera, scritta in Congo.
Dal 2 agosto scorso la nazione è ripiombata nella guerra civile o, forse, nella prima guerra mondiale africana: da una parte i ribelli (con Uganda, Rwanda e Burundi) e, dall’altra, i soldati del presidente Kabila (con Zimbabwe, Namibia e Angola). I ribelli controllano il nordest, ma anche il Katanga, ricco di diamanti. La contrapposizione potrebbe durare anni, senza una mediazione internazionale. Intanto si contano migliaia di morti, vittime sia dei ribelli sia dei governativi.
La lettera è stata scritta nell’ospedale di Neisu, nel «caldo» nord, da padre Oscar Goapper, missionario della Consolata e medico.
Cari amici, vi scrivo pur sapendo che questa lettera sarà controllata da qualche funzionario congolese. Siamo allo stremo. Il dollaro continua a salire e la nostra moneta a scendere.
Qui nel nord, complice la guerra, siamo tagliati fuori dal mondo. Tutto è commedia. E la commedia si ripete quando, dopo tentativi infiniti, riesco a trovare un posto su un aereo militare. Ma ecco che, al momento del decollo, mi sento dire: «Si parte domani, forse». Già, forse!
È terribilmente difficile reperire medicine per l’ospedale. Sono sette mesi che ci arrabattiamo con risultati quasi zero. Il confratello Rombaut, infermiere professionale, ha raggiunto Kampala (Uganda) ed è tornato con appena 30 chili di materiale medico. I 140 letti del nostro ospedale sono strapieni (senza contare i malati che giacciono per terra). Siamo impotenti di fronte alla guerra.
Come missionario medico, ho sempre perseguito progetti dettagliati. Nell’emergenza odiea tutto salta. Oggi, quando entro in ospedale barcamenandomi fra gli ammalati per non pestarli, un ritornello mi martella le tempia: «O li curi subito o li ammazzi!».
Ci servono soldi e un’immensa pazienza in questa interminabile quaresima…
I soldi sono anche nostri. La pazienza, intrisa di sofferenza, è loro. Il prossimo di tutti.
La Redazione

La Redazione




I parassiti del Mekong


QUESTA RUBRICA

Nel corso degli ultimi anni si è assistito ad un miglioramento globale della salute delle popolazioni. Tuttavia resta ancora elevatissimo il numero di individui, soprattutto nei paesi della fascia intertropicale, che non hanno accesso alle cure sanitarie, e lo scarto tra poveri e meno poveri si è ulteriormente approfondito.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), 2 miliardi di individui vivono nella povertà, e di questi 700 milioni vivono in situazioni di estrema precarietà. Per queste persone l’accesso a servizi sanitari e a cure mediche non è assolutamente assicurato, quando addirittura impossibile. La povertà genera malattie, attraverso la mancanza di igiene, strutture sanitarie e adeguati trattamenti, educazione. Per questo in molti paesi l’attesa di vita alla nascita non supera i 50 anni, e sono malnutrizione e tutta una serie di malattie tropicali a compiere la decimazione soprattutto nei primi anni di vita.
Nel 1977 i governi e l’OMS nell’Assemblea generale hanno fissato l’obiettivo di garantire la salute per tutti i popoli del mondo entro l’anno 2000. Purtroppo tale traguardo sembra ancora ben lontano, e addirittura in alcune aree si è assistito ad un deterioramento della situazione sanitaria e della qualità della vita.
Per chi vive in un paese sviluppato è in genere difficile immaginare la situazione nella quale la gran parte dell’umanità vive nei paesi in via di sviluppo. E di molte delle malattie più diffuse al mondo si sa quasi nulla, spesso anche il nome suona del tutto insignificante, come avitaminosi, schistosomiasi, dracunculosi, dengue, e così via. Si impiegano nel mondo risorse enormi per la ricerca sul cancro, o le cardiopatie, o le malattie vascolari, ma non tutti sanno che non è per queste malattie che la maggioranza dell’umanità soffre e muore.

In questa rubrica, attraverso brevi resoconti di giornate di lavoro in alcuni paesi tropicali, ci racconteremo qualcosa che riguarda la salute, o meglio l’assenza di salute, in questo mondo dei più sfortunati, dove povertà e malattia si generano a vicenda. Ca.U.


L’ATR72 della «Royal Air Cambodge» sfiora con il carrello le cime di alcuni alberi. Dopo aver posato rumorosamente le ruote sulla corta pista in terra battuta, le turbine frenano con un ruggito la corsa dell’aereo. Un’ora abbondante di volo ci ha portati all’aeroporto di Stung Treng, nel nord-est della Cambogia, dove il Sesan e il Sekong si versano nel Mekong, a circa 40 chilometri dalla frontiera con il Laos.
Pochi minuti prima, seduto vicino al finestrino, osservavo il paesaggio sotto di me e, nei varchi tra i cumuli di condensa tipici di quell’ora, intorno a mezzogiorno, scorrevano lentamente risaie, foreste e fiumi. Il corso del Mekong, visto dall’alto, lascia immaginare l’imponenza di questo fiume, che disegna ampie curve nel verde intenso della vegetazione. A stento si possono vedere i piccoli villaggi sulle sue sponde, giusto una linea di quadratini di un altro colore, tra cui è magari identificabile il tetto variopinto di una pagoda. Ed è difficile immaginare in questo stupendo quadro quante incredibili atrocità siano state consumate, e quanta sofferenza sia nascosta sotto quegli alberi. Il verde intenso della foresta a tratti scompare, per lasciare il posto ad ampie macchie grigiastre, testimonianza della deforestazione selvaggia che incombe nella regione.
Ora, sbarcati nell’aeroporto di Stung Treng, ci prepariamo a risalire un tratto del Sekong, per andare a visitare gli abitanti di un gruppo di villaggi più a monte. Poco più tardi stiamo già scivolando sulle acque blu e perfettamente lisce del fiume, tra due pareti di impenetrabile verde. Con me viaggiano due medici e due microscopiste cambogiani. Trasportiamo farmaci e materiale di laboratorio.

Sulla piroga sventola la bandiera di Médecins Sans Frontières (MSF), che dal 1993 cerca di far fronte in questa regione al grave problema della schistosomiasi. Oggi stiamo andando a verificare la presenza della malattia in una zona molto remota, ed eventualmente distribuire il farmaco che trasportavamo, il praziquantel.
La schistosomiasi è uno dei problemi sanitari più importanti dei paesi della fascia intertropicale, e la forma diffusa lungo il fiume Mekong è una delle più gravi. In Cambogia le dimensioni del problema sono state comprese solo di recente, grazie all’intervento di MSF che ne ha identificato l’area più colpita e ha messo in opera delle misure di controllo. In molti villaggi lungo il Mekong i segni della malattia sono drammaticamente evidenti.
Gran parte dei bambini soffrono di dolori addominali cronici, emettono feci con sangue e muco, il loro addome si gonfia progressivamente per l’ingrossamento di milza e fegato, ed a partire dagli anni dell’adolescenza sviluppano i primi sintomi della cirrosi epatica, la stessa malattie che colpisce gli alcolisti. Si forma acqua nella pancia (ascite), si gonfiano le vene sulla superficie dell’addome e si formano varici nell’esofago. Negli stadi avanzati della malattia il soggetto è estremamente emaciato, sofferente, con una enorme pancia, gambe magre ed edematose, fino a che la rottura delle varici esofagee e la conseguente emorragia ne causa il decesso. Coloro che sono infettati da molti parassiti hanno anche un arresto della crescita e dello sviluppo sessuale, così che l’età apparente trae spesso in inganno e un ventenne può essere facilmente preso per un bambino di 11-12 anni.
La schistosomiasi è causata da un piccolo verme che vive nelle vene intorno alla parete dell’ultimo tratto dell’intestino. Se le uova prodotte con le feci arrivano nelle acque del fiume, si chiudono e liberano un piccolo organismo che, nuotando, viene attirato particolarmente da un certo mollusco, una piccola conchiglia che vive nelle fessure delle rocce semisommerse nel fiume. All’interno della conchiglia il parassita matura e forma una piccola larva. Questa lascia la conchiglia e si libera nelle acque del fiume. Se entra in contatto con la pelle umana, è in grado di perforarla ed attraversarla. Una volta penetrato il parassita si lascia trasportare dal sangue e, dopo un complicato percorso, raggiunge la sede definitiva del suo sviluppo, appunto le vene intorno all’intestino, per diventare adulto.
Il problema principale è causato da quelle uova che, prodotte dalla femmina, non riescono a mescolarsi alle feci come previsto, ma vengono portate via dalla corrente sanguigna nelle piccole vene dove i vermi vivono. Queste uova finiscono intrappolate nel fegato, causandone l’ingrossamento, la fibrosi, e poi la cirrosi. Questo fa ingrossare la milza e fa aumentare la pressione del sangue nella vena porta. Questa «ipertensione» causa l’ascite e la formazione di varici esofagee. Più sono numerosi i vermi adulti, più grave è la malattia. Ne deriva che solo i soggetti continuamente esposti a nuove infezioni sviluppano gravi sintomi. Essere esposti all’infezione significa avere molti contatti con l’acqua del fiume, nelle zone dove ci sono quelle conchiglie e dove nelle acque finiscono le feci umane. In zone disabitate la trasmissione non può esistere. E chi ha più contatti con il fiume? Basta arrivare in un villaggio per capirlo.

La nostra piroga quel pomeriggio è arrivata a Sdau, un villaggio di un migliaio di abitanti, lungo il Sekong. È quasi il tramonto: i colori del fiume e del cielo sono stupendi. Spento il motore dell’imbarcazione per arrivare dolcemente sulla riva, piombiamo in un piacevole silenzio, nel quale è facile sentire le grida dei bambini che giocano poco lontano, tutti immersi nell’acqua del fiume… vicino le rocce dalle quali si tuffano. Ecco il primo bersaglio della malattia: i bambini.
Il loro contatto con l’acqua del fiume è importante. È forse l’unico gioco disponibile e offre un piacevole ristoro nell’afa soffocante. E poi correre nei campi non è, forse, così raccomandabile… in un paese con una delle più alte concentrazioni al mondo di mine antiuomo! Poco più vicine alla riva le sorelle più grandi, sedute sulle rocce semiaffioranti, a lavare i poveri panni o intente a sciacquare gli umili utensili domestici: un cesto di bambù, un mestolo, o qualche ciotola. E sulla riva qualche bambino più piccolo, che fa la cacca nel fiume. Una scena normale lungo un fiume tropicale, ma è questo il ritratto della trasmissione della schistosomiasi. Bambini infetti fanno la cacca, dove probabilmente ci sono delle uova di schistosoma. Poco lontano le rocce ospitano la conchiglia che fa diventare infettante la larva, e nella stessa zona altri che nuotano, ed il cerchio si chiude. Incuriositi dal nostro arrivo i bambini escono all’asciutto, mostrando i loro enormi ventri, costellati di tante piccole cicatrici. Ci accompagnano silenziosi lungo il sentirnero che sale al villaggio.
Girando nelle case, palafitte di legno o di bambù per i più poveri, incontriamo altri bambini, quelli che non hanno abbastanza forza per andare a schiamazzare nel fiume. Sono seduti sulla scala che sale al piano rialzato, con lo sguardo più triste degli altri, e la pancia ancora più grossa. Alcuni adulti sanno che quei bambini sono malati di qualcosa che ha a che vedere con il fiume, ma sanno anche che per loro, gli abitanti di Sdau, come per quelli di tantissimi altri villaggi in Cambogia, non ci sono cure. L’ospedale più vicino è a due ore di piroga, e poi bisogna pagare le medicine, e quassù soldi non ce ne sono. Non è facile avvicinare le persone, tutti sembrano diffidenti, ed anche un po’ spaventati. La strategia del terrore fa ancora sentire il suo alito in Cambogia. In questi villaggi è facile morire anche per molto meno: basta una diarrea o una polmonite, quando poi non si accanisca su questa gente una epidemia di febbre emorragica o di malaria. Le donne partoriscono nelle loro capanne senza alcuna assistenza sanitaria ed in precarie condizioni igieniche. Ci dicono che a volte i bambini muoiono vomitando sangue (la rottura delle varici esofagee). Nonostante l’evidenza decidiamo di esaminare alcuni campioni di feci per confermare la presenza della malattia.

Intanto do un’occhiata al resto del villaggio, mentre penso a cosa servirebbe per restituire la salute a queste persone. Sono colpito dalla loro povertà. L’unico bene che custodiscono in casa è una piccola riserva di riso e qualche utensile. Nella «passeggiata» mi accompagna Huong, silenzioso ragazzino con una fionda appesa al collo, un viso pallido e affilato, ed un enorme ventre che lo obbliga a camminare con la schiena curvata indietro, come una donna alla fine della gravidanza. Mi osserva curioso e, dal modo di sorridere, sembra evidente che si aspetta qualcosa da me.
Passiamo la notte nel villaggio, rassicurati dagli abitanti che ci mostrano i loro AK47, con i quali ci difenderebbero dai khmer rossi. Al mattino cominciamo a distribuire il farmaco. Verrebbe voglia di curare anche tutte le polmoniti, congiuntiviti, anemie e quanto altro scorre sotto i nostri occhi. Purtroppo, quando le risorse sono carenti, occorre stabilire delle priorità e la schistosomiasi, per la grave malattia e la mortalità che ne derivano, qui a Sdau rappresenta una priorità. Distribuiamo la dose di praziquantel ad ogni abitante. In queste situazioni costa meno trattare tutti che esaminare tutti e trattare solo le persone infette. È una delle regole in simili programmi di sanità pubblica nei paesi in via di sviluppo.

Huong vuole essere il primo a ricevere la medicina, e rimane vicino a noi ad assistere al trattamento degli altri del villaggio. Si fa anche fotografare orgoglioso il suo ventre enorme. La medicina tradizionale di queste regioni tratta il dolore addominale facendo delle piccole bruciature con dei tizzoni ardenti sulla pelle. Per questo le pance di chi ha la schistosomiasi qui sono piene di cicatrici: sono le bruciature che i bambini crescendo accumulano, ogni volta che si lamentano dei loro dolori. Purtroppo chi è già gravemente malato non beneficia del trattamento: la cirrosi del fegato è una malattia irreversibile.
Trattae i sintomi per allungare la sopravvivenza è possibile, ma tali trattamenti sono completamente fuori della portata di chi vive in villaggi come Sdau. Dopo due giorni lasciamo il villaggio, con almeno un problema in meno, ma allontanandoci lo immaginiamo sprofondare di nuovo nell’isolamento e nella mancanza totale di cure mediche.
In zone come queste la schistosomiasi interessa anche l’80% dei bambini, e il trattamento costa 12 centesimi di dollaro: circa 180 lire. Ma moltiplicare le 180 lire per le decine di migliaia che aspettano di essere trattati fa diventare il costo insostenibile per il paese, e poi la mancanza di infrastrutture ne rende difficile la distribuzione, e negli ospedali non c’è personale formato per controllare la distribuzione del farmaco e l’evoluzione della malattia, e ancora in molte aree l’accesso è difficile a causa dell’insicurezza: khmer rossi, banditi, anche gli infermieri cambogiani hanno paura ad andare in certe zone. Così un problema in apparenza semplice diventa in realtà difficile in paesi (e non sono pochi) come la Cambogia.

Quando, sei mesi dopo, torniamo a Sdau, Huong è già morto, ma in tanti altri l’infezione è scomparsa. L’infermiere che ci assisteva sa ora riconoscere agevolmente i malati attraverso i sintomi. E la gente è un po’ più fiduciosa.
A piccoli passi il programma sta dando i suoi frutti. Dopo tre anni di attività, in molti villaggi le «pance grosse» stanno scomparendo, ma ne restano altri in attesa. Di un po’ di salute e pace. E magari di una piroga di MSF.


LA SCHISTOSOMIASI (BILARZIOSI)

La schistosomiasi, anche conosciuta come bilarziosi, in alcune aree del pianeta è la seconda più diffusa malattia tropicale, dopo la malaria, ed è causa di una malattia potenzialmente grave. È causata dall’infezione di un parassita, le cui diverse specie causano o una schistosomiasi urinaria o una intestinale. La forma intestinale da Schistosoma mekongi rappresenta forse la forma più grave di queste infezioni, ed è diffusa in un tratto del Mekong nel sud del Laos, e in Cambogia, lungo il tratto superiore del Mekong che la attraversa ed in alcuni suoi affluenti. Si stima dell’ordine di decine di migliaia il numero dei soggetti infetti, e l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto in questa malattia una delle priorità in termini di salute pubblica nell’area.
La malattia che ne deriva è causata essenzialmente da una migrazione aberrante delle uova prodotte dal verme adulto nei plessi venosi del grosso intestino. Queste uova causano fibrosi e cirrosi del fegato, e conseguente ipertensione portale. Infezioni ripetute causano un aumento del numero di parassiti, e quindi una maggiore gravità della malattia. Per le loro abitudini i bambini rappresentano il gruppo più colpito. Non sono efficaci misure di controllo mirate, indirizzate contro l’ospite intermedio (una conchiglia che vive nelle fessure delle rocce del fiume), ma è notevolmente efficace un trattamento periodico di tutta la popolazione esposta al rischio di infezione, con una singola dose di praziquantel.
Il farmaco ha scarsissimi effetti collaterali, ed il suo impiego per campagne di trattamenti di massa ha ormai una enorme esperienza. Altre strategie di controllo, abbinate al trattamento di massa, sono l’educazione sanitaria e, quando possibile, migliorare l’igiene ambientale. L’educazione sanitaria mira a ridurre il versamento delle feci umane nei corsi d’acqua e a evitare il contatto delle persone con l’acqua dei tratti rocciosi del fiume. Questo dovrebbe fornire il risultato di diminuire il numero di infezioni successive. La costruzione di latrine rappresenta un importante traguardo, e non solo per la schistosomiasi. Ma il costo rende questo obiettivo irraggiungibile.

Carlo Urbani