DOSSIER GIUDIZI E PREGIUDZITu pensi e io penso. Ma chi ci crede?

Dunque il 24 ottobre 1998 la rivista
«Missioni Consolata» ha compiuto 100 anni.
L’anniversario è stato celebrato a Torino con il Convegno«Il Sud del mondo fra giudizi e pregiudizi».

I relatori:un economista di Torino,
una pedagoga del Brasile,un esponente
della Comunità sant’Egidio (Roma),
un opinionista de «La Stampa»,
un rettore di università (Mozambico).
Offriamo una sintesi dei loro interventie del dibattito
con il pubblico.

Daniele Ciravegna,
preside di «Economia e commercio» (Torino)

I CIRCOLI del VIZIO

È necessaria una rivoluzione culturale.

C’ è una frattura fra Nord e Sud del mondo, perché il primo è sviluppato e il secondo sottosviluppato. Esiste una soluzione del problema? Si stenta a trovarla, perché nei paesi sottosviluppati «la povertà si autornalimenta».
Siamo di fronte ad una situazione in cui le nazioni povere sono incapaci di produrre beni sufficienti per avere un buon tenore di vita. Quando la bassa produzione pro-capite non permette di ottenere nemmeno il minimo per sopravvivere, è evidente che scarseggino le risorse per gli investimenti.
E, se non si investe o si investe poco, si ottiene pure poco e lo si consuma tutto. Quindi non resta nulla da investire.
Come uscire dal circolo vizioso? Attraverso accordi inteazionali di cooperazione allo sviluppo o l’entrata di risorse per creare investimenti, senza deprimere i consumi interni già bassi.
E come pagare le risorse estee? Con l’esportazione di propri prodotti. Però, così facendo, non si risolve il problema: infatti, se non si possono comprimere i consumi interni, c’è poco da esportare. Allora l’unico modo per avere risorse è di non pagarle o di non pagarle subito: quindi ottenere trasferimenti di beni e regalie del Nord. Ma anche questo non è facile, perché il Nord non ha acquisito la mentalità di dover contribuire alla sviluppo del Sud, senza chiedere una contropartita. Il Nord si è proposto di destinare lo 0,7% del prodotto interno lordo allo sviluppo del Sud. Ma ciò non avviene.
Stando così le cose, si è imboccata un’altra strada: permettere ai paesi del Sud di acquisire risorse senza pagarle subito, cioè indebitandosi. Qui sorge un ennesimo problema: se il debito non verrà cancellato, fra 5-10 anni bisognerà trovare dei beni per restituirlo.
Se le risorse ottenute vengono investite nel Sud in modo produttivo, fra 5-10 anni esse potranno essere pagate; ma, se il loro impiego è stato improduttivo (si pensi agli sprechi in armamenti), il debito contratto non potrà essere rimborsato al tempo stabilito. Allora si rinvia ancora il pagamento. A questo punto si può intervenire cancellando tout court i debiti: ciò significa regalare i beni, anziché subito, dopo alcuni anni. Qui pure c’è un limite, perché il Nord non è disponibile a investire risorse a fondo perduto.
Come si situa la globalizzazione
economica in questo contesto? Essa ha aspetti positivi e negativi. È positivo che i beni si vendano e si comprino liberamente. Ma questo riguarda soprattutto le economie a un buon livello di sviluppo, che possono cedere beni per acquisie altri. Ne ricavano vantaggi le economie specializzate.
La globalizzazione crea anche difficoltà, perché l’apertura economica internazionale può causare il fallimento delle attività intee non sufficientemente protette. Se globalizzazione vuol dire «liberalizzazione selvaggia», le economie povere ne fanno le spese. Quindi la globalizzazione deve essere controllata.
Questo è evidente nel campo finanziario. Qui gli scambi sono cospicui; ciò di per sé non è negativo, ma lo diventa se si evade ogni controllo delle autorità governative. Gli effetti deleteri si verificano quando ci si avvale dei «paradisi fiscali», che proteggono scambi finanziari illeciti. Esistono «paradisi fiscali» anche nei paesi in via di sviluppo, dove è facile pulire o riciclare i «soldi sporchi» del narcotraffico o del commercio di armi.
Se la circolazione di denaro è senza controlli, è facile corrompere la classe politica. Alcuni narcotrafficanti hanno dichiarato di aver finanziato (furbescamente) sia il partito A sia il partito B: quindi, qualunque partito vinca, per loro va sempre bene.
Senza un controllo super-nazionale (e qui l’Onu è chiamata in causa), si crea una spirale perversa: si ricicla denaro sporco in un paese, si corrompono le persone influenti, per continuare a livelli sempre più alti, complice il sottosviluppo.
Come spezzare la spirale?
Soltanto in un modo: puntare sulla qualificazione morale e culturale della gente. In altre parole: bisogna investire sul capitale umano.
Se consideriamo solo il risultato finale materiale («ho prodotto tanto», «ho prodotto poco»), non abbiamo capito l’essenza della questione: questa non sta nel produrre tanto o poco, ma nel compiere una «rivoluzione culturale». È una rivoluzione fatta di investimenti nella formazione morale, sociale, economica.
Cito il caso della Colombia, con l’azione dei missionari della Consolata contro «la cultura della coca» attraverso le fattorie familiari amazzoniche e il progetto dell’università «Allamano». Il comune denominatore di queste iniziative è: un programma educativo, morale ed economico.
Se non si investe in questo modo, non si pone fine al problema scandaloso del sottosviluppo nel Sud del mondo.

Theí de Almeida Vianna,
rifugiata politica e pedagoga (Brasile)

POVERTÀ o INGIUSTIZIA?

Missionari per i politici.

Io vengo dal Brasile, un paese di 8.511.000 chilometri quadrati e 170 milioni di abitanti. È l’ottava potenza economica del mondo: primo in caffè, frutta e soia; secondo in apparati di aria condizionata; sesto in riso; settimo in oro, ventesimo nel petrolio e gas naturale. Dunque vengo da un paese ricco, dove la gente vive in case con bagni faraonici. E come mai ci sono i bambini di strada? Perché le favelas? Perché la vita vale zero?
Quando il professore Ciravegna parlava del Nord e Sud del mondo, io pensavo al mio paese, dove le zone di ricchezza e povertà sono capovolte: il sud è ricco, mentre nel nord la gente dorme anche per strada e, talora, muore di fame. Allora il Brasile non è sottosviluppato: è un paese ingiusto. Chi ha detto questo è il presidente Enrique Cardoso.
Io, però, devo badare a come parlo, perché sono una rifugiata politica e ho intenzione di ritornare in patria.
Un aneddoto.
Dio, nel creare il mondo, disse ad un angelo: «Fa’ scorrere questo fiume maestoso in Brasile». Poi: «Scarica i terremoti e le gelate in Europa, ma pianta questi alberi maestosi in Amazzonia e riempi la terra di minerali preziosi…». L’angelo interruppe: «Scusa, Signore! Perché al Brasile dai solo cose belle e agli altri cose brutte?». E Dio: «Ma tu non sai che razza di politici io metterò in quel paese!». Ecco perché il problema del Brasile non è la povertà, ma l’ingiustizia.
Giunta in Italia, ho notato tanti pregiudizi, anche perché non si conosce il Brasile. Numerosi italiani dicevano: «Tu sei proprio brasiliana? Non sei mica nera!». Oppure: «Voi mangiate sempre con le mani, senza posate?».
Però perché l’ingiustizia fra nord e sud del Brasile? Perché siamo stati una colonia del Portogallo. Quando il Brasile fu «scoperto», il territorio venne diviso in capitanias, in feudi, assegnati agli amici del re. Ancora oggi esistono baroni, colonnelli e politici discendenti dalle prime famiglie: tutti grandi proprietari terrieri.
La colonizzazione del Brasile è stata diversa da quella dell’America del nord: gli inglesi sono emigrati negli Stati Uniti per restarci; invece i portoghesi sono venuti da noi per arricchirsi e poi ritornare a casa. Qui, sì, che si dovrebbe parlare di restituzione: ridare ai brasiliani ciò che fu preso tanti anni fa.
Dopo la conquista, la schiavitù. I portoghesi obbligavano gli indios a lavorare la terra; ma questi, piuttosto, si lasciavano morire. Così si importarono schiavi dall’Africa.
Il 13 maggio 1888 la regina Isabella abolì la schiavitù, perché non era più economicamente redditizia. Così milioni di persone che, fino a poco tempo prima (pur nella schiavitù), avevano una casa e una porzione sicura di cibo, dal detto al fatto si sono trovati sulla strada. E dove sono finiti? Alcuni hanno iniziato le favelas. Chi le ha viste sa che lì i bianchi sono rari. I residenti in favelas sono i nipoti e i pronipoti degli schiavi buttati sulla strada nel 1888. E dire che, talora, gli schiavi avevano più cultura, erano più civilizzati dei loro padroni!
Il contributo economico che l’Africa ha dato al Brasile è stato alto e se ne vedono ancora i risultati. Ad esempio: chi lavora nelle miniere di Minas Gerais? chi raccoglie il cotone nel nord-est? Sono soprattutto gli afrobrasiliani.

Matteo Zuppi,
esponente della Comunità
di sant’Egidio (Roma)

COOPERAZIONE in PANNE

Investire nella pace.
A proposito dei latifondisti,
ricordate Chico Mendes? Egli era contro la strada transamazzonica, che favoriva Olacyr Ribeiro, il «re della soia». Mendes fu ucciso nel 1988, tre giorni prima di natale. Allora presidente del Brasile era Collor De Mello, discendente ricchissimo dei portoghesi. Il 22 dicembre 1988 la tivù Globo di Roberto Marinho (la cui figlia è stata la prima moglie di Collor) trasmetteva la telenovela Valitudo, tutta centrata sull’uccisione del personaggio Odette Reutman. Il giorno seguente tutti i giornali titolavano: «Chi ha ucciso Odette?». E nessuno si chiese chi avesse amazzato Chico Mendes.
Collor De Mello, Marinho e altri fanno parte dell’élite che continua a sfruttare il nord-est brasiliano, l’Amazzonia… ma nessuno dice niente. Anzi, la moglie di Collor ha preso i soldi dalla «Legione di assistenza» e la cugina è sparita con i soldi delle «merende scolastiche».
Il Brasile ha bisogno di una rivoluzione morale. Per farla, si dovrebbe predicare il vangelo specialmente ai politici. Certo, qualcosa si sta facendo. Ma sono ancora troppi i brasiliani che vivono in «una gabbia dorata»: non vogliono vedere ciò che c’è fuori.
Allora ai missionari della Consolata dico: «Andate pure fra gli indios yanomami. Ma, por favor, andate soprattutto a Brasilia, sede del potere politico!».
Grazie a Missioni Consolata, 100 anni fa c’era un sogno: quello di stabilire un rapporto con il Sud del mondo. Oggi, invece, chi sogna di investire energie umane nel terzo mondo?
L’Europa ha ridotto la cooperazione allo sviluppo ai minimi termini. In Italia la cooperazione, in questi ultimi anni, è passata da 5.000 a 500 miliardi di lire. E buona parte di questo denaro viene gestito da organismi inteazionali, che ne spendono il 50-70% per mantenere il loro «baraccone»!
La crisi della cooperazione allo sviluppo è la spia di un disagio più profondo, dovuto anche alla globalizzazione: il liberismo economico ha schiacciato la cooperazione, specie in Africa. Tuttavia il viaggio di Clinton in questo continente, nel 1998, ha ridestato la speranza. Finalmente l’Africa – si diceva – sta invertendo la tendenza e può risorgere dalle ceneri.
Ci sarebbe un’Africa diversa con nuovi dirigenti; i vecchi dittatori, come Mobutu, sono stati cacciati. Ora si può trattare con le nazioni africane da pari a pari. «Se farete funzionare l’economia, saremo vostri partners»: questo in poche parole il succo del discorso di Clinton in Africa.
Ma si è ricaduti nel pessimismo,
perché i nuovi capi africani fanno la guerra come quelli vecchi: si pensi a Kabila in Congo, all’Etiopia, all’Eritrea…
Questo solleva il problema delle guerre, che in Africa sono tante, interminabili e tragiche: 30 dal 1970 al 1996. Solo nel 1996 erano ben 14 i conflitti aperti su 53 paesi, e da allora ne sono sorti altri, senza chiudee quasi nessuno. C’è però il caso positivo (forse unico) del Mozambico, che ha saputo giungere alla pace.
Di fronte alla guerra, c’è l’incapacità della comunità internazionale di occuparsene. L’azione delle Nazioni Unite in Somalia ha fatto passare la voglia di intervenire nei conflitti africani: sono parole del segretario Kofi Annan in un rapporto al Consiglio di sicurezza nell’aprile 1998. Oggi si tenta di delegare agli stessi africani la soluzione dei conflitti. Ed è giusto, perché gli africani devono essere i primi interlocutori dei loro problemi. Però…
Per l’occidente questo potrebbe essere anche un atteggiamento di comodo, perché consente di lavarsi le mani e di… chiudere «la porta del Mediterraneo». Inoltre tale distacco dai conflitti è ipocrita, laddove ci sono stati condizionamenti economici e militari molto pesanti. Ciò vale per l’Africa, come per tanti paesi del terzo mondo.
Una proposta: per vivere in pace, bisogna investire nella pace anche in termini economici. La pace, come la guerra, è un mercato: bisogna investirci affinché diventi un «affare utile». Le repressioni contro le guerriglie non risolvono i problemi che vi si nascondono.
Una guerriglia, in una situazione di povertà, come può diventare un partito politico legale senza un investimento economico contro il degrado sociale? Missioni Consolata lo sa bene, allorché ha lanciato la Campagna contro il narcotraffico in Colombia.
Investire nella pace
significa rilanciare la cooperazione internazionale allo sviluppo con strumenti efficaci e in una luce nuova, che non sia quella del mero profitto economico! Una cooperazione che investa sulla scuola. Al riguardo la cooperazione italiana è assolutamente latitante. Se non si investe nell’educazione, ci sarà sempre un’Africa incapace di soddisfare le esigenze dei suoi abitanti, molti dei quali fuggono altrove.
Ultima considerazione: un comune destino lega il Nord al Sud, e viceversa. Missioni Consolata, 100 anni fa, ha incominciato a guardare al mondo. Oggi, per non essere un’aquila divenuta pollo, ricorda che la giustizia non è un optional, che la restituzione ai poveri non è buonismo, che il condono del debito estero del Sud non è benigna concessione del Nord. È, invece, una esigenza etica che coinvolge il Nord come il Sud.
Dobbiamo essere grati ai missionari che ce lo ricordano. Essi, inoltre, fanno conoscere il Sud del mondo non con giudizi e pregiudizi, ma nella sua realtà.

Igor Man,
opinionista de «La Stampa»

l’ISLÀM è… LEGGE

Bisogno di «tenerezza».

Teheran, 8 settembre 1978. In Iran regnava ancora lo scià. Ma le manifestazioni contro di lui ammassavano gente a centinaia di migliaia. Quel giorno, in piazza Zhalé, arrivò un colonnello in jeep. Ai giornalisti disse: «Se non ve ne andate, do ordine di sparare. Allora assistei ad una scena incredibile: alcuni iraniani si sedettero davanti alla jeep e dissero: «Fratello, se hai coraggio, spara». Sparò. Seguì una strage di 10 mila persone.
Teheran, 29 gennaio 1979. Incalzato da milioni di persone, lo scià aveva lasciato il paese il 17 gennaio. La rivoluzione, teleguidata da Khomeini, aveva vinto una battaglia, ma non la guerra. La cacciata dello scià aveva incattivito gli ufficiali dell’esercito, perché numerosi soldati se ne tornavano a casa.
Quel 29 gennaio, mentre gli studenti protestavano, passò una colonna di pretoriani ancora fedeli allo scià, sparando alla cieca. Io fui ferito. Qualcuno chiamò un’ambulanza. Intanto gli sgherri continuavano a sparare.
Incuranti dei colpi, umili cittadini crearono attorno a me e a un collega francese una sorta di trincea: ci protessero con i loro corpi. Più tardi, nel lasciare l’ospedale, espressi gratitudine, ma anche stupore, a chi aveva rischiato la vita per uno straniero, un cristiano. Un piccolo borghese rispose: «I credenti sono tutti fratelli». Era una citazione del corano, sura 49, versetto 10.
In pieno materialismo,
quando tutti vogliamo subito la ricchezza facile, esiste ancora gente disposta a rischiare la pelle per uno sconosciuto, solo perché «i credenti sono tutti fratelli».
Mi domando: è possibile il dialogo interreligioso? Esso è voluto da Giovanni Paolo II, specialmente dopo l’incontro di Assisi, nel 1987, di numerosi capi religiosi. Il santo padre insiste molto anche sul dialogo fra islàm e cristianesimo.
Non sono poche le consonanze fra le due religioni. Numerose sure del corano riecheggiano il vangelo: si esalta la verginità feconda della Madonna, si riconosce in Isa (Gesù) un santo profeta. Però qui cade la prima mannaia; eccola nelle parole di Raimondo Lullo: «I saraceni credono che il Signore nostro Gesù Cristo è figlio di Dio, ma non credono che egli sia Dio».
Islàm e cristianesimo hanno in comune il Dio unico, trascendente, creatore, retributore. Ma fra cristianesimo e islàm esistono pure linee nette di separazione. Per il cristiano Dio si è rivelato in Cristo Gesù, redentore dell’umanità, che ha fondato la chiesa come suo prolungamento. Da Cristo proviene ogni grazia.
Per l’islam Dio rivela la sua parola, ma non se stesso. Egli resta inaccessibile. L’unica mediazione tra Dio e l’uomo è il corano, dove l’individuo può accostarsi ad Allah, subie la potenza e godee la misericordia. Muhammad è solo un profeta. Ancora: nell’islam solo i puri, gli ortodossi, hanno la verità. C’è l’imam (capo religioso) e, quindi, l’interpretazione della sharia (legge).
Qui cade la seconda mannaia: la sharia appunto. Se infatti, secondo il corano, i cristiani e musulmani potrebbero trovare un punto d’incontro, la sharia blocca ogni sistema di vasi comunicanti. La sharia è un insieme di regole con le quali i califfi, dopo Muhammad, hanno affermato il loro potere. Gli attuali epigoni dei califfi sono alcuni leaders arabi.
Sulla «sharia»
Hussein Hamed Amr, musulmano egiziano, nel 1987 scrisse: «La maggioranza dei musulmani crede che le disposizioni della sharia siano tali e quali a quanto sancito dal corano e dalla sunna, identiche a come le lasciò il profeta; chi invece studia la storia dell’islam comprende che la sharia è un palazzo, i cui molti piani sono stati costruiti, uno dopo l’altro, lungo i secoli in funzione della società e delle esigenze dei califfi o tiranni».
Di più: in molti paesi islamici, accanto alla giurisdizione ordinaria, se ne è formata un’altra extra ordinem dei sovrani. L’indipendenza del giudice non esiste, limitata dal califfo che incarna il potere giudiziario.
Il difficile dialogo tra islam e cristianesimo ha bisogno di un aiuto, che sta nel creare posti di lavoro e nella comprensione.
Una volta i vu’ cumprà in Europa cercavano di farsi assimilare; oggi, dopo il risveglio islamico, sanno di appartenere ad una grande cultura-religione; chiedono rispetto, la moschea…
E la nostra società non è preparata: da ciò incomprensioni, attriti, razzismi. Ritengo che dobbiamo ripensare il nostro modello di vita e rinunziare a molte presunzioni.
Un grande africano, benché controverso, Ben Bella, mi diceva: «Il Sud del mondo ha anche bisogno di tenerezza». Voleva dire: se non lo comprenderemo, un giorno ci chiederà il conto.

Filipe José Couto,
rettore dell’università cattolica (Mozambico)

RICORDO E DIMENTICO

L’università della ricostruzione

Oltre trent’anni fa su Missioni Consolata è apparso un mio articolo… Io, che sono del terzo mondo, ho avuto la possibilità di scrivere quello che pensavo. Successivamente, durante la guerra civile in Mozambico, ho espresso delle opinioni scomode; ma la rivista le ha riportate, pur con la nota: «Quanto affermato da padre Couto non corrisponde in tutto al pensiero della redazione». Questo fa onore a Missioni Consolata, perché non ha avuto pregiudizi: è stata ed è una rivista dove tutti si esprimono liberamente.
Ora dovrei parlare dei pregiudizi che, come africano, ho incontrato in Portogallo, Italia, Germania e Inghilterra, dove ho studiato e insegnato. Dico subito che molti africani non concordano su quanto sto per affermare. Però lo dico ugualmente, perché è la mia esperienza.
Io non ho subìto grandi pregiudizi. Se dicessi che nei paesi sopra ricordati sono stato trattato male, direi il falso. Se sono arrivato ad avere una laurea in filosofia e teologia, lo devo all’Italia e Germania.
Però c’è stato un fatto: quando io ragionavo «in un certo modo», mi sentivo dire: «Tu non sei africano!». Quando il mio ragionamento filava e capivo san Tommaso o Kant, molti commentavano: «Tu non sei africano!».
Questo è stato ciò che più mi ha fatto male. Perché? Perché gli uomini e le donne, in ogni parte del mondo, sono uguali. Non esiste una razza superiore o inferiore all’altra. Devo, però, precisare che la frase «tu non sei africano» non nascondeva malizia: gli italiani o i tedeschi la dicevano solo perché erano abituati ad africani che ragionavano in un modo diverso.
Per loro io rappresentavo un’eccezione.
Anche noi, africani,
abbiamo qualche pregiudizio. Da alcuni anni, sulla bocca di tutti, circola la parola «inculturazione». Ma io non la uso più, perché l’inculturazione può giustificare i nostri ritardi… Non lo dobbiamo accettare, se vogliamo contribuire alla costruzione o ricostruzione di una società africana diversa. Se siamo uguali a tutti (e lo siamo!), dobbiamo anche «correre», perché questo fa parte della vita.
Secondo un poeta del Tanzania, «kukumbuka ni wajibu, kusahau ni faraja», che significa: ricordarsi del passato (quindi dei pregiudizi e di quanto si è sofferto) è un dovere; tuttavia dimenticare è un conforto. Noi africani dobbiamo dimenticare che siamo stati sfruttati e colonizzati, per essere più propositivi. E smettiamola di giocare il ruolo dei «poverini», facendo i mendicanti!
Detto questo sui pregiudizi,
parlo dei missionari della Consolata. Secondo lo stile del fondatore, il beato Giuseppe Allamano, essi sono stati molto concreti nell’emancipazione dei popoli. Giunti in Mozambico nel 1926, hanno incominciato l’attività nel Nyassa, nel nord del paese. Oggi qui si è verificato un fatto meraviglioso.
Dopo la guerra civile, chi ha mediato tra il Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico) e la Renamo (Resistenza nazionale mozambicana)? È stato Brazão Mazula, ex missionario della Consolata. È stato lui il mediatore del processo di pace: don Matteo Zuppi può dirlo. Al presente Mazula è rettore dell’università statale. Poi c’è Carlos Machili, un altro ex missionario della Consolata, che è preside della facoltà di pedagogia. E ci sono anch’io, rettore dell’università cattolica, con padre Francesco Ponsi, vicerettore, e padre Bruno Pipino, professore. Siamo tutti missionari della Consolata.
Questi sono alcuni frutti dell’opera dei nostri missionari, che hanno lavorato e lavorano per la ricostruzione del Mozambico, sfruttato dal colonialismo e dilaniato dalla guerra civile.
L’Allamano diceva: il bene, anche se è poco, bisogna farlo bene affinché cresca. Ebbene, l’università cattolica, dopo tre anni di vita, ha compiuto passi da gigante: c’è la facoltà di economia e commercio a Beira; c’è la facoltà di diritto e educazione a Nampula; si è aperta la facoltà di agricoltura nel Nyassa, dalla quale troveranno giovamento oltre cinque milioni di contadini. Fra poco avremo anche la facoltà completa di medicina.
In questi tre anni gli studenti sono passati da 90 a circa 577: e tutti pagano 500 dollari. All’inizio è stato duro, perché numerosi studenti dicevano: «Signor rettore, noi non possiamo pagare 500 dollari, perché siamo poveri». Al che io rispondevo: «Se siamo poveri, non dobbiamo diventare anche accattoni». Hanno capito.
Nonostante gli errori del passato, credo che la chiesa e i missionari possano e debbano ancora fare molto per la cooperazione tra i popoli del Nord e Sud del mondo, affinché ci sia una società più giusta e fratea.

aa.vv




DOSSIER GIUDIZI E PREGIUDZIUn grazie da…

Cari amici, il saluto del sindaco
Valentino Castellani, che non ha potuto partecipare a questo Convegno. Oggi celebrate i 100 anni della rivista Missioni Consolata. Torino guarda con grande ammirazione all’opera che i missionari della Consolata hanno compiuto e compiono in tanti angoli della terra. Guardiamo alla vostra attività con quell’orgoglio che fa di Torino un luogo di santi, di esperienze significative, di esempi di carità che, in forma rinnovata e feconda, realizziamo in Italia e, soprattutto, nel mondo.
In particolare, è importante la vostra attività per la testimonianza che offrite anche alla nostra città. Le parole del canto «Un’altra umanità» sono emblematiche di uno stile di vita, di un modo di essere cittadini prima ancora che missionari. Cittadini sobri, responsabili, consapevoli che il destino di ciascuno di noi è un destino comune.

Stefano Lepri,
assessore ai servizi
sociali di Torino

Io sono a Torino
solo da un mese, anche se conosco la città per precedenti esperienze di lavoro a La Stampa. In questo mese ho avuto incontri che mi hanno fatto capire come il tema del vostro Convegno, «Il sud del mondo fra giudizi e pregiudizi», abbia a Torino una sua specificità e articolazione. È anche un problema che divide la città. Da questo punto di vista ritengo che il giornalismo, un buon giornalismo, possa fare molto per contribuire a capire, a sviscerare «giudizi e pregiudizi», affinché tutto sia affrontato in modo più disteso.
Ne ho parlato anche con le autorità cittadine: il sindaco, il prefetto, il procuratore. Ebbene, se La Stampa può fare qualcosa, assicuro la mia disponibilità.

Marcello Sorgi,
direttore de La Stampa

Pochi giorni fa a Roma
ho partecipato ad un dibattito sul narcotraffico, in occasione dell’apertura della mostra «Coca e maloca». Alessandro Calvani, delle Nazioni Unite, diceva che siamo arrivati ad un punto in cui deve essere stabilita un’etica delle relazioni inteazionali; non per un generico buonismo, ma perché l’etica è l’unico strumento per un riequilibrare le sorti di un mondo socialmente distorto.
Qualcuno si interroga su che cosa il Nord del mondo possa fare per il Sud. Io mi domando: che cosa il Nord deve restituire al Sud? Il colonialismo e il neocolonialismo impongono delle restituzioni. È da queste realtà che prende corpo una «nuova etica» nelle relazioni inteazionali. S’impone un dovere di restituzione.

Monica Maggioni,
giornalista Rai

Ha stupito molti la notizia,
de La Voce del Popolo, che oggi in Italia operano oltre mille sacerdoti stranieri. Io quest’anno ho firmato quattro nomine di vicari, cornoperatori di nostri parroci: sono preti che arrivano dall’Africa o dal Sudamerica. Poco fa si parlava di «restituzioni». Noi, invece, continuiamo a ricevere dal Sud del mondo. Questo è molto significativo.
Nel Concilio ecumenico vaticano II si è parlato di chiesa apostolica, cattolica… e l’aggettivo «romana» è stato tolto. Credo che sia giusto. La chiesa è apostolica, perché voluta da Cristo; ma non deve essere necessariamente romano-italiana per insegnare la nostra cultura a tutti gli altri.
Quando, 100 anni fa, nasceva il bollettino La Consolata c’era un creatore, il beato Giuseppe Allamano, che fin dai primi numeri prospettava una missionarietà tipica del tempo, forse non molto profetica. Oggi i nipoti e pronipoti dell’Allamano, che hanno preso dalla Consolata tutta la forza per essere missionari, stanno dimostrando che nella chiesa c’è profezia. Guai a noi se ci riteniamo gli ultimi maestri della storia e guai a noi se, come italiani, cadiamo nel «pregiudizio» di dover andare ad insegnare agli altri. Un grazie a Missioni Consolata che ce lo ricorda continuamente.
Ma la Vergine Consolata resta la maestra di tutti.

Franco Peradotto,
provicario di Torino

aa.vv




DOSSIER GIUDIZI E PREGIUDZISotto tutte le latitudini

PAGINE BIANCHE
Bellaria (RN), 13 settembre 1998. Al termine del Convegno missionario nazionale, il vescovo Renato Corti esortava a leggere «il libro delle missioni», per conoscere ciò che molti fratelli compiono per il vangelo, a servizio dell’uomo.
«Il libro delle missioni» è gli Atti degli apostoli. Un libro speciale, perché incompiuto, con tante pagine bianche messe a disposizione di chi voglia raccontare la sua fede in Colui che si è fatto uomo, ha patito, è morto e ora resta con noi sino alla fine dei tempi. Molte di queste pagine sono state riempite dai missionari e missionarie della Consolata: costituiscono la rivista Missioni Consolata, giunta alla bella età di 100 anni.

o C’era una volta
L’intuizione (100 anni fa davvero anticipatrice) fu del beato Giuseppe Allamano e del suo geniale collaboratore Giacomo Camisassa. Nel gennaio 1899 fondarono a Torino il mensile La Consolata, organo dell’omonimo santuario, di cui erano rispettivamente rettore e vicerettore.
L’Istituto Missioni Consolata (il capolavoro dei due preti torinesi) era ancora in gestazione, ma già se ne intravvedevano le premesse. Il periodico, infatti, si proponeva di informare sulla devozione alla Vergine Consolata: in Piemonte, specialmente, dove esistevano chiese e cappelle che portavano il suo nome. «Daremo notizie (anche) – scriveva il mensile – sulla devozione alla Consolata nel resto d’Italia, in Francia, Inghilterra e nelle Americhe dove i nostri emigrati portano questo tesoro di pietà e di speranza» (La Consolata, numero 1, 1899).
Questa apertura al mondo si ampliò grandemente con la fondazione dell’istituto missionario. La rivista seguirà il cammino dei missionari della Consolata, fino a occupare la maggior parte delle pagine d’ogni numero. Attraverso testimonianze e reportages, i lettori saranno coinvolti nell’opera missionaria: attratti dall’Africa, dai suoi popoli, dai loro usi e costumi, dalla cultura e religione.

o IL PONTE SPECIALE
Dopo la morte del beato Allamano (1926), data la crescita dell’istituto, si giunse ad una opportuna distinzione. La Consolata si trasformò in due pubblicazioni:
Il santuario della Consolata
e Missioni Consolata.
Ognuna si rivolgeva al proprio campo d’azione. Tuttavia la comune origine contagerà sempre ambedue i giornali e manifesterà il valore del legame tra la Consolata e la missione.
I missionari saranno un «ponte»: porteranno nel mondo la Consolata e, con lei, la fede ricevuta nei paesi di origine, e a questi faranno conoscere i popoli presso i quali operano.
L’Allamano comprese l’importanza dell’informazione che crea scambio, stima e solidarietà: e, fatto significativo per quei tempi, presentò l’abbonamento alla rivista come un mezzo per «aiutare le missioni». Foì i missionari di penna e macchina fotografica, per riprendere e comunicare ciò che incontravano. A ognuno chiedeva notizie sulla salute, le impressioni di viaggio, le difficoltà, l’andamento della missione. E ancora: informazioni sui costumi locali, la geografia, l’etnografia, la storia naturale, nonché conversazioni, detti e proverbi della gente.
L’Allamano aggiungeva: «Mi è impossibile enumerare ciò che dovete dire: vi basti ricordare ciò che fanno le cronache dei giornali e le minute descrizioni che danno dei fatti che succedono».

o UN OCCHIO BENEVOLO
Missioni Consolata, «il libro delle missioni», ha fatto conoscere le genti. Questo non tanto per soddisfare la curiosità dei lettori, ma per farli crescere nell’apprezzamento dei popoli. Non era poco in un tempo di colonialismo, con il senso di superiorità dell’occidente (italiani non esclusi) sul resto del mondo.
E non è poco oggi. C’è bisogno di uscire dai pregiudizi che impediscono la convivenza tra persone e gruppi di cultura diversa.
Fin dall’inizio la rivista ha presentato in modo positivo i popoli presso i quali i missionari lavoravano. I galla (oromo) dell’Etiopia, ad esempio, sono descritti: «gente di carattere schietto, portamento dignitoso e ospitale con lo straniero, facile alla compassione, energicamente fiera, di mente pronta e sveglia». Così i kikuyu, definiti «bella razza, valenti fabbri; sotto la pelle nera hanno un cuore buono e sentire delicato».
I missionari hanno proseguito nella linea tracciata dal fondatore e, nell’arco di 100 anni, la loro rivista ha passato in rassegna i popoli: la loro storia, il sofferto cammino per l’indipendenza, lo sviluppo e la cultura.
Nello stesso tempo i missionari hanno narrato il cammino del vangelo: la nascita e crescita di nuove chiese, frutto della loro evangelizzazione, fino alla maturazione. Anche in questo le indicazioni dell’Allamano erano precise: «Riferire in qual modo accolgono le vostre parole, quali impressioni fanno su di essi; le interrogazioni e obiezioni che vi fanno sulle verità della fede, come accolgono gli insegnamenti religiosi che avete loro fatto».

o FELICI ANCHE IN TERRA
L’Allamano mirava all’«elevazione» dei popoli, per renderli artefici del loro benessere. Il principio ispiratore era: lavorare alla conversione al vangelo, promuovendo lo sviluppo sociale. «Fateli felici anche in terra» ripeteva ai missionari. Una felicità frutto di fede, maturità, responsabilità, lavoro.
Il vangelo è promozione, soprattutto dei poveri e degli indifesi, di coloro ai quali vengano negati i diritti fondamentali.
L’Allamano mandò i missionari a portare «consolazione», che si traduce in presenza, solidarietà, impegno per la giustizia e la pace, sviluppo e liberazione. Questo avviene anzitutto con l’annuncio del vangelo, che suscita il senso di dignità in ogni figlio di Dio, aiuta a «essere di più» anche se «si ha di meno». Ogni popolo ha la capacità di assumere le proprie responsabilità.
L’attenzione all’umano era una caratteristica dell’Allamano, manifestata in ogni ambiente in cui operava. Aveva un atteggiamento che il biografo, Domenico Agasso, ha espresso con «immersione». A Torino era ricercato per l’acutezza delle analisi e la sicurezza dei consigli, perché sapeva immedesimarsi nelle situazioni e farle sue.
Lo stesso fece con l’Africa lontana e a lui sconosciuta. Imparò a conoscerla dai missionari: e pervenne a una comprensione dei problemi con la sicurezza di chi si è preparato con anni di ricerca specifica, proprio perché vi si «immergeva».
L’Allamano è l’uomo della missione modea, con una straordinaria capacità di vivere le situazioni lontane, senza tuttavia muoversi dalla sua terra… «sempre ruminando i problemi di casa sua e dell’Africa» (Agasso).

o IN FESTA
In questo stile è stato celebrato il centenario di Missioni Consolata, che il 24 ottobre 1998 ha riunito a Torino personalità di spicco per discutere un tema di attualità:
Il sud del mondo fra giudizi e pregiudizi.
Ne è scaturito un convegno di alto livello culturale, secondo l’indirizzo che la rivista ha sempre cercato di avere.
La festa è stata pure un’occasione per ricordare chi ha profuso con professionalità le migliori energie nella redazione della rivista: Giacomo Camisassa, Filippo Perlo, ecc. Senza scordare gli ultimi direttori e redattori: sono missionari che lavorano al computer e navigano in internet, affiancati da laici competenti e appassionati.
Anche la loro è «missione», perché diffonde l’amore ai popoli, sollecita solidarietà, crea amicizia. Sotto tutte le latitudini.
p. Gottardo Pasqualetti
superiore dei missionari della Consolata
in Italia

Francesco Beardi




CILEVoglia di sognare

Dal secondo «Congresso latinoamericano
di pastorale giovanile»,
qualche spunto di cronaca e alcune riflessioni.
Per uno scambio tra mondi, ritenuti a volte
un po’ lontani, e per imparare anche da loro:
per esempio, ad essere più audaci e creativi.

D al 3 all’11 ottobre scorso si è svolto a Santiago del Cile il secondo Congresso dei giovani dell’America Latina: una tappa fondamentale nel cammino di progettazione e riflessione sulla realtà giovanile, già iniziato nel 1992 con il primo Congresso, tenutosi a Cochabamba in Bolivia.
Partecipandovi come invitato per la Pastorale giovanile italiana, ho potuto incontrare e dialogare con giovani, sacerdoti, suore e vescovi di 22 nazioni, che rappresentavano realtà spesso molto diverse tra loro: talvolta anche in contrasto, ma unite da un profondo senso di appartenenza ad una terra con una grande voglia di riscatto, desiderosa di gestire in modo autonomo e democratico il proprio sviluppo sociale e spirituale.
Ho così avuto la possibilità di scoprire un’America Latina molto più matura e responsabile di quella che viene solitamente presentata a noi «occidentali», nell’intento forse di giustificare una tutela economica e politica attuata dai paesi più ricchi e potenti, in primo luogo gli Stati Uniti.
Già il tema del Congresso («I giovani con Cristo, trasformando l’America Latina con giustizia e speranza») ha evidenziato una acuta sensibilità per i problemi di ineguaglianza e discriminazione sociale-economica che affliggono il continente, ma che vengono affrontati con fiducia.
Mi ha affascinato questo atteggiamento positivo e propositivo, che non si lascia sopraffare dagli enormi problemi che investono, in modo diverso, tutto il territorio latino-americano (povertà, narcotraffico, dittatura, violenza…). I giovani riuniti a Santiago sono partiti da un’analisi lucida e dettagliata della realtà attuale (riassunta in una serie di desafios, sfide), che ha rappresentato il terreno dal quale si sono sviluppati, in un secondo momento, i documenti di indirizzo e le linee prioritarie della Pastorale giovanile (definite «lineas de accion»).
Negli atti ufficiali del Congresso si legge un’esplicita condanna, da parte dei giovani, della società neoliberale, «che aumenta l’emarginazione sociale, il debito pubblico, lo sfruttamento minorile, il divario tra ricchi e poveri» (Desafio n. 1).
A questo modello neoliberale, simbolo della contraddizione di un sistema socio-economico mondiale che assicura la vita a pochi e l’indigenza a troppi, i giovani sudamericani contrappongono la necessità di una chiesa che «accompagni i giovani a partecipare nei processi politici». Questo suppone una formazione integrale, basata sulla dottrina sociale della chiesa e capace di individuare alternative economiche di autorealizzazione e autogestione, per contribuire ad un miglioramento della qualità della vita.

U n limite in questa analisi è un’eccessiva semplificazione, che non tiene conto delle complesse conseguenze del processo di globalizzazione. Vengono indicate soluzioni approssimative e vaghe.
Tuttavia ho apprezzato nei giovani latinoamericani una qualità che noi, «occidentali», abbiamo drammaticamente perso: la creatività, ossia la capacità di sognare un mondo diverso da quello attuale, la capacità di immaginare che possano esistere altre ipotesi di organizzazione sociale, al di là dell’attuale struttura socio-economica.
I giovani non si arrendono all’idea di una realtà immodificabile e di un sistema neoliberale insito nel genoma dell’uomo. Però faticano a tradurre il cambiamento desiderato in strategia politica e, soprattutto, in dialogo propositivo con organismi inteazionali, senza il cui appoggio ogni tentativo di modifica è vano.
C’è, infatti, sfiducia nelle reali intenzioni dell’Occidente e nell’intervento diplomatico, ben riassunto nelle parole di Raquel, giovane delegata della pastorale giovanile paraguaiana: «Ho ancora fiducia che, guidati dalla Parola di Dio, si possa riscattare questa terra dai suoi peccati, ma diffido di chi si accorge dei drammi dell’America Meridionale solo per l’uccisione dei bambini da parte della polizia, o il massacro degli indios, e dimentica che ogni giorno, qui, muoiono centinaia di bambini che non hanno quasi mai conosciuto un sorriso… Il problema è economico e sociale e non riguarda solo noi, ma anche gli interessi e l’egoismo di chi si crede buono e democratico in altre parti del mondo».

A ltri temi scottanti affrontati dai giovani al Congresso sono stati:
– il ruolo della famiglia, «riscoperta come progetto di Dio, comunità di vita e amore, in grado di disceere dai valori imposti dalla società e di poter contribuire alla costruzione di una società nuova, segno del regno di Dio» (Linea de accion n. 4);
– la «scelta per i giovani e i poveri del continente, mediante la creazione di forme concrete di partecipazione e l’individuazione di progetti di autofinanziamento economico, che consentano di realizzare i programmi di evangelizzazione, formazione e missione della pastorale giovanile» (Lineas de accion n. 12/18);
– la creazione di «processi di elezione di assessori di pastorale giovanile, che partano da persone proposte all’interno di gruppi giovanili, prendendo in esame criteri come la vocazione, la formazione e la reale scelta preferenziale per i giovani» (Linea de accion n. 21).
Inoltre sono stati approvati documenti che richiamano la pastorale giovanile ad un maggiore impegno per coloro che sono costretti ad emigrare, «vittime dei trafficanti di carne umana, delle politiche discriminatorie dei loro paesi, della droga, della prostituzione» (Pronunciamento para una pastoral juvenil migratoria).
Non manca un invito al papa a farsi portavoce della richiesta di «condono del debito esterno di questi popoli, come un gesto di unità mondiale e come segno concreto della celebrazione del giubileo dell’anno 2000» (Condonacion de la deuda extea).

È utile per noi, giovani italiani e, per la nostra chiesa confrontarci con le proposte e sfide che ci lanciano i fratelli dall’altra parte dell’Oceano. È un importante stimolo per riportare l’attenzione su temi da noi spesso considerati obsoleti, anacronistici: come la capacità di rinnovare la scelta di una vita semplice, attenta ai problemi dell’emarginazione e in grado di testimoniare, con gioia, bontà e entusiasmo, strade nuove di convivenza.
Nello stesso tempo, è altrettanto importante che la chiesa latinoamericana sappia allargare i propri orizzonti, sviluppando con maggiore sforzo e interesse i temi riguardanti la sfera intima di ciascun individuo, accogliendo alcuni spunti di riflessione che animano, invece, intensamente la nostra realtà pastorale.
Colpisce, ad esempio, che fra le oltre 20 linee di azione, individuate come prioritarie per la pastorale giovanile sudamericana, non si faccia mai riferimento a tematiche che i giovani sperimentano quotidianamente: amicizia, rapporto di coppia, sessualità… Un altro limite mi è parso l’uso di un linguaggio «ingessato» e burocratico, nel quale i giovani faticano ad identificarsi, perché molto diverso dal gergo con cui esprimono timori e desideri.
Ogni esperienza di fede, all’interno della chiesa, rappresenta una ricchezza, pur con i suoi limiti e peculiarità. Credo perciò che una reciproca attenzione e una volontà di condivisione siano non solo auspicabili, ma ora più che mai necessarie, in vista della celebrazione del giubileo del 2000. Un giubileo che sarà, anche solo per ragioni geografiche, molto «occidentalizzato».
Pertanto è ancora maggiore il bisogno di individuare forme celebrative, testimonianze di fede, scelte prioritarie diverse fra loro e, tuttavia, comune espressione di una molteplicità di doni spirituali e morali, raccolti nell’universale chiesa di Gesù Cristo.

Massimo Collino




KENYAScommettiamo sui giovani (seconda parte)

Continua il viaggio nella diocesi di Marsabit.
Morijo, Maralal, Wamba: stessi problemi di povertà,
insicurezza, banditismo, impraticabilità delle strade…
E identiche testimonianze di amore e di speranza:
missionari e missionarie della Consolata investono
la loro vita in istruzione e sanità, per un futuro migliore
di queste regioni e del resto del paese.

Morijo: 2.000 metri di altitudine. L’aria è frizzante, ma l’accoglienza di padre Aldo Vettori è calorosa: «Per i superiori questa è una missione ad personam» esordisce con una fragorosa risata. L’ha iniziata 11 anni fa, partendo da zero, dopo aver fondato e organizzato la missione di Barsaloi.
Padre Aldo racconta a ruota libera virtù e miracoli dei suoi samburu; fornisce la sua versione sulle passate lotte tribali; descrive con passione il suo lavoro missionario, catechisti e catecumenati, organizzazione comunitaria impressa alla parrocchia, progetti realizzati o ancora nel cassetto. Rimango a bocca aperta, come 42 anni fa, quando raccontava le avventure di naia e lotte sindacali. Non è cambiato di una virgola: sempre entusiasta di tutto e di tutti. Essendo io cresciuto, faccio mentalmente un po’ di tara.
I fatti mi fanno ricredere. Morijo è un cantiere aperto: nel cortile i meccanici aggiustano le macchine; nella falegnameria stridono pialle e seghe; poco lontano alcune donne sistemano la cucina della scuola, i muratori riparano le case dei maestri, altri costruiscono la sede della polizia. Qui padre Aldo alza la voce: minaccia il governo di sospendere tutto, se non arriva il granoturco promesso per pagare lavoro e materiale. Gli operai gli danno ragione e continuano la costruzione.
Visitiamo il dispensario, la scuola, l’asilo, il laboratorio di taglio e cucito e il serbatornio dell’acqua: fiore all’occhiello della missione. Da lontano sembra un diroccato castello medievale, da vicino un’opera geniale: il fianco d’una collina è stato sbancato, pavimentato e circondato da un muro, per raccogliere l’acqua piovana e convogliarla in un’enorme cisterna. Per le stagioni secche, padre Aldo ha scovato una falda acquifera in una valletta; ha scavato un pozzo di 140 metri e, con un motore, pompa l’acqua nel serbatornio. Le famiglie più isolate, con casa in muratura e tetto di lamiera, sono aiutate dalla missione a costruirsi un modesto serbatornio dove raccogliere l’acqua piovana: è il «progetto anfora».
La visita è quasi finita. Uno stuolo di donne aspetta il missionario per esporgli i loro problemi, sicure di ricevere un aiuto. Ci sono anche alcuni catechisti e uomini armati. «Sono le mie “guardie del corpo” – dice padre Aldo sorridendo -. Ogni notte si dispongono strategicamente attorno al villaggio, per difenderlo dai malintenzionati. Qui mi sento sicuro».
Morijo è l’unica missione senza reticolati, muri di recinzione e cancelli blindati, eretti negli ultimi anni per motivi di sicurezza in tutte le missioni visitate.
Alcune persone sono venute a vendere latte, favi di miele, legna, carbone. Padre Aldo compera tutto, aiutando la gente a guadagnarsi qualche soldo; poi lo rivende ai poveri a minor prezzo di quanto lo ha pagato. Confratelli un po’ maligni raccontano che uno stesso sacco di carbone venga più volte comprato e rivenduto agli stessi poveri. Padre Aldo ha un cuore troppo grande per accorgersi di tali sottigliezze.
A proposito di cuore: padre Aldo, 68 anni, di cui 30 vissuti in Africa da pioniere solitario, ha fatto tre by pass, ma si sente ringalluzzito. «Per ringiovanire l’istituto, ho suggerito al superiore generale di sottoporre i vecchietti alla stessa operazione» dice ridendo sonoramente. Poi confessa di non poter guidare a lungo come una volta; che preferisce il giorno alla notte, perché può muoversi e respirare senza fatica.
I superiori tentano di dargli un collaboratore: ma non è facile trovare chi resista ai suoi ritmi. Gli hanno proposto il trasferimento in una parrocchia più comoda, anche se sanno che, dovunque andasse, comincerebbe a mettersi in proprio e fonderebbe un’altra missione ad personam.

Maralal, ore 6.30, concelebro con padre Marino Gemma: da una collinetta poco lontana un altoparlante vomita musica assordante, seguito da un sermone a squarciagola. «È così ogni mattina – spiega padre Marino -. La chiesa dell’Assemblea di Dio è sempre vuota, ma il pastore fa la predica a tutta la città. Qui i cattolici sono in maggioranza; ma il pullulare di sètte religiose sta creando grande confusione, specie tra i giovani».
I giovani: sono la grande sfida della parrocchia di Maralal; se ne contano a migliaia nelle numerose scuole elementari e superiori della città. Se ne occupa padre Marino quasi a tempo pieno: ogni giorno, al pomeriggio, si reca nelle varie scuole per insegnare religione, incontrare gruppi di Azione cattolica e istruire catecumeni; la sera visita una delle 16 piccole comunità cristiane della città. «Sono quasi tutte formate da kikuyu: è bello vedere come la fede sia radicata nella loro vita; più che nei cristiani di qualsiasi altra etnia».
La parrocchia è il punto di riferimento della gioventù anche fuori della scuola. Ogni fine settimana vengono organizzati toei sportivi e competizioni culturali. «Non si tratta solo di farli divertire – spiega il missionario -, ma di promuovere conoscenza reciproca e amicizia, di cui sentono tanto bisogno.
Le attività giovanili culminano con la Consolata Cup, nel mese di giugno, a cui partecipano tutte le scuole di Maralal».
Altre opere a favore della gioventù sono gestite dalle missionarie della Consolata, come il collegio per studentesse di scuole secondarie e l’«Irene Training Center»: un istituto professionale, dove le ragazze si specializzano in tessitura, cucito, maglieria, lavorazione del cuoio, scienze domestiche, e conseguono un diploma che le abilita all’esercizio di una professione e a insegnare le materie in cui si sono specializzate.
Capoluogo amministrativo del distretto Samburu, Maralal è anche il cuore della diocesi di Marsabit: qui c’è il seminario minore, diretto da padre Paschal Libana, missionario della Consolata tanzaniano; l’ex seminario maggiore (oggi filosofi e teologi studiano a Nyeri) ospita il centro pastorale, dove padre Roberto Sibilia dirige corsi di formazione per animatori e agenti pastorali e cura la pubblicazione di numerosi sussidi catechetici e liturgici in lingua inglese, samburu e swahili; il centro catechetico è in fase di ripensamento, ma continua la formazione dei catechisti nelle singole parrocchie.
La tabella di marcia non mi consente di sostare in tutte le missioni, ma una fugace visita a Suguta Marmar, 30 km da Maralal, è doverosa. Vi incontro un novizio d’eccezione, che emetterà la professione religiosa a metà marzo: è don Pietro Tablino, missionario fidei donum della diocesi di Alba, una vita spesa nelle regioni più inospitali del Marsabit. «In fondo al cuore mi sono sempre sentito missionario della Consolata – dice sorridendo -. È ora che lo diventi anche giuridicamente».
Wamba: la scuola secondaria «Santa Teresa» celebra 25 anni di vita. Nei viali fioriti c’è un indescrivibile viavai di colori, dal bianco e azzurro delle divise delle alunne, alle tinte smaglianti dei vestiti di signore sofisticate, dal nero dei veli musulmani ai variopinti oamenti samburu.
Alle 11 gli invitati affollano il salone parrocchiale. Per tre ore s’intrecciano discorsi, canti, danze e scenette. Comincia la preside, suor Giuseppina, ricordando gli obiettivi raggiunti dalla scuola: «Oltre 1.230 ragazze hanno completato con successo i quattro anni di formazione umana e accademica: sono state stimolate a sfruttare le doti personali e diventare responsabili del proprio e altrui futuro».
Una ventina di prosperose ex alunne raccontano la loro storia: sono insegnanti, infermiere, assistenti sociali, segretarie di provveditorati e aziende, impiegate e imprenditrici; altre frequentano ancora l’università. «Se siamo ciò che siamo, lo dobbiamo alle basi ricevute in questa scuola», affermano le signore Kaparo e Lesirma, rispettivamente mogli del presidente dell’Assemblea nazionale e del segretario del Parlamento.
Il signor Lengala, provveditore agli studi per il distretto Samburu, sottolinea l’eccellenza dei risultati ottenuti fin dagli inizi, che fanno di «Santa Teresa» un esempio per le scuole del distretto e di tutto il territorio nazionale. Poi aggiunge lodi e ringraziamenti per tutti, vivi e defunti: missionari e missionarie che hanno investito vita e mezzi materiali in questa istituzione e continuano a sponsorizzare le ragazze più povere; mons. Carlo Cavallera, primo vescovo di Marsabit, che ha scommesso sull’istruzione e promozione della donna; l’attuale vescovo, mons. Ambrogio Ravasi, che continua a sostenere questa scuola e altre opere sociali.
A parte la retorica di circostanza, Wamba è lo specchio di quanto è avvenuto nell’intero territorio di Marsabit: tutto ciò che esiste, nel campo dello sviluppo e promozione umana, istruzione e sanità, è opera della chiesa e dei suoi missionari.
Per 10 volte padre Lorenzo Rosano si era visto rifiutare dalle autorità coloniali il permesso di stabilirsi a Wamba, essendo zona d’influenza protestante. Ma continuò a fare il missionario ambulante tra Maralal e Wamba, fermandosi per i tre giorni consentiti. «Ironia della sorte – racconta padre Giuseppe Gorzegno -, per tutto il tempo in cui rimaneva a Wamba, padre Lorenzo era ospite di un catechista protestante di nome Filippo. È morto nel 1984. Mentre lo assistevo all’ospedale, mi diceva con orgoglio di essere stato il primo catechista cattolico di Wamba; raccontava della bontà del tenace missionario e dei palloni che gli portava per fare giocare i bambini».
Con l’indipendenza del Kenya, arrivò il sospirato permesso, nel 1965. «Quel giorno padre Rosano scrisse nel diario di aver pianto di gioia» continua padre Gorzegno. Accorse subito mons. Cavallera: piantò la tenda, radunò gli anziani e ottenne il terreno per costruire la scuola e il dispensario. Era la politica del vescovo pioniere: evangelizzare promuovendo istruzione e sanità.
Il ciclo elementare, nel 1973, sfociò nella scuola secondaria: Wamba Boys, per ragazzi, poi nazionalizzata, e «Santa Teresa», per le ragazze, gestita ancora oggi dalle missionarie della Consolata.
Anche le suore sono state protagoniste della crescita di Wamba. Attualmente sono quindici, in maggioranza impegnate nella scuola e ospedale; tre collaborano nelle attività della parrocchia: asili, catechesi, gruppi di donne e giovani, servizio della carità. «Quando qualcuno viene a chiederci aiuto, lo mandiamo da suor Michelita e lei risolve tutti i casi» racconta padre Giuseppe.
Dopo tanti anni di servizio in ospedale, suor Michelita continua a fare l’infermiera ambulante, scorrazzando in bicicletta per tutto il villaggio e dintorni: visita le famiglie povere, assiste gli ammalati a domicilio, distribuisce medicine e consolazione. Quando si ferma, è subito attorniata da un nugolo di poveri: ascolta, fa coraggio e aiuta più che può.

È domenica. Wamba riprende ad animarsi fin dalle prime ore del mattino. Alle sette, la prima messa è affollata da suore, personale medico, studenti infermiere e ragazze della scuola Santa Teresa. La seconda, alle 9.30, dura quasi due ore. Animano la liturgia gli Wamba Boys, che, secondo il costume samburu, cantano con tutta la voce in canna.
Il pomeriggio visito l’ospedale. Pare un giardino: bougainvillee multicolori e sfavillanti oano i viali e pensiline che collegano i vari padiglioni. Ordine e pulizia dappertutto. L’attrezzatura dei vari reparti non ha nulla da invidiare agli ospedali europei.
Il dispensario, nato nel 1965, è cresciuto celermente, diventando un ospedale con oltre 150 letti e, grazie alla dedizione del dottor Prandoni e della sua équipe medica, la sua fama è dilagata sino ai confini dell’Etiopia e Somalia. «I malati arrivano da centinaia di chilometri – afferma padre Giuseppe -. Molti musulmani lo preferiscono agli ospedali governativi più a portata di mano».
Sostenuto e amministrato per molti anni dai missionari della Consolata, l’ospedale di Wamba è passato sotto la responsabilità della diocesi e, attraverso una rete di amici e organismi inteazionali, si è reso autosufficiente. Molti dottori e professori italiani vengono a prestarvi servizi specialistici gratuiti.
Accanto all’ospedale, un’altra prestigiosa istituzione per la costruzione del futuro del Kenya: la scuola per infermiere, l’unica in tutta la diocesi. Gestita da una suora della Consolata, con la collaborazione d’insegnanti formati in loco, la scuola assicura il servizio all’ospedale di Wamba e fornisce personale qualificato e specializzato a quelli governativi.
La visita si conclude alla Huruma home (casa della misericordia), aperta dalla diocesi nel 1990 per bambini handicappati fisici e mentali. Tre suore indiane e alcune donne africane stanno imboccando alcuni bambini. Altri riescono a nutrirsi da soli. «Ne abbiamo 25, tra 2 e 15 anni – spiega la suora direttrice -. Otto di essi fanno fisioterapia nell’ospedale, perché imparino a badare a se stessi il più possibile. Ma il loro male più grave è la mancanza di affetto: sono rifiutati dalla famiglia, che li ritiene una maledizione. Abbiamo tentato inutilmente di convincere i familiari a riprenderli in casa; abbiamo organizzato delle feste per i genitori, con la presenza del vescovo, perché vengano almeno a visitarli; ma pochissimi si sono presentati. Oramai, per queste creature, siamo noi le loro mamme».

Benedetto Bellesi




ARGENTINAI maestri di Menem

La «carpa blanca» dei docenti argentini è simbolo della lotta di tutti i lavoratori contro una concezione economica che non rispetta la dignità delle persone.
E che ha generato quasi 9 milioni di poveri, il 25% della popolazione argentina.

Buenos Aires – È una protesta straordinaria per la durata, la partecipazione, l’originalità. Dal 2 aprile 1997 gruppi di docenti argentini si alternano in uno sciopero della fame effettuato in una grande tenda piantata in «Plaza de los Dos Congresos», proprio davanti al palazzo del parlamento.
L’inquinamento atmosferico (che nella capitale è notevole) ha trasformato il suo colore bianco in un grigio sporco, ma poco importa. Per tutti è la Carpa blanca.
In questi quasi due anni, in essa sono passati più di 600 digiunanti, che si danno il cambio ogni 15/20 giorni. Maestri, precettori, professori, direttori: docenti di tutti i tipi (con l’esclusione dei professori universitari) e di tutte le province argentine si danno il cambio per contribuire di persona a uno sciopero che non ha precedenti nella storia sindacale del paese.
Gli obiettivi della lunghissima battaglia non si limitano a richieste di aumenti salariali (per tutti i livelli e in tutto il paese, da La Quiaca alla Terra del Fuoco), ma sono finalizzati a una revisione integrale del sistema educativo dell’Argentina.
I docenti chiedono la creazione di un «fondo de financiamento educativo» e una nuova legge di «educación pública nacional»; respingono, inoltre, tutti i progetti governativi che prevedano l’introduzione della flessibilità sul lavoro e la soppressione della copertura sanitaria pubblica per i lavoratori dell’educazione.

UNA LEZIONE PER TUTTI

Entriamo da una porticina laterale, quasi in punta dei piedi per timore di disturbare. Ma all’interno c’è molto movimento. Marta Maffei, segretaria generale del CTERA (la «Confederation de Trabajadores de la Educación de la Republica Argentina», che rappresenta 192.000 docenti), è intervistata da un gruppetto di giornalisti. Alcuni studenti parlano con un’insegnante. Altre persone stanno disegnando manifesti di protesta. Ci sono sedie accatastate, tavoloni pieni di carte, lavagne con messaggi di tutti i tipi, un televisore acceso.
Gli scioperanti si riconoscono immediatamente, perché indossano un camice bianco, e una targhetta avverte che sono maestri in sciopero della fame. In tre si offrono di farci da guida. Cesar Olivares è precettore a Moreno, nella provincia di Buenos Aires; Margherita Aqueveque insegna contabilità in una scuola secondaria nel Rio Negro; Alicia Ferrada lavora in un asilo di Esquel, nella provincia di Chubut.
La tenda è divisa in tre parti distinte: a destra (rispetto all’entrata principale) c’è uno spazio per le riunioni, le telefonate e la distribuzione delle bevande; al centro c’è una stanza per accogliere i visitatori; a sinistra c’è l’ambiente più privato, dove sono state sistemate le brande per il riposo.
Chiediamo in cosa consista lo sciopero. «Non assumiamo – ci spiega Margherita – alcun tipo di alimento. Prendiamo soltanto liquidi». E, per farci comprendere meglio l’organizzazione, ci mostra un foglio appeso a un pannello. Esso indica con precisione tutte le bevande da assumere: ogni mezz’ora, a partire dalle 7,30 del mattino, un liquido diverso (thé, mate, Seven-up, ecc.). «Questa tenda – spiega Cesar – è un esempio di pace, di lotta, di solidarietà. Noi qui dentro conviviamo con persone che non conosciamo, provenienti da altre province. C’è gente che viene da molto lontano, lasciando la famiglia per almeno 20 giorni. Gli argentini non vogliono più violenza. Per questo una manifestazione pacifica come la nostra ha l’appoggio della società».
«Il nostro salario è talmente basso che provo vergogna a dirlo» confessa Cesar. La retribuzione media per un insegnante è di 350 pesos mensili. Per comprendere l’esiguità della somma, sono sufficienti due dati: un salario di 300 pesos è considerato un salario da fame o di pura sopravvivenza; d’altra parte, secondo gli istituti di ricerca argentini, una famiglia con due bambini per coprire le necessità basilari avrebbe bisogno di almeno 1.030 pesos al mese.
«Tutti sappiamo – ha detto il deputato Andres Delich – che i problemi educativi non si esauriscono nei bassi salari dei nostri docenti. Tuttavia, allo stesso tempo, sappiamo che senza salari degni risulta impossibile qualsivoglia progetto serio di miglioramento della scuola argentina». Ma non tutti, in Argentina, sono d’accordo. Ancora in luglio, Roque Feández, ministro dell’economia, aveva detto: «È vero che i maestri guadagnano poco, ma è altrettanto vero che lavorano poco».
Marta Maffei, appena riconfermata alla testa del CTERA, porta dei grandi occhiali e un telefonino che squilla in continuazione. Ci dice: «Nella carpa, nelle strade, nelle scuole continuiamo a lottare per un’Argentina giusta per tutti. Noi non vogliamo un maquillaje, chiediamo cambi profondi. Nella carpa de la dignitad, con la forza, la convinzione e la serena fermezza dei maestri abbiamo detto no alla violenza istituzionale, alla rassegnazione, all’isolamento. Abbiamo mostrato un sindacalismo differente che usa strumenti diversi. È bello poter contare sulla solidarietà della gente per combattere contro questo fondamentalismo neoliberista, globale e selvaggio».

PER UN PUGNO DI «PESOS»

Pare che la Carpa blanca dia molto fastidio al presidente Carlos Menem e ai politici della maggioranza. Quando, lo scorso settembre, si parlò di installae una anche davanti alla Casa Rosada, in Plaza de Mayo, intervenne a vietare l’iniziativa il responsabile degli interni, Carlos Corach. Il ministro giustificò il divieto affermando che Plaza de Mayo è un «monumento storico nazionale» e che, pertanto, non può essere fatta oggetto di manifestazioni.
Il governo ha sempre sostenuto che non c’è denaro per finanziare le richieste dei docenti. Per sbloccare la situazione, in settembre i deputati hanno approvato il progetto governativo di un’imposta d’emergenza dell’1% (annuale) sul valore delle automobili: il denaro raccolto in questo modo (700 milioni di pesos, secondo le stime ufficiali) avrebbe dovuto finanziare un aumento dei salari dei docenti. Il progetto è stato però modificato dal Senato e, quindi, è tornato alla Camera, dove è attualmente fermo. Nel frattempo, il mercato dell’auto è crollato dell’11%…

IL DISEGNO DI MENEM

Che il budget statale sia limitato corrisponde a verità. Inoltre, in questi anni di politiche neoliberiste, la situazione sociale è degenerata e il governo ha dovuto riempire più le pance che le teste degli scolari: le spese per dare da mangiare ai bambini hanno prevalso su quelle per l’istruzione.
Secondo dati ufficiali, oggi in Argentina ci sono 1.357.995 famiglie che vivono in condizioni critiche; il numero dei poveri arriva a 9 milioni di persone, circa il 25% della popolazione argentina. Cifre allarmanti, soprattutto davanti ai proclami trionfalistici fatti dal presidente e dai suoi ministri economici. Ma Menem non sembra preoccupato, forse perché ha deciso di rispettare la costituzione non candidandosi (sarebbe stata la terza volta consecutiva) alle elezioni del 1999. È probabile che nella sua testa ci sia un progetto di più lungo respiro: ripresentarsi nel 2003, possibilmente nelle vesti di salvatore della patria.

Paolo Moiola




OCEANIAChiesa in alto mare

Si è svolto a Roma, dal 22 novembre al 12 dicembre
1998, il primo Sinodo dei vescovi per l’Oceania.
Le giovani chiese del continente continuano l’opera
di evangelizzazione e promozione umana
tra innumerevoli sfide: isolamento geografico,
complessità dell’ambiente multiculturale e
multireligioso, confusione provocata dal pullulare
delle sètte fondamentaliste, diversità delle condizioni
socioeconomiche delle popolazioni e scarsità di aiuti.
Un insieme di chiese sorelle che chiede solidarietà.

Non è facile rintracciare sull’atlante la diocesi di mons. Guy Chevalier, Taiohae o Tafenuaenata, nella Polinesia francese. «Vescovo nelle Marchesi – spiega -, a 1.500 km dal più vicino confratello vescovo. Sono abituato a un certo isolamento. Ma c’è un isolamento molto più serio: quello delle piccole comunità cattoliche (isole, villaggi o regioni) che, per la loro collocazione geografica e l’esiguo numero di abitanti, sono abituate a vivere senza sacerdote».
Ancora più problematico scorgere le isole Cook, «molto piccole e isolate, sparse in 240 chilometri quadrati di oceano». Viene da dire: povera chiesa universale, rintracciabile solo con la lente d’ingrandimento!
UNA CHIESA GALLEGGIANTE
Al Sinodo dell’Oceania un vescovo inizia il suo intervento scusandosi di non essere un teologo, ma aggiustatore di motori. C’è da capirlo: quando il fuoribordo va in tilt, non c’è nessuno che lo ripari all’infuori di lui; l’evangelizzazione tira i remi in barca. In Oceania l’attività missionaria non si misura in passi o a chilometri, ma a ore di navigazione. Che la geografia non abbia nulla a che vedere con l’evangelizzazione è opinione da dilettanti.
Le chiese d’Africa, America e Asia, di cui si sono celebrati i sinodi, hanno in comune la terraferma, che consente loro di stabilire i punti di partenza e arrivo, di misurare le distanze prima di spiccare il volo. I popoli continentali hanno qualche goccia di sangue in comune nelle vene. L’Oceania, al contrario, galleggia sugli oceani, dando la sensazione di una piattaforma sballottata dai flutti e senza meta fissa. I suoi popoli vengono da mondi ignoti e migrano verso altri altrettanto sconosciuti.
Anche l’Australia, Nuova Zelanda e Papua Nuova Guinea, pur così immense, fanno parte di quel mondo sparso, che si staglia contro il fondo verde mare, sul quale la missione naviga da due o tre secoli e ha avuto impulso con l’arrivo dei missionari dei Sacri cuori, maristi e Pime: una missione consacrata dal sacrificio di Damiano di Molokai, Pietro Chanel, Giovanni Mazzucconi, Peter To Rot, Mary Mckillop e altri santi e beati.
Un terzo della superficie terrestre ospita poco più di 30 milioni di abitanti; 700 i linguaggi soltanto in Papua Nuova Guinea. A rappresentare questa chiesa non sono stati scelti, come per gli altri sinodi, dei delegati: l’invito è stato rivolto a tutti. Hanno risposto 37 vescovi dell’Australia, 10 della Nuova Zelanda, 19 di Papua Nuova Guinea e Isole Salomone, 15 del Cepac (Conferenza episcopale del Pacifico), comprendente le isole minori come Samoa, Tahiti, Fiji, Nuova Caledonia, Guam, Wallis e Futuna, Kiribati, Marianne, Cook, Vanuatu ecc. Ognuno con il suo carico di problemi e soluzioni mancate.
UN SINODO TUTTO DIVERSO
Di strettamente episcopale c’è in essi la croce, che deve essere pesante e faticosa da portare. Si recano a gruppi verso la sala del sinodo, dondolando le loro cartelle come vecchi compagni di scuola, conversando in inglese con accento coloniale americanizzato che li accomuna, in francese e tedesco. Ne riconosci la provenienza dai nomi: Collins, Gerry, Baes, Loft, Reichert, Kurtz, Chevalier ecc. Non manca l’italiano, anzi il veneziano: è mons. Cesare Bonivento del Pime, vescovo di Vanimo in Papua Nuova Guinea, accompagnato dal giovane assistente indiano, padre Joseph Mathai Pullanappillil. Vengono poi i capi dicastero, i membri di nomina pontificia, esperti, auditori e auditrici.
Tra queste spicca la signora Elsie Heiss, della «nazione aborigena dei wirandjuri», alta, bruna, vestita all’occidentale, con un accento inglese da intellettuale e un leggero tocco di stravaganza che la rende distinguibile a prima vista. È addetta all’ufficio per la Pastorale degli aborigeni nel settore della sanità dell’arcidiocesi di Sydney.
Sono abbastanza numerosi gli aborigeni: circa 400 mila solo in Sydney e quasi altrettanti nella diocesi di Parramatta, suffraganea di Sydney; ma per l’opinione pubblica australiana essi non supererebbero i 300 mila. Sono state abolite le riserve, monumenti eretti dalla discriminazione razziale: dal 1948 gli aborigeni hanno cominciato a essere accolti, a gruppi scelti, nelle scuole cattoliche e in quelle pubbliche. Ma nella chiesa stentano a farsi strada: non ci sono ancora sacerdoti aborigeni, soltanto qualche diacono. «Vorrei dire ai vescovi e cardinali di aprire le porte anche alla mia gente – afferma Elsie -, perché possano diventare sacerdoti. Ne abbiamo bisogno come gli altri».
Il problema aborigeno è affiorato più volte nel sinodo, mentre la signora Heiss ha fatto un intervento di grande ispirazione: «Poiché l’inculturazione – ha detto fra l’altro – rappresenta un termine accettabile per la nostra comunità ecclesiale, noi portiamo alla chiesa i nostri valori spirituali e culturali, che possono contribuire ulteriormente all’arricchimento delle comunità cristiane».
OGNI CHIESA È UN’ISOLA
Il sinodo apre i suoi lavori su «Gesù Cristo e i popoli dell’Oceania» con una panoramica d’insieme esposta all’assemblea dal relatore generale, mons. James Hichey, arcivescovo di Perth in #Australia. Prima di dare lettura della relazione, assicura i presenti che è stata commissionata una mappa della chiesa in Oceania per facilitare la comprensione degli interventi a tutti i partecipanti, compresi gli addetti all’informazione; che è quanto dire: appartenere alla chiesa d’Oceania non significa conoscere tutte le chiese della Melanesia, Micronesia, Polinesia, Australia, Nuova Zelanda e Papua Nuova Guinea, ma cercare in tutti i modi di avvicinare i popoli e le comunità accorciando le distanze che finora li hanno tenuti separati.
La missione, da quando è esistita, ha sempre avuto a che fare con linguaggi e culture, ma qui si è aggiunta un’altra barriera: quella delle distanze. «Navi, battelli, canoe e aerei – dice il relatore – in Oceania sono sempre stati più importanti che automobili e treni». Forse è racchiusa, in questa espressione ovvia, la chiave per comprendere la natura dell’evangelizzazione in Oceania, dove rari sono contatti e scambi, perché qui ogni uomo è un’isola. Non si è mai parlato di distanze nei precedenti capitoli, neppure in quello dell’Asia dove, presumibilmente, il problema esiste, ma su terra ferma.
I temi focalizzati ritornano nelle assemblee e nei lavori di gruppo, che si sono svolti dal 22 novembre al 12 dicembre. A ognuno il compito di metterli sul tavolo in modo comprensibile e condivisibile da tutti.
SFIDE DI CULTURE E SÈTTE
In questa comunità di intenti e nella fede partecipata si riconosce la chiesa di oltre mezzo mondo, rappresentata da un pugno di uomini e di donne. Ritorna con martellante insistenza il tema dell’incontro del vangelo con la cultura, che non avviene in modo indolore, perché ogni penetrazione del vangelo cambia pensiero e vita. Il prefetto apostolico delle isole Marshall, il gesuita C. Gould, invita alla sfida, «laddove la cultura dominante sembra contraria al vangelo e al modo di vivere cristiano».
L’intento è buono, ma la comunità è troppo fragile per resistere alle sollecitazioni della tradizione e delle novità. A volte stravolge il senso del vangelo e ne ricava soluzioni deformanti, come le sètte. Sono queste un fenomeno deviante che non risparmia nessun angolo dell’Oceania. Alcune sono importate, altre di origine locale. «Nelle Samoa americane – dice mons. Quinn, vescovo di Samoa-Pago Pago – gruppi religiosi a tendenza fondamentalista fanno riferimento a comunità religiose della “corrente principale”, sia protestante che cattolica, e attraggono persone di ogni età, grazie allo stile accattivante, compartecipazione, musica e finanziamenti esteri». Preoccupa i vescovi la divisione che le sètte operano in alcuni villaggi, mettendo a nudo «il punto debole del cattolicesimo»; come preoccupa il crescente numero di matrimoni misti e separazioni che ne conseguono.
E qui viene messo in causa il Codice di diritto canonico del 1983: a giudizio di mons. Boyle, vescovo di Donedin (Nuova Zelanda), esso lega le mani a vescovi e sacerdoti più di quello del 1917, al punto che ciò che era permesso prima è vietato oggi, e viceversa. È permesso solo ciò che dice il Codice. Questo criterio, a giudizio del presule e di altri, oltre che creare confusione nei sacerdoti, determina una fuga dalla chiesa a tutto vantaggio delle sètte.
«Talora – annota mons. Lolesio Fuahea, vescovo locale di Wallis Futuna – le sètte sono dei circoli chiusi, formati da gente influente, che cercano di dominare il paese e la chiesa». In Papua Nuova Guinea molte sètte deriverebbero dalla cosiddetta cargo mentality, che intende entrare in possesso dei beni che gli europei hanno sottratto con l’astuzia, facendo uso degli stessi metodi.
LOTTA ALL’IGNORANZA
Il proliferare delle sètte viene attribuito specialmente all’ignoranza religiosa dilagante ovunque. Le scuole cattoliche, che formavano la base per una evangelizzazione intelligente e cosciente, danno segni di cedimento e laicismo. L’allarme sale da più parti. Il vescovo autoctono di Suva nelle Fiji, Petero Macata, teme per il futuro della scuola, a motivo del dilagare dei «nuovi gruppi religiosi (sètte), che offrono un consistente supporto finanziario per colpire i cattolici di spicco proprio nell’istruzione dei loro figli. Soldi per i pesci grossi… Speriamo di poter conservare le nostre scuole». Nel caso contrario, la chiesa perderebbe la base più importante della sua evangelizzazione, che aveva di mira la formazione di un laicato efficiente e responsabile.
Al problema della scuola è direttamente legato quello della formazione dei catechisti e, soprattutto, dei sacerdoti. «Il numero delle vocazioni locali – ammette il card. Tomko – aumenta con buon ritmo, anche se insufficiente». Più esplicito mons. Cesare Bonivento della Papua Nuova Guinea, per il quale il problema non sta solo nella quantità e qualità dei candidati, ma anche nell’impegno dimostrato dai pastori. «Se ci impegneremo poco in questa direzione – avverte – daremo sempre l’impressione che la nostra chiesa è riluttante a diventare chiesa locale».
Molti altri i problemi studiati e dibattuti: comunione e dialogo; diritti umani e insegnamento sociale della chiesa; problema dei sacerdoti soli, dei diaconi sposati, dei catechisti facenti funzione di preti, di comunità rimaste senza eucaristia sei mesi all’anno.
C’è soprattutto un senso di impotenza, a partire dai vescovi stessi, i quali si sentono incapaci di intervenire, perché privi dei collegamenti necessari, non esclusi quelli finanziari. Qualcuno ha espresso la propria «preoccupazione per il fatto che i criteri delle agenzie di benefattori, specialmente quelle cattoliche, possono essere diversi da quelli delle nostre aree in via di sviluppo. Si spera che i criteri di donazione non escludano i bisogni delle chiese particolari in Oceania o in qualunque altro posto».
Un appello alla solidarietà mondiale perché non distingua tra poveri in macchina e poveri in canoa.

Giovanni Tebaldi




LETTERAChi è il più bravo?

Caro direttore,
esprimiamo le nostre perplessità sull’articolo di Piergiorgio Gilli, «Portatori di un vangelo eterno», apparso sul numero speciale per i 100 anni di Missioni Consolata. Non ci ritroviamo nella visione che, del laico volontario ad gentes, l’articolista offre. Consideriamo riduttiva l’interpretazione del documento «I laici nella missione ad gentes e nella collaborazione tra i popoli – Conferenza episcopale italiana (Cei), 1990», anche a partire dall’esperienza di vita che abbiamo maturato come operatori della solidarietà internazionale.
Dal documento della Cei si può tracciare un identikit del laico «in missione» molto più ricco di quello tratteggiato nell’articolo. Per Gilli la funzione del laico si esaurirebbe in una «diaconia permanente». Invece il numero 49 del documento citato, dove si parla degli ambiti in cui si manifesta l’impegno dei laici in missione, oltre ad indicare «una collaborazione diretta con la chiesa locale e con gli istituti in settori strettamente pastorali», non tralascia, come aspetti parimenti importanti, la «cooperazione con la chiesa locale per progetti e iniziative finalizzate alla promozione umana attraverso il qualificato apporto delle professionalità» e il coinvolgimento «in progetti di promozione umana gestiti direttamente o in collaborazione con le istituzioni sociali e politiche del paese».
Inoltre il documento afferma che «il campo della attività evangelizzatrice (dei laici) è il mondo vasto della politica, della realtà sociale, dell’economia…». Del resto, anche il numero 25 ricorda che «i laici hanno un ruolo insostituibile nel mondo, specialmente per la promozione umana e per la carità, nell’impegno per la giustizia e la solidarietà, attraverso le molteplici e multiformi funzioni temporali». Dunque non sono solo operatori pastorali di rincalzo.
Crediamo che gli ambiti della promozione umana, prerogativa e compito dei laici, siano talora poco considerati dalla chiesa come espressione di missionarietà.
Da otto anni siamo impegnati in un organismo di Volontariato internazionale: il Comunità-impegno-servizio-volontariato (Cisv) di Torino, che appartiene alla Federazione degli organismi cristiani di Volontariato internazionale (Focsiv). Il Cisv da decenni cerca di tradurre l’ideale cristiano della solidarietà e dell’attenzione ai più poveri in una vita comunitaria e di azioni concrete nel Sud del mondo, insieme alle popolazioni escluse ed emarginate del pianeta.
Il nostro impegno di volontari ci fa vivere a fianco delle donne del Senegal, per renderle capaci di gestire autonomamente il loro mulino; o dei contadini del Burundi, perché possano migliorare la loro agricoltura e sfamarsi; o dei ragazzi di strada di Rio, perché escano dal circolo vizioso della droga e del crimine e si costruiscano un futuro nel lavoro… Ebbene: crediamo che tale impegno sia un’autentica missionarietà di laici nel mondo.
Tale impegno e vocazione, proprie del laico cristiano immerso nella realtà complessa dei problemi del mondo, non possono passare in subordine rispetto al carisma del «diacono permanente», che fa dell’evangelizzazione esplicita il cuore del suo servizio a fianco dei religiosi.

Federico Perotti e Paolo Martella – Torino

La vostra lettera, cari amici, solleva il problema della differenza tra «laico missionario» e «volontario internazionale cristiano»: il primo sarebbe impegnato di più nell’evangelizzazione e il secondo si dedicherebbe maggiormente alla promozione umana. La questione è rimbalzata anche sul Convegno missionario nazionale di Bellaria (10-13 settembre 1998).
Noi riteniamo che la differenza fra «laico» e «volontario» non debba sfociare in polemica, né, peggio, stabilire chi sia «il più bravo». Voi stessi, Federico e Paolo, nel post scriptum della lettera, auspicate «più miti consigli».
Infatti avete scritto:
«Anziché fomentare guerre tra poveri, accusando le Organizzazioni non governative della Focsiv di non meglio dichiarati «privilegi ecclesiali»), non sarebbe più proficuo cercare vie di collaborazione feconda tra i volontari inteazionali e i laici missionari? Forse questo obiettivo sarà più facilmente raggiungibile quando i credenti, che partono per un servizio «ad gentes», metteranno al centro della loro presenza “il farsi prossimo” a chi è nel bisogno con la propria irripetibile esperienza di umanità; ma, soprattutto, quando non verranno più considerati alla stregua di “sacerdoti mancati”».

Federico Perotti e Paolo Martella




LETTERASubito il digiuno

Caro direttore,
la chiesa, il papa o un’altra autorità appropriata dovrebbe annunciare, per il giubileo del 2000, un «grande digiuno universale», al quale chiamare tutti i cristiani e tutti gli uomini di buona volontà, con l’obiettivo di:
– porre fine al debito dei paesi del Sud del måondo, una volta per tutte;
– ottenere che ogni nazione aderente all’Onu:
a)sospenda tutti i programmi di potenziamento militare (guerre sperimenti nucleari e altro) per 10 anni, come minimo,
b) destini, per almeno 10 anni, l’1,5% delle proprie spese militari per debellare nel mondo, in modo risolutivo, la fame e le malattie dell’infanzia (l’1,5% mi pare sia pure la percentuale indicata come sufficiente da Oms, Fao e Unicef).
Modalità, durata e cadenza del digiuno, fino ad ottenere un pronunciamento positivo dell’Onu, non sono di mia competenza… Che ne dici della proposta?
Edoardo Arrighi
Asti

Proposta ottima. Ma, senza attendere il «sì» dell’Onu, incominciamo subito a realizzarla: in famiglia, parrocchia, città… Le rivoluzioni vere nascono sempre dal basso. Così, ad esempio, è stato per «la banca etica».

Edoardo Arrighi




LETTERAI nostri 100 anni

Cari missionari,
il 24 ottobre 1998 a Torino, nel salone «Beato Allamano», la rivista «Missioni Consolata ha celebrato i 100 anni di attività. Una manifestazione solenne per un pubblico scelto di «addetti ai lavori». Un appuntamento cui non sono potuto mancare. Esprimo il più sentito apprezzamento per quanto l’avvenimento ha inteso rappresentare.
È stato dibattutto «il Sud del mondo, fra giudizi e pregiudizi»: un tema di attualità e di grande interesse, difficile da trattare. Il livello e la personalità dei relatori lasciavano intendere l’opportunità della scelta; e le attese non sono state deluse.
I 100 anni di «Missioni Consolata» hanno segnato anche la storia degli omonimi missionari, iniziata con il loro primo invio in Kenya. La rivista, nell’arco di 100 anni, ha accompagnato la storia di centinaia e centinaia di missionari e missionarie «sulle strade del mondo». Vicende religiose, sociali e politiche hanno coinvolto quattro generazioni, almeno, di lettori in avvenimenti epocali, spesso drammatici.
La riflessione su «il Sud del mondo» ha trovato ascoltatori attenti e particolarmente sensibili. Buona la presenza dei giovani, attratti pure da musiche e canti appropriati in una coice festosa.
Il numero straordinario del centenario di «Missioni Consolata» 100 anni sulle strade del mondo è un prezioso documento da conservare per la storia. Personalmente ho pure molto gradito il libro-omaggio «Uomini e donne senza frontiere» di Benedetto Bellesi.
Alfonso Dellavedova
Torino

Caro direttore,
innanzitutto la ringrazio per la mattinata del 24 ottobre, che ho trovato ricchissima di informazioni, analisi, speranze, amicizia, stimoli all’impegno. Una mattinata veramente «missionaria».
Solo ci ha tutti amareggiati, sul finale, l’atteggiamento aggressivo e razzista del dottor Mario Parker (italiano di origine panamense), che da quasi 30 anni è a Torino e si produce in sterili affondi contro l’occidente cristiano. È grave che abbia un certo seguito tra gli africani sprovveduti.
Parker è stato offensivo soprattutto nei confronti di padre Filipe Couto, classificato «cerebroleso» (perché «colonizzato» dai bianchi cristiani), e di Igor Man, tacciato di xenofobia. Con i nostri applausi abbiamo espresso solidarietà ai due relatori, che hanno risposto bene.
Piergiorgio Gilli
Torino

Nella mente degli organizzatori, il 24 ottobre scorso non è stato un’autocelebrazione, bensì un invito alla riflessione.
«Il Sud del mondo fra giudizi e pregiudizi», dibattuto in occasione dei 100 anni di Missioni Consolata, è pure il tema del dossier di questo numero.

aa.vv.