Continua il viaggio nella diocesi di Marsabit.
Morijo, Maralal, Wamba: stessi problemi di povertà,
insicurezza, banditismo, impraticabilità delle strade…
E identiche testimonianze di amore e di speranza:
missionari e missionarie della Consolata investono
la loro vita in istruzione e sanità, per un futuro migliore
di queste regioni e del resto del paese.
Morijo: 2.000 metri di altitudine. L’aria è frizzante, ma l’accoglienza di padre Aldo Vettori è calorosa: «Per i superiori questa è una missione ad personam» esordisce con una fragorosa risata. L’ha iniziata 11 anni fa, partendo da zero, dopo aver fondato e organizzato la missione di Barsaloi.
Padre Aldo racconta a ruota libera virtù e miracoli dei suoi samburu; fornisce la sua versione sulle passate lotte tribali; descrive con passione il suo lavoro missionario, catechisti e catecumenati, organizzazione comunitaria impressa alla parrocchia, progetti realizzati o ancora nel cassetto. Rimango a bocca aperta, come 42 anni fa, quando raccontava le avventure di naia e lotte sindacali. Non è cambiato di una virgola: sempre entusiasta di tutto e di tutti. Essendo io cresciuto, faccio mentalmente un po’ di tara.
I fatti mi fanno ricredere. Morijo è un cantiere aperto: nel cortile i meccanici aggiustano le macchine; nella falegnameria stridono pialle e seghe; poco lontano alcune donne sistemano la cucina della scuola, i muratori riparano le case dei maestri, altri costruiscono la sede della polizia. Qui padre Aldo alza la voce: minaccia il governo di sospendere tutto, se non arriva il granoturco promesso per pagare lavoro e materiale. Gli operai gli danno ragione e continuano la costruzione.
Visitiamo il dispensario, la scuola, l’asilo, il laboratorio di taglio e cucito e il serbatornio dell’acqua: fiore all’occhiello della missione. Da lontano sembra un diroccato castello medievale, da vicino un’opera geniale: il fianco d’una collina è stato sbancato, pavimentato e circondato da un muro, per raccogliere l’acqua piovana e convogliarla in un’enorme cisterna. Per le stagioni secche, padre Aldo ha scovato una falda acquifera in una valletta; ha scavato un pozzo di 140 metri e, con un motore, pompa l’acqua nel serbatornio. Le famiglie più isolate, con casa in muratura e tetto di lamiera, sono aiutate dalla missione a costruirsi un modesto serbatornio dove raccogliere l’acqua piovana: è il «progetto anfora».
La visita è quasi finita. Uno stuolo di donne aspetta il missionario per esporgli i loro problemi, sicure di ricevere un aiuto. Ci sono anche alcuni catechisti e uomini armati. «Sono le mie “guardie del corpo” – dice padre Aldo sorridendo -. Ogni notte si dispongono strategicamente attorno al villaggio, per difenderlo dai malintenzionati. Qui mi sento sicuro».
Morijo è l’unica missione senza reticolati, muri di recinzione e cancelli blindati, eretti negli ultimi anni per motivi di sicurezza in tutte le missioni visitate.
Alcune persone sono venute a vendere latte, favi di miele, legna, carbone. Padre Aldo compera tutto, aiutando la gente a guadagnarsi qualche soldo; poi lo rivende ai poveri a minor prezzo di quanto lo ha pagato. Confratelli un po’ maligni raccontano che uno stesso sacco di carbone venga più volte comprato e rivenduto agli stessi poveri. Padre Aldo ha un cuore troppo grande per accorgersi di tali sottigliezze.
A proposito di cuore: padre Aldo, 68 anni, di cui 30 vissuti in Africa da pioniere solitario, ha fatto tre by pass, ma si sente ringalluzzito. «Per ringiovanire l’istituto, ho suggerito al superiore generale di sottoporre i vecchietti alla stessa operazione» dice ridendo sonoramente. Poi confessa di non poter guidare a lungo come una volta; che preferisce il giorno alla notte, perché può muoversi e respirare senza fatica.
I superiori tentano di dargli un collaboratore: ma non è facile trovare chi resista ai suoi ritmi. Gli hanno proposto il trasferimento in una parrocchia più comoda, anche se sanno che, dovunque andasse, comincerebbe a mettersi in proprio e fonderebbe un’altra missione ad personam.
Maralal, ore 6.30, concelebro con padre Marino Gemma: da una collinetta poco lontana un altoparlante vomita musica assordante, seguito da un sermone a squarciagola. «È così ogni mattina – spiega padre Marino -. La chiesa dell’Assemblea di Dio è sempre vuota, ma il pastore fa la predica a tutta la città. Qui i cattolici sono in maggioranza; ma il pullulare di sètte religiose sta creando grande confusione, specie tra i giovani».
I giovani: sono la grande sfida della parrocchia di Maralal; se ne contano a migliaia nelle numerose scuole elementari e superiori della città. Se ne occupa padre Marino quasi a tempo pieno: ogni giorno, al pomeriggio, si reca nelle varie scuole per insegnare religione, incontrare gruppi di Azione cattolica e istruire catecumeni; la sera visita una delle 16 piccole comunità cristiane della città. «Sono quasi tutte formate da kikuyu: è bello vedere come la fede sia radicata nella loro vita; più che nei cristiani di qualsiasi altra etnia».
La parrocchia è il punto di riferimento della gioventù anche fuori della scuola. Ogni fine settimana vengono organizzati toei sportivi e competizioni culturali. «Non si tratta solo di farli divertire – spiega il missionario -, ma di promuovere conoscenza reciproca e amicizia, di cui sentono tanto bisogno.
Le attività giovanili culminano con la Consolata Cup, nel mese di giugno, a cui partecipano tutte le scuole di Maralal».
Altre opere a favore della gioventù sono gestite dalle missionarie della Consolata, come il collegio per studentesse di scuole secondarie e l’«Irene Training Center»: un istituto professionale, dove le ragazze si specializzano in tessitura, cucito, maglieria, lavorazione del cuoio, scienze domestiche, e conseguono un diploma che le abilita all’esercizio di una professione e a insegnare le materie in cui si sono specializzate.
Capoluogo amministrativo del distretto Samburu, Maralal è anche il cuore della diocesi di Marsabit: qui c’è il seminario minore, diretto da padre Paschal Libana, missionario della Consolata tanzaniano; l’ex seminario maggiore (oggi filosofi e teologi studiano a Nyeri) ospita il centro pastorale, dove padre Roberto Sibilia dirige corsi di formazione per animatori e agenti pastorali e cura la pubblicazione di numerosi sussidi catechetici e liturgici in lingua inglese, samburu e swahili; il centro catechetico è in fase di ripensamento, ma continua la formazione dei catechisti nelle singole parrocchie.
La tabella di marcia non mi consente di sostare in tutte le missioni, ma una fugace visita a Suguta Marmar, 30 km da Maralal, è doverosa. Vi incontro un novizio d’eccezione, che emetterà la professione religiosa a metà marzo: è don Pietro Tablino, missionario fidei donum della diocesi di Alba, una vita spesa nelle regioni più inospitali del Marsabit. «In fondo al cuore mi sono sempre sentito missionario della Consolata – dice sorridendo -. È ora che lo diventi anche giuridicamente».
Wamba: la scuola secondaria «Santa Teresa» celebra 25 anni di vita. Nei viali fioriti c’è un indescrivibile viavai di colori, dal bianco e azzurro delle divise delle alunne, alle tinte smaglianti dei vestiti di signore sofisticate, dal nero dei veli musulmani ai variopinti oamenti samburu.
Alle 11 gli invitati affollano il salone parrocchiale. Per tre ore s’intrecciano discorsi, canti, danze e scenette. Comincia la preside, suor Giuseppina, ricordando gli obiettivi raggiunti dalla scuola: «Oltre 1.230 ragazze hanno completato con successo i quattro anni di formazione umana e accademica: sono state stimolate a sfruttare le doti personali e diventare responsabili del proprio e altrui futuro».
Una ventina di prosperose ex alunne raccontano la loro storia: sono insegnanti, infermiere, assistenti sociali, segretarie di provveditorati e aziende, impiegate e imprenditrici; altre frequentano ancora l’università. «Se siamo ciò che siamo, lo dobbiamo alle basi ricevute in questa scuola», affermano le signore Kaparo e Lesirma, rispettivamente mogli del presidente dell’Assemblea nazionale e del segretario del Parlamento.
Il signor Lengala, provveditore agli studi per il distretto Samburu, sottolinea l’eccellenza dei risultati ottenuti fin dagli inizi, che fanno di «Santa Teresa» un esempio per le scuole del distretto e di tutto il territorio nazionale. Poi aggiunge lodi e ringraziamenti per tutti, vivi e defunti: missionari e missionarie che hanno investito vita e mezzi materiali in questa istituzione e continuano a sponsorizzare le ragazze più povere; mons. Carlo Cavallera, primo vescovo di Marsabit, che ha scommesso sull’istruzione e promozione della donna; l’attuale vescovo, mons. Ambrogio Ravasi, che continua a sostenere questa scuola e altre opere sociali.
A parte la retorica di circostanza, Wamba è lo specchio di quanto è avvenuto nell’intero territorio di Marsabit: tutto ciò che esiste, nel campo dello sviluppo e promozione umana, istruzione e sanità, è opera della chiesa e dei suoi missionari.
Per 10 volte padre Lorenzo Rosano si era visto rifiutare dalle autorità coloniali il permesso di stabilirsi a Wamba, essendo zona d’influenza protestante. Ma continuò a fare il missionario ambulante tra Maralal e Wamba, fermandosi per i tre giorni consentiti. «Ironia della sorte – racconta padre Giuseppe Gorzegno -, per tutto il tempo in cui rimaneva a Wamba, padre Lorenzo era ospite di un catechista protestante di nome Filippo. È morto nel 1984. Mentre lo assistevo all’ospedale, mi diceva con orgoglio di essere stato il primo catechista cattolico di Wamba; raccontava della bontà del tenace missionario e dei palloni che gli portava per fare giocare i bambini».
Con l’indipendenza del Kenya, arrivò il sospirato permesso, nel 1965. «Quel giorno padre Rosano scrisse nel diario di aver pianto di gioia» continua padre Gorzegno. Accorse subito mons. Cavallera: piantò la tenda, radunò gli anziani e ottenne il terreno per costruire la scuola e il dispensario. Era la politica del vescovo pioniere: evangelizzare promuovendo istruzione e sanità.
Il ciclo elementare, nel 1973, sfociò nella scuola secondaria: Wamba Boys, per ragazzi, poi nazionalizzata, e «Santa Teresa», per le ragazze, gestita ancora oggi dalle missionarie della Consolata.
Anche le suore sono state protagoniste della crescita di Wamba. Attualmente sono quindici, in maggioranza impegnate nella scuola e ospedale; tre collaborano nelle attività della parrocchia: asili, catechesi, gruppi di donne e giovani, servizio della carità. «Quando qualcuno viene a chiederci aiuto, lo mandiamo da suor Michelita e lei risolve tutti i casi» racconta padre Giuseppe.
Dopo tanti anni di servizio in ospedale, suor Michelita continua a fare l’infermiera ambulante, scorrazzando in bicicletta per tutto il villaggio e dintorni: visita le famiglie povere, assiste gli ammalati a domicilio, distribuisce medicine e consolazione. Quando si ferma, è subito attorniata da un nugolo di poveri: ascolta, fa coraggio e aiuta più che può.
È domenica. Wamba riprende ad animarsi fin dalle prime ore del mattino. Alle sette, la prima messa è affollata da suore, personale medico, studenti infermiere e ragazze della scuola Santa Teresa. La seconda, alle 9.30, dura quasi due ore. Animano la liturgia gli Wamba Boys, che, secondo il costume samburu, cantano con tutta la voce in canna.
Il pomeriggio visito l’ospedale. Pare un giardino: bougainvillee multicolori e sfavillanti oano i viali e pensiline che collegano i vari padiglioni. Ordine e pulizia dappertutto. L’attrezzatura dei vari reparti non ha nulla da invidiare agli ospedali europei.
Il dispensario, nato nel 1965, è cresciuto celermente, diventando un ospedale con oltre 150 letti e, grazie alla dedizione del dottor Prandoni e della sua équipe medica, la sua fama è dilagata sino ai confini dell’Etiopia e Somalia. «I malati arrivano da centinaia di chilometri – afferma padre Giuseppe -. Molti musulmani lo preferiscono agli ospedali governativi più a portata di mano».
Sostenuto e amministrato per molti anni dai missionari della Consolata, l’ospedale di Wamba è passato sotto la responsabilità della diocesi e, attraverso una rete di amici e organismi inteazionali, si è reso autosufficiente. Molti dottori e professori italiani vengono a prestarvi servizi specialistici gratuiti.
Accanto all’ospedale, un’altra prestigiosa istituzione per la costruzione del futuro del Kenya: la scuola per infermiere, l’unica in tutta la diocesi. Gestita da una suora della Consolata, con la collaborazione d’insegnanti formati in loco, la scuola assicura il servizio all’ospedale di Wamba e fornisce personale qualificato e specializzato a quelli governativi.
La visita si conclude alla Huruma home (casa della misericordia), aperta dalla diocesi nel 1990 per bambini handicappati fisici e mentali. Tre suore indiane e alcune donne africane stanno imboccando alcuni bambini. Altri riescono a nutrirsi da soli. «Ne abbiamo 25, tra 2 e 15 anni – spiega la suora direttrice -. Otto di essi fanno fisioterapia nell’ospedale, perché imparino a badare a se stessi il più possibile. Ma il loro male più grave è la mancanza di affetto: sono rifiutati dalla famiglia, che li ritiene una maledizione. Abbiamo tentato inutilmente di convincere i familiari a riprenderli in casa; abbiamo organizzato delle feste per i genitori, con la presenza del vescovo, perché vengano almeno a visitarli; ma pochissimi si sono presentati. Oramai, per queste creature, siamo noi le loro mamme».
Benedetto Bellesi