NIGERIA – Meno petrolio più pane quotidiano

Paese popoloso e corrotto. Acuti i contrasti
fra nord musulmano e sud cristiano,
con 28 anni di dittatura militare, 250 etnie
e 2 milioni di barili di petrolio al giorno.
E l’agricoltura? Potrebbe essere la salvezza economica, a certe condizioni.
Nel frattempo tutti attendono il 29 maggio.
Sarà la svolta democratica?

Le cose non vanno affatto bene in Negeria. La situazione sociopolitica è peggiorata, allorché troppi nigeriani importanti hanno abbandonato «la tradizione viva» per interessi materiali, che però non hanno recato alcun beneficio al popolo; anzi, hanno accresciuto la povertà e fomentato la guerra… Oggi, per avere pace nel nostro bello e ricco paese, dobbiamo ritrovare le radici culturali.
A tutti i nigeriani, in patria e all’estero, chiediamo di rieducarsi al patrimonio culturale. Ma facciamo appello anche all’Occidente, perché fermi la vendita di armi ai paesi africani e vengano piuttosto venduti trattori e strumenti agricoli.
L’economia nigeriana è in ginocchio a causa della dittatura (28 anni) e della mentalità egoistica di numerosi individui facoltosi, che non comprendono il valore dello sviluppo agricolo del paese. Ritrovare le nostre radici significa «riscoprire la terra»: con criteri modei, scientifici. Oggi i nigeriani devono svegliarsi, al fine di nutrire i loro concittadini.
Avevamo la luce. Ma l’abbiamo spenta. Il buon Dio ci aiuti a riaccenderla, prima dell’anno 2000.
UN POPOLO DI CONTADINI
La Nigeria, con circa 120 milioni di abitanti, è un paese fortemente agricolo. Ancora nel 1990 – rileva lo studioso Tijani – il 75% dei nigeriani viveva in aree rurali… I contadini locali realizzano il 95% della produzione agricola nazionale.
Le attività iniziano con la stagione delle piogge: in marzo-aprile nel sud e maggio-giugno nel nord. Le coltivazioni si praticano su appezzamenti inferiori a due ettari.
Ad eccezione di alcuni gruppi di contadini, legati ad istituti di ricerca scientifica, la maggioranza degli agricoltori è analfabeta. Bankole Balogun, in «I mezzi di comunicazione e le crisi di cibo» (1990), sottolinea: in caso di scarsa produttività, la mancanza d’informazione aggrava la situazione; è comune la consapevolezza che il raccolto è più abbondante nelle fattorie di ricerca che nei campi privati, anche quando si ricorre alla stessa semente.
Però alcune modee tecniche di produzione, usate nelle grandi aziende, non sono disponibili per il contadino comune o non sono da lui usate propriamente. Pertanto si esige un efficiente scambio d’informazione tra contadini e ricercatori-rappresentanti del governo: questo per migliorare la produttività e conservare i beni agricoli.
Zappa e coltellaccio
In Nigeria non sono mancati, da parte del governo, appelli alla «Rivoluzione verde» e all’«Operazione nutrimento del paese» (Opn), foendo anche strumenti scientifici e meccanici adeguati. Però, stranamente, l’Opn fu lanciata nel 1976 dal capo dello stato, il generale Olusegun Obasanjo, con… la zappa! Quello era il tempo in cui la Nigeria si inebriava del suo petrolio e, di conseguenza, importava moltissimi generi alimentari. Così l’«Operazione nutrimento» morì appena nata, nonostante l’uso di Obasanjo della zappa quale strumento d’identificazione psicologica con le masse popolari.
Ironia della sorte, 20 anni dopo, in Nigeria la zappa è ancora l’utensile più usato nella produzione agricola: e, con la zappa, il coltellaccio. Zappa e coltellaccio sono i nostri «marchi di fabbrica» agricoli.
Negli Stati Uniti e in Israele la popolazione impiegata in attività agricole non supera il 4%; tuttavia la produzione è abbondante e di qualità, non solo per il consumo interno, ma anche per l’esportazione. Ebbene: quale potrebbe essere il risultato in Nigeria, dove il 75% degli abitanti lavora la terra?
Le università, gli istituti di ricerca rurale e i responsabili del bacino del fiume Niger stanno introducendo tecniche modee nell’agricoltura e nell’allevamento, al fine di produrre più cibo e provvedere materia prima alle industrie; ma la loro azione è ancora molto isolata. E noi continuiamo a dipendere dalle importazioni alimentari. Il 90% del reddito nazionale annuale si basa sulla produzione di petrolio greggio.

ALCUNI PROBLEMI
Se non si supera l’«ubricatura» del petrolio, la crisi alimentare nigeriana aumenterà, sia per problemi interni che estei. Ne elenchiamo alcuni.
Cambiamenti climatici mondiali. L’inquinamento del pianeta sta modificando il clima mondiale, con conseguenze sfavorevoli alla regolarità delle piogge. Però tanti contadini hanno poca o nessuna conoscenza delle previsioni del tempo. Ne conseguono seminagioni inutili e, quindi, spreco di risorse.
Bassi raccolti. Numerosi agricoltori dispongono di nozioni rudimentali circa lo sfruttamento della terra. Il medesimo appezzamento è soggetto, nel corso degli anni, alla monocoltura, senza la necessaria rotazione di messi né «soste». E i raccolti sono poveri. La situazione si aggrava con il diboscamento selvaggio e i fertilizzanti errati, che distruggono l’ecosistema. I contadini ricorrono quasi esclusivamente a concimi industriali, trascurando quelli naturali… Un po’ d’informazione favorirebbe anche gli allevatori, il cui bestiame viene decimato dalle malattie.
Conservazione dei prodotti. Ananas, manghi, pomodori, banane, noci di cola, ecc. marciscono al termine di ogni raccolta. I silos sono molto fuori mano per i contadini e, paradossalmente, sono dislocati nei centri urbani. Per di più, molti centri di produzione e raccolta non sono serviti da buone strade.
Leggi di mercato. Queste hanno avuto un impatto negativo su molti produttori. Avidi intermediari hanno accresciuto le difficoltà nei processi di compravendita e distribuzione dei beni agricoli. I prezzi sono soggetti a «tira e molla». Così tanti contadini sono isolati e passivi guardiani dei mercati locali… e non formano cornoperative, che potrebbero consolidare i prezzi e le vendite.

RUOLO DELL’INFORMAZIONE
Questi ed altri problemi dovrebbero essere affrontati e risolti anche attraverso un’informazione corretta. Ad esempio: rendendo noti gli effetti benefici del rimboschimento, s’incoraggia a praticarlo e si determinano anche cambiamenti climatici positivi.
La coltivazione di orti è un altro settore, che merita maggiore sostegno. Inoltre la ricerca e scoperta di acque sotterranee (come è avvenuto in India) potrebbero essere praticate su larga scala anche nelle nostre aree rurali.
L’enfasi deve essere posta sull’agricoltura mista (coltivazione e allevamento), con esami del suolo per verificarne il grado di acidità e alcalinità, la cui conoscenza scongiurerebbero l’errato uso di fertilizzanti.
Esempi agricoli da imitare sono quelli di Israele (deserto del Negev), Botswana, Camerun, Etiopia e Ciad.

Conclusione: la ricchezza di un paese non può prescindere dalla produzione agricola. Mashood Abiola, nel suo «La politica agricola ideale» (1990), lo sosteneva apertamente. In Nigeria non si devono ignorare i milioni di agricoltori poveri che, nonostante tutto, lavorano la terra e foiscono alle industrie tante materie prime.

TROPPE STELLE MILITARI

NIGERIA: così chiamarono gli inglesi l’ultimo tratto del bacino del possente fiume Niger, prima di morire nel Golfo di Guinea. Nell’antichità vi prosperarono stati e imperi. Al presente, fra le circa 250 etnie, emergono gli haussa-fulani, i yoruba e gli ibo. Il loro rapporto è conflittivo, specie fra le popolazioni musulmane (nord) e cristiane (sud).
Nel campo letterario sono significative le produzioni in lingua haussa e i musei di Lagos e Ife conservano opere d’arte preziose per lo studio delle civiltà. Senza scordare Wole Soyinka, premio Nobel per la letteratura nel 1986 e condannato a morte dal regime militare nel 1997, né lo scrittore Ken Saro-Wiwa, impiccato dallo stesso regime nel 1995, perché difendeva gli ogoni, minacciati nella sopravvivenza dalla multinazionale anglo-olandese Shell. Il petrolio è «il pomo della discordia» in tutta la nazione.

p 1960: il 1° ottobre la Nigeria diventa indipendente come stato del «Commonwealth» e, tre anni dopo, nasce la repubblica federale.
p 1966: date le tensioni politico-tribali, i militari insorgono con due colpi di stato. Nel 1966 il generale Ironsi, ibo, cerca di abolire lo stato federale; vi si oppone il generale Yakubu Gown, haussa. Gli ibo, con Odumegwu Ojukwu, proclamano la secessione e fondano la repubblica del Biafra. È la guerra civile, con due milioni di morti (soprattutto ibo) e popolazioni ridotte alla fame.
p 1970: il 15 gennaio il Biafra capitola. Gown ripristina lo statuto federale.
p 1975: altro colpo di stato con il generale Mohammed Murtala, ucciso l’anno successivo. Il potere è del generale Olusegun Obasanjo, che nel 1978 lo consegna ai civili: presidente Shehu Shagari.
p 1983: crisi del petrolio ed espulsione di 2 milioni di stranieri, soprattutto del Togo e Ghana.
p 1984: colpo di stato che porta alla ribalta il generale Mohammed Buhari.
p 1985: il potere passa al generale Ibrahim Babangida, dopo (ovviamente!) un colpo di stato. Nel nord si scatenano rivolte di fondamentalisti islamici. Gravi i danni.
p 1990: colpo di stato, represso nel sangue. Babangida rimane in sella. Nel nord islamico gli estremisti scendono in piazza: 200 morti (22 aprile 1991).
p 1993: Babangida indice le elezioni, vinte da Mashood Abiola. Il generale lo incarcera, perché è… yoruba, mentre il governo spetta agli haussa-fulani, al potere dagli anni ‘60.
p 1994: ennesimo colpo di stato e il 19 novembre il governo civile viene licenziato. Presidente-dittatore è Sani Abacha.
p 1998: l’8 giugno il generale Abacha muore d’infarto (secondo la versione ufficiale) e, un mese dopo, la stessa sorte tocca allo scarcerato Abiola. Il potere è in mano al generale Abdusalam Abubakar. Questi, però, annuncia libere elezioni, per consegnare il paese ad un presidente civile il prossimo 29 maggio.

L a Nigeria conta al potere gli stessi militari che l’hanno strapazzata per 28 dei suoi 39 anni d’indipendenza. Ma oggi, in attesa del 29 maggio, splende «un raggio di speranza», scrivono i vescovi cattolici (1). Ma potrebbe essere lo «stesso vino vecchio in bottiglie nuove». In vista delle elezioni, l’episcopato ammonisce: «È criminale comprare o vendere voti». I nigeriani devono vigilare per non essere manipolati da quanti fomentano fazioni tribalitiche.
Sotto il profilo economico, si raccomanda di variare l’uso delle risorse: la Nigeria non deve dipendere solo dal petrolio, trascurando l’agricoltura. Tuttavia, anche nel settore energetico, la situazione non è rosea. «La corruzione nella nostra società – scrivono ancora i vescovi – si traduce in una perenne scarsità di combustibile. È penoso che un paese, ai primi posti nel mondo per la produzione di greggio, non soddisfi i bisogni primari del suo popolo». La corruzione, inoltre, è responsabile dei gravi disservizi riguardanti l’acqua, le strade, i telefoni e le poste.
Ben vengano, allora, le nuove elezioni. Ma siano democratiche. E i vescovi, dopo aver ricordato l’urgenza della riconciliazione nazionale, invitano tutti i nigeriani «a costruire insieme una cultura democratica, indispensabile per assicurare una democrazia stabile».
Francesco Beardi

(1) «Un raggio di speranza» (comunicato dei vescovi cattolici della Nigeria, Ibadan 7-12 settembre 1998).

John Izuegbu




L’OPINIONE – Incontro con Javier Perez de Cuellar

Nonostante molti regimi dittatoriali siano caduti, la democrazia non è una conquista così diffusa. In Perú essa è messa in pericolo dal presidente Fujimori, che da 8 anni esercita il potere in maniera estremamente autoritaria. Ma anche all’Onu, la massima assise mondiale, la democrazia non è di casa. Basti pensare al «diritto di veto» dei 5 membri permanenti…
Così la pensa Javier Pérez de Cuéllar, per 10 anni segretario generale dell’Onu, oggi leader del movimento «Union por el Perú».
Lo abbiamo incontrato nella sua casa di Lima.

Strade pulite ed ordinate, giardini ben curati, case eleganti. San Isidro è uno dei quartieri esclusivi di Lima. La nostra meta è una villa bianca, bella, ma forse un po’ soffocata dai condomini costruiti a ridosso.
Ci apre la porta un domestico in livrea. La casa è molto elegante. Un’ampia scalinata sale al piano superiore. Quadri, sculture, tappeti, argenteria sono in bella vista. Una signora viene ad informarsi se sono previste delle foto. Rispondiamo affermativamente.
Pochi minuti dopo, puntualissimo, si presenta il nostro ospite, l’ex segretario generale dell’Organizzazione delle nazioni unite Javier Pérez de Cuéllar.
Nella notte del 27 agosto 1998 il Congresso peruviano ha bocciato un referendum popolare per il quale erano state raccolte 1 milione e mezzo di firme. Cosa pensa di questa decisione?

È una «derota», una sconfitta per il paese e per la democrazia. Il referendum è l’unico strumento previsto dalla Costituzione per un intervento diretto del popolo. Purtroppo, due organi dello stato (il «Jurado Nacional de Elecciones» e l’«Oficina Nacional de Procesos Electorales») hanno commesso un grave errore sostenendo che la consultazione popolare doveva ottenere la preventiva approvazione del Congresso. Poi quest’ultimo, attraverso una votazione molto discutibile, ha deciso che il referendum non doveva tenersi. Tutto ciò dimostra una mancanza di fiducia del governo nella propria popolarità.

Strana questa paura. Sia nel 1990 che nel 1995 Fujimori stravinse…

Ma in questo paese le elezioni non sono mai limpide. Nel 1995, Fujimori e «Cambio 90» guadagnarono una maggioranza assoluta nel parlamento con manovre illecite…

Fujimori e i suoi uomini sono al potere dal 1990. In questi 8 anni sono riusciti a impossessarsi di tutte le leve del potere, a riscrivere la Costituzione e interpretarla a proprio piacimento, come dimostra in modo eclatante la vicenda del referendum. Dottor Pérez de Cuéllar, davanti a questa situazione ci si chiede se il Perú sia una democrazia o una dittatura…

La situazione è grave perché le istituzioni democratiche non sono rispettate. I tre poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario – sono attualmente controllati dal governo.
Dunque, non si può dire che il Perú sia una democrazia, ma allo stesso tempo non si può dire che sia una dittatura (almeno per il momento). C’è ancora una relativa libertà di stampa. Relativa, non assoluta, perché il governo ha il controllo su parecchi giornali e televisioni.

Nel Congresso, su 120 deputati, 71 appartengono a «Cambio 90 – Nueva Mayoria», il partito di Fujimori. Con questi numeri che può fare l’opposizione?

Questo congresso è completamente nelle mani di Fujimori. I congressisti dell’opposizione hanno un ruolo poco più che formale. Hanno una funzione di vigilanza, per scoprire e denunciare ai giornali indipendenti «los atropellos», gli abusi che vengono commessi.
Per l’anno 2000 occorre una coalizione, una convergenza tra i partiti dell’opposizione (APRA, Partito Popular Cristiano, ecc.). Essi debbono accordarsi e trovare un candidato da contrapporre al presidente. Fujimori rimane molto forte e, soprattutto, è furbissimo. Se si ripresenta (come pare ormai certo), è probabile che riesca a vincere per la terza volta consecutiva. A meno che…

A meno che l’opposizione non si presenti compatta con un candidato alternativo, serio e credibile. C’è attualmente una persona che risponda a queste caratteristiche?

No, purtroppo attualmente non c’è un candidato alternativo a Fujimori.

E che ci dice di Pérez de Cuéllar?

Io? Io sono troppo vecchio. Vecchio, vecchio, caro mio. È necessario un candidato giovane di 40-50 anni. Io non ho più l’età per la politica…

Però lei è il leader di «Union por el Perú».
Se non ci fosse questa situazione, io mi sarei ritirato dalla vita politica. Preferirei stare più tranquillo e godermi la mia vecchiaia con mia moglie e i miei 6 nipotini.
Invece, ho scelto di lottare per la restaurazione della democrazia e per il rispetto dei diritti umani in questo paese.
Fujimori e i suoi ministri mostrano con orgoglio i risultati ottenuti in economia (prodotto interno lordo in crescita, inflazione in ribasso), dimenticando i dati sulla disoccupazione e la povertà dilagante. Lei come giudica il programma economico del governo fujimorista?

Non bastano i dati sul prodotto interno lordo e sull’inflazione per gridare al successo. Il programma economico di Fujimori non dà la necessaria attenzione all’aspetto sociale. Educazione, salute, alimentazione non sono abbastanza seguiti. Insomma questo programma manca di una dimensione umana.
Qualsiasi nuovo governo avrebbe il dovere politico e, soprattutto, morale di cambiare. C’è un problema di distribuzione per un paese che è fondamentalmente ricco.

Secondo lei, è possibile che questa grave situazione sociale porti a una rinascita di «Sendero»?

Ci sono già stati segnali in questo senso…
È certo che il terreno è pronto per una rinascita del terrorismo. Tuttavia, polizia e corpi speciali sono allenati per affrontarlo.
Purtroppo, la metà dei peruviani sono poveri. Di questi, almeno 5 milioni sono in condizioni di estrema povertà. Questa situazione può originare violenza, anche se, in generale, il peruviano è pacifico e molto tollerante.

Uno dei maggiori vanti di Fujimori è di aver sconfitto il terrorismo. Però nelle carceri peruviane sono finiti anche tantissimi innocenti…
Lei dice cose vere: la repressione contro il terrorismo ha prodotto molte ingiustizie. Tuttavia, la «commissione ad hoc» (l’organismo governativo che esamina le carcerazioni «dubbie», ndr), guidata dal padre belga Hubert Lanssiers, è un importante passo in avanti.
Per me il diritto fondamentale è il diritto alla vita; per questo sono contro la pena di morte. Non bisogna mai dimenticare che anche a un criminale debbono essere riconosciuti tutti i diritti e ciò per il semplice fatto che lui, pur avendo sbagliato, rimane un essere umano.

Parliamo allora di diritti umani. Nonostante sia finita l’emergenza terrorismo, gli abusi delle forze dell’ordine e dei servizi segreti (il «Sin» di Vladimiro Montesinos) rimangono un fatto normale…

Però, anche il governo di Fujimori ha finalmente capito che deve rispettare i diritti umani. Purtroppo, tra la gente c’è una grande ignoranza rispetto a questo tema, soprattutto nelle regioni meno sviluppate del paese. Per questo sarebbe importante iniziare una educazione ai diritti umani fin dalla scuola.
D’altra parte, è difficile avere rispetto dei diritti umani, quando non c’è democrazia.

In un contesto così difficile, che tipo di ruolo ha la chiesa peruviana?

Ha, prima di tutto, una funzione moralizzatrice. Oggi il governo spesso la accusa di «fare politica». Ma non può essere diversamente quando c’è un autoritarismo così pronunciato.

Lasciamo il Perú e i suoi problemi, per parlare delle Nazioni Unite, organismo al cui vertice lei è stato per 10 anni…

Sull’Onu piovono critiche da parte di tutti. Dall’alto della sua esperienza di ex segretario generale, ci spieghi cosa c’è che non funziona in quella istituzione.
Le risponderò con un esempio. Le Nazioni Unite sono come la sua macchina fotografica. Se non la usa, non può dire che la macchina non vada bene; d’altra parte, se lei non sa usarla, identicamente non può dire che la macchina non funzioni.
Io credo che il meccanismo dell’Onu sia teoricamente perfetto, ma i paesi non lo utilizzano o non sanno utilizzarlo. Le Nazioni Unite potrebbero veramente costituire lo strumento ideale per la soluzione di tutti i problemi mondiali.

I 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza (Cina, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Russia) hanno il «diritto di veto». Se esercitato, esso può bloccare qualsiasi decisione. Le pare giusto?

Il diritto di veto non è uno strumento democratico. Occorrerebbe modificare questa norma, ma per sopprimerla è necessario avere l’assenso dei 5 membri permanenti. Purtroppo, tra loro non c’è accordo su questo punto.

Ci sono paesi, tra cui l’Italia, che spingono per entrare nel Consiglio di sicurezza come membri permanenti. Che ne pensa?

Io sarei d’accordo sull’ampliamento del consiglio, almeno per Germania, Giappone e Italia.

Qual è il suo ricordo più bello nei 10 anni alla guida delle Nazioni Unite?

Il più bel ricordo come segretario ONU fu l’indipendenza della Namibia.

E quello più brutto?
Anche qui non ho alcun dubbio: il più brutto ricordo è la guerra del Golfo.

Lei fu eletto segretario generale una prima volta nel 1981 e riconfermato nel 1986. Perché il suo successore, l’egiziano Boutros Ghali, non ottenne un secondo mandato?

Boutros Ghali fu un segretario molto intelligente e preparato. Non fu rieletto per l’opposizione degli Stati Uniti e di alcuni paesi europei. Probabilmente sulla sua mancata riconferma influirono gli insuccessi in Africa (soprattutto in Somalia, Burundi e Rwanda) e nella ex Jugoslavia.

E che ci dice dell’attuale segretario Kofi Annan?

Boutros Ghali era un giurista, mentre Kofi Annan è un tecnico.

LA NOTTE CHE IL CONGRESSO UCCISE IL REFERENDUM

L’antefatto. L’articolo 112 della Costituzione peruviana del 1993 prevede che il presidente della repubblica possa essere rieletto soltanto per un secondo periodo consecutivo. Il 22 agosto 1996 il Congresso approva la legge 26657, conosciuta come legge di «interpretazione autentica» dell’articolo 112: in base a questa norma Alberto Fujimori potrà candidarsi anche alle elezioni del 2000. Sarebbe il terzo mandato consecutivo, in palese violazione del dettato costituzionale.
Dopo quella decisione, in parlamento e nel paese si sviluppa un vasto movimento di opposizione che vuole impedire l’abuso attraverso il ricorso alla consultazione popolare. In due anni di duro lavoro, il «Foro Democratico» raccoglie quasi un milione e mezzo di firme. Lo scopo del referendum è quello di chiedere ai peruviani se sono d’accordo che il presidente Fujimori si candidi per la terza volta alla presidenza del paese.
Quando sembra che tutto sia pronto per andare a votare, ecco un nuovo colpo di scena. Per impedire il pronunciamento dei cittadini, la maggioranza fujimorista fa pressione sulla «Oficina Nacional de Procesos Electorales» (Onpe) e sul «Jurado Nacional de Elecciones» (Jne). Nell’agosto 1998, i due organi statali inopinatamente stabiliscono che il referendum debba passare attraverso il filtro del Congresso: la consultazione popolare potrà aver luogo soltanto se otterrà almeno 48 voti a favore. È quasi un requiem per il referendum, dal momento che il Congresso è dominato da «Cambio 90-Nueva Mayoria», il partito del presidente (che può contare su 71 dei 120 congressisti).

Lima, 27 agosto 1998. Piazza Bolivar, di fronte al Palazzo del Congresso. Oggi il Congresso decide la sorte della consultazione popolare.
Dalla statua equestre di Simon Bolivar scendono due lunghi striscioni con una scritta a caratteri cubitali: referendum. Davanti al palazzo è stata schierata la polizia. Sono tutte donne, disposte in due file, che coprono l’intera lunghezza dell’edificio. La folla che attende la decisione dei congressisti è variegata. Gli studenti, seduti sul prato, pennelli in mano, preparano i cartelli della protesta.
Fujimori e Vladimiro Montesinos, il potentissimo (e chiacchierato) assessore del presidente, sono i bersagli preferiti. Altri alzano al cielo le prime pagine dei maggiori quotidiani (El Comercio, La Republica etc), tutti schierati in favore della consultazione popolare.
Ci sono pensionati che battono i tamburi della protesta e intonano gli slogan: «Muera Montesinos, Viva el referendum». Le donne (che sono tante) portano, legato attorno al capo, un fazzoletto rosso con una scritta: referendum.
«Stiamo lottando – ci dicono all’unisono tre signore – perché questo governo non si perpetui in eterno». Nella calca, un’altra signora si avvicina al registratore: «Io sono una madre di famiglia, che non si è mai interessata di politica. Ma i miei figli non hanno lavoro – signore – e io non so come dare loro da mangiare».
«Ogni volta che c’è qualcosa di grave – ci spiega un uomo di mezza età – il presidente esce dal paese. Lascia che altri prendano le decisioni scottanti, lavandosene le mani. Così, a cose fatte, potrà dire: “Io non c’ero”».

Il sole è calato da molte ore, quando in piazza Bolivar si diffonde il risultato della votazione: la maggioranza dei congressisti (67 contro 45) ha respinto una proposta referendaria, che non avrebbe neppure dovuto passare attraverso le forche caudine del Congresso. Tra i manifestanti la delusione è enorme, visibile, palpabile. Molte studentesse non riescono a trattenere le lacrime. Sessantasette persone hanno risposto «no» alla legittima richiesta di un milione e mezzo di cittadini peruviani. Fujimori potrà ripresentare la propria candidatura. Per la terza volta consecutiva. Ora ci sono quasi due anni per «preparare» la sua nuova vittoria «democratica».
Paolo Moiola

Chi è? Javier Pérez de Cuéllar

Nato a Lima il 19 gennaio 1920, laureato in lettere e diritto all’Università cattolica della capitale peruviana, Javier Pérez de Cuéllar entrò giovanissimo nel servizio diplomatico. Fu ambasciatore del Perú in vari paesi. Nel 1981 fu eletto segretario generale delle Nazioni Unite. Cinque anni più tardi fu riconfermato nella carica. Nel 1995 si presentò alle elezioni presidenziali, ma fu sconfitto da Alberto Fujimori, detto «El Chino», presidente in carica. Attualmente è leader dell’«Union por el Perú», uno dei maggiori partiti peruviani d’opposizione. Nonostante i quasi 80 anni, Pérez de Cuéllar viaggia molto: Stati Uniti, Portogallo (paese in cui vive una figlia), Francia. Trascorre molti mesi dell’anno a Parigi dove presiede una fondazione che si occupa di diritti umani.

Paolo Moiola




ETIOPIA – Ibrahim… va bene?

Periferia della grande città, in Etiopia.
Un missionario e una bambina musulmana.
Povertà, sofferenza e tanta semplicità.
Una piccola storia. E una domanda.
Che vale un discorso.
Nulla è impossibile per chi sa guardare gli altri
in modo diverso, con simpatia e amore.
È il succo di questa piccola vicenda: una delle tante
che costellano ancora (per fortuna!) il nostro mondo.

Questa è una storia della periferia di Addis Abeba, capitale d’Etiopia. Non è uno studio sociologico, né una tesi universitaria o una raccolta di dati statistici, come ci si aspetterebbe quando si parla di ambienti molto poveri. È invece una cosa molto più semplice. Se mi si permette un paragone, può essere quello della differenza tra un trattato di teologia e i «fioretti di san Francesco»; questi ultimi, nella loro semplicità, contengono tanta fede vissuta.
In questa periferia, ad essere sinceri, non manca qualche opera modea, scuola e fabbrica. Si incontrano anche tutte le culture e fedi religiose, che fanno dell’Etiopia un caleidoscopio di popoli e nazioni. In particolare si ritrovano nomi cristiani e musulmani, le due fedi più diffuse in Etiopia.
Giamìla, ad esempio, è una bambina di famiglia musulmana, di 11 anni, figlia di un handicappato e frequenta, insieme a centinaia di altri bambini, la scuola di Makanissa, situata alla periferia della città. Segue la quarta elementare.
Nella zona di Makanissa vivono, abitando sotto le tende, diverse migliaia di rifugiati della guerra di Eritrea, finita pochi anni fa e, purtroppo, ricominciata nei mesi scorsi. Molte delle tende che furono assegnate inizialmente ai rifugiati come riparo, complici un po’ di paglia e fango reperibili sul posto, si sono trasformate in costruzioni permanenti; cioè in piccole capanne e case, mentre la tenda servirà a coprire il tetto durante le piogge.
Lì vicino, una fabbrica di vini e liquori, iniziata da un greco ai tempi dell’imperatore Hailé Selassié. E pure una fabbrica di ombrelli, dove lavorano molti handicappati, tra cui il papà di Giamìla. Essendo musulmana, la si può distinguere per lo shas (velo) bianco, molto ben curato, che porta sul capo.
I suoi fratellini portano, specie nei giorni festivi, un copricapo rotondo detto «qob». Alla scuola elementare di Makanissa c’è una uniforme ufficiale di colore verde scuro, ma non ci sono per i bambini problemi speciali di copricapo, proibiti o permessi.

Tutti sanno che l’Etiopia è un paese di tradizione cristiana antichissima, che data dai tempi del regno di Axum (IV secolo). L’ultimo censimento della popolazione del 1994 dava un 53,7% di cristiani-ortodossi e 28,7% musulmani. Ci furono in passato, specie al tempo di «Gragn», famoso condottiero del XVI secolo, guerre tra i due gruppi, ma la nazione ha anche avuto lunghi periodi di convivenza pacifica tra le due comunità.
La prima volta che vidi Giamìla, tornava a casa dalla scuola insieme ad una sua compagna, Meqdès, di famiglia cattolica, che frequenta la quinta elementare. I cattolici sono inferiori all’1% della popolazione.
Il papà di Meqdès, che si chiama Tamru – cioè miracolo – frequenta la cappella della Consolata e altre volte va alla parrocchia in città. La famiglia Meqdès è, al presente, una delle poche famiglie cattoliche della zona, dato che la maggior parte dei giovani e bambini che vengono all’oratorio e alla nostra cappella, provengono dall’ambiente ortodosso. Il nome «Meqdès» è cristiano: il verbo «qeddese» in amarico significa «consacrare», celebrare la santa messa, mentre «Biete Meqdès» vuol dire santuario e «Meqdès» è anche il «santo dei santi», cioè la parte più intea di una chiesa ortodossa, dove si celebra appunto l’eucaristia. Quel giorno, proveniente dalla città dopo le spese della casa-procura, mentre attraversavo la zona di Makanissa, vidi i bambini che uscivano da scuola. Fermai la macchina per caricare Meqdès, che frequenta il nostro oratorio da diversi anni.
Ma dovetti far chiudere subito la porta dell’auto (un camioncino Toyota) per evitare che gli altri scolari saltassero tutti sulla macchina: con il patema d’animo, inoltre, di vedere ancora qualcuno salire o cadere dal cassone del camioncino. Rimpiangevo di non possedere un’auto chiusa, come quelle da città. Debbo dire che il traffico ad Addis Abeba, pure disordinato, è molto più lento e non così «spietato» come nelle nostre città italiane; per cui gli incidenti di solito sono meno gravi.
Rimesso in moto il camioncino, chiesi a Meqdès chi fosse quella bambina islamica che era con lei. Sbagliò e mi disse «Momìna», un altro nome usato in ambiente musulmano. Allora pensai che potevo dare un passaggio in macchina anche a Momìna; volevo non favorire esclusivamente chi frequenta la nostra chiesa.
Fermai la macchina più avanti, fino a che Momìna-Giamìla arrivò e salì. Imparai così che abitava proprio di fronte al nostro «compound», una delle prime case dopo il campo dei rifugiati, con un piccolo terreno davanti a casa, dove cresce il mais: il che è un lusso per chi abita in città.
Dato che i bambini, quando si ferma una macchina, cercano tutti di salire, la volta seguente Giamìla escogitò un trucco (guarderò se è scritto nel corano): incominciò a correre, correre lungo l’affollata strada di Makanissa. C’è gente che va e torna dal mercato, scolari che escono da scuola, veicoli di tutti i generi, asinelli carichi di derrate, talvolta anche mucche e pecore. Cosicché, questa volta, gli altri scolari rimasero un po’ distaccati e a Giamìla bastò quel momento di incertezza per fare in tempo a saltare sulla macchina. Aveva imparato bene a chiudere la portiera dell’auto, senza sbatterla e far saltare la molla della maniglia.
«Come si chiama tuo padre?» le chiesi. «Ibrahim… va bene?» rispose timidamente con un’altra domanda.
Suo padre è handicappato, l’ho visto diverse volte sulla strada. Cammina a stento, si trascina lentissimo col bastone, la schiena curva, la testa completamente ripiegata in avanti. Quando è per strada, non puoi non distinguerlo in mezzo alla gente. Ora Giamìla mi chiede «se va bene» che suo padre si chiami Ibrahim, cioè se è un nome giusto, un nome bello. Evidentemente mi crede una persona molto istruita: guido la macchina e, di fatto, ho avuto dei bravi genitori che mi hanno mandato a scuola e perfino alle superiori, che Giamìla difficilmente potrà frequentare.
Eppure, di fronte a una domanda così, presentata con semplicità, che riguarda chi è stato favorito molto meno di me dalla sorte, sembra che tutta la mia cultura crolli. Non so cosa rispondere, non trovo le parole adatte.

La risposta al quesito, a conclusione di una storia che chiamerei un «fioretto», la lascio quindi ai lettori: persone istruite, gente che ha studiato. Come si aspettano Giamìla e Meqdès.

Vincenzo Clerici




ECUMENISMO – Anche Dio scuote la testa?

L’unità tra cattolici, ortodossi e protestanti
(nonché «con» e «tra»
le altre religioni)
è un rompicapo, anche perché gli uomini
amano complicare
gli «affari di Dio».
Ma basta un ottavario
di preghiera
una volta all’anno?

L’ecumenismo o «movimento ecumenico» può rappresentare per le chiese e religioni ciò che, in un’automobile, è la quinta marcia.
«Ecumène» (in greco oikouméne, da oikéo = abitare e oìkos = casa) indicava la terra abitata, l’orbe terracqueo, l’impero romano: una casa sempre più grande, ma abitabile.
«Ecumène», in senso cristiano, venne ad indicare la «terra abitata dai cristiani»; ma divisioni, guerre di religione e intolleranze la resero e rendono in buona parte inabitabile. Le spaccature tra le chiese e religioni si possono paragonare a sacchetti di plastica non biodegradabili: infestano mari, laghi e fiumi. Le divisioni inquinano, come le pile al mercurio e l’ossido di carbonio.
Il movimento ecumenico è conscio di questi danni; però, oggigiorno, è molto più avanzato dei movimenti ecologici, che stentano a rendere abitabile il pianeta-terra.
È assodato che le chiese cristiane (compresa la cattolica) non possono ritenere le altre fedi una «moneta fuori corso», senza alcun valore salvifico.
D’altro canto, il cristianesimo ha il diritto di considerare le altre religioni una «moneta fuori corso» o (concedendo qualcosa) una «moneta più o meno inflazionata»?
BIDONI TOSSICI E ALTRO
Non è facile per l’ecumenismo reperire immagini eloquenti o simboli adeguati, per farsi capire. Tuttavia…
Esistono «centri di ricerca contro il cancro». Ebbene, anche le divisioni tra i cristiani sono un cancro. Sono bidoni tossici, sono discariche inquinanti. È indispensabile, per la salute dei popoli, trovare mezzi per eliminare tutti i prodotti velenosi. Tra l’aggressività ostile o lo scontro frontale e la fuga o la neutralità indifferente non esistono altre scelte o strategie? Questo è ciò che caratterizza l’ecumenismo moderno tra le chiese e religioni, così bello e promettente, anche se difficile.
La poetessa russa, Marina Cvetaeva, il 9 settembre 1923 scriveva da Praga ad un amico: «Ora vado alla messa russa (molto lunga). La prima mezz’ora sarò rapita in estasi; la seconda penserò alle mie cose e la terza semplicemente bramerò di tornare all’aria aperta… Ma sono convinta che Dio mi sente, e scuote la testa». Il Dio dell’ecumenismo è proprio questo: un Dio che scuote la testa. E dice ai cristiani: «Ma possibile?!».
Tutti gli esponenti delle chiese cristiane, come pure la maggioranza dei fedeli, hanno capito che era ed è assurdo trasportare i nostri «bidoni inquinanti» (ossia tante dispute) nelle missioni.
Gli studenti africani di teologia, di fronte alle nostre polemiche sui concili, su natura, sostanza… e poi su Lutero e Calvino, in genere rimangono seri. Ma, se si riuscisse a leggere nei loro cervelli, ci si accorgerebbe che esiste un turbinio di pensieri; forse concordano sul Dio della poetessa russa, per dirci: «Ma voi siete pazzi!».
La storia dell’ecumenismo cristiano, poiché le divisioni sono malattie gravi, è corredata di «bollettini medici» e anche di «libri neri», con un susseguirsi di avvenimenti, date e personaggi allucinanti.
Nel secolo XII san Beardo, riferendosi al mondo (e non solo alle divisioni tra i cristiani), scrisse: «Habet mundus iste suas noctes et non sunt paucas» (questo mondo – cristiano – ha le sue notti, e non sono poche).
Origene, nel III secolo, scrisse di un dotto ebreo (probabilmente dell’Accademia rabbinica di Cesarea), che aveva paragonato la sacra scrittura ad un palazzo con molte stanze; accanto alla porta di ogni stanza erano appese le singole chiavi, ma erano sbagliate… Compito di chi spiega la bibbia non è di sforzare le porte con chiavi false né, tanto meno, abbatterle con violenza, ma di trovare la chiave giusta per la porta giusta.
Però che pasticcio! Proprio come, secondo il Talmùd, le spiegazioni che il rabbi Aquibà offriva ai suoi discepoli sulla legge di Mosè, ma in modo così astruso che, un bel giorno, Mosè stesso ottenne da Dio il permesso di assistere alle lezioni del maestro. Il risultato fu che Mosè non riusciva più a capire la sua legge… e se ne andò scuotendo la testa.
ACQUA CALDA E FREDDA
Nell’ecumenismo è necessaria una bussola, per non smarrire l’orientamento. Forse occorrerebbe pure qualcosa di simile agli impianti idraulici delle nostre case, dove l’acqua fredda e calda escono dallo stesso rubinetto, ben dosate e temperate: perché l’acqua, se troppo fredda, causa brividi e, se troppo calda, ustioni.
L’ecumenismo possiede impianti del genere? Forse sì.
Prendendo la Sacra Scrittura (in particolare i vangeli) come bussola, è possibile leggere in modo nuovo la complicata storia del passato. E, valorizzando i documenti ecumenici sottoscritti dai rappresentanti ufficiali di varie chiese, frutto di dialoghi serrati, sarebbe possibile miscelare in modo giusto acqua fredda e calda.
Il 13 marzo 1984 apparve un testo («audace» secondo gli stessi firmatari), intitolato «L’unità davanti a noi». Qui sembra di sognare, investiti da un pathos straordinario, che è qualcosa di più della giusta miscela di acqua fredda e calda; rassomiglia all’acqua della piscina di Gerusalemme, dalla quale, dopo essersi immersi, «infermi, ciechi, storpi e paralitici» uscivano guariti (Gv 5, 1-4).
Bussola, pathos, saggia utopia per ridurre in sintesi armoniosa quanto l’ecumenismo sta facendo in tanti modi e in tutto il mondo. Infatti esiste l’ecumenismo del vangelo e quello del pane (giustizia, liberazione…), che non sono la stessa cosa, ma si integrano; l’ecumenismo ecclesiologico, centrato sulle chiese; l’ecumenismo teologico; l’ecumenismo di vertice e di base. Ancora: l’ecumenismo dei giovani, delle religioni, delle culture. L’ecumenismo missionario.
PIÙ GESTI CHE PAROLE
L’ecumenismo deve essere più «televisivo», cioè più visibile, concreto e meno arzigogolato.
Racconta Elio Toaff, rabbino di Roma: un sabato di primavera papa Giovanni XXIII, mentre passava per il Lungotevere con un seguito di macchine, vide alcuni ebrei mentre uscivano dalla sinagoga; fece fermare il corteo che lo accompagnava e benedì gli ebrei; costoro, dopo un istante di comprensibile smarrimento, lo circondarono applaudendo entusiasti. «Era la prima volta nella storia che un papa benediceva gli ebrei, ed era forse quello il primo vero gesto di riconciliazione» (1). Questo era lo stile di Giovanni XXIII.
Avvenne pure, il 26 marzo 1959, che il vescovo anglicano, Marwin Stockwood, fece visita a papa Giovanni. Si vide poi il vescovo uscire dall’udienza tutto raggiante, stringendo un grosso uovo di pasqua, che il papa gli aveva donato. Ai giornalisti il vescovo disse: «Con un papa così non sarà difficile riportare i cristiani all’unità».
Ritornando agli ebrei, il 13 aprile 1986 Giovanni Paolo II visitò la sinagoga di Roma. Rivolgendosi ai convenuti, disse tra l’altro: «Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori». A queste parole scoppiò un applauso (2).
Perché i gesti valgono di più delle parole.
VERITÀ PIÙ ALTE
Tra i vari ecumenismi (sopra ricordati) emerge quello «spirituale», fatto di interiorità, cuore nuovo, riconciliazione, che si concretizza soprattutto nell’«ottavario di preghiera per l’unità delle chiese». Si tratta dell’anima del movimento ecumenico.
Ma è sufficiente? Già da tempo sono state formulate riserve su questo modo di esprimersi e di ridurre l’ecumenismo: perché è tutto il movimento ecumenico, nei suoi vari momenti e forme, che dovrebbe essere «spirituale». Ridurre tutto quasi esclusivamente ad «una settimana di preghiere», una volta l’anno, è troppo poco.
In una parola: l’ecumenismo spirituale, per essere efficace, deve trasformarsi in «spiritualità ecumenica», nel senso che tutta la spiritualità cristiana dev’essere ecumenica. È la spiritualità liturgica, eucaristica, mariana e, soprattutto, quella missionaria che devono essere ecumeniche. Ciò avviene?
Occorre, certo, pregare, ma anche valorizzare i documenti ecumenici esistenti, molto numerosi, servirsene non solo come materiale di lettura e cultura, ma anche strumenti di meditazione negli esercizi spirituali e ritiri, come manuale di metodologia missionaria e pastorale, come momento di pathos.
Quasi tutti noi siamo stati formati nello spirito cartesiano, che ci impedisce di capire (come, invece, l’aveva capito Paolo VI) che ci sono verità più alte, nelle quali ci si può trovare d’accordo. Questo perché Dio non continui a scuotere la testa.

(1) Elio Toaff, Perfidi Giudei – Fratelli maggiori, Brescia 1987, pp. 219-220
(2) Cfr. Ivi, p. 240

BACIAMI I PIEDI

Il fiume dei litigi tra le due «chiese sorelle» (quali sono quella cattolica-latina e quella ortodossa-orientale) si è talmente ingrossato nel corso dei secoli da uscire dagli argini, seppellendo il bene più prezioso lasciato da Cristo alla chiesa: la carità. R. Kipling (1865-1936) diceva: «Tu non riuscirai mai a conciliare l’orgoglio dei latini con l’ostinazione degli orientali».
Questo stato di cordiale antipatia scoppiò definitivamente, come un bubbone, nel 1054. Poi nel 1453 Costantinopoli cadde sotto i turchi. Ma prima, per impedire il disastro dell’invasione islamica, gli orientali capirono che dovevano fare pace con i latini. Venne indetto nel 1438 un concilio, che si riunì prima a Ferrara e poi a Firenze. Gli orientali vi parteciparono numerosi (oltre 700 persone), con a capo l’imperatore e il patriarca di Costantinopoli, Giuseppe II. Si giunse ad un accordo, che però minacciò di saltare subito, per una faccenda di prestigio, oggi a noi incomprensibile. All’atto del commiato a Venezia, il papa pretese che il patriarca lo salutasse baciandogli i piedi. Questa era la prassi. Cosa che il patriarca rifiutò. Un abbraccio tra fratelli e niente di più! Era l’anno 1439.
Passarono cinque secoli. Nel 1965 Paolo VI e il patriarca Athenagoras nei loro incontri si scambiarono l’abbraccio di pace, come vecchi fratelli che s’incontrano dopo tanti anni… Finché si giunse al 14 dicembre 1975. A Roma, nella cappella sistina, avvenne l’incontro tra il metropolita di Calcedonia, Melitone, delegato del patriarca di Costantinopoli, e Paolo VI. Al termine Paolo VI andò incontro al metropolita per l’ultimo saluto e, inaspettatamente, si inginocchiò e gli baciò i piedi. Il gesto fu accolto da un vibrante applauso. Il papa volle riparare l’incomprensione di Venezia.
Paolo VI aveva fatto suo il programma di Lacordaire: «Non si tratta di convincere l’altro di errore, ma di unirmi a lui in una verità più alta». E questi livelli «più alti» generalmente ci sono sempre, non solo sopra i «piedi», ma anche sopra le teste.

Igino Tublado




Provocazionidi un missionario che si vergogna do essere italiano

Caro direttore,
ti scrivo a proposito della provocazione missionaria dal titolo «Triste sorpresa» (Missioni Consolata, settembre 1998). L’articolo dà voce ad un missionario in vacanza, che resta sconcertato da una scoperta: le «lucciole» nere, presenti nelle nostre città. L’articolo non mi è piaciuto. Mi sono chiesto che cosa possa esserci di «provocazione missionaria» in fatti del genere.
Forse – tu mi dirai – bisogna essere scanzonati per essere aggioati. Comprendo il tuo compito di direttore: compito non facile. Quindi prego per te. Benvenute, certo, anche le novità. Ma devono essere novità che gridino: «Venite. Partiamo per le missioni, e non solo per un mese o un anno!».

p. Giuseppe Mina – Alpignano (TO)

Egregio direttore,
prima di rivolgermi a lei ho parlato con un suo confratello del mio disappunto a proposito dell’articolo «Triste sorpresa». Alcuni argomenti, esposti così come sono, fanno più male che bene. Certi fatti basta accennarli e chi deve saperli li capisce subito. Diversamente, scandalizziamo i piccoli che leggono, e sono tanti.

(Firma illeggibile) – Torino

Grazie, cari amici, della preghiera e del richiamo a non scandalizzare i piccoli. Questi, però, date le vaste e visibili dimensioni della prostituzione, forse non si scandalizzano più. Però certe «tristi sorprese» non ammettono scanzonature.
D’accordo: il tema «lucciole» è scabroso e (soprattutto) «immorale», perché semina numerose vittime e produce fiumi di denaro sporco. E, poiché le vittime provengono spesso dal Sud del mondo, come rivista missionaria possiamo forse tacere?

Spettabile redazione,
grazie al missionario che, su Missioni Consolata di settembre 1998, si vergogna di essere italiano! Grazie alle innumerevoli famiglie italiane che sono costrette a subire lo spettacolo delle «sorelle» in attesa dei clienti! Che dire poi degli italiani onesti che abitano lungo quelle strade o che, per necessità, devono passarci per rientrare in casa? A questi nessuno pensa, nemmeno i missionari! A nulla valgono le proteste di questi poveri italiani, soli e abbandonati da tutti.
I clienti sono i più colpevoli e, infatti, tutte le leggi sono contro di loro. Le donne vengono assolte, perché costrette alla prostituzione dalla miseria e perché – si dice – esercitano il mestiere più antico del mondo. È un mestiere sotto protettori, che rende lauti guadagni. Ci sono sfruttatori, che reclutano donne ingenue in vari paesi: ritirano loro il passaporto, le mettono sul marciapiede e riscuotono.
Perciò, caro missionario, non fare l’ipocrita. Di’ alle donne che vogliono venire in Italia che qui non c’è lavoro… e mostra loro le foto della vita che le attende!
Ho assistito a un dibattito televisivo sulla prostituzione. Vi partecipavano anche alcuni neri; uno (che difendeva le donne di colore introdotte in Italia con inganno) disse che queste, oggi, conoscono la loro sorte. A Milano le nigeriane hanno scalzato le albanesi; però la malavita albanese tiene ancora in pugno la città… Durante la trasmissione televisiva una «lucciola» brasiliana, non più giovanissima, raccontò che il suo lavoro le ha fruttato un lussuoso appartamento, idem una macchina e un figlio che studia in un prestigioso collegio. Non smette di lavorare, perché non ha ancora svolto del tutto il suo programma. Ma teme tantissimo che, presto o tardi, il figlio venga a conoscere la verità, mentre oggi ritiene la mamma una «grande signora» che svolge un importante lavoro in Italia.
Grazie, caro missionario, di vergognarti di essere italiano. Noi, però, dobbiamo subire innumerevoli soprusi, ingiurie e disprezzi da parte di «fratelli» di tutto il mondo, che credono di trovare in Italia il paradiso terrestre: e, pur non trovandolo, nessuno di loro ritorna al proprio paese. Qui i clandestini stanno bene e sono tanti: mangiano, bevono, dormono e molti derubano i loro stessi benefattori e ammazzano. Che dire, poi, degli albanesi che si acquattano tra le macchine e poi violentano le ragazze che escono di scuola?
Lo so che pure gli italiani fanno altrettanto. Perché allora, invece di eliminare questo bubbone dalla società o, almeno, limitarlo combattendolo, dobbiamo aggiungere questi nuovi elementi cacciati dalle loro nazioni… e i locali governi sono ben contenti di levarseli di too. Bisogna fare pulizia in Italia, in questo paese bacchettato dal mondo e dagli italiani medesimi, come quel missionario che si vergogna di essere italiano.
È per amore della verità che ho scritto questa lettera, ricordando che la medaglia ha due facce. Questo lo deve ricordare il missionario che si vergogna e lo dobbiamo ricordare tutti quando bacchettiamo solo una parte.
Signor direttore, non commetta l’ingiustizia di buttare questa lettera.
Rosangela – Brindisi

Gentile signora, lei si rifà a problemi complessi e sofferti, di fronte ai quali l’ironia stona. Però apprezziamo lo sforzo di cogliere le due facce della medaglia. La realtà è sempre poliedrica, anche fra gli extracomunitari. Missioni Consolata lo scriveva nel gennaio 1989: «Non bisogna generalizzare. C’è il rifugiato politico, che non ha ancora ricevuto il riconoscimento di “rifugiato”; c’è lo studente borsista e quello non borsista; c’è il lavoratore clandestino e quello con regolare contratto di lavoro e permesso di soggiorno; c’è anche l’avventuriero».
Ma non basta conoscere, in modo astratto, le varie facce della realtà sociale; bisogna «conviverci», senza creare né crearsi una casbah o un Bronx.
Quanto alla vergogna del missionario, essa non è ipocrita; merita invece considerazione, perché solleva questo inquietante interrogativo: «Il mio paese cristiano quale immagine di sé offre in casa sua ai poveri del Sud del mondo, mentre io predico da loro il vangelo?».
Del tema «prostituzione» parla anche l’articolo di pagina 54 del presente numero.

Autori vari




La tentazione della bambagia

L’ineffabile Fidel

Caro direttore,
ho letto di recente su un numero di «Times» (Londra) la classifica, aggiornata annualmente dalla rivista «Forbes», delle persone più ricche del mondo. «Vanitas vanitatum»!
In questa classifica compare un certo Fidel Castro, residente a L’Avana (Cuba), il cui patrimonio è stimato in 100 milioni di dollari USA (circa 170 miliardi di lire), distribuito fra miniere di nichel, piantagioni di canna da zucchero e risorse turistiche. Non c’è male per un osannato esponente del proletariato mondiale!
Che cosa ne dicono gli adoratori dell’ineffabile Fidel?
Pier Giorgio Motta
Torino

Noi non siamo tra gli «adoratori» di Fidel, ammesso che esistano… Spesso la coerenza di vita lascia a desiderare in molti. Certamente in noi.

Carezze

Cari missionari,
ho osservato sulla vostra interessante rivista i padri e i fratelli che ci hanno lasciato per ritornare alla «casa del Padre»… e i miei occhi si sono inumiditi.
Questi «eroi» sono vestiti come noi, forse con gli stessi nostri difetti, ma con un entusiasmo mai domo, una speranza mai soffocata, una fede mai annacquata, e hanno dimostrato con i fatti che, quando si lascia cantare Dio nel cuore e nella mente, può nascere un arcobaleno: un arcobaleno che a noi serve per catturare un pezzo di cielo. Voi, cari missionari, siete proprio le «palpebre», ossia le carezze della nostra anima.
Ennio A. Rebuffini
Torino

La lettera contiene pure una nota, che ricorda come «palpebra» derivi dal latino e significhi anche «carezza». Che i missionari siano «le carezze della nostra mente» è un apprezzamento straordinario. Non meritiamo tanto.

Miniere? No, buchi!

Caro direttore,
ho letto su «Missioni Consolata» di aprile 1998 l’articolo sulle «miniere» del Tanzania. Io avrei usato il termine «buchi».
Questi «buchi» sono stati invasi dall’acqua. Meglio: l’acqua piovana scendendo dalla collina ha trasformato la strada in un torrente melmoso, allagando le «miniere» insieme ai lavoratori. I giornali hanno parlato di un centinaio di annegati. I soccorsi sono giunti da Moshi, a 70 chilometri di distanza, e dal Sudafrica: con delle pompe hanno estratto solo una quindicina di corpi.
I lavori in quei «buchi» non li chiamerei neanche «attività minerarie artigianali». Il tutto per estrarre la «tanzanite».
p. Lorenzo Poloni
Tanzania

Amare e giuste precisazioni di un missionario, che denuncia la totale mancanza di sicurezza nell’«affare delle pietre preziose».

Adagio con le parole!

Spettabile redazione,
mi soffermo sull’articolo di Roberto Beneduce: «Negazione della ragione».
Crollano i muri (di Berlino), le ideologie di sinistra sono a pezzi ovunque, tranne che da noi! Infatti l’articolista, anziché distinguere, evidenziare, trattare i fatti e poi cercarne le cause, che fa? Parte da una ideologia bell’e pronta: «la colpa è del capitalismo». Quindi non esistono fatti.
Si sa che ci sono delinquenti anche fra gli immigrati, che c’è disagio reale fra gli italiani. Ma questo non appare. Non esistono responsabilità individuali. Se uno spaccia, «la colpa è del capitalismo»! E si tira in ballo persino la psicanalisi.
Cosa replicare a simile pervicacia e ignoranza, sia pure ammantata di «cultura»? Verrebbe voglia di dire: caro dottor Beneduce, vada a vivere a San Salvario, a Torino, dove sicuramente sarà scippato; dove, se ha una moglie o una figlia, starà in ansia per loro; dove potrà vedere spacciare e accoltellarsi.
Ma l’ideologia non si arrende né all’evidenza né alla ragionevolezza. Ecco il vizio capitale dell’intellettuale italiano. Allora ben vengano gli articoli che spiegano quanto sta succedendo nelle nostre città e quanto sia «comodo», ma pericoloso, accusare di razzismo. È negando i fatti che si crea il razzismo!
Caro articolista, come donna, mi sento più tutelata dai costumi italiani che dal modo in cui arabi e neri trattano le donne: lapidazione dell’adultera, reclusione in casa o escissione della clitoride alle ragazze. Ma, purtroppo, lei non cambierà la sua ideologia.
Marina Veglia
Torino

Evitiamo, per favore, le parole pesanti come pervicacia e ignoranza, perché sono macigni.
«Distinguere, evidenziare, trattare i fatti e poi cercarne le cause»: è proprio quello che il dottor Roberto Beneduce ha fatto nel suo articolo. Spesso si lamenta una crisi di valori. In realtà – annota Beneduce – dei valori esistono, e sono: competizione, individualismo, narcisismo, accumulazione, cinismo. Ecco «le cause» di molti comportamenti aberranti, fra cui il razzismo.
La frase «la colpa è del capitalismo» non appare nell’articolo contestato.

Due «padani»
a confronto!

Spettabile redazione,
rispondo all’editoriale «Bravi, bravissimi!» di «Missioni Consolata», settembre 1998.
Sono un vostro lettore, cattolico praticante e leghista militante, e ritengo doveroso ricordarvi che, contrariamente a quanto da voi scritto, la Lega Nord non ha visioni corte, anzi, vede più lontano di tutti i politici contemporanei.
Tengo a precisare che la porta in faccia non la sbattiamo né al prete, né a chi ha bisogno di aiuto. La Lega Nord sbatte la porta in faccia solo ai delinquenti e agli imbroglioni, siano questi politici o religiosi. Aggiungo anche che, all’interno del movimento, ho finalmente ritrovato quei valori nei quali ho sempre creduto e che in nessun altro partito ho riscontrato, a parte l’unico interesse per il denaro.
Siamo accusati di razzismo solo perché siamo legati alle nostre tradizioni; ma questo fa parte di ciò che i nostri padri hanno sempre insegnato. Per questo dovremmo vergognarci? Chi sono allora i veri razzisti?
Venite alle nostre feste e scoprirete che si respira tanta aria di festa popolana, dove tutti sono bene accetti: sì, proprio tutti, anche la gente del meridione e gli extracomunitari. Al contrario, entrate in qualsiasi altra manifestazione politica non leghista: se sarete fortunati, ve la caverete con bende e cerotti.
Lo stesso numero di «Missioni Consolata» riporta l’articolo «Triste sorpresa», con amare riflessioni di un missionario che lavora e lotta per altri uomini, per poi vergognarsi di quanto avviene nel suo paese. L’articolo rafforza la mia scelta politica. Grazie per averlo pubblicato.
Concludo dicendo che Dio non ha creato una sola razza, ma tanti popoli con culture diverse, che si devono rispettare a vicenda. Quindi è inconcepibile che quanto è stato creato venga annullato da scelte socio-politiche catto-comuniste di ammucchiamento, con conseguente perdita di identità, sotto il segno del falso perbenismo mirato esclusivamente al tornaconto elettorale.
Mario Salvinelli
Lumezzane (BS)

Caro direttore,
ha fatto bene con l’editoriale «Bravi, bravissimi» a ricordare alla «padaneria» che non ogni idea politica è compatibile con il vangelo, specie se esclude l’altro. Nella fattispecie penso a quel partito del Norditalia che insulta i fratelli italiani del Sud, facendo inoltre appello a un folle secessionismo.
Io sono un italiano-trentino con le qualità e i difetti di tutti gli italiani. La nostra unità nazionale l’ha difesa pure il papa polacco, che di patrie storicamente straziate se ne intende. Il termine «padania» (inventato ieri, ridicolo e insolente a un tempo) desta una ripugnanza basale. Stona applicarlo, strumentalizzandolo, a un convegno missionario. Chi si distingue per presunta virtù civile è meglio che non offra nulla.
Mario Rizzonelli
Dro (TN)
Al leghista diciamo: “bravo, bravissimo!” se il suo movimento accetta tutti, compresi i meridionali e gli extracomunitari… Fatelo non solo durante le feste, ma anche (e soprattutto) nella vita di ogni giorno, trattando tutti con giustizia. Il che non sempre avviene. Si sa – per citare un caso – che il sindaco leghista di Treviso, Giancarlo Gentilini, soprannominato el scerifo, ha rimosso dalla città le panchine pubbliche, perché «i mori» non si sedessero.
All’antileghista diciamo: il Convegno missionario di Verona (24-27 del giugno scorso) ha preso lo spunto dal termine padania per riflettere sul leghismo. Così, ad esempio: «Nel nordest ad una grande dinamicità, sul piano economico e imprenditoriale, rischia di corrispondere sempre di più un impoverimento del senso della vita e un certo dissolvimento dei valori di convivenza».

Lacrime

Cari missionari,
nel 1973 padre Luigi Andeni ed io abbiamo iniziato a Sololo (Kenya) una bella esperienza: io come medico volontario dell’Ummi. Oggi, 15 settembre 1998, la televisione mi ha trafitto con il triste annuncio della morte del missionario. Una morte violenta. La morte di un martire. Ho pianto, perché sono debole.
Amelio Galliera
Codroipo (UD)

Con lei, dottor Amelio, abbiamo pianto anche noi, e tanti altri in Italia e Kenya.
Molto eloquente

Caro direttore,
in questi ultimi mesi sono stata impegnata in un cambio di appartamento; ciò ha comportato, viste anche le nostre condizioni di salute non ottimali, uno stress psicologico e fisico, che ho dovuto affrontare per risolvere alcuni problemi e cercare un ambiente un po’ più confortevole per mia madre.
Il nuovo appartamento non è comunque «la casa dei nostri sogni», perché per me non è prudente fare un mutuo: è sempre un ambiente piccolo rispetto alle mie esigenze di lavoro, così come il mio tenore di vita continua ad essere di «povertà relativa» rispetto a quello delle persone che lavorano nella mia scuola o che frequento nell’associazionismo cattolico.
La mia «povertà relativa» è, tuttavia, una «ricchezza clamorosa» rispetto a chi, specialmente nel Sud del mondo, è privo del minimo vitale.
Per convertire in una spinta positiva i sentimenti di tensione e frustrazione che la «povertà relativa» può produrre, desidero vivere un momento di condivisione con chi non ha nulla a livello abitativo.
Pertanto, caro direttore, la prego di destinare il denaro incluso a qualche bisognoso. Chiedo un ricordo nella preghiera.
(Lettera firmata)

Lettera che la mittente ci aveva chiesto di non pubblicare. Non ne abbiamo rispettato il desiderio, perché riteniamo che la sua lettera sia «molto eloquente». Per tutti.
Il grande poeta indiano Tagore scriveva: «Mi resta ciò che dono: rivivrà nelle mie mani».

La tentazione
della bambagia

Caro direttore,
sono impegnata in un gruppo missionario. Talora nel gruppo viviamo sotto l’effetto di «tranquillanti» e «sonniferi». Però, quando ci svegliamo, siamo capaci di sfondare ogni barriera.
Un augurio per il suo lavoro di direttore della migliore rivista missionaria, perché possa continuare con lo stile di «alzati e cammina». È un augurio che rivolgiamo pure a chi preferisce coccolarsi nella bambagia.
Chiara Carreras
Cagliari

All’inizio del 1999 e alla vigilia del 2000, l’augurio di Chiara è… chiarissimo. E molto pertinente.

Chiara Carreras




Molto eloquente

Caro direttore,
in questi ultimi mesi sono stata impegnata in un cambio di appartamento; ciò ha comportato, viste anche le nostre condizioni di salute non ottimali, uno stress psicologico e fisico, che ho dovuto affrontare per risolvere alcuni problemi e cercare un ambiente un po’ più confortevole per mia madre.
Il nuovo appartamento non è comunque «la casa dei nostri sogni», perché per me non è prudente fare un mutuo: è sempre un ambiente piccolo rispetto alle mie esigenze di lavoro, così come il mio tenore di vita continua ad essere di «povertà relativa» rispetto a quello delle persone che lavorano nella mia scuola o che frequento nell’associazionismo cattolico.
La mia «povertà relativa» è, tuttavia, una «ricchezza clamorosa» rispetto a chi, specialmente nel Sud del mondo, è privo del minimo vitale.
Per convertire in una spinta positiva i sentimenti di tensione e frustrazione che la «povertà relativa» può produrre, desidero vivere un momento di condivisione con chi non ha nulla a livello abitativo.
Pertanto, caro direttore, la prego di destinare il denaro incluso a qualche bisognoso. Chiedo un ricordo nella preghiera.
(Lettera firmata)

Lettera che la mittente ci aveva chiesto di non pubblicare. Non ne abbiamo rispettato il desiderio, perché riteniamo che la sua lettera sia «molto eloquente». Per tutti.
Il grande poeta indiano Tagore scriveva: «Mi resta ciò che dono: rivivrà nelle mie mani».

Lettera firmata




Lacrime

Cari missionari,
nel 1973 padre Luigi Andeni ed io abbiamo iniziato a Sololo (Kenya) una bella esperienza: io come medico volontario dell’Ummi. Oggi, 15 settembre 1998, la televisione mi ha trafitto con il triste annuncio della morte del missionario. Una morte violenta. La morte di un martire. Ho pianto, perché sono debole.
Amelio Galliera
Codroipo (UD)

Con lei, dottor Amelio, abbiamo pianto anche noi, e tanti altri in Italia e Kenya.

Amelia Galliera




Due “padani” a confronto!

Spettabile redazione,
rispondo all’editoriale «Bravi, bravissimi!» di «Missioni Consolata», settembre 1998.
Sono un vostro lettore, cattolico praticante e leghista militante, e ritengo doveroso ricordarvi che, contrariamente a quanto da voi scritto, la Lega Nord non ha visioni corte, anzi, vede più lontano di tutti i politici contemporanei.
Tengo a precisare che la porta in faccia non la sbattiamo né al prete, né a chi ha bisogno di aiuto. La Lega Nord sbatte la porta in faccia solo ai delinquenti e agli imbroglioni, siano questi politici o religiosi. Aggiungo anche che, all’interno del movimento, ho finalmente ritrovato quei valori nei quali ho sempre creduto e che in nessun altro partito ho riscontrato, a parte l’unico interesse per il denaro.
Siamo accusati di razzismo solo perché siamo legati alle nostre tradizioni; ma questo fa parte di ciò che i nostri padri hanno sempre insegnato. Per questo dovremmo vergognarci? Chi sono allora i veri razzisti?
Venite alle nostre feste e scoprirete che si respira tanta aria di festa popolana, dove tutti sono bene accetti: sì, proprio tutti, anche la gente del meridione e gli extracomunitari. Al contrario, entrate in qualsiasi altra manifestazione politica non leghista: se sarete fortunati, ve la caverete con bende e cerotti.
Lo stesso numero di «Missioni Consolata» riporta l’articolo «Triste sorpresa», con amare riflessioni di un missionario che lavora e lotta per altri uomini, per poi vergognarsi di quanto avviene nel suo paese. L’articolo rafforza la mia scelta politica. Grazie per averlo pubblicato.
Concludo dicendo che Dio non ha creato una sola razza, ma tanti popoli con culture diverse, che si devono rispettare a vicenda. Quindi è inconcepibile che quanto è stato creato venga annullato da scelte socio-politiche catto-comuniste di ammucchiamento, con conseguente perdita di identità, sotto il segno del falso perbenismo mirato esclusivamente al tornaconto elettorale.

Caro direttore,
ha fatto bene con l’editoriale «Bravi, bravissimi» a ricordare alla «padaneria» che non ogni idea politica è compatibile con il vangelo, specie se esclude l’altro. Nella fattispecie penso a quel partito del Norditalia che insulta i fratelli italiani del Sud, facendo inoltre appello a un folle secessionismo.
Io sono un italiano-trentino con le qualità e i difetti di tutti gli italiani. La nostra unità nazionale l’ha difesa pure il papa polacco, che di patrie storicamente straziate se ne intende. Il termine «padania» (inventato ieri, ridicolo e insolente a un tempo) desta una ripugnanza basale. Stona applicarlo, strumentalizzandolo, a un convegno missionario. Chi si distingue per presunta virtù civile è meglio che non offra nulla.
Mario Rizzonelli
Dro (TN)

Al leghista diciamo: “bravo, bravissimo!” se il suo movimento accetta tutti, compresi i meridionali e gli extracomunitari… Fatelo non solo durante le feste, ma anche (e soprattutto) nella vita di ogni giorno, trattando tutti con giustizia. Il che non sempre avviene. Si sa – per citare un caso – che il sindaco leghista di Treviso, Giancarlo Gentilini, soprannominato el scerifo, ha rimosso dalla città le panchine pubbliche, perché «i mori» non si sedessero.
All’antileghista diciamo: il Convegno missionario di Verona (24-27 del giugno scorso) ha preso lo spunto dal termine padania per riflettere sul leghismo. Così, ad esempio: «Nel nordest ad una grande dinamicità, sul piano economico e imprenditoriale, rischia di corrispondere sempre di più un impoverimento del senso della vita e un certo dissolvimento dei valori di convivenza.

Mario Salvinelli e Mario Rizzonelli




Adagio con le parole!

Spettabile redazione,
mi soffermo sull’articolo di Roberto Beneduce: «Negazione della ragione».
Crollano i muri (di Berlino), le ideologie di sinistra sono a pezzi ovunque, tranne che da noi! Infatti l’articolista, anziché distinguere, evidenziare, trattare i fatti e poi cercarne le cause, che fa? Parte da una ideologia bell’e pronta: «la colpa è del capitalismo». Quindi non esistono fatti.
Si sa che ci sono delinquenti anche fra gli immigrati, che c’è disagio reale fra gli italiani. Ma questo non appare. Non esistono responsabilità individuali. Se uno spaccia, «la colpa è del capitalismo»! E si tira in ballo persino la psicanalisi.
Cosa replicare a simile pervicacia e ignoranza, sia pure ammantata di «cultura»? Verrebbe voglia di dire: caro dottor Beneduce, vada a vivere a San Salvario, a Torino, dove sicuramente sarà scippato; dove, se ha una moglie o una figlia, starà in ansia per loro; dove potrà vedere spacciare e accoltellarsi.
Ma l’ideologia non si arrende né all’evidenza né alla ragionevolezza. Ecco il vizio capitale dell’intellettuale italiano. Allora ben vengano gli articoli che spiegano quanto sta succedendo nelle nostre città e quanto sia «comodo», ma pericoloso, accusare di razzismo. È negando i fatti che si crea il razzismo!
Caro articolista, come donna, mi sento più tutelata dai costumi italiani che dal modo in cui arabi e neri trattano le donne: lapidazione dell’adultera, reclusione in casa o escissione della clitoride alle ragazze. Ma, purtroppo, lei non cambierà la sua ideologia.
Marina Veglia
Torino

Evitiamo, per favore, le parole pesanti come pervicacia e ignoranza, perché sono macigni.
«Distinguere, evidenziare, trattare i fatti e poi cercarne le cause»: è proprio quello che il dottor Roberto Beneduce ha fatto nel suo articolo. Spesso si lamenta una crisi di valori. In realtà – annota Beneduce – dei valori esistono, e sono: competizione, individualismo, narcisismo, accumulazione, cinismo. Ecco «le cause» di molti comportamenti aberranti, fra cui il razzismo.
La frase «la colpa è del capitalismo» non appare nell’articolo contestato

Marina Veglia