L’abilità di essere «normali» (in Africa)

Testo di Enrico Casale


Nel continente la disabilità è ancora percepita come qualcosa di anomalo, causato dalla colpa di qualcuno. Qualche decade fa, alcuni missionari iniziarono a occuparsi del tema. Anche la sensibilizzazione, per un cambio di mentalità, sta avendo i suoi effetti. E qualcosa sta cambiando.

Qualcosa sta cambiando, lentamente, nel mondo della disabilità in Africa. Si sta diffondendo un diverso atteggiamento verso chi è portatore di un handicap e stanno migliorando le cure e l’assistenza. La situazione è ancora difficile, ma i passi avanti ci sono.

Paura e discriminazione

In Africa, la condizione dei disabili non è semplice perché eredita un passato fatto di superstizioni e pregiudizi. «Non è possibile parlare di un atteggiamento “africano” nei riguardi della disabilità – spiega Franco Lain, religioso dell’Opera don Guanella, piccola congregazione che da sempre si occupa di orfani, anziani e disabili -. Ogni paese, ogni regione ha un suo modo di affrontare il tema. In generale, possiamo dire che nel portatore di handicap gli africani vedevano, e tuttora, in larga parte, vedono, qualcosa di strano. Un’anomalia che, per forza, deve venire da un intervento esterno, più o meno spirituale. Un fenomeno che va interpretato. Il problema è che, molto spesso, la disabilità è stata compresa in senso negativo: “Se è nato un disabile è perché qualcuno ha fatto il malocchio, oppure i genitori si sono comportati male, oppure conoscenti o parenti hanno fatto riti speciali, ecc.”. Quindi si guardava e si guarda ai portatori di handicap con paura, a volte con terrore».

Nel passato, in alcuni paesi, si arrivava fino alla loro soppressione. L’uccisione dei piccoli disabili era prassi comune. «Anni fa – continua fratel Lain -, spesso mi sentivo dire: “Ho affidato il bambino alla zia…”. Questo significava che i piccoli erano stati dati a chi sapeva come eliminarli. In alcuni casi erano pure le madri a essere abbandonate e isolate dalle famiglie insieme ai bambini».

«Il disabile – conferma Pierre Kouasi, religioso africano dell’Opera don Orione – era una sorta di maledizione. Non si capiva perché una famiglia potesse avere un figlio “non normale”. L’uccisione di un bambino disabile era una pratica comune. Venivano eliminati e poi, d’accordo con la famiglia, si diceva che il piccolo era morto durante il parto. Se sopravvivevano, venivano nascosti».

Fino a qualche anno fa, per le strade, nei mercati, nelle scuole, non si vedevano portatori di handicap. Venivano relegati in casa e non era permesso loro di uscire. I missionari che arrivavano in Africa non li trovavano e, quando chiedevano dove fossero, veniva loro risposto che nel continente non esistevano. «Quando 25 anni fa sono arrivato in Nigeria – ricorda fratel Lain -, l’idea della mia congregazione, in accordo con il vescovo locale, era quella di creare un centro per disabili. I capi villaggio, invece, ci chiedevano una scuola e un ospedale e ci dicevano che i disabili non c’erano. Noi eravamo stupiti. Un giorno, però, ci fermammo in un villaggio e ci venne incontro di corsa un ragazzo con la sindrome di Down e ci abbracciò. Ci rivolgemmo quindi al capo villaggio e gli dicemmo: “Noi siamo qui per loro. Non vogliamo e non possiamo guarirli perché è cosa impossibile, ma vogliamo assisterli e aiutarli a inserirsi appieno nella loro società”. I leader locali capirono e ci sostennero come potevano».

Possibile integrazione?

Se le eliminazioni selettive, negli anni, sono gradualmente diminuite (fino quasi a sparire), non è successo altrettanto per il senso di colpa e di vergogna da parte delle famiglie. Questo atteggiamento è legato anche alle condizioni di vita della maggioranza degli africani. In molte nazioni non esistono forme di assistenza sociale, così i genitori fanno affidamento sui figli per poter godere in vecchiaia di un minimo di benessere. «Per i genitori africani – spiega fratel Lain -, il figlio è un investimento per il futuro. È chiaro che, in questa visione, un figlio disabile è una sorta di ingombro. È un costo che “non dà un ritorno”. Di conseguenza se i disabili non vengono più soppressi, su di loro comunque non si investe.

La difficoltà che noi abbiamo nel gestire i centri per disabili mentali sta proprio nel fatto che i genitori è come se si stancassero di assistere i figli. Quindi o li confinano in casa, senza assisterli, oppure cercano di abbandonarli nei nostri centri. Noi, come guanelliani, ci siamo sempre rifiutati di tenere i ragazzi lontano dalle loro famiglie. Anche perché, nella realtà africana, una persona che non ha un legame famigliare non esiste (l’individuo è tale solo in quanto membro di una comunità, nda)».

Non tutti i disabili, però, sono uguali. «I feriti di guerra sono visti come eroi e, come tali, trattati – nota Gigi Conforti, medico ortopedico, da anni impegnato con Medici con l’Africa Cuamm in progetti a favore dei disabili -. Per loro c’è un’attenzione particolare anche da parte dello stato. In Etiopia, per esempio, i feriti nella guerra contro l’Eritrea combattuta alla fine degli anni Novanta non solo godono di assistenza, ma hanno anche uno status sociale elevato. Differente è la situazione di donne e bambini. Soprattutto in campagna, dove vengono emarginati e isolati».

In questo contesto, i guanelliani cercano di coinvolgere le famiglie creando reti, in modo che i singoli nuclei famigliari si sostengano vicendevolmente. Si ricrea così quella famiglia allargata che è uno dei pilastri della società africana. La famiglia allargata è anche una sorta di «ammortizzatore sociale» grazie al quale il disabile non è mai solo e, anche nel caso i genitori o i fratelli non potessero più prendersi cura di lui, trova comunque un aiuto.

Non solo i guanelliani, ma anche altre congregazioni religiose (come i sacerdoti e le suore del Cottolengo) e Ong lavorano all’integrazione attraverso attività di sensibilizzazione. «Lo sforzo per migliorare le condizioni di vita dei disabili è indispensabile – osserva Tommaso Sartori, coordinatore per conto dell’Ong milanese Celim del progetto Disability in Zambia -, ma sarebbe vano se a esso non si aggiungesse un attento lavoro di sensibilizzazione per ridurre i pregiudizi e le discriminazioni».

Celim ha attivato, insieme al ministero della Sanità dello Zambia, un programma di conferenze aperte ai famigliari e agli operatori sanitari. «Stiamo anche realizzando una serie di incontri nei vari quartieri di Lusaka – spiega Sartori -. L’obiettivo è far passare un’immagine diversa della disabilità. Far capire che chi vive con un handicap è una risorsa e non una vergogna da nascondere».

«Don Orione – aggiunge padre Pierre Kouasi – diceva che in ogni persona c’è l’immagine di Dio. Come orionini seguiamo proprio questa linea. Nelle nostre chiese e nei nostri centri in Costa d’Avorio, Togo, Burkina Faso cerchiamo di far passare l’idea che il disabile non debba essere emarginato, ma accolto e valorizzato per le sue grandi potenzialità. Da noi i disabili seguono cure e riabilitazione, ma poi rientrano in famiglia. Solo i disabili mentali rimasti soli rimangono nelle nostre case. C’è ancora molto lavoro da fare, ma noto che le famiglie stanno cambiando sguardo nei confronti dell’handicap».

Ma lo stato dov’è?

Se la società civile e le congregazioni religiose sono attive sul fronte della disabilità, non altrettanto si può dire delle istituzioni pubbliche. I governi nazionali e locali fanno poco per i portatori di handicap, soprattutto per motivi economici. Mancano i fondi per un sostegno strutturale che dia vita a reti di centri pubblici e privati in grado di lavorare in sinergia sul fronte della cura e dell’integrazione.

«Dalle amministrazioni pubbliche riceviamo molte lodi – osserva fratel Lain -. Le autorità ci dicono che siamo santi e buoni, che facciamo un lavoro indispensabile, poi però difficilmente ci sostengono.

Anche se qualche distinguo va fatto. Nel nostro centro in Ghana (una scuola professionale, aperta a disabili e non, dove si insegnano tessitura, elettronica, falegnameria, e altro), più della metà degli insegnanti sono pagati dal governo di Accra. Sia in Nigeria sia in Rd Congo ci sono rapporti continuativi con le autorità, anche se i sostegni sono sporadici e concentrati su singoli progetti».

Parole simili anche da padre Pierre Kouasi: «Dagli stati abbiamo poco sostegno. Non ci sono programmi di intervento a lungo termine. Gli aiuti diretti sono davvero pochi. Recentemente in Costa d’Avorio, il ministero della Salute ha accordato un’esenzione fiscale su alcune tipologie di farmaci. Non è molto, ma è un piccolo passo avanti. Va anche detto che generalmente le autorità ci lasciano lavorare senza metterci i bastoni tra le ruote. E ciò va visto in modo positivo».

Questo non significa che l’impianto normativo nei singoli paesi sia deficitario. Anzi. Negli ultimi decenni le Nazioni Unite hanno varato numerose direttive in materia di disabilità. Queste sono state in gran parte recepite dei paesi africani. Quindi quasi tutte le nazioni del continente hanno leggi adeguate. Mancando, però, i fondi (e, spesso, la volontà politica), queste leggi rimangono inapplicate o applicate solo in parte.

In Nigeria, per esempio, esiste un corpo di leggi sull’inserimento dei disabili nel mondo del lavoro. Ma le norme sono applicate solo nel pubblico impiego, comparto importante, ma che non copre tutto il mercato del lavoro. In Zambia esiste una legge (Disability Act 2012) che prevede sostegni alle famiglie con un componente disabile. «Sul terreno però è stato fatto pochissimo – osserva Tommaso Sartori di Celim -. Mancano i fondi e ciò ha fatto sì che la legge zambiana sia completamente disattesa e non siano disponibili quindi i mezzi, le infrastrutture e la formazione specifica per gli operatori».

Ma non tutti sono pessimisti. «Lavoro da trent’anni in Africa e, nel tempo, ho notato qualche passo avanti – osserva Gigi Conforti -. La vera differenza è tra gli stati in pace e quelli instabili a causa di controversie politiche o guerre. Negli anni Ottanta e Novanta, per esempio, l’Uganda aveva pochissime strutture sanitarie e quasi tutte in condizioni precarie. Oggi, dopo anni di pace, sono stati creati centri moderni, con attrezzature all’avanguardia e programmi di assistenza seri e continuativi. Diversa è la situazione della Repubblica Centrafricana. Personalmente ho lavorato nell’ospedale di Bangui, dove ho operato in condizioni difficilissime. Quello della capitale, tra l’altro, è l’unico centro attrezzato. Fuori dalla città, dove dominano le bande armate, non c’è nulla e non è neppure ipotizzabile creare qualcosa».

Una sensibilità che aumenta

In Africa inizia a esserci una nuova sensibilità tra la gente comune. Il lavoro culturale portato avanti da chiese cristiane e associazioni di volontariato sta aprendo spazi per i disabili. Pure le normative, anche se non applicate, creano una mentalità, un clima favorevole alla disabilità. «Lo zambiano medio – osserva Tommaso Sartori – non discrimina il portatore di handicap. Mi è capitato spesso di vedere uomini e donne avvicinare i disabili, parlare con loro, avere con essi un rapporto sereno. Rimane il senso di disagio delle famiglie, ma intorno ad esse si sta creando un ambiente non più ostile. La strada è ancora lunga, ma qualcosa si sta muovendo».

C’è anche una forte solidarietà popolare. «Molti disabili girano di villaggio in villaggio e sono nutriti e accuditi – racconta fratel Lain -. In alcuni casi c’è una solidarietà commovente. Ricordo un ragazzo con la sindrome di Down che era così onesto e così ben voluto dalla comunità, che tutti gli affidavano le incombenze che richiedevano il maneggio di soldi: piccoli pagamenti, piccole transazioni, ecc. Erano sicuri che lui avrebbe portato a termine il lavoro. Così si era costruito un ruolo nel paese». Molti abitanti dei villaggi aiutano le comunità religiose che accudiscono i disabili. Donano aiuti materiali: un sacco di riso, un piccolo animale, un po’ di farina, ecc. Una solidarietà che si va estendendo. Fondi e piccole donazioni arrivano da imprenditori stranieri che lavorano in loco. «Gli indiani, per esempio, pur non cattolici, ci offrono grandi aiuti – spiega fratel Lain -. Anche gli imprenditori italiani sono sensibili».

Sta accadendo qualcosa di più. Sebbene a macchia di leopardo e con molti limiti, si sta diffondendo la consapevolezza che il disabile sia una risorsa di cui però deve farsi carico la stessa comunità. Così, per esempio, in Nigeria, la mamma di una ragazza con la sindrome di Down ha dato vita a un’associazione che ha creato centri per i ragazzi disabili e fa un attento lavoro di sensibilizzazione. Nell’associazione è riuscita a coinvolgere i genitori stessi dei giovani disabili. «Questa sensibilità esiste, inutile negarlo – sottolinea padre Pierre Kouasi – però è un fenomeno soprattutto cittadino e limitato alle classi sociali medio-alte. La povera gente, sia in città sia in campagna, ha ancora altre priorità».

Anche nella scuola si inizia a vedere un primo, limitato, processo di inclusione. I guanelliani, per esempio, hanno creato, sempre in Nigeria, un centro per disabili e lo hanno aperto ai non disabili. «Quello realizzato a Ibadan – osserva fratel Lain – è un caso interessante però è un tentativo sporadico, non è il tassello di un mosaico più ampio che parte e include le istituzioni». Anche in Tanzania esistono scuole (private) che accettano disabili, ma solo in classi differenziate dove i portatori di handicap sono separati dagli altri ragazzi. «Le organizzazioni internazionali danno sovvenzioni allo stato perché metta in atto l’inclusione – conclude il guanelliano – così lo stato dà vita a piccole iniziative come quelle della Tanzania. La vera integrazione, però, è un’altra cosa».

Enrico Casale

Kano Pillars para-soccer team players / PIUS UTOMI EKPEI / AFP

Archivio MC

MC ha pubblicato un servizio approfondito sul disagio mentale in Africa ad agosto 2018: Se non son «matti» non li vogliamo, Disagio mentale, incontro con Grégoire Ahongbonon di Stefania Garini.

The Chairman of the Polio Victims Trust Association Aminu Ahmed / PIUS UTOMI EKPEI / AFP


Alcuni dati

L’impatto sociale della disabilità

In Africa, secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità, i disabili sarebbero tra i 60 e gli 80 milioni, circa il 10% della popolazione africana, anche se in alcune delle zone più povere la percentuale sale fino al 20%.

Quando si parla di disabilità, solitamente, ci si riferisce a una serie molto ampia di menomazioni, limitazioni e restrizioni alla normale attività fisica e mentale. I fattori sono molteplici: malnutrizione, menomazioni alla nascita, incidenti in casa, al lavoro o sulle strade, malattie invalidanti, guerre, ecc.

La questione della disabilità non ha un carattere esclusivamente sanitario, ma anche sociale. Molti paesi hanno finanze troppo disastrate per poter creare un sistema di sostegno. Sebbene spesso leggi a favore dei disabili siano state approvate, mancano edifici pubblici attrezzati, non ci sono farmaci adeguati, carrozzine e stampelle sono in numero non sufficiente. I portatori di handicap non riescono quindi a frequentare le scuole: solo tra il 5 e il 10% si iscrive a corsi regolari. Il risultato è che non più del 5% dei portatori di handicap adulti è in grado di leggere e scrivere correttamente.

Ciò, a catena, li esclude dal mondo del lavoro. L’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) stima che la disoccupazione delle persone disabili a livello mondiale sia da due a tre volte superiore rispetto a quella delle altre persone.




Per un cromosoma in più: la sindrome di Down

Di Rosanna Novara Topino |


Un’anomalia cromosomica causa la sindrome di Down. Principale fattore di rischio è l’età della madre. Rispetto al passato le terapie e l’inserimento scolastico e lavorativo sono migliorati, ma molto rimane da fare. In particolare per non lasciare sole le famiglie. In Italia, le persone affette dalla sindrome di Down sono circa 38.000.

Nel nostro viaggio tra alcune delle più diffuse forme di disabilità, questa volta incontriamo quella che, più di tutte, associamo all’idea di diversità: la sindrome di Down. Il suo nome è dovuto al medico inglese John Langdon Down, che per primo ne descrisse le caratteristiche in una pubblicazione del 1866, in cui definì tale sindrome con il termine di «mongolismo», supponendo erroneamente un’affinità tra la forma degli occhi dei pazienti, dalle rime palpebrali oblique, e quella a mandorla tipica delle popolazioni asiatiche. Con una notevole approssimazione, dovuta sia al periodo storico, sia al fatto che osservò solo persone private delle cure familiari e mediche e isolate fin dalla nascita in istituti, egli definì questi pazienti come persone con grave ritardo mentale, ineducabili, insensibili e prive di personalità. Purtroppo, questo stereotipo spesso è ancora presente, nel comune modo di pensare. Fu del medico francese Jerome Lejeune la scoperta, nel 1958, della causa della sindrome di Down, cioè la presenza, nel corredo cromosomico cellulare dei pazienti, di un cromosoma 21 soprannumerario, per cui si parla di «trisomia 21». Le variazioni nel numero dei cromosomi*(46 nel normale corredo cromosomico umano, 47 nella sindrome di Down) sono di solito la conseguenza di una loro errata separazione alla meiosi* con la formazione di cariotipi* con cromosomi soprannumerari oppure mancanti di un cromosoma. La conseguenza di tutto ciò è uno sbilanciamento nelle dosi dei geni, che molto spesso è incompatibile con la vita e ha come esito un aborto spontaneo*. Solo nelle alterazioni del numero dei cromosomi sessuali e del cromosoma 21, c’è la possibilità di sopravvivenza dell’embrione e del raggiungimento dell’età adulta, ma non sempre. Si stima infatti che, nel caso della trisomia 21 o sindrome di Down, 3 feti su 4 vadano incontro ad aborto spontaneo specialmente nel primo trimestre della gravidanza. Nella letteratura scientifica è riportata una correlazione direttamente proporzionale tra età materna ed abortività spontanea di feti Down, con un aumento dell’incidenza degli aborti spontanei dal 23% per madri di 25 anni fino al 45% per madri di 45 anni. Si è osservato che la presenza del cromosoma 21 soprannumerario è per il 93% dei casi di origine materna e solo per il 7% dei casi paterna.

Le conseguenze

La trisomia 21 influisce notevolmente sullo sviluppo di diversi organi e tessuti, in particolare cervello e cuore e causa gradi diversi di ritardo mentale e molteplici rischi per quanto riguarda la salute. Basta pensare che i difetti cardiaci congeniti sono presenti in un individuo su due circa e, oltre a questi, possono essere presenti problemi dentari, di perdita dell’udito, della vista (strabismo), endocrini come l’ipotiroidismo, cutanei, gastrointestinali, obesità, anomalie ortopediche, un aumentato rischio di leucemia, la possibilità di attacchi epilettici. A tutto ciò si aggiunge l’invecchiamento precoce, con un aumento dei casi di demenza, causati spesso da morbo di Alzheimer, che in questi pazienti può insorgere prima, rispetto agli individui normodotati. La sindrome di Down inoltre comporta maggiore sterilità, rispetto alla popolazione generale, soprattutto tra i maschi. Il rischio di generare figli Down, per chi già presenta questa sindrome è più alto rispetto a quello dei normodotati, ma non superiore al 50%.

La diagnosi prenatale

Oltre al ritardo mentale, la trisomia 21 comporta la comparsa precoce delle manifestazioni neuropatologiche della malattia di Alzheimer e appaiono in generale più precoci tutti i processi di invecchiamento. Tra questi, oltre alla demenza, ci sono anche la produzione di autornanticorpi e lo sviluppo di patologie autornimmuni. Secondo recenti studi, alla base dell’invecchiamento precoce e dei fenomeni neurodegenerativi caratteristici della sindrome di Down ci sono lo stress ossidativo e le mutazioni del Dna mitocondriale. I mitocondri sono organuli presenti nel citoplasma cellulare e responsabili della respirazione cellulare, della produzione di energia sotto forma di molecole di Atp e dello smaltimento dei reagenti dell’ossigeno comunemente detti radicali liberi. Questi organuli sono gli unici, oltre al nucleo cellulare, a contenere Dna, che nei mitocondri è sempre di origine materna. Mutazioni di questo Dna portano ad un’alterazione delle funzioni mitocondriali, con declino in particolare della funzione respiratoria e apoptosi o morte cellulare. La riduzione del numero di cellule per apoptosi porta alla perdita di funzione di tessuti e di organi, evento cruciale del processo d’invecchiamento. Poiché l’alimentazione, il sistema ormonale, i fattori di crescita e l’esposizione a danni esterni influiscono sul metabolismo mitocondriale, sullo stress ossidativo e sull’espressione genica è di cruciale importanza la diagnosi prenatale della sindrome di Down, in modo che, qualora essa risulti presente, mamma e feto siano esposti il meno possibile a tutti quei fattori che possono accelerare il processo d’invecchiamento cellulare e che sia attuato un opportuno apporto di sostanze antiossidanti.

Amniocentesi e villocentesi

Il principale fattore di rischio per la sindrome di Down è l’età della madre, con errori di non disgiunzione cromosomica alla meiosi sempre crescenti a partire dai 35 anni (è però possibile che si verifichino anche prima di tale età, seppure con minore frequenza).

Fino a non molto tempo fa gli esami più attendibili, grazie allo studio del cariotipo, ma invasivi e pertanto a rischio di provocare aborto, erano solo l’amniocentesi e la villocentesi (con un rischio di aborto di 1:200 casi). Esse sono rispettivamente il prelievo del liquido amniotico e quello dei villi coriali della placenta, esami entrambi eseguiti con puntura addominale sotto controllo ecografico. La villocentesi permette una diagnosi più precoce, ma meno attendibile (perché il cariotipo di alcune cellule placentari potrebbe essere diverso da quello delle cellule embrionali), rispetto all’amniocentesi, che dà un risultato sicuro al 100%, ma più tardivamente. Prima di effettuare l’amniocentesi o la villocentesi, consigliate dai 35 anni in su, viene effettuato il tri-test, un esame del sangue per la valutazione dell’alfa-fetoproteina (Afp), della gonadotropina corionica (Hcg) e dell’estriolo non coniugato (E3 free), unitamente all’ecografia, per conoscere esattamente l’età del feto. La valutazione di questi tre parametri, sostanze prodotte dal feto o dalla placenta, permette di stabilire la probabilità che il feto possa presentare anomalie cromosomiche o difetti del tubo neurale (spina bifida), ma serve solo a segnalare una situazione di rischio, che, nel caso sia presente, va poi verificata con l’amniocentesi, essendo possibili dei falsi positivi. Da poco è disponibile un test innovativo, che permette lo studio del cariotipo fetale analizzando il Dna fetale libero (cfDna) circolante nel sangue materno, ottenuto quindi con un normale prelievo di sangue, senza alcun rischio per il feto.

L’aborto e la Danimarca

La sindrome di Down è ubiquitariamente diffusa in tutte le popolazioni e ad ogni latitudine. Attualmente la sua incidenza è di circa 1:1.000-1.100 nuovi nati. Si stimano circa 3-5.000 nuovi casi all’anno nel mondo. In Italia nasce un bambino Down su 1.200 e si stimano circa 500 nati Down all’anno. Attualmente i portatori di sindrome di Down in Italia sono circa 38.000. In assenza di aborto volontario*, l’incidenza dovrebbe essere circa di 1:650. Nei paesi del Nord Europa, il numero di nuovi nati con sindrome di Down è sceso drasticamente negli ultimi anni, tanto che la Danimarca mira a diventare il primo paese «Down free»: nel 2015, il 98% di donne con diagnosi di gravidanza Down ha scelto l’aborto volontario. Nel 2004 il governo danese lanciò un piano di accesso gratuito ai test prenatali per individuare la sindrome di Down. Nel 2014 lo scienziato Richard Dawkins, docente a Oxford, scrisse su Twitter, uno dei più diffusi social network, che partorire un figlio Down, avendo a disposizione gli attuali strumenti per la diagnosi prenatale, è secondo lui altamente immorale. Come abbiamo visto, però, la sindrome di Down ha un’ampia gamma di manifestazioni, per cui possiamo avere individui con gradi diversi di disabilità, che in ogni caso possono migliorare notevolmente, se si utilizzano fin dalla più tenera età tutti gli strumenti a disposizione in campo medico e pedagogico.

Inserimento scolastico

Grazie alle attuali terapie che permettono di eliminare o ridurre i difetti cardiaci congeniti, l’aspettativa di vita delle persone Down è passata, in meno di un secolo, da 10 a 60 anni circa e la probabilità di sopravvivenza fino a 12 mesi è passata dal 69%, negli anni ’50 del secolo scorso, al 93% per i nati dopo il 1990. Check up medici regolari, programmi di fisioterapia e di counseling personalizzati sono fondamentali per mantenere un buon livello di qualità della vita. Oltre a questo si è rivelata particolarmente importante la partecipazione delle persone Down a qualche forma di attività sportiva, dal momento che l’esercizio fisico è in grado di stimolare la neurogenesi e la plasticità sinaptica, quindi di migliorare le funzioni cerebrali e le capacità cognitive. Inoltre l’azione riabilitativa dello sport consente anche sia il miglioramento delle capacità motorie (di solito le persone Down tendono ad avere una vita sedentaria, pur non avendo difficoltà motorie particolari) che l’adattamento e l’integrazione nella società. A livello scolastico, grazie al fatto che in Italia i portatori di handicap sono stati inseriti in classi normali, dopo l’abolizione, con la legge 517 del 1977, delle classi differenziali e delle scuole speciali, pur con tempi di apprendimento diversi e più lunghi rispetto a quelli dei compagni normodotati, i bambini Down mostrano step di apprendimento sostanzialmente uguali. Grazie ai programmi di integrazione scolastica, oggi in Italia molti giovani Down riescono a raggiungere un buon grado di autonomia e ci sono già stati alcuni ragazzi che sono riusciti a intraprendere studi universitari e a laurearsi.

Inserimento lavorativo

Se da un lato, in Italia è stato raggiunto un buon livello di inserimento scolastico per i bambini e ragazzi Down, attualmente solo il 13% di persone Down adulte è assunto con un regolare contratto di lavoro, il che dimostra che il pregiudizio nei loro confronti e il rischio di scivolare nell’oblio sociale è ancora molto elevato. A questo si aggiunge il disagio per le loro famiglie, lasciate pressoché sole nel loro accudimento. Da alcuni anni sono stati avviati programmi di inserimento per ragazzi Down nel mondo del lavoro, come il progetto Omo («On my own… at work», «Da solo… al lavoro», 2014-2017), finanziato dalla Commissione europea nell’ambito del programma Erasmus plus e seguito dall’«Associazione italiana persone down» (Aipd), che prevedeva l’inserimento in strutture alberghiere, aziende di ristorazione e agenzie formative resesi disponibili per stage e assunzioni di persone Down in Italia, Spagna e Portogallo. A seguito di questo programma è nata una rete di imprese alberghiere e di ristorazione, che s’impegnano ad accogliere tirocinanti e lavoratori con disabilità intellettiva, ottenendo il marchio «Valuable». Nel mondo della moda, alcune importanti maison del gruppo Lvmh si sono impegnate a sostenere progetti d’inserimento lavorativo in Italia per giovani Down e a promuovere il volontariato tra i propri dipendenti, che sono stati invitati a mettere a disposizione di questi ragazzi un po’ del loro tempo e la loro professionalità. Anche i grandi marchi della moda hanno offerto delle possibilità: nel 2015 la prima modella al mondo con sindrome di Down ha potuto calcare le passerelle della New York Fashion Week.

La scelta

Portare avanti una gravidanza Down certamente non è una scelta facile, ma questi ragazzi stanno dimostrando di essere capaci di fare la loro parte nella società, se seguiti adeguatamente. Perché dunque non farli nascere? Perché non accettarli? È però fondamentale che vengano attuati adeguati programmi di sostegno alle famiglie delle persone Down, che non devono essere lasciate sole nel loro difficile compito.

Rosanna Novara Topino
(sesta puntata – continua)

* Termini essenziali:

  • Cariotipo: insieme dei cromosomi cellulari, come appaiono alla mitosi.
  • Cromosoma: unità funzionale di Dna e nucleoproteine, che si compatta durante la divisione cellulare e viene trasmessa alle cellule figlie, veicolando così parte del patrimonio genetico.
  • Gene: unità ereditaria fondamentale, che occupa una posizione fissa su un cromosoma e porta l’informazione per il corrispondente prodotto proteico.
  • Meiosi: processo di divisione delle cellule germinali progenitrici, che porta a ovociti e spermatozoi.
  • Mitosi: processo di divisione delle cellule somatiche.
  • Aborto spontaneo: interruzione spontanea della gravidanza prima della 22a settimana, per cause genetiche e non come diabete gestazionale, ipertensione, malformazioni uterine o fetali.
  • Aborto volontario: interruzione volontaria di gravidanza. Può essere chirurgica o farmacologica.


Approfondimento

Trisomia?21

Esistono diverse forme di trisomia 21, a cui corrispondono gradi diversi di disabilità. Nel 95% dei casi si ha la trisomia 21 piena o in forma libera, cioè il cromosoma soprannumerario fluttua libero nel nucleo cellulare ed è presente in tutte le cellule dell’organismo. Nel 2-3% dei casi si ha la forma a mosaico, in cui non tutte le cellule presentano il cromosoma 21 in più. Gli individui con questo tipo di trisomia 21 tendono ad avere prestazioni cognitive, linguistiche e sociali migliori di quelli con trisomia piena. In meno di un caso su 40.000 c’è una traslocazione del cromosoma 21 soprannumerario su un altro cromosoma e questo fenomeno è in alcuni casi di tipo ereditario, cioè è stato trasmesso da un genitore asintomatico, per cui è necessaria una consulenza genetica che informi del rischio di avere ulteriori figli Down. Vi sono poi forme rare con un cromosoma 21 soprannumerario ad anello o con solo una parte di esso. Il cromosoma 21 è il più piccolo dei cromosomi umani e rappresenta solo l’1,5% dell’intero genoma cellulare. Finora sono stati identificati poco più di 400 geni di questo cromosoma, di cui 20-50 localizzati in una regione terminale del braccio lungo del cromosoma detta Down Syndrome Critical Region (Dscr). Tali geni, presenti in triplice copia nella sindrome, hanno effetto sull’intero genoma, poiché condizionano l’espressione di moltissimi altri geni, attivandoli o inibendoli, a seconda della costituzione genetica individuale, il che spiega la variabilità di grado della malattia e la diversità individuale delle manifestazioni patologiche.

R.N.T.

La?mente

Recentemente si è scoperto che il cromosoma 21 contiene 5 micro-Rna regolatori dell’espressione genica, la cui sovraespressione nella trisomia 21, a livello dei tessuti nervoso e cardiaco fetali, determina una ridotta espressività delle proteine codificate, che si traduce nelle anomalie cerebrali e cardiache tipiche della sindrome di Down. La facies tipica dei soggetti Down sarebbe dovuta ad anomalie dello sviluppo embrionale, secondarie a difetti di migrazione e proliferazione delle cellule della cresta neurale. Nei neonati Down sono spesso presenti disordini mieloproliferativi transitori e nei bambini c’è un’elevata incidenza di leucemia acuta linfoblastica e megacarioblastica. Sicuramente la trisomia 21 è la principale causa di ritardo mentale presente in tutti i pazienti, in gradazioni da moderato a severo. I soggetti Down presentano spesso un deficit nella produzione del linguaggio, mentre sono migliori l’espressione non verbale e lo sviluppo sociale. In età pediatrica sono spesso presenti deficit di attenzione, iperattività, disturbo oppositivo della condotta o comportamenti aggressivi. L’8-13,6% dei soggetti sviluppa epilessia, il 7-11% autismo, mentre in età adulta il 6,1% presenta depressione maggiore o un comportamento aggressivo. Nei soggetti Down sono state riscontrate dimensioni cerebrali e cerebellari significativamente ridotte, in particolare per quanto riguarda l’ippocampo, la corteccia cerebrale e la sostanza bianca, con una significativa riduzione del numero dei neuroni e delle loro sinapsi, che comporta deficit di apprendimento e di memoria.

R.N.T.