Il volto svelato


È arrivato il tempo, ed è ora, nel quale il veleno della morte
si tramuta in una bevanda dolce.
Il velo che copriva il volto dell’umanità, di ogni popolo,
di ogni famiglia, di ogni singolo è strappato.
Anch’esso tramutato in fragrante pane saporito.
Il mio volto illuminato dal Tuo.
Il Tuo volto di bambino che porta
a compimento la promessa.
Quella fatta fin dal primo giorno di vita sulla Terra:
«Eliminerà la morte per sempre» (Is 25, 6-10).
È arrivato il tempo in cui le lacrime del lutto
sono accarezzate via dalle dita dell’Amato,
dalla Parola dell’Amante, dal soffio dell’Amore.

Buon Avvento e buon Natale
perché sia il tempo nel quale svelare
il nostro volto autentico
da amico.

Luca Lorusso


Goditi Amico in anteprima attraverso le immagini.
Per gustarlo fino in fondo, accedi al sito amico.rivistamissioniconsolata.it

Questo slideshow richiede JavaScript.




Cari Missionari. Grazie ai lettori di MC

Lettere di Grazie ai lettori |


Mi chiamo Ludovico

Sono un missionario della Consolata di 33 anni di Mesagne, una cittadina in provincia di Brindisi nella regione Puglia. Desidero condividere la mia esperienza di missione riassumendo il cammino che ho fatto finora.

Due le mie esperienze forti: una in Argentina, a Martin Coronado (Buenos Aires) dove ho fatto il noviziato, e l’altra in Kenya, a Nairobi, dove mi trovo in questo momento a studiare teologia.

Argentina e Kenya, come potrete benissimo immaginare, sono due realtà molto diverse. L’esperienza in America Latina ha cambiato la mia fede e scalzato tutto ciò in cui avevo posto le mie certezze, mettendomi davanti agli occhi la realtà della vita e facendomi capire che il mondo è molto diverso da come lo immaginiamo e non è solo quello che viviamo ogni giorno nelle nostre comodità. La missione però non ti presenta solo difficoltà, ti regala anche tante emozioni, poiché la condivisione con la gente è il primo fine di noi missionari; non costruire chiese, scuole! Anche questo è ovvio, ma prima di tutto viene la persona, l’ascolto.

Potrete ben immaginare come abbia sofferto il fatto di dover lasciare l’Argentina, una terra fantastica, una gente super accogliente…

Dopo il noviziato i miei superiori mi hanno detto che sarei dovuto venire qui in Africa. Non è stato facile. Per niente. Cultura, cibo, abitudini, modo di pensare e di affrontare i problemi, tutto è diverso. È tutto un altro mondo. Ho dovuto rivedere (e sto ancora rivedendo) la mia fede. Una fede che non trova pace poiché qui si sperimenta facilmente «l’abbandono di Dio».

Già, non mi vergogno a dirlo. A volte con Lui faccio a cazzotti. Ci sono situazioni qui che non sono facilmente giustificabili solo dicendo: «Dio è con noi». No. Qui c’è veramente da affrontare la realtà, ogni giorno, rimboccandosi le maniche e dando il massimo, a volte anche andando oltre le tue forze.

Però l’Africa è bellissima. Essa mi ha insegnato a non essere ansioso, ad affrontare i problemi con serenità, che i fallimenti fanno parte della vita ma non sono essi a determinarla o ad avere l’ultima parola.

Ho vissuto la mia seconda Pasqua qui in Kenya, quest’anno con tanta nostalgia della mia terra. Ma essere missionari porta a delle rinunce, a lasciare la famiglia, gli affetti più cari, seguendo quella voce da cui senti che dovrai prima o poi davvero lasciarti guidare.

Forse non sono esaustivo con queste parole, ma non è facile raccontare «la missione». Bisogna viverla. Quindi il mio è un invito affinché ognuno di voi coltivi prima in se stesso, e poi seminandole intorno, la gioia e la bellezza della missione. È tempo di andare, di uscire da se stessi. È tempo di incontrare. È tempo di amare.

Un abbraccio a tutti e grazie ancora per questa opportunità! Dio vi benedica!

Ludovico Tenore,
Nairobi 06/05/2018

Grazie e ancora Grazie

Dalla Costa d’Avorio

Mi chiamo Philippe. Nel 2002 mi avevano preso per un corso di formazione nel complesso di zuccherifici di Borotou-Koro, qui in Costa d’Avorio. Era la mia possibilità di essere poi assunto in pianta stabile. Ma lo scoppio della guerra nel settembre 2002 ha bloccato tutte queste speranze. Sono tornato allora a lavorare nei campi per nutrire mia madre, mia sorella e il mio fratellino. In quel periodo non ero ancora sposato e non avevo figli. Sono stati tempi duri. Poi la mia vita è cambiata. Nel 2007 i missionari di Dianra mi hanno mandato a studiare a Korhogo, nel Nord del paese, come ausiliario nella sanità, e ho lasciato mia sorella e mio fratello – ormai cresciuti – a occuparsi dei campi. Il corso è durato tre anni e sono stato promosso a pieni voti, il primo del mio gruppo. A Dianra avevano appena inaugurato il centro sanitario Joseph Allamano e con Alice e Suzanne sono stato il primo a lavorarvi. È un servizio che mi riempie di gioia e soddisfazione perché aiutiamo la gente del nostro villaggio e posso mantenere bene la mia famiglia con i miei tre bambini.

Grazie ai missionari e ai loro amici per quanto hanno fatto per me e per la gente di Dianra.

Philippe da Dianra

Mi chiamo Suzanne Soro Gnimin. Nell’anno scolastico 2006-2007, mentre mi stavo preparando per l’esame di licenza media, i missionari della Consolata mi hanno offerto di fare un corso di formazione sanitaria perché stavano progettando di costruire un centro di salute. Ho accettato la loro proposta e nel settembre 2007 sono andata a Korhogo in un centro di formazione professionale dove ho studiato per 3 anni. Nel 2010 ho preso il Diploma Cap (Certificat d’Aptitude Professionnelle). I missionari della Consolata mi hanno assunto nel loro nuovo centro sanitario dove lavoro ancora oggi. Al momento sono felice perché, grazie a questo lavoro, posso prendermi cura di me stessa, dei miei figli e della mia famiglia. Dico un grande grazie e mi sento molto grata per tutto ciò che ho ricevuto grazie al loro sostegno. Prego che il Signore, che li ha scelti per la sua missione, li protegga e dia loro sempre coraggio e saggezza per aiutare altri come me.

Suzanne da Dianra

Grazie dall’Argentina

Buon giorno a tutti i fratelli. Sono Juan de Dios López, cacique della comunità Territori Originari Wichi. Ringrazio lo sforzo di tutta la Chiesa, nella persona del fratello José (padre Giuseppe Auletta, ndr), che ha potuto condividere con noi la sua vita, dato che è difficile capire persone come noi. Ci siamo rivolti alla Chiesa, e la Chiesa, provvedendo i materiali, ha collaborato con il nostro progetto di allacciamento alla conduttura dell’acqua. Noi abbiamo messo il nostro lavoro scavando un fossato di quasi tre chilometri. Il lavoro, durato parecchio tempo, ha prodotto un miglioramento notevole del benessere della comunità. Questa è molto contenta e soddisfatta, dato che la Chiesa è stata l’unico attore presente nella nostra difficile situazione. La comunità, poco a poco, ha migliorato le sue condizioni riguardo alla semina, alla riforestazione e all’orticoltura. La comunità finalmente ha l’acqua, risultato anche di un impegno comune.

[Prima, per soddisfare il bisogno di acqua,] dovevamo camminare circa tre chilometri, fare tanto sacrificio e, inoltre, dovevamo trattare con i vicini che ci limitavano l’acqua, e la cosa si rendeva molto pesante. Tuttavia, grazie al fratello José e al nostro sforzo ora abbiamo l’acqua, possiamo lavorare e migliorare.

Ci siamo organizzati nella comunità per lo scavo del fossato e abbiamo dovuto tralasciare le nostre attività abituali per poter avere l’accesso all’acqua e allacciare i tubi di irrigazione alla rete principale. Con questo sforzo la comunità ha potuto recuperare la vita degli alberi. Consideriamo importante non sprecare l’acqua, così come l’ombra che ci danno gli alberi. La comunità può recuperare specie originali come il quebracho, il lapacho, il palo amarillo, il yuchán, l’algarrobo e tutto ciò che ha a che vedere con il rimboschimento ancestrale. Abbiamo avuto formazione adeguata al riguardo. Perciò siamo veramente grati alla Chiesa, attraverso il fratello José e quanti stanno collaborando alla questione indigena. Senz’altro, la comunità continuerà con la propria organizzazione e miglioramento, con la fedeltà alle nostre usanze ancestrali, chiedendo che i fratelli comprendano che abbiamo bisogno di molte cose, mentre noi ci sforziamo di far tutto con spirito comunitario, per migliorare ed essere parte del mondo che ci circonda.

In nome di tutta la comunità desideriamo far arrivare un abbraccio a quanti hanno collaborato al nostro progetto.

Cacique Juan de Dios López
Tartagal, Salta, Argentina

Grazie dalla Colombia: «Un ranchito para mi gente»

Raquel Cerityama davanti alla sua casetta costruita con l’aiuto delal missione

Emerita Zafirakudo e figli davanti alla casetta costruita con laiuto della missione e con padre Gabriel Armando

Nella parrocchia del Sacro Cuore di Gesù de La Tagua sul rio Putumayo in Colombia opera un gruppo Caritas che, tra i vari progetti, ha anche quello di costruire delle casette per persone povere. Con questo progetto, «un ranchito para mi gente», finora siamo riusciti a costruire due casette di legno: una a Raquel Cerityama, un’anziana di 75 anni, e un’altra per Emerita Zafirakudo, una madre con 7 figli. Il gruppo Caritas ha aiutato anche a completare le case di un’anziana di 81 anni e di una famiglia con 10 figli. Per realizzare questi «ranchitos» la comunità integra gli aiuti che arrivano tramite amici e benefattori, anche dall’Italia, con una serie di iniziative locali per stimolare la solidarietà con offerte di materiale o di cibo. Facciamo anche delle piccole lotterie (niente di super: qualche pollo e un po’ di bibite in premio!). Per la costruzione si fa poi una «minga» (lavoro comunitario), che si conclude naturalmente con un bel pranzo tutti insieme. Da Raquel ed Emerita e i suoi 7 figli, il grazie più sincero anche a nome degli altri poveri di La Tagua.

Padre Gabriel Armando,
La Tagua, Putumayo, Colombia

 




Protezione dell’ambiente: urgenza, non lusso

Presentazione di microprogetti MCO sull’ambiente di Chiara Giovetti |


Alcuni microprogetti del 2017 di Missioni Consolata Onlus hanno avuto come tema la protezione e la salvaguardia dell’ambiente. Ve ne raccontiamo due: uno nella Colombia che faticosamente cerca di liberarsi dal conflitto, e uno in Costa d’Avorio che, come molti paesi africani, ha dichiarato guerra ai sacchetti di plastica.

Buenaventura, un porto fatto città

Buenaventura è una città di 390mila abitanti sulla costa occidentale della Colombia. Il suo porto, uno dei principali del paese, genera un terzo delle tasse doganali complessive, cioè oltre 2 miliardi di dollari su un totale di 6,7@ e ha visto nel 2017 un milione di container movimentati.

Ma la ricchezza che il porto genera per le casse nazionali non torna a Buenaventura sotto forma di servizi per i cittadini e la città è una delle più povere del paese. Nel 2014 Bbc Mundo l’ha descritta come la «nuova capitale colombiana dell’orrore». L’allora vescovo di Buenaventura, monsignor Hernán Epalza, ha raccontato all’emittente britannica: «È come se tutta la cattiveria della Colombia si fosse concentrata qui». L’articolo della Bbc descriveva una realtà in balia di gruppi armati paramilitari che si contendevano il controllo del narcotraffico e del contrabbando in un conflitto caratterizzato da episodi di violenza particolarmente efferata.

Nelle parole di Jaime Alves, ricercatore presso l’Universidad Ices de Cali e assistente di antropologia alla City University di New York, «in questo regime macabro la popolazione nera diventa materia prima non solo per il narcotraffico – che considera Buenaventura una rotta internazionale strategica e i giovani afro come manodopera usa-e-getta -, ma anche per la “guerra al sottosviluppo” del governo, per il quale la presenza nera in aree strategiche è un ostacolo da rimuovere»@. Nel maggio dell’anno scorso la società civile estenuata, stremata dal conflitto e dall’indifferenza che il governo mostrava nei confronti della situazione di Buenaventura, ha deciso di prendere posizione con il paro civico (sciopero civico)@.

Dopo ventuno giorni di proteste (e di blocco delle attività portuali, con i conseguenti danni economici), i leader del paro civico e il governo arrivarono a un accordo che prevedeva investimenti per realizzare opere prioritarie fra cui acquedotti, reti fognarie, unità di terapia intensiva della Ciudadela hospitalaria (cittadella ospedaliera).

A oggi, la situazione (circa l’ambiente) non si può dire significativamente migliorata. Come riferisce il presidente della Camera di commercio locale, Alexánder Micolta, al quotidiano El Tiempo, l’acqua è disponibile mediamente sette ore al giorno. La sicurezza «è migliorata, ma ci sono ancora bande criminali che continuano a far sparire le persone, anche se non si sente più parlare di casas de pique, le case dove le vittime del conflitto venivano letteralmente fatte a pezzi per farle sparire, e gli omicidi sono diminuiti»@.

È poi dello scorso febbraio la notizia dell’uccisione di Temístocles Machado Rentería, uno dei leader del paro civico, mentre gli altri leader ricevono continue minacce di morte@.

Il lavoro dei missionari per l’ambiente a Buenaventura

A Buenaventura i missionari della Consolata sono presenti dal 2016, in quella che nel 2017 è diventata la parrocchia di san Martín de Porres. Padre Lawrence Ssimbwa, ugandese, classe 1982, è il missionario responsabile delle attività. Riportando dati citati dal Cric – Consiglio Regionale Indigeno del Cauca -, padre Lawrence l’anno scorso scriveva: «La realtà di Buenaventura richiede un intervento immediato da parte dello stato. L’indice di disoccupazione è del 62% e il lavoro informale arriva al 90,3%, quello della povertà al 91% nelle zone rurali e al 64% in quelle urbane. (…) Di 407.539 abitanti, 162.512 sono vittime del conflitto armato».

Il corso di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente e le attività di pulizia del quartiere rientrano in una più ampia iniziativa di mobilitazione comunitaria che padre Lawrence sta portando avanti in parrocchia e che comprende anche, tra gli altri, corsi di formazione su diritti umani, identità culturale, arti e mestieri.

«Nei laboratori che abbiamo organizzato», scrive padre Lawrence, «abbiamo sensibilizzato circa 40 adulti, 60 bambini e una ventina di giovani, che hanno approfondito e discusso i problemi che si creano a causa dell’immondizia depositata nelle fognature e nei fiumi e dei roghi di pneumatici, fenomeni purtroppo frequenti nel quartiere».

Si sono poi realizzate quattro giornate di pulizia del quartiere e il risultato di questa attività è stato che alcuni membri della comunità si sono impegnati a organizzare mensilmente giornate di questo tipo (in favore dell’ambiente) per mantenere pulite le strade e le case in cui vivono.

Costa d’Avorio, la guerra contro la plastica

Dal 2013 in Costa d’Avorio (per proteggere l’ambiente, ndr) è vietato produrre, importare, commercializzare, detenere o utilizzare sacchetti di plastica che non siano biodegradabili. Il provvedimento, però, ha faticato e fatica parecchio a essere applicato. Una semplice visita al mercato di Abidjan, riportava Radio France International nel luglio 2017, mostrava chiaramente che la legge sulle buste di plastica era rimasta lettera morta, o quasi. «Sono i clienti che ci chiedono i sacchetti, vanno via come il pane!», spiegava una commerciante intervistata dall’emittente radiofonica francese. Riponendo la merce dentro buste biodegradabili, la signora commentava: «Sono i sacchetti di prima, salvo che sopra c’è scritto “biodegradabile”. Non c’è nulla per rimpiazzarli, eppure vogliono che smettiamo di usarli»@.

Nel marzo dell’anno scorso il governo è passato alle maniere forti, con il ministro della Salubrità, dell’Ambiente e dello Sviluppo sostenibile, signora Anne Désirée Ouloto, che ha accompagnato le forze dell’ordine nei controlli a sorpresa presso le aziende che ancora producono le buste incriminate. Durante le perquisizioni, riporta il sito abidjan.net, il ministro e il suo seguito hanno trovato due fabbriche clandestine di sacchetti di acqua (usati invece delle bottiglie), una con allacciamento abusivo alla rete idrica pubblica e l’altra dissimulata dall’insegna «Livia Couture» per far pensare a una sartoria@.

Quello dei sacchetti di plastica è solo uno dei problemi ambientali che la Costa d’Avorio deve affrontare. Il rapporto dell’agenzia delle Nazioni Unite per l’ambiente del 2015, Côte d’Ivoire – Évaluation environnementale post-conflit, ha individuato alcuni ambiti ai quali occorre prestare particolare attenzione, e cioè le foreste, il cui livello di degradazione è definito «grave», la laguna di Ébrié, vicino alla capitale economica Abidjan, i rischi legati all’espansione urbana non pianificata, l’impatto ambientale dello sfruttamento minerario industriale e artigianale e il rischio di sversamento di idrocarburi sul litorale ivoriano@.

«Una delle attività che svolgiamo con i giovani e i bambini durante la semaine de la jeunesse (settimana dei giovani) qui a San Pedro», racconta padre Ramón Lázaro Esnaola, superiore dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio, «è proprio quella della pulizia delle strade». Nel popoloso quartiere nel quale i missionari lavorano – abitato soprattutto da operai del porto, piccoli commercianti e contadini – le vie a lato della strada principale asfaltata sono sterrate e sabbiose e mancano delle canalette di drenaggio che permettono all’acqua piovana di defluire. E quando ci sono, i sacchetti, le bottiglie e altra immondizia, prevalentemente di plastica, non di rado finiscono per intasarle del tutto.

Proteggere l’ambiente a Dianrà

Il progetto di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente del 2017 però non si è svolto a San Pedro, bensì a Dianra, nel Nord del paese, dove la comunità Imc gestisce, fra l’altro, un centro di salute, un programma di alfabetizzazione degli adulti e un progetto di apicoltura. «Da qualche anno», scrivono i padri Raphael Ndirangu e Matteo Pettinari, «la nostra missione dispone di un terreno sul quale intendevamo creare uno spazio verde accogliente e ricco di vegetazione all’interno del villaggio. Fino ad oggi non abbiamo potuto concretizzare l’idea perché lo spazio non era protetto e ogni tentativo di piantare alberi è andato perduto a causa della libera circolazione di capre, buoi e anche persone. Queste ultime, non vedendo una valorizzazione effettiva del terreno, se ne sono a più riprese “appropriate” per le loro più diverse esigenze. Di fatto, a volte il nostro spazio è diventato anche una discarica a cielo aperto, invaso in particolar modo da rifiuti di plastica».

Con la prima fase del progetto «Proteggiamo il nostro spazio verde» è stato possibile ripulire, livellare e recintare il terreno. I passi successivi saranno quelli della piantumazione di alberi da frutto e piante ornamentali, della predisposizione di un campo da calcio, della installazione di panchine, altalene, scivoli e altri giochi.

«La nostra», aggiunge padre Matteo, «è una zona di frontiera fra il deserto che avanza e la foresta che scompare. Quest’anno ad aprile la gente si trovava in difficoltà già da un mese per mancanza di acqua: pozzi che erano stati sinora una riserva d’acqua abbastanza sicura, ora sono secchi, la stagione delle piogge si riduce e i raccolti ne risultano danneggiati». Ecco allora, conclude il missionario, che il Nord della Costa d’Avorio può essere una zona strategica per sensibilizzare e possibilmente reagire a questi cambiamenti. Un progetto come quello di Dianra, per quanto piccolo, può accompagnare la comunità nel prendere coscienza e nel cercare soluzioni.

Non si tratta del primo tentativo di creare uno spazio di questo tipo nelle missioni Imc in Costa d’Avorio: a fare da apripista è stato il Jardin de l’Amitié (Giardino dell’Amicizia). Situato poco fuori dal villaggio di Marandallah – un paio d’ore di pista a Sud Est di Dianra – il giardino è stato a poco a poco creato grazie al lavoro di padre João Nascimento con la comunità. È diventato non solo un’occasione di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente ma anche uno spazio ricco di angoli quieti in mezzo al verde per la riflessione, la preghiera e il riposo. Molte manifestazioni comunitarie si sono svolte presso il Giardino dell’Amicizia, che si è rivelato un utile strumento per quel dialogo interreligioso che è elemento caratterizzante del lavoro dei missionari in questa zona del paese, dove il 72% della popolazione è musulmano, il 25% pratica le religioni tradizionali, mentre le diverse denominazioni cristiane si dividono il restante tre per cento.

Chiara Giovetti

Clôture di Dianrà per parco giochi e riforrestazione




Come sta la sanità in Costa d’Avorio


Fra riforme che si concretizzano solo molto lentamente, cronica mancanza di risorse e diffusione di farmaci contraffatti, la Costa d’Avorio sta faticosamente cercando di darsi un sistema sanitario adeguato.

Dal 2014 in Costa d’Avorio la copertura sanitaria universale è legge. Il provvedimento, in francese Couverture maladie universelle (Cmu), è stato fortemente voluto dal presidente Alassane Dramane Ouattara, che ne ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia nella campagna presidenziale del 2015, in seguito alla quale si è visto confermare dagli elettori il mandato per altri cinque anni. La Cmu mira ad estendere a tutta la popolazione la copertura sanitaria sulla base di due regimi: il primo, quello contributivo, si finanzia attraverso un contributo a carico dei cittadini, che è pari a mille franchi Cfa (circa un euro e 52 centesimi) al mese. Il secondo, non contributivo, riguarda le persone in stato di indigenza, per le quali sarà lo stato a coprire i costi quantificati, secondo il sito ivoriano di notizie abidjan.net, in 49 miliardi di franchi, pari a circa 75 milioni di euro.

I servizi a cui questa sorta di assicurazione medica pubblica permette di avere accesso comprendono le consultazioni prestate dal personale sanitario – infermieri, ostetriche, medici generalisti e specialisti – le analisi di laboratorio, gli interventi chirurgici, le ospedalizzazioni, i farmaci e riguardano le 170 patologie che maggiormente toccano la popolazione ivoriana.

Un piano sanitario indubbiamente ambizioso in un paese dove ad oggi solo il 5% della popolazione dispone di un qualche tipo di previdenza sociale. La messa in opera è cominciata nel 2015, mentre l’effettiva erogazione dei primi servizi dovrebbe iniziare ad aprile 2018. Ma le difficoltà di attuazione sono già emerse nella fase preliminare, quella della registrazione dei beneficiari. A luglio scorso, le persone che avevano completato il processo di registrazione erano 785mila mentre un milione e quattrocentomila erano quelle preregistrate, a fronte di una popolazione totale di oltre ventidue milioni.

Considerando che alla registrazione dovrebbe seguire l’effettiva immatricolazione – con consegna di una carta personale biometrica a ciascun cittadino – e che solo dopo dovrebbe cominciare la raccolta dei contributi mensili e l’erogazione dei servizi, ci sono gli elementi per dire che il processo procede a rilento. Fra le cause di questo ritardo ci sono l’isolamento delle zone rurali, dove un’ampia parte della popolazione ha a malapena ricevuto notizia di questa iniziativa, e le difficoltà di registrazione di quell’ampia parte di ivoriani che vive nell’informalità, lavorativa e abitativa. Non è un caso, infatti, che la fase cosiddetta sperimentale della Cmu sia cominciata dai lavoratori del settore formale, pubblico e privato, dagli studenti e dai pensionati.

Ma mentre realizza questa riforma per garantire a tutti l’accesso ai servizi sanitari, la Costa d’Avorio deve anche concentrarsi sul miglioramento dei servizi stessi. Secondo i dati della Banca mondiale e dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il rapporto medici pazienti è pari a uno ogni settemila abitanti, a fronte di una media regionale dell’Africa subsahariana di uno ogni 3.300. Non va meglio con infermieri e ostetriche: uno ogni duemila ivoriani, contro uno ogni mille per gli altri africani. Partendo da questi dati sul personale sanitario di base, il fatto che la forza lavoro con competenze di chirurgia sia il doppio rispetto alla media africana – tre chirurghi ogni mille abitanti contro 1,7 nel continente – non migliora di molto il quadro. Secondo l’Atlante 2016 delle statistiche sulla sanità in Africa dell’Oms, la Costa d’Avorio era al sesto posto nel continente per tasso di mortalità degli adulti – un dato vicino a 400 persone ogni mille sia per i maschi che per le femmine – e all’undicesimo per mortalità materna con 645 decessi di madri ogni centomila nati vivi. Dei dieci sotto obiettivi di sviluppo del millennio in materia di sanità, la Costa d’Avorio ne ha raggiunti solo due: riduzione dell’incidenza dell’Hiv e del tasso di mortalità per tubercolosi. Per gli altri otto – fra i quali vi sono la riduzione della mortalità materna e dei bambini sotto i cinque anni, la copertura vaccinale contro il morbillo e i parti avvenuti in presenza di personale sanitario qualificato – le caselle ivoriane sono una sequela di not achieved, «non raggiunto». L’investimento in sanità da parte del governo è passato dall’1,6% del Pil del 1990 all’1,9 del 2013: il Ruanda, ad esempio, partiva dallo stesso dato iniziale per passare poi a un investimento del 6,5%.

Il giorno per giorno negli ospedali

Come si manifesta tutto questo sul campo? Un articolo apparso su Jeune Afrique lo scorso luglio permette di farsi un’idea della situazione. Nel centro ospedaliero universitario di Cocody, quartiere fra i più agiati della capitale economica Abidjan, i parenti dei pazienti si trovano spesso ad attendere seduti per terra nella hall. Il direttore dell’ospedale li invita ad andare a sedersi almeno sulle panchine dell’accettazione, ma è consapevole della mancanza di spazi adeguati per accogliere i familiari delle persone ospedalizzate. Le quali non di rado rimangono più di ventiquattr’ore ricoverati al pronto soccorso per mancanza di stanze ben equipaggiate nei reparti.

La morte, nel 2014, di una famosa modella ivoriana al pronto soccorso di Cocody e la denuncia da parte dei familiari delle gravi negligenze che, a loro dire ne aveva provocato il decesso, aveva acceso i riflettori sull’ospedale. Sull’onda dello scandalo, il presidente della Repubblica in persona aveva ordinato la messa a nuovo dell’ospedale, che è considerato uno degli ospedali-vetrina del paese e che vede sfilare annualmente 40mila pazienti solo al pronto soccorso. Nuovi materiali e strumenti sono in effetti arrivati – ecografia, radiologia, laboratorio per le analisi, ristrutturazione dei locali – ma il tasso di decessi è ancora al 20%. «Queste morti si spiegano con la gravità dei casi, i ritardi nella diagnosi per malattie come il cancro, i tempi di trasporto molto lunghi e a volte anche per il ritardo nella presa in carico del paziente», ammette il direttore dell’ospedale.

Al centro ospedaliero universitario di Yopougon, popoloso quartiere periferico, la situazione è ancora più difficile: su 495 letti teoricamente disponibili, solo 350 sono davvero utilizzabili. «Sono quattro anni che sento parlare di progetti di riabilitazione delle strutture, non so più se crederci», dice il professore Dick Rufin, presidente della commissione medica dell’ospedale, che confessa: «Se io o qualcuno dei miei familiari avessimo un problema di salute, andrei in una clinica privata».

Le cause principali alla base di questa situazione sono la mancanza di mezzi finanziari e l’incuria derivata da dieci anni di conflitto e crisi politiche ricorrenti. Gli investimenti governativi, a onor del vero, non sono mancati. Fra questi, lo sblocco degli stipendi dei medici, l’assunzione di oltre diecimila operatori sanitari, la costruzione di un centinaio di centri di sanità di base e l’istituzione di esenzioni dal pagamento dei farmaci. Ma gli effetti di questi interventi non sono ancora chiaramente percepibili. Nonostante le esenzioni, ad esempio, molti si trovano a doversi comunque pagare le medicine perché gli stock riservati ai pazienti esenti esauriscono troppo rapidamente.

C’è poi da lavorare sulla conduzione degli ospedali: secondo numerose testimonianze raccolte da Jeune Afrique, la pratica di chiedere ai malati una tangente per accelerare la loro presa in carico è ancora diffusa.

Salute: Zone rurali e farmaci contraffatti

Nelle aree rurali come quelle di Marandallah e Dianra, dove sono attivi i missionari della Consolata, le condizioni sono ancora più dure. Una delle difficoltà più grandi è legata alla scarsa informazione delle comunità che causa una quasi totale assenza di prevenzione e un costante ritardo nel recarsi presso le strutture sanitarie. «È fondamentale che il nostro personale possa continuare, e possibilmente intensificare, l’attività mobile, quella della visita ai villaggi», spiegava lo scorso gennaio il responsabile del centro di salute di Marandallah padre Alexander Mukolwe. «Senza un monitoraggio costante nei villaggi e la formazione comunitaria che gli operatori affiancano, durante le loro visite, alle sessioni di vaccinazione, alla diagnosi delle malattie e alla distribuzione di farmaci, continueremo a vedere persone arrivare al centro di salute in condizioni disperate e morire per patologie che si potevano curare in un paio di giorni». Basta pensare che in Costa d’Avorio su cento bambini sotto i cinque anni sei muoiono a causa della diarrea; solo il 17% dei piccoli affetti da questa malattia riceve un trattamento adeguato di reidratazione orale.

La necessità di rendere capillare e diffusa l’assistenza sanitaria è ancora più importante alla luce del fenomeno dei farmaci contraffatti e dei centri sanitari fai-da-te.

«Ne abbiamo avuto notizia anche noi», conferma padre Matteo Pettinari, responsabile del centro di salute di Dianra, a ottanta chilometri da Marandallah. «Individui con una formazione sanitaria limitata, o nulla, che avviano centri clandestini dove si fanno pagare per consultazioni improvvisate e farmaci contraffatti o scaduti oppure medicinali veri ma rubati nei dispensari ufficiali nei quali questi impostori hanno prestato servizio. È una cosa gravissima, specialmente in un contesto dove c’è così poca consapevolezza in materia di salute e le persone non hanno gli strumenti per difendersi da una truffa che può costare loro anche la vita». E non esagera, padre Matteo, se lo scorso settembre Radio France International (Rfi) si faceva megafono dell’allarme lanciato dai farmacisti ivoriani sulle medicine contraffatte. «I farmaci di strada sono la morte in strada», recita lo slogan con cui i farmacisti cercano di mettere in guardia i cittadini dai pericoli di un traffico che interessa il 30% dei farmaci venduti nel paese, con perdite di introiti per le farmacie legali stimato in circa 50 miliardi di franchi (76 milioni di euro). Un mercato che si avvia a superare quello della droga, sottolinea Rfi, che rileva come al mercato di Roxy d’Adjame, ad Abidjan, si trovino sui teli stesi a terra falsi vaccini, antimalarici, antibiotici, antiretrovirali, sacche di sangue fasullo e cosmetici contraffatti.

A facilitare l’ignobile commercio sono il prezzo più basso rispetto ai farmaci legali e le pene meno severe rispetto a quelle previste per i trafficanti di droga. I medicinali illeciti disponibili in Costa d’Avorio provengono in prevalenza dall’Asia o dai vicini Ghana e Nigeria.

Chiara Giovetti


Salute in movimento

MOSTRA DI SOLIDARIETÀ AMC / Torino

Quest’anno gli Amici Missioni Consolata hanno deciso di aiutare il progetto La salute in movimento, che si concentra sul sostegno ai centri di salute di Marandallah e Dianra nel Nord della Costa d’Avorio e, in particolare, all’attività di assistenza sanitaria mobile dei due centri.

Le équipe sanitarie – composte da infermieri e ausiliari – effettuano infatti visite regolari ai villaggi che costituiscono il bacino d’utenza dei due centri di salute. Queste visite si rendono particolarmente necessarie in zone come quelle di Marandallah e Dianra, che hanno un’estensione territoriale notevole e mancano quasi totalmente di strade asfaltate, rendendo molto più difficile per gli abitanti dei villaggi più remoti raggiungere i centri di salute. Spesso, per mancanza sia di risorse finanziarie che di informazioni adeguate su igiene e prevenzione, i pazienti rimandano il ricorso all’assistenza sanitaria fino a quando le loro condizioni non si sono aggravate al punto da rendere molto difficile, a volte impossibile, intervenire efficacemente per guarirli.

Il lavoro di assistenza mobile consiste nel monitoraggio dei casi di malnutrizione fra i bambini, delle condizioni di salute delle donne incinte, delle neo mamme e dei neonati, nelle campagne di vaccinazione, nel trattamento delle ferite legate all’attività agricola e nella diffusione di informazioni su igiene e sanità. Quest’ultima attività ha un ruolo cruciale nel permettere alle persone di prevenire o individuare in tempo le malattie più comuni, come quelle gastroenteriche, legate ad esempio all’utilizzo di acqua non adatta al consumo umano, o quelle delle vie respiratorie, ma soprattutto la malaria, principale causa di morte in Costa d’Avorio. Per la prevenzione e cura della stessa sono fondamentali le zanzariere impregnate di insetticida e la tempestiva diagnosi e successiva assunzione di farmaci antimalarici. Eppure, secondo i dati più recenti, dei bambini sotto i cinque anni solo uno su tre dorme sotto una zanzariera e solo uno su cinque con la febbre riceve un trattamento antimalaria.

I nostri missionari responsabili dei due centri di salute ci hanno indicato l’attrezzatura e l’equipaggiamento che permette loro di continuare con la stessa efficacia e costanza questo importante servizio alle comunità.

L’iniziativa degli Amici intende contribuire a coprire questi costi:




Cooperando: 3 realtà, 1 obiettivo: istruzione contro povertà


Quest’anno concentriamo la campagna di Natale su Venezuela, RD Congo e Tanzania. Sono tre realtà molto diverse fra loro che hanno però almeno due aspetti in comune: una situazione socio-economica difficile e contraddittoria, della quale fanno le spese le fasce più deboli della popolazione, e una carente e spesso fuorviante informazione internazionale su di essi.

dsc04353_resize

1. Venezuela, fra crisi e propaganda

Che il crollo del prezzo del petrolio abbia messo in ginocchio l’economia venezuelana sembra essere l’unico dato certo: su un paese che basa la propria economia su questa risorsa, la diminuzione del costo al barile dai 100 dollari del 2014 ai 50 attuali non poteva non avere ripercussioni pesanti. Ma su questo dato di fatto si contrappongono, sia all’interno del Venezuela che nel dibattito internazionale, visioni sideralmente lontane circa le responsabilità e le possibili soluzioni.

Tutta colpa della rivoluzione bolivariana di Hugo Chavez, dicono i critici dell’ex presidente venezuelano – morto nel 2013 e sostituito dall’attuale capo di stato Nicolás Maduro -, e delle sue politiche socialiste, nazionalizzazione dell’industria petrolifera in testa. «Il Venezuela è una dittatura conclamata», scriveva lo scorso ottobre sul Washington Post Francisco Toro, che in un precedente articolo su The Atlantic indicava come «vero colpevole della crisi il chavismo, con la sua propensione alla cattiva gestione, agli investimenti folli, allo smantellamento delle istituzioni, alle politiche di controllo dei prezzi e del cambio e al ladrocinio puro e semplice». È vero che già all’inizio del 2014, cioè prima della caduta del prezzo del petrolio, l’economia venezuelana era entrata in recessione, risponde dalle pagine di Le Monde Diplomatique Marc Weisbrot, ed è vero che una profonda opera di riforma è necessaria, a cominciare da un riordino del mercato valutario: a oggi, ci sono tre tassi di cambio a cui si aggiunge quello applicato sul mercato nero, e vanno dai 10 bolivar (la valuta locale) contro un dollaro del cambio ufficiale ai 1.000 del mercato nero (un euro è quasi 700 bolivar con Weste Union dall’Italia).

Ma non bisogna dimenticare le ingerenze estee: il governo degli Stati Uniti promuove da quindici anni un «cambio di regime» a Caracas, ricorda ancora Weisbrot, e sta cercando di destabilizzae ulteriormente l’economia. Il Fondo Monetario è spesso particolarmente pessimista nelle stime sugli indicatori economici venezuelani e i media inteazionali fanno a gara a usare i termini più catastrofisti dimenticando di riportare anche i risultati ottenuti ad esempio dalle misiones, programmi governativi di lotta alla povertà lanciati nel 2003 da Chavez a sostegno dell’accesso alla salute, all’istruzione, al credito per la casa (vedi anche Le due piazze di Caracas di Paolo Moiola, MC 12/2015).

È degli ultimi giorni di ottobre la notizia della visita di Maduro a papa Francesco e dell’intenso lavoro della diplomazia vaticana per promuovere il dialogo tra le forze politiche ed evitare scontri e violenze.

La nostra proposta per il Venezuela

Al di là di queste diatribe, la situazione che i nostri missionari ci raccontano è davvero difficile: mai come quest’anno si sono resi necessari interventi per permettere alle persone di procurarsi cibo e farmaci. Nelle zone come Tucupita gli effetti della congiuntura attuale si accavallano a una situazione di povertà e marginalizzazione che da anni affligge la popolazione locale, appartenente per la maggioranza al gruppo indigeno warao.

La proposta dei nostri missionari è quella di impegnarsi in un progetto di contrasto all’abbandono scolastico dei bambini e adolescenti. Dal momento che il principale problema è l’acquisto del materiale scolastico, il cui prezzo è troppo alto per la maggior parte delle famiglie, il progetto prevede l’acquisto di penne, matite, quadei e altro materiale. Inoltre, coinvolge le famiglie a contribuire producendo esse stesse borse, astucci e piccolo mobilio per le classi come leggii e tavoli per lo studio, approfittando anche delle competenze acquisite dalla comunità warao grazie a iniziative realizzate in precedenza dai nostri missionari in ambito artigianale.


morogoro-consolata-day-care-children-with-their-tutors-_resize

2. Tanzania, fra Pil e ujamaa

La Tanzania cresce, eccome: le esportazioni fra il luglio 2015 e lo stesso mese del 2016 sono aumentate del 7,5% e lo scorso ottobre il paese ha firmato con il Marocco venti accordi di cooperazione bilaterale per poco meno di due miliardi di dollari nei settori energetico, minerario, tecnologico, agricolo, turistico, finanziario, sanitario e dei trasporti. Ma, come per altri paesi africani che stanno sperimentando simili espansioni, il rischio concreto è che larghe fasce della popolazione tanzaniana restino escluse dagli effetti della crescita. A differenza del turbolento vicino di casa congolese, in Tanzania – modellata dal mwalimu (maestro) Julius Nyerere, primo presidente e padre fondatore, sul principio dell’ujamaa (comunità-famiglia-fratellanza) – la pacifica convivenza fra gruppi etnici non è mai stata a rischio, ma le diseguaglianze sociali e le sacche di povertà sono tangibili, specialmente nelle aree rurali. Nel maggio di quest’anno, il Programma alimentare mondiale (Pam) ha pubblicato alcuni dati sul paese: nonostante la crescita economica, tre tanzaniani su dieci vivono nella povertà e uno su tre è analfabeta. L’ottanta per cento della popolazione vive di agricoltura di sussistenza e un terzo dei bambini sotto i cinque anni soffre di malnutrizione cronica.

La nostra proposta per la Tanzania

In Tanzania il nostro programma di sostegno a distanza è attivo a Mgongo, Mafinga, Iringa, Morogoro, Ikonda e Tosamaganga. Inoltre, contribuiremo al Day Care Centre di Morogoro, un centro che fornisce a 252 bambini istruzione prescolare. Secondo numerosi studi, infatti, i bambini che hanno fatto un percorso educativo fra i tre e i sette anni ottengono poi migliori risultati nel prosieguo dei loro studi e hanno maggiori probabilità di terminare il ciclo primario. Inoltre, frequentare un centro come questo permette ai bambini di avere una nutrizione più adeguata in anni fondamentali per lo sviluppo psico-fisico.

In particolare, acquisteremo materiale ludico e didattico, cattedre, banchi e sedie, adegueremo il corpo docente alla sempre maggiore richiesta di iscrizioni e doteremo il centro di kit per il pronto soccorso.


bayenga-img_2442_resize

3. RD Congo, la difficile via verso le elezioni

Quarantadue anni dopo il celebre incontro fra Muhammad Alì e George Foreman, il grido in lingua lingala che si alza dallo stadio di Kinshasa non è più «Alì, bomaye!», «Alì, uccidilo», ma «Kabila oyebela, mandat esili!», «Kabila, sappilo, il mandato è finito».

Il 19 dicembre termina infatti il secondo mandato di Joseph Kabila, il quarantacinquenne presidente congolese succeduto al padre Laurent Desiré nel 2001 e riconfermato alla presidenza nelle elezioni del 2006 e del 2011, una consultazione elettorale quest’ultima, molto discussa e giudicata irregolare da diversi osservatori fra cui l’Unione europea. Le elezioni erano previste per quest’anno, ma a ottobre un accordo tra il governo e una piccola parte dell’opposizione (nel dialogo intercongolese) ha acconsentito di rimandare il voto al più tardi ad aprile 2018. Si creerà un governo di unità nazionale affiancato da un comitato di accompagnamento, mentre Kabila potrà restare in carica per la transizione. Ma il grosso dell’opposizione politica e i movimenti sociali non sono d’accordo, così come i vescovi, che hanno abbandonato il «dialogo» a settembre. E, se il conflitto politico a Kinshasa non sempre si limita al confronto dialettico – lo scorso settembre almeno 47 persone sono morte negli scontri fra polizia e manifestanti anti Kabila -, l’Est del paese non ha conosciuto un minuto di vera pace dalla fine della guerra del 1997-2003. Lo scorso agosto i miliziani del gruppo islamista di origine ugandese Adf – uno dei circa settanta gruppi ribelli attivi in Congo – hanno decapitato o bruciato vive trentasei persone a Beni, Nord Kivu.

La nostra proposta per il Congo

I nostri missionari in Rd Congo lavorano da sempre per ampliare quanto più possibile l’accesso all’istruzione e per contrastare l’abbandono scolastico: secondo gli ultimi dati Unicef, i bambini che non vanno a scuola sono 13 su cento, dato che sale a 16 nelle aree rurali. Degli scolarizzati, inoltre, un quarto non arriva alla conclusione del ciclo primario. Le aree su cui ci concentriamo questo Natale sono Kinshasa e Bayenga. Nella capitale, è attivo un programma di sostegno a distanza per i 360 bambini che frequentano la scuola primaria san Giuseppe d’Arimatea, nel quartiere Sans Fils. Attraverso questo sostegno, la probabilità di abbandono scolastico si riduce drasticamente perché risolve a monte il principale problema delle famiglie, quello di coprire i costi per la retta, i libri, il materiale scolastico.

A Bayenga, villaggio in piena foresta pluviale nella provincia Orientale, i nostri missionari lavorano con la comunità dei pigmei Bambuti: qui l’iniziativa è quella di creare e rafforzare una scuola itinerante, che possa spostarsi da un campement (insediamento) all’altro e permettere agli oltre mille bambini non scolarizzati di avere un’istruzione che rispetti e valorizzi anche le specificità culturali del loro gruppo etnico, tuttora considerato, dalla maggioranza bantu, composto da cittadini di seconda categoria.

Chiara Giovetti

dscn3118_resize


Grazie perché

Ecco alcune delle iniziative (e non sono tutte!) per le quali ci avete aiutati in questo 2016.

Istruzione e sanità

Abbiamo scavato un pozzo a Guilamba, Mozambico, comprato le bici per gli insegnanti a Neisu, RD Congo, dotato di microscopio, centrifughe e altro materiale il laboratorio del dispensario di Mgongo, Tanzania, e messo nuovi banchi, sedie e pc portatili nel centro di formazione per bambini adolescenti e giovani di Tucupita, Venezuela.

Stiamo poi mettendo il fotovoltaico nella Secondary School Mary Mother of Grace di Rumuruti, Kenya, migliorando la cucina della scuola elementare di Blessoua, Costa d’Avorio, lavorando alla scuola di formazione in agricoltura e all’impianto di irrigazione a Maturuca, Brasile, continuando la formazione alla pace per i bambini e le loro famiglie a Cartagena de Chairá, Colombia, e sostenendo doposcuola e Day Care Centre a Arvaiheer, Mongolia.

Per questi nove progetti e altri 33 ringraziamo la famiglia della signora Piera Guaaschelli, che ha sostenuto i missionari della Consolata per lunghi anni.

Abbiamo attrezzato l’ospedale di Wamba, Kenya, per il servizio di dialisi, rinnovato il laboratorio, introdotto un sistema di gestione informatizzato, riattivato il servizio di cliniche mobili per i villaggi intorno all’ospedale, intensificato il programma nutrizionale e lanciato una campagna di iscrizione per i pazienti al fondo di assicurazione sanitaria keniano Nhif, che permette la copertura delle spese mediche sostenute. Per questo progetto, che ha concluso il primo anno e continuerà per altri due, ringraziamo la Conferenza Episcopale Italiana, che ci ha concesso un finanziamento totale di 232.233 euro.

Sostegno a distanza

Anche quest’anno abbiamo sostenuto a distanza circa duemiladuecento bambini, a cui abbiamo fornito istruzione, cibo, cure mediche. Il programma SaD è stato attivato o potenziato anche in Venezuela, Mozambico, Sudafrica, Kenya ed Etiopia.

Attività generatrici di reddito e formazione professionale

Continuiamo a sostenere il panificio a Kinshasa che, grazie alla generosità di donatori privati e di gruppi missionari, cammina sempre di più sulle sue gambe. Anzi, su quelle delle donne di Kin che vanno a vendere il pane prodotto dal panificio.

A Malindi, Kenya, abbiamo concluso il progetto agricolo per le donne e a Kinshasa, RD Congo, abbiamo completato l’ammodeamento del laboratorio di elettronica del Centro di formazione professionale per ragazzi non scolarizzati. Grazie a Caritas Italiana per questi e per gli altri microprogetti che ci hanno permesso di realizzare.

Acqua

Ringraziamo tutti quanti hanno dato il loro contributo per garantire un sempre più ampio accesso all’acqua per le persone di Mukululu, Kenya, dove si trova il Tuuru Water Scheme, un sistema idrico che serve 250 mila persone e 150 mila capi di bestiame.

Popoli indigeni

Ringraziamo i nostri donatori – organizzazioni e privati cittadini – per la loro sensibilità alla condizione dei popoli indigeni di
Roraima, da Catrimani a Raposa Serra do Sol, e il prezioso sostegno alla difesa dei loro diritti.

3.366 grazie

Vorremmo nominarvi e ringraziarvi tutti 3.366 – singoli privati, organizzazioni, associazioni, gruppi missionari, parrocchie, congregazioni, aziende, scuole – perché ci avete affidato il vostro denaro, magari togliendolo al budget per la spesa e passando i fine settimana a organizzare eventi per le missioni, ma, anche usando tutte le pagine di questa rivista, non ci sarebbe abbastanza spazio per descrivere che cosa ciascuno di voi ci ha permesso di realizzare.

Noi, però, conosciamo i vostri nomi uno per uno, e una per una rispettiamo le intenzioni che accompagnano la vostra donazione: quello che ci avete affidato è diventato quadei, pompe idriche, cibo, farmaci, microscopi, sementi, salari dei maestri, attrezzi agricoli, letti per il parto, avvocati che hanno difeso minoranze ingiustamente espropriate, cacciate, aggredite.

Grazie a voi, anche nel 2016 abbiamo scritto una bella storia: siamo pronti a scrivere insieme il prossimo capitolo.


Diamo i numeri

  • Con 6 euro regali 10 set scolastici (penna, matita, gomma, quaderno) agli alunni di Tucupita.
  • Con 40 euro doni un kit per il pronto soccorso al centro prescolare di Morogoro.
  • Con 120 euro copri per tre mesi i costi di spostamento della scuola itinerante a Bayenga.
  • Con 300 euro sostieni a distanza un bambino in Congo o Tanzania.

Clicca qui se desideri dare il tuo contributo.
Grazie.
Puoi anche usare PayPal e IlMioDono
(in alto a destra)