Dal partenariato alla fratellanza


Ivana Borsotto, già vicepresidente della Ong Progettomondo, è dal dicembre del 2020 la presidente della Focsiv, Federazione di organismi di ispirazione cristiana. Facciamo insieme a lei il punto sulla Federazione, sullo stato della cooperazione e sulle principali sfide di oggi.

Ivana, cominciamo spiegando che cosa è la Focsiv e che cosa la caratterizza oggi.

Focsiv (Federazione degli organismi cristiani servizio internazionale volontario) è una federazione che raccoglie 86 organismi di ispirazione cristiana che operano nella realizzazione di programmi, progetti e azioni di solidarietà e cooperazione internazionale in 80 paesi del mondo. Nel 2022, a maggio, compirà 50 anni: è un traguardo importante e con il nuovo consiglio direttivo, in carica da un anno, abbiamo deciso di rendere questo anniversario non solo un’occasione per celebrare ma soprattutto per riflettere.

Da questa riflessione stanno emergendo diverse cose: in primo luogo, nelle due encicliche di papa Francesco Laudato si’ e Fratelli tutti troviamo conferma del fatto che la direzione del nostro lavoro si muove verso quell’orizzonte. Laudato si’ ce lo conferma con il suo promuovere un cambio di paradigma economico e sociale che abbandoni l’idea di dominio e sfruttamento sulla natura e si concentri sulla cura. Fratelli tutti ci rafforza nella convinzione che l’esistenza di più religioni è una grazia. Anche se il dialogo interreligioso a volte è faticoso, a volte perfino doloroso, è in esso che troviamo il vero senso della nostra vita e del nostro lavoro.

Come si riflettono nel lavoro sul campo queste indicazioni del papa?

Fratelli tutti, di fatto, ci dice che il partenariato non basta: è la fratellanza ciò a cui siamo chiamati. In estrema sintesi, quindi, potrei risponderti: dobbiamo cercare di trasformare i nostri progetti, che spesso si svolgono in paesi a maggioranza musulmana, in laboratori di dialogo che ci aiutino a fare questo passaggio dal partenariato alla fratellanza.

Una cosa è mettersi attorno a un tavolo con i partner nei paesi in cui si lavora e dire: c’è un bando, proviamo a ragionare insieme su come ideare un progetto, partiamo da una lettura condivisa dei problemi e lavoriamo perché ogni progetto si traduca in pratiche che gli amministratori locali possono usare per risolvere quei problemi. Questo è un livello, quello del partenariato e della politica locale, e noi già siamo impegnati nel costruirlo il meglio possibile.

Ma c’è un altro livello, più profondo: quello di entrare nell’ordine di idee che la realizzazione di quel progetto possa generare non solo un’équipe che lavora, ma anche una comunità che dialoga.

Per entrare in questo ordine di idee, ci guidano ancora una volta le parole che il papa ha pronunciato a Qaraqosh, durante il suo viaggio in Iraq, sottolineando come il dialogo interreligioso non può nascere «a freddo», da riflessioni teoriche fatte a tavolino. Al contrario, può sorgere solo se si fa uno sforzo fondamentale che riguarda la quotidianità: riconoscere il bisogno dell’altro come proprio. Facendo poi fronte comune davanti a quel bisogno, si possono creare le condizioni per il dialogo e la fratellanza. Ecco, allora, che i progetti possono essere lo strumento per creare quel livello di amicizia, di profondità e di autenticità di relazioni necessario per poi arrivare ad affrontare insieme anche aspetti delicati del dialogo che altrimenti sarebbe difficile toccare.

Una nuova presidente e nuovo consiglio: come pensate di rilanciare la Federazione? Vedi la tua come una presidenza di continuità o di rottura?

«Rottura» non mi piace. Ma «continuità» nemmeno. Credo che le priorità per la Focsiv siano valorizzare il lavoro dei nostri volontari, rafforzare la relazione tra soci e federazione interpretandola come uno scambio continuo, promuovere la partecipazione e incarnare l’idea di sussidiarietà.

Un altro punto è sicuramente la formazione, specialmente attraverso la nostra Scuola di politica internazionale cooperazione e sviluppo (SpiceS).

Dobbiamo poi sforzarci di passare da essere un insieme a diventare un sistema: il nostro è un mondo in cui ci sono molte reti che rischiano di essere autoreferenziali, chiuse nei loro perimetri. Dalla campagna di ascolto dei soci che il nuovo consiglio Focsiv ha condotto, è emerso che essi vorrebbero conoscersi e collaborare di più: la Federazione deve diventare una continua occasione di scambio, conoscenza e lavoro condiviso attraverso tavoli tematici, tavoli geografici sovraregionali, temi trasversali su questioni come il ricambio generazionale e programmi e progetti condivisi.

Più in generale, io credo che il nostro mondo sia capace di autoriforma, senza dover aspettare sollecitazioni esterne: ad esempio, ora abbiamo una grande sfida sulla trasparenza. Viviamo in un momento culturale in cui si concepisce la cooperazione come un lusso, un costo, mentre è proprio il contrario: è un investimento, ma soprattutto un modo di stare al mondo. Però dobbiamo anche tener presente che alcuni episodi infelici hanno spinto diverse persone a non fidarsi più: «Quello che dono arriverà a chi ne ha bisogno?», si e ci chiedono. Per questo bisogna essere sempre più trasparenti, anche al di là di quello che la legge ci richiede.

C’è poi il delicato tema della nostra comunicazione, che non sempre è efficace. Troppo spesso siamo chiamati a raccontare la drammaticità delle cose e penso che invece dovremmo raccontare con altrettanta intensità la speranza che vediamo. Anche perché il racconto di questa speranza rafforza anche chi ascolta.

Di tavoli, gruppi di lavoro, incontri vari, se ne sono fatti tanti, negli anni: che cosa ti fa pensare che quelli che state avviando ora in Focsiv possano portare risultati? E, più in generale, che cosa può dare maggiore efficacia al lavoro delle reti della cooperazione?

In questo momento, complice anche la pandemia, io avverto una forte consapevolezza del fatto che da soli non si va da nessuna parte. La cifra del nostro tempo è forse la fatica di vedersi nel futuro, che per la prima volta nella storia dell’umanità ci fa paura, mentre prima era il tempo in cui si proiettavano sogni e speranze. Ecco, forse il pensarsi insieme agli altri è l’unico antidoto alla paura.

Questo stare insieme richiede al tempo stesso coerenza – se stai in una rete che ti rappresenta devi cedere un minimo di autonomia – ma anche la capacità di andare oltre le reti: il Terzo settore ha bisogno di sentirsi una cosa sola, di non limitarsi a un approccio strumentale – «quanto mi serve quella Federazione e i servizi che mi offre?» – e di esprimere un potenziale politico che c’è ma che ora non sta ancora emergendo in tutta la sua forza.

Altro punto è quello dei tanti temi e fronti su cui si lavora: migrazione, diritti umani e multinazionali, giustizia climatica. Forse focalizzarsi su un tema, o almeno darsi delle priorità, aiuterebbe a essere più incisivi.

Te lo dico con una battuta: dobbiamo passare dal paradigma «tema – svolgimento», al paradigma «problema – soluzione». Approfondimenti e ricerche sono fondamentali e ne abbiamo sempre bisogno, ma dobbiamo essere ancora più concreti e puntuali nella nostra capacità di porre questioni alla politica, altrimenti rischiamo di far parte di quello che Greta Thunberg ha chiamato il blablà.

Parliamo di progetti: che cosa ne pensi della contrapposizione grandi progetti burocratizzati ma capaci di raggiungere tante persone e di avere effetti strutturali versus micro e medi progetti, come quelli portati avanti dalle Ong missionarie, più vicini – forse – alla gente, ma a volte più simili a un rimedio temporaneo e limitato?

Toglierei il versus. Bisogna accettare che le forme della cooperazione sono tante e che la loro efficacia non si misura solo dalla grandezza o dal numero di beneficiari coinvolti. In Focsiv ci sono sia associazioni di volontariato puro, senza dipendenti, che sostengono piccole opere di singoli missionari, sia Ong strutturate che lavorano su grandi progetti istituzionali, e questa, secondo me, è una grande ricchezza.

Certo, so che c’è un dibattito nel mondo della cooperazione in cui una parte sostiene che il troppo piccolo non ha senso, ma io convintamente dissento: spesso anche il piccolo dà risposte dove non ce ne sarebbero altre, io in questo già vedo un senso. Il denaro pubblico è sacro, e un’organizzazione deve dimostrare di avere la struttura e le competenze per gestirlo, ma non è la grandezza che fa la differenza. L’indicatore più importante è quello più volte citato da papa Francesco: dobbiamo incidere sulle cause. Anche un’azione che a noi sembra minuta a volte ha la capacità di entrare in un sistema e cambiarlo.

Ci descrivi in due parole la campagna 070, che mira a far pressione per portare allo 0,70% del Pil la quota di risorse per la cooperazione?

È una campagna sostenuta insieme da Aoi (Associazione Ong italiane), Cini (Coordinamento italiano Ngo internazionali), Link2007 (Organizzazione di coordinamento tra 14 Ong) e Focsiv, e vede quindi le rappresentanze unite nell’interloquire con il governo. L’obiettivo immediato, lo scorso autunno, era quello di far sentire la nostra voce nelle settimane della discussione sulla legge di bilancio.

Il secondo obbiettivo è quello di avanzare una proposta di legge che vincoli l’Italia al raggiungimento dell’obiettivo dello 0,70% del Pil per la cooperazione entro quattro, cinque anni: finché non c’è una legge, la cooperazione rischia di rimanere la Cenerentola nella destinazione di fondi pubblici. Ora siamo allo 0,22%; indicativamente, per arrivare almeno allo 0,40% servirebbero 2,3 o 2,4 miliardi di euro.

La campagna ha l’obiettivo di parlare alla politica ma anche alla gente: non si limiterà ad attività di lobbying e advocacy verso le istituzioni, ma cercherà di attivare le comunità locali, coinvolgendo organismi di cooperazione internazionale, i centri missionari, le Caritas, i gruppi di lavoro dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS) e del Terzo settore.

Questo significherà confrontarsi con quella comunicazione e quelle posizioni culturali e politiche che ci sono ostili, rispondere nelle piazze e nei dibattiti a chi ti dice «prima gli italiani».

Si è chiusa lo scorso 13 novembre la Cop26. Che giudizio dai sull’accordo di Glasgow?

C’è un po’ di delusione sui risultati, ma ci rendiamo conto di quanto sia difficile trovare una convergenza su punti di vista e interessi così diversi.

Va preso atto del fatto che si sono finalmente chiamate le cose con il loro nome: ad esempio riconoscere in modo esplicito che le fonti fossili sono una delle cause principali del cambiamento climatico è un passo in avanti. Inoltre, la distensione climatica fra Usa e Cina è un elemento positivo, così come lo è tutto quello che apre il dialogo rispetto alla chiusura di prima.

Mi auguro che la citrica ai risultati non si traduca in un ulteriore indebolimento del sistema delle Nazioni Unite e che la società civile, e i giovani in particolare, continuino a fare pressioni paese per paese, perché al di là dell’accordo sono le azioni che ogni singolo paese intraprende a poter fare la differenza.

Ecco, i giovani. Tu sei nella cooperazione da oltre vent’anni con Progettomondo: come sono cambiati i giovani che vogliono lavorare in questo ambito? E come li accoglie, che cosa offre loro il mondo della cooperazione, oggi?

Il nostro settore esercita una forte attrattiva sui giovani. Credo che oggi più che mai ci sia bisogno di dare loro risposte personalizzate, senza mai generalizzare: ci sono giovani con un approccio incentrato sull’esperienza in sé, per cui ne fanno una e passano subito alla successiva; altri che hanno già in mente un loro percorso e sanno che il loro lavoro con noi non è che una tappa; altri ancora che si affidano a noi e che partono, si lasciano mettere in discussione e poi si “innamorano” dell’organizzazione e rimangono. Noi dobbiamo cercare di essere rispettosi di tutti questi approcci ed è una nostra responsabilità fornire loro un’esperienza strutturata e seguita.

C’è evidentemente una questione di ricambio generazionale e io credo che vada migliorato il dialogo intergenerazionale nelle nostre organizzazioni: se gli adulti sostengono di averle provate tutte per convincere i ragazzi a restare e i giovani oppongono che però mancano gli spazi per inserirsi davvero, specialmente in termini lavorativi concreti, è chiaro che qualcosa non sta funzionando. Dobbiamo, da un lato, accompagnare questi ragazzi a capire il valore dell’organizzazione e del volontariato e, dall’altro, essere disposti a farci mettere in discussione da loro.

Chiara Giovetti




Missione AMO, quattro ruote per servire

Progetto sostenuto dagli Amici Missioni Consolata


Aiuto migranti Oujda

Esteso poco meno di mezzo milione di chilometri quadrati (una volta e mezzo l’Italia, ndr.), il Marocco è un paese montagnoso al Nord e desertico al Sud. La popolazione conta circa 37 milioni di abitanti, dei quali il 58% vive nelle città. Rabat, capitale politica, e Casablanca, capitale economica, sono le due più importanti. Le lingue ufficiali del paese sono l’arabo, il berbero e il francese.

L’economia è fondamentalmente agricola e di allevamento, ma il paese dispone anche di importanti miniere di argento, fosfato, piombo e zinco, e oggi ha un’industria turistica fiorente.

La religione dominante è l’Islam. La presenza cristiana è minima, anche se ha origini antichissime risalenti al terzo secolo d.C.

Oggi il paese conta due diocesi, Rabat e Tangeri, 35 parrocchie e 50 sacerdoti residenti.

Il paese è stato visitato da papa Francesco nel marzo del 2019 e in quello stesso anno, a ottobre, il vescovo Cristóbal López Romero, arcivescovo di Rabat, è stato nominato cardinale.

Il numero totale dei cristiani è comunque molto esiguo, circa 25mila in tutto, e tra le comunità cristiane che vivono oggi in Marocco, si possono censire quasi novanta nazionalità, soprattutto studenti che provengono in gran parte da altri paesi dell’Africa subsahariana.

Dormitorio accanto alla chiesa di Oujda, Marocco

Crocevia di migranti

Il Marocco che nella seconda metà del Novecento ha esportato circa cinque milioni di emigrati, soprattutto verso i paesi industrializzati dell’Europa, oggi, con l’economia in forte crescita (almeno fino allo scoppio del

Covid), è diventato punto di attrazione e transito per migranti provenienti dall’Africa subsahariana.

Questo perché la fascia del Sahel, regione con radici antichissime e un tempo agognata da mercanti e viaggiatori, è ora un territorio complesso. Tutti i numerosi paesi che vi si affacciano, Senegal, Mali, Burkina Faso,
Niger, Ciad, Sudan e altri, infatti, si trovano in una situazione di grande precarietà a causa della crisi ambientale che provoca desertificazione e grave impoverimento.

Tutta l’area, poi, è anche uno snodo della politica internazionale sommersa. Qui avviene il traffico dei nuovi schiavi verso l’Europa, il commercio illecito di armi e droga, il terrorismo. Il tutto aggravato da cattivi governi e corruzione che impediscono lo sviluppo economico e, quindi, le misure per combattere il terrorismo jihadista che fa leva sulla povertà per reclutare nuovi seguaci.

Da anni si susseguono irruzioni nei villaggi, massacri e reclutamenti forzati di giovani. Questi sono costretti a diventare terroristi o a fuggire, e il Marocco è una delle vie di fuga preferite, perché più sicuro della Libia.

I Missionari della Consolata a Oujda

Entrata ufficiale del Missionari della Consolata nella parrocchia di St Louis a Oujda – La Messa è stata presieduta da S.E. Cristobal card. Lopez Romero, arcivescovo di Rabat

Negli ultimi anni, i Missionari della Consolata in Spagna hanno cercato un maggiore impegno nell’opera di accoglienza degli immigrati, la quale è un’opzione ad gentes della congregazione in Europa. Così hanno aperto una comunità a Oujda su invito del cardinale Cristóbal López.

Lo scopo della missione è di accogliere i migranti in questa città che si trova all’estremo Est del paese, a circa 15 km dal confine con l’Algeria, e a 60 km a Sud del Mar Mediterraneo.

Oujda è un luogo di transito per molte persone provenienti dai paesi dell’Africa subsahariana che vogliono raggiungere l’Europa. Qui vi arrivano dopo aver attraversato il deserto e sofferto molte difficoltà.

Nella parrocchia di Saint Louis, già cattedrale al tempo del protettorato francese, chiesa enorme per una settantina di cristiani, quasi tutti di origini subsahariane, nel 2020 è arrivato padre Edwin Osaleh, keniano,
e nel 2021 padre Francesco Giuliani, in attesa che un terzo missionario riesca a ottenere tutti i necessari permessi per stabilirsi con loro e completare la comunità.

Dal 26 settembre 2021, giorno in cui la Chiesa ha celebrato la Giornata mondiale dei migranti e dei rifugiati, la parrocchia di Saint Louis è stata consegnata alla piena responsabilità dei  Missionari della Consolata.

L’impegno con i migranti

Padre Edwin sintetizza in quattro verbi l’impegno con i migranti: accogliere, proteggere, promuovere e integrare.

ACCOGLIERE significa innanzitutto offrire a migranti e rifugiati possibilità più ampie di ingresso sicuro e legale nei paesi di destinazione. Questo impegno comune è necessario per non accordare nuovi spazi ai mercanti di carne umana che speculano sui sogni e i bisogni dei migranti.

PROTEGGERE vuole dire assicurare la difesa dei diritti e della dignità dei migranti e dei rifugiati, indipendentemente dal loro status migratorio. Guardando la realtà di questa regione, la protezione va assicurata anzitutto lungo le vie migratorie, che sono spesso, purtroppo, teatri di violenza, sfruttamento e abusi di ogni genere.

PROMUOVERE significa assicurare a tutti, migranti e locali, la possibilità di trovare un ambiente sicuro dove realizzarsi integralmente. Tale promozione comincia con il riconoscimento che nessuno è uno scarto umano, ma è portatore di una ricchezza personale, culturale e professionale che può recare molto valore là dove si trova. Ma non dimentichiamo che la promozione umana dei migranti e delle loro famiglie inizia anche dalle comunità di origine, là dove deve essere garantito, insieme al diritto di emigrare, anche quello di non essere costretti a emigrare, cioè il diritto di trovare in patria condizioni che permettano una vita degna.

INTEGRARE vuole dire impegnarsi in un processo che valorizzi al tempo stesso il patrimonio culturale della comunità che accoglie e quello dei migranti, costruendo così una società interculturale e aperta. Sappiamo che non è facile entrare in una cultura che ci è estranea – tanto per chi arriva, quanto per chi accoglie -, metterci nei panni di persone diverse da noi, comprendere i loro pensieri e le loro esperienze. Così, spesso, rinunciamo all’incontro con l’altro e innalziamo barriere per difenderci.

Quattro verbi che qualificano la «Missione Amo» (Aiuto migranti Oujda).

Amc – Gigi Anataloni

Nella sala dove i migranti apprendono la lingua (lezione di francese) a Oujda

«Quattro ruote per… »

Gli Amici Missioni Consolata (Amc) si impegnano ad aiutare la «Missione Amo» provvedendo un mezzo essenziale per il servizio: un furgone multiuso, un Renault express intens, dal costo pari a 16.500 euro.

Il furgone verrà utilizzato per

  • recuperare i migranti che giungono nella zona malati, affamati ed esausti, e portarli al Centro di accoglienza della parrocchia, ai centri sanitari o al pronto soccorso per le cure necessarie;
  • trasportare e distribuire prodotti alimentari, per l’igiene o di protezione individuale, sia per il fabbisogno del Centro che per individui in necessità in varie parti della città;
  • accompagnare i migranti ai centri di formazione professionale e ogni altro bisogno prevedibile o imprevedibile.

***

È possibile sostenere questo progetto visitando il «Punto missioni Consolata» di fronte al Santuario della Consolata a Torino o inviando offerte per «AMC progetto 4 ruote per servire» utilizzando i dati trovati a questo link.


Leggi il testo completo che illustra le attività di MCO nella pagina di Cooperando 2021, un anno di progetti, nonostante la pandemia

 

 




Cari Missionari. Grazie ai lettori di MC

Lettere di Grazie ai lettori |


Mi chiamo Ludovico

Sono un missionario della Consolata di 33 anni di Mesagne, una cittadina in provincia di Brindisi nella regione Puglia. Desidero condividere la mia esperienza di missione riassumendo il cammino che ho fatto finora.

Due le mie esperienze forti: una in Argentina, a Martin Coronado (Buenos Aires) dove ho fatto il noviziato, e l’altra in Kenya, a Nairobi, dove mi trovo in questo momento a studiare teologia.

Argentina e Kenya, come potrete benissimo immaginare, sono due realtà molto diverse. L’esperienza in America Latina ha cambiato la mia fede e scalzato tutto ciò in cui avevo posto le mie certezze, mettendomi davanti agli occhi la realtà della vita e facendomi capire che il mondo è molto diverso da come lo immaginiamo e non è solo quello che viviamo ogni giorno nelle nostre comodità. La missione però non ti presenta solo difficoltà, ti regala anche tante emozioni, poiché la condivisione con la gente è il primo fine di noi missionari; non costruire chiese, scuole! Anche questo è ovvio, ma prima di tutto viene la persona, l’ascolto.

Potrete ben immaginare come abbia sofferto il fatto di dover lasciare l’Argentina, una terra fantastica, una gente super accogliente…

Dopo il noviziato i miei superiori mi hanno detto che sarei dovuto venire qui in Africa. Non è stato facile. Per niente. Cultura, cibo, abitudini, modo di pensare e di affrontare i problemi, tutto è diverso. È tutto un altro mondo. Ho dovuto rivedere (e sto ancora rivedendo) la mia fede. Una fede che non trova pace poiché qui si sperimenta facilmente «l’abbandono di Dio».

Già, non mi vergogno a dirlo. A volte con Lui faccio a cazzotti. Ci sono situazioni qui che non sono facilmente giustificabili solo dicendo: «Dio è con noi». No. Qui c’è veramente da affrontare la realtà, ogni giorno, rimboccandosi le maniche e dando il massimo, a volte anche andando oltre le tue forze.

Però l’Africa è bellissima. Essa mi ha insegnato a non essere ansioso, ad affrontare i problemi con serenità, che i fallimenti fanno parte della vita ma non sono essi a determinarla o ad avere l’ultima parola.

Ho vissuto la mia seconda Pasqua qui in Kenya, quest’anno con tanta nostalgia della mia terra. Ma essere missionari porta a delle rinunce, a lasciare la famiglia, gli affetti più cari, seguendo quella voce da cui senti che dovrai prima o poi davvero lasciarti guidare.

Forse non sono esaustivo con queste parole, ma non è facile raccontare «la missione». Bisogna viverla. Quindi il mio è un invito affinché ognuno di voi coltivi prima in se stesso, e poi seminandole intorno, la gioia e la bellezza della missione. È tempo di andare, di uscire da se stessi. È tempo di incontrare. È tempo di amare.

Un abbraccio a tutti e grazie ancora per questa opportunità! Dio vi benedica!

Ludovico Tenore,
Nairobi 06/05/2018

Grazie e ancora Grazie

Dalla Costa d’Avorio

Mi chiamo Philippe. Nel 2002 mi avevano preso per un corso di formazione nel complesso di zuccherifici di Borotou-Koro, qui in Costa d’Avorio. Era la mia possibilità di essere poi assunto in pianta stabile. Ma lo scoppio della guerra nel settembre 2002 ha bloccato tutte queste speranze. Sono tornato allora a lavorare nei campi per nutrire mia madre, mia sorella e il mio fratellino. In quel periodo non ero ancora sposato e non avevo figli. Sono stati tempi duri. Poi la mia vita è cambiata. Nel 2007 i missionari di Dianra mi hanno mandato a studiare a Korhogo, nel Nord del paese, come ausiliario nella sanità, e ho lasciato mia sorella e mio fratello – ormai cresciuti – a occuparsi dei campi. Il corso è durato tre anni e sono stato promosso a pieni voti, il primo del mio gruppo. A Dianra avevano appena inaugurato il centro sanitario Joseph Allamano e con Alice e Suzanne sono stato il primo a lavorarvi. È un servizio che mi riempie di gioia e soddisfazione perché aiutiamo la gente del nostro villaggio e posso mantenere bene la mia famiglia con i miei tre bambini.

Grazie ai missionari e ai loro amici per quanto hanno fatto per me e per la gente di Dianra.

Philippe da Dianra

Mi chiamo Suzanne Soro Gnimin. Nell’anno scolastico 2006-2007, mentre mi stavo preparando per l’esame di licenza media, i missionari della Consolata mi hanno offerto di fare un corso di formazione sanitaria perché stavano progettando di costruire un centro di salute. Ho accettato la loro proposta e nel settembre 2007 sono andata a Korhogo in un centro di formazione professionale dove ho studiato per 3 anni. Nel 2010 ho preso il Diploma Cap (Certificat d’Aptitude Professionnelle). I missionari della Consolata mi hanno assunto nel loro nuovo centro sanitario dove lavoro ancora oggi. Al momento sono felice perché, grazie a questo lavoro, posso prendermi cura di me stessa, dei miei figli e della mia famiglia. Dico un grande grazie e mi sento molto grata per tutto ciò che ho ricevuto grazie al loro sostegno. Prego che il Signore, che li ha scelti per la sua missione, li protegga e dia loro sempre coraggio e saggezza per aiutare altri come me.

Suzanne da Dianra

Grazie dall’Argentina

Buon giorno a tutti i fratelli. Sono Juan de Dios López, cacique della comunità Territori Originari Wichi. Ringrazio lo sforzo di tutta la Chiesa, nella persona del fratello José (padre Giuseppe Auletta, ndr), che ha potuto condividere con noi la sua vita, dato che è difficile capire persone come noi. Ci siamo rivolti alla Chiesa, e la Chiesa, provvedendo i materiali, ha collaborato con il nostro progetto di allacciamento alla conduttura dell’acqua. Noi abbiamo messo il nostro lavoro scavando un fossato di quasi tre chilometri. Il lavoro, durato parecchio tempo, ha prodotto un miglioramento notevole del benessere della comunità. Questa è molto contenta e soddisfatta, dato che la Chiesa è stata l’unico attore presente nella nostra difficile situazione. La comunità, poco a poco, ha migliorato le sue condizioni riguardo alla semina, alla riforestazione e all’orticoltura. La comunità finalmente ha l’acqua, risultato anche di un impegno comune.

[Prima, per soddisfare il bisogno di acqua,] dovevamo camminare circa tre chilometri, fare tanto sacrificio e, inoltre, dovevamo trattare con i vicini che ci limitavano l’acqua, e la cosa si rendeva molto pesante. Tuttavia, grazie al fratello José e al nostro sforzo ora abbiamo l’acqua, possiamo lavorare e migliorare.

Ci siamo organizzati nella comunità per lo scavo del fossato e abbiamo dovuto tralasciare le nostre attività abituali per poter avere l’accesso all’acqua e allacciare i tubi di irrigazione alla rete principale. Con questo sforzo la comunità ha potuto recuperare la vita degli alberi. Consideriamo importante non sprecare l’acqua, così come l’ombra che ci danno gli alberi. La comunità può recuperare specie originali come il quebracho, il lapacho, il palo amarillo, il yuchán, l’algarrobo e tutto ciò che ha a che vedere con il rimboschimento ancestrale. Abbiamo avuto formazione adeguata al riguardo. Perciò siamo veramente grati alla Chiesa, attraverso il fratello José e quanti stanno collaborando alla questione indigena. Senz’altro, la comunità continuerà con la propria organizzazione e miglioramento, con la fedeltà alle nostre usanze ancestrali, chiedendo che i fratelli comprendano che abbiamo bisogno di molte cose, mentre noi ci sforziamo di far tutto con spirito comunitario, per migliorare ed essere parte del mondo che ci circonda.

In nome di tutta la comunità desideriamo far arrivare un abbraccio a quanti hanno collaborato al nostro progetto.

Cacique Juan de Dios López
Tartagal, Salta, Argentina

Grazie dalla Colombia: «Un ranchito para mi gente»

Raquel Cerityama davanti alla sua casetta costruita con l’aiuto delal missione

Emerita Zafirakudo e figli davanti alla casetta costruita con laiuto della missione e con padre Gabriel Armando

Nella parrocchia del Sacro Cuore di Gesù de La Tagua sul rio Putumayo in Colombia opera un gruppo Caritas che, tra i vari progetti, ha anche quello di costruire delle casette per persone povere. Con questo progetto, «un ranchito para mi gente», finora siamo riusciti a costruire due casette di legno: una a Raquel Cerityama, un’anziana di 75 anni, e un’altra per Emerita Zafirakudo, una madre con 7 figli. Il gruppo Caritas ha aiutato anche a completare le case di un’anziana di 81 anni e di una famiglia con 10 figli. Per realizzare questi «ranchitos» la comunità integra gli aiuti che arrivano tramite amici e benefattori, anche dall’Italia, con una serie di iniziative locali per stimolare la solidarietà con offerte di materiale o di cibo. Facciamo anche delle piccole lotterie (niente di super: qualche pollo e un po’ di bibite in premio!). Per la costruzione si fa poi una «minga» (lavoro comunitario), che si conclude naturalmente con un bel pranzo tutti insieme. Da Raquel ed Emerita e i suoi 7 figli, il grazie più sincero anche a nome degli altri poveri di La Tagua.

Padre Gabriel Armando,
La Tagua, Putumayo, Colombia

 




Protezione dell’ambiente: urgenza, non lusso

Presentazione di microprogetti MCO sull’ambiente di Chiara Giovetti |


Alcuni microprogetti del 2017 di Missioni Consolata Onlus hanno avuto come tema la protezione e la salvaguardia dell’ambiente. Ve ne raccontiamo due: uno nella Colombia che faticosamente cerca di liberarsi dal conflitto, e uno in Costa d’Avorio che, come molti paesi africani, ha dichiarato guerra ai sacchetti di plastica.

Buenaventura, un porto fatto città

Buenaventura è una città di 390mila abitanti sulla costa occidentale della Colombia. Il suo porto, uno dei principali del paese, genera un terzo delle tasse doganali complessive, cioè oltre 2 miliardi di dollari su un totale di 6,7@ e ha visto nel 2017 un milione di container movimentati.

Ma la ricchezza che il porto genera per le casse nazionali non torna a Buenaventura sotto forma di servizi per i cittadini e la città è una delle più povere del paese. Nel 2014 Bbc Mundo l’ha descritta come la «nuova capitale colombiana dell’orrore». L’allora vescovo di Buenaventura, monsignor Hernán Epalza, ha raccontato all’emittente britannica: «È come se tutta la cattiveria della Colombia si fosse concentrata qui». L’articolo della Bbc descriveva una realtà in balia di gruppi armati paramilitari che si contendevano il controllo del narcotraffico e del contrabbando in un conflitto caratterizzato da episodi di violenza particolarmente efferata.

Nelle parole di Jaime Alves, ricercatore presso l’Universidad Ices de Cali e assistente di antropologia alla City University di New York, «in questo regime macabro la popolazione nera diventa materia prima non solo per il narcotraffico – che considera Buenaventura una rotta internazionale strategica e i giovani afro come manodopera usa-e-getta -, ma anche per la “guerra al sottosviluppo” del governo, per il quale la presenza nera in aree strategiche è un ostacolo da rimuovere»@. Nel maggio dell’anno scorso la società civile estenuata, stremata dal conflitto e dall’indifferenza che il governo mostrava nei confronti della situazione di Buenaventura, ha deciso di prendere posizione con il paro civico (sciopero civico)@.

Dopo ventuno giorni di proteste (e di blocco delle attività portuali, con i conseguenti danni economici), i leader del paro civico e il governo arrivarono a un accordo che prevedeva investimenti per realizzare opere prioritarie fra cui acquedotti, reti fognarie, unità di terapia intensiva della Ciudadela hospitalaria (cittadella ospedaliera).

A oggi, la situazione (circa l’ambiente) non si può dire significativamente migliorata. Come riferisce il presidente della Camera di commercio locale, Alexánder Micolta, al quotidiano El Tiempo, l’acqua è disponibile mediamente sette ore al giorno. La sicurezza «è migliorata, ma ci sono ancora bande criminali che continuano a far sparire le persone, anche se non si sente più parlare di casas de pique, le case dove le vittime del conflitto venivano letteralmente fatte a pezzi per farle sparire, e gli omicidi sono diminuiti»@.

È poi dello scorso febbraio la notizia dell’uccisione di Temístocles Machado Rentería, uno dei leader del paro civico, mentre gli altri leader ricevono continue minacce di morte@.

Il lavoro dei missionari per l’ambiente a Buenaventura

A Buenaventura i missionari della Consolata sono presenti dal 2016, in quella che nel 2017 è diventata la parrocchia di san Martín de Porres. Padre Lawrence Ssimbwa, ugandese, classe 1982, è il missionario responsabile delle attività. Riportando dati citati dal Cric – Consiglio Regionale Indigeno del Cauca -, padre Lawrence l’anno scorso scriveva: «La realtà di Buenaventura richiede un intervento immediato da parte dello stato. L’indice di disoccupazione è del 62% e il lavoro informale arriva al 90,3%, quello della povertà al 91% nelle zone rurali e al 64% in quelle urbane. (…) Di 407.539 abitanti, 162.512 sono vittime del conflitto armato».

Il corso di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente e le attività di pulizia del quartiere rientrano in una più ampia iniziativa di mobilitazione comunitaria che padre Lawrence sta portando avanti in parrocchia e che comprende anche, tra gli altri, corsi di formazione su diritti umani, identità culturale, arti e mestieri.

«Nei laboratori che abbiamo organizzato», scrive padre Lawrence, «abbiamo sensibilizzato circa 40 adulti, 60 bambini e una ventina di giovani, che hanno approfondito e discusso i problemi che si creano a causa dell’immondizia depositata nelle fognature e nei fiumi e dei roghi di pneumatici, fenomeni purtroppo frequenti nel quartiere».

Si sono poi realizzate quattro giornate di pulizia del quartiere e il risultato di questa attività è stato che alcuni membri della comunità si sono impegnati a organizzare mensilmente giornate di questo tipo (in favore dell’ambiente) per mantenere pulite le strade e le case in cui vivono.

Costa d’Avorio, la guerra contro la plastica

Dal 2013 in Costa d’Avorio (per proteggere l’ambiente, ndr) è vietato produrre, importare, commercializzare, detenere o utilizzare sacchetti di plastica che non siano biodegradabili. Il provvedimento, però, ha faticato e fatica parecchio a essere applicato. Una semplice visita al mercato di Abidjan, riportava Radio France International nel luglio 2017, mostrava chiaramente che la legge sulle buste di plastica era rimasta lettera morta, o quasi. «Sono i clienti che ci chiedono i sacchetti, vanno via come il pane!», spiegava una commerciante intervistata dall’emittente radiofonica francese. Riponendo la merce dentro buste biodegradabili, la signora commentava: «Sono i sacchetti di prima, salvo che sopra c’è scritto “biodegradabile”. Non c’è nulla per rimpiazzarli, eppure vogliono che smettiamo di usarli»@.

Nel marzo dell’anno scorso il governo è passato alle maniere forti, con il ministro della Salubrità, dell’Ambiente e dello Sviluppo sostenibile, signora Anne Désirée Ouloto, che ha accompagnato le forze dell’ordine nei controlli a sorpresa presso le aziende che ancora producono le buste incriminate. Durante le perquisizioni, riporta il sito abidjan.net, il ministro e il suo seguito hanno trovato due fabbriche clandestine di sacchetti di acqua (usati invece delle bottiglie), una con allacciamento abusivo alla rete idrica pubblica e l’altra dissimulata dall’insegna «Livia Couture» per far pensare a una sartoria@.

Quello dei sacchetti di plastica è solo uno dei problemi ambientali che la Costa d’Avorio deve affrontare. Il rapporto dell’agenzia delle Nazioni Unite per l’ambiente del 2015, Côte d’Ivoire – Évaluation environnementale post-conflit, ha individuato alcuni ambiti ai quali occorre prestare particolare attenzione, e cioè le foreste, il cui livello di degradazione è definito «grave», la laguna di Ébrié, vicino alla capitale economica Abidjan, i rischi legati all’espansione urbana non pianificata, l’impatto ambientale dello sfruttamento minerario industriale e artigianale e il rischio di sversamento di idrocarburi sul litorale ivoriano@.

«Una delle attività che svolgiamo con i giovani e i bambini durante la semaine de la jeunesse (settimana dei giovani) qui a San Pedro», racconta padre Ramón Lázaro Esnaola, superiore dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio, «è proprio quella della pulizia delle strade». Nel popoloso quartiere nel quale i missionari lavorano – abitato soprattutto da operai del porto, piccoli commercianti e contadini – le vie a lato della strada principale asfaltata sono sterrate e sabbiose e mancano delle canalette di drenaggio che permettono all’acqua piovana di defluire. E quando ci sono, i sacchetti, le bottiglie e altra immondizia, prevalentemente di plastica, non di rado finiscono per intasarle del tutto.

Proteggere l’ambiente a Dianrà

Il progetto di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente del 2017 però non si è svolto a San Pedro, bensì a Dianra, nel Nord del paese, dove la comunità Imc gestisce, fra l’altro, un centro di salute, un programma di alfabetizzazione degli adulti e un progetto di apicoltura. «Da qualche anno», scrivono i padri Raphael Ndirangu e Matteo Pettinari, «la nostra missione dispone di un terreno sul quale intendevamo creare uno spazio verde accogliente e ricco di vegetazione all’interno del villaggio. Fino ad oggi non abbiamo potuto concretizzare l’idea perché lo spazio non era protetto e ogni tentativo di piantare alberi è andato perduto a causa della libera circolazione di capre, buoi e anche persone. Queste ultime, non vedendo una valorizzazione effettiva del terreno, se ne sono a più riprese “appropriate” per le loro più diverse esigenze. Di fatto, a volte il nostro spazio è diventato anche una discarica a cielo aperto, invaso in particolar modo da rifiuti di plastica».

Con la prima fase del progetto «Proteggiamo il nostro spazio verde» è stato possibile ripulire, livellare e recintare il terreno. I passi successivi saranno quelli della piantumazione di alberi da frutto e piante ornamentali, della predisposizione di un campo da calcio, della installazione di panchine, altalene, scivoli e altri giochi.

«La nostra», aggiunge padre Matteo, «è una zona di frontiera fra il deserto che avanza e la foresta che scompare. Quest’anno ad aprile la gente si trovava in difficoltà già da un mese per mancanza di acqua: pozzi che erano stati sinora una riserva d’acqua abbastanza sicura, ora sono secchi, la stagione delle piogge si riduce e i raccolti ne risultano danneggiati». Ecco allora, conclude il missionario, che il Nord della Costa d’Avorio può essere una zona strategica per sensibilizzare e possibilmente reagire a questi cambiamenti. Un progetto come quello di Dianra, per quanto piccolo, può accompagnare la comunità nel prendere coscienza e nel cercare soluzioni.

Non si tratta del primo tentativo di creare uno spazio di questo tipo nelle missioni Imc in Costa d’Avorio: a fare da apripista è stato il Jardin de l’Amitié (Giardino dell’Amicizia). Situato poco fuori dal villaggio di Marandallah – un paio d’ore di pista a Sud Est di Dianra – il giardino è stato a poco a poco creato grazie al lavoro di padre João Nascimento con la comunità. È diventato non solo un’occasione di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente ma anche uno spazio ricco di angoli quieti in mezzo al verde per la riflessione, la preghiera e il riposo. Molte manifestazioni comunitarie si sono svolte presso il Giardino dell’Amicizia, che si è rivelato un utile strumento per quel dialogo interreligioso che è elemento caratterizzante del lavoro dei missionari in questa zona del paese, dove il 72% della popolazione è musulmano, il 25% pratica le religioni tradizionali, mentre le diverse denominazioni cristiane si dividono il restante tre per cento.

Chiara Giovetti

Clôture di Dianrà per parco giochi e riforrestazione




Cooperazione progetti micro


Micro progetti per grandi problemi. Cibo, scuola, sanità, acqua, diritti. Sono molti i nostri missionari che si spendono ogni giorno per costruire un mondo più vivibile, non solo annunciando la Parola, ma ponendo quotidianamente piccoli gesti di frateità verso i più piccoli e i più poveri. Ecco alcune attività significative in Africa e America Latina. Tutte, casualmente, sono portate avanti da missionari della Consolata africani.

Costa d’Avorio,
una cucina per la scuola di Blessoua

Durante la stagione delle piogge, nei villaggi della brousse (savana), le fragili costruzioni in terra e paglia faticano a resistere alle forti folate di vento e alle precipitazioni torrenziali. La cucina della scuola elementare di Blessoua, nella Costa d’Avorio meridionale, era una di queste casette precarie e risultava inservibile quando la pioggia si faceva troppo battente. Perciò l’ora del pranzo per i 423 bambini della scuola non poteva più essere mezzogiorno ma, molto più imprevedibilmente, l’ora in cui smetteva di piovere. Le conseguenze sulla didattica sono facili da immaginare, con i quindici maestri sempre a rischio di dover interrompere la lezione e gli alunni sempre meno concentrati e più stanchi per l’attesa del pasto. Per questo padre James Gichane, keniano di Nakuru, in missione a Blessoua, ha chiesto di poter costruire una cucina più solida che permetta al cuoco di lavorare in tranquillità e ad alunni e insegnanti di concentrarsi sulle lezioni. La scuola riunisce figli di ivoriani ma anche di togolesi, burkinabè e beninesi venuti in Costa d’Avorio per lavorare nelle piantagioni di cacao: la socializzazione fra questi bambini è un mattone basilare nelle fondamenta della pace che il paese sta costruendo dopo essere uscito da una guerra civile che si alimentava anche della manipolazione dell’odio fra ivoriani e stranieri.

Kenya,
energia pulita per la «meglio» scuola secondaria della Laikipia

Quasi cinquemila chilometri più a Sud Est, in un’altra scuola – stavolta secondaria – il responsabile padre David Mbgua ha invece potuto installare un sistema fotovoltaico alla Mary Mother of Grace Secondary School di Rumuruti nella contea di Laikipia, Kenya: il risparmio sulla bolletta della luce gli permetterà di liberare risorse da utilizzare per la didattica, di evitare i black out che impedivano ai ragazzi di studiare dopo il tramonto del sole e di alimentare la scuola con energia rinnovabile, tema questo tutt’altro che secondario in un paese che sta dibattendosi fra richiesta energetica sempre in crescita ed esigenza di sostenibilità ambiatele.

La Mary Mother of Grace fu aperta nel 1992 da padre Giuliano Gorini, recentemente scomparso. Ha 216 alunni e si trova in una zona abitata da pastori nomadi in costante movimento per seguire il bestiame, dove i casi di banditismo sono frequenti. Padre Gorini stesso, ricordava nel 2013 un articolo sul quotidiano Daily Nation, si è trovato più di una volta una carabina puntata in faccia mentre, sdraiato a terra, ascoltava i banditi chiedergli soldi. La scuola vanta uno dei migliori insegnati di fisica del Kenya secondo i risultati degli esami di maturità: le sue classi del 2009 e del 2013 hanno ottenuto 11,5 e 11,58 punti sul massimo di dodici del sistema di valutazione keniano. E non solo, la scuola che, come regola, accoglie ragazzi provenienti da famiglei povere, desiderosi di studiare, si piazza ogni anno tra le primissime di tutto il paese.

Tanzania,
a Pawaga contro i danni del clima impazzito

Se le piogge privavano i bambini ivoriani della loro mensa scolastica, in Tanzania non sono state da meno nel rendere dura la vita della gente di Pawaga, villaggio in un’area semi arida a un’ottantina di chilometri dalla città di Iringa, nel centro del paese: a febbraio di quest’anno le piogge, di solito scarse e brevi, sono state così abbondanti da provocare inondazioni e costringere centinaia di persone a sfollare mentre le loro proprietà sono state distrutte. Passate le piogge, l’acqua stagnante ha favorito il moltiplicarsi delle zanzare e i casi di malaria sono aumentati notevolmente rispetto alle medie locali. Per questo padre Vitalis Oyolo, missionario keniano e responsabile dei progetti in Tanzania, ha segnalato la necessità di acquistare e distribuire farmaci antimalarici e zanzariere in modo da contrastare l’espandersi dell’epidemia. A Itundundu, vicino Pawaga, i missionari gestiscono inoltre un dispensario che, grazie al supporto di un donatore statunitense, segue e cura circa 450 bambini malnutriti.

Congo RD,
acqua e salute a Neisu

L’acqua invece non è mai troppa quando si tratta di soddisfare le esigenze di una rete sanitaria come quella dell’ospedale Nôtre Dame de la Consolata di Neisu, nella Provincia Orientale della Repubblica Democratica del Congo, che serve circa settantamila pazienti e conta, oltre alla struttura principale, anche tredici centri e posti di salute, il più lontano dei quali si trova a sessantacinque chilometri dall’ospedale. L’ospedale è costantemente alle prese con situazioni al limite dell’emergenziale: lo scorso aprile David Bambilikpinga-Moke, missionario congolese rientrato in patria dopo anni di lavoro nell’Amazzonia brasiliana e ora responsabile dell’ospedale, scriveva: «In questo momento stiamo registrando una epidemia di malaria in cui la maggior parte dei pazienti sono bambini di meno di dieci anni (attualmente 183). È già la seconda volta in quattro mesi che ci troviamo di fronte a questa situazione».

I centri e posti sanitari hanno un ruolo fondamentale nel raggiungere pazienti che non potrebbero altrimenti affrontare lo spostamento fino all’ospedale. Per il loro corretto funzionamento l’acqua pulita è indispensabile e fra il 2010 e il 2012, grazie ai fondi dell’otto per mille della Tavola Valdese e della Water Right Foundation della Toscana, sei centri hanno potuto avere il loro pozzo, ma ne servono ancora sette per altrettanti centri o posti che ne sono sprovvisti. Due saranno finalmente realizzati entro la fine del 2016.

Brasile,
scuola di diritti a Serrinha

Quasi alla stessa altezza sull’Equatore rispetto a Neisu, ma sull’altra sponda dell’Atlantico, i problemi legati all’acqua e all’istruzione si intrecciano con la resistenza dei popoli indigeni contro chi li vuole, continua a volerli, cittadini di seconda categoria.

La scuola statale Índio Prurumã II si trova nella Terra indigena Raposa Serra do Sol, stato di Roraima, Brasile. È la scuola della comunità indigena Serrinha, conta 85 alunni, nove insegnati e richieste di iscrizione crescenti di anno in anno. Nonostante il riconoscimento pubblico della comunità e della scuola, lo stato non fornisce nessun sostegno concreto alle strutture e alla didattica: un triste espediente, questo, che svuota nei fatti i diritti dei popoli indigeni sanciti per legge. A far pressione sul governo statale in questa direzione sono i grandi latifondisti e gli altri potentati economici del Roraima, peraltro spesso familiari o membri loro stessi della classe politica locale, che vedono nella presenza degli indios semplicemente un fastidioso ostacolo alla possibilità di appropriarsi della terra.

Le scuola aveva solo quattro aule, tutte di fango, lamiera, pali e assi di legno e la comunità non disponeva di fonti d’acqua affidabili e igienicamente sicure. Fra la fine del 2015 e l’inizio del 2016, inoltre, un’ondata di siccità particolarmente forte aveva messo in difficoltà la popolazione locale, costretta a dipendere gioalmente dall’arrivo delle autobotti inviate dal municipio o a utilizzare fonti d’acqua di fortuna. I progetti in corso, seguiti dal missionario congolese Jean Tuluba, permetteranno di migliorare la struttura delle quattro aule e scavare un pozzo artesiano che serva la scuola e la comunità intorno.

Brasile,
a Maturuca agricoltura biologica e sanità

Maturuca è il cuore della lotta indigena a Raposa Serra do Sol: è lì che si trova la grande maloca comunitaria dove possono riunirsi fino a mille persone provenienti da tutta la regione per unire le forze e le idee nelle loro battaglie. È il luogo della promessa con cui nel 1977 i tuxaua (capi delle comunità) cominciarono la lotta all’alcolismo che fiaccava la determinazione delle loro comunità a opporsi a chi voleva spazzarli via; è stata il punto nevralgico della campagna Indios Roraima del 1988-89 e del progetto ad essa legato, «Una mucca per l’indio», che ha permesso a Raposa Serra do Sol di passare da poche vacche a 42 mila capi di bestiame.

Oggi Raposa si trova a dover consolidare e rafforzare questi risultati per lottare contro la tentazione per i più giovani di spostarsi in città, e per puntare a una sempre maggiore autonomia economica di un’area che rimane isolata e, negli ultimi anni, esposta a cambiamenti climatici che hanno ridotto le piogge e reso più difficile l’agricoltura. A questa sfida cerca di rispondere il progetto di padre Philip Njoroge Njuma, missionario keniano in forza a Maturuca. Il progetto, che si chiama Terra Madre, vuole offrire ai giovani una scuola di formazione all’agricoltura biologica per autoconsumo e vendita e creare un efficiente sistema di irrigazione che permetta di coltivare contando sull’acqua. A questo si affianca poi un altro progetto che permetterà di aprire tre centri sanitari: diverse comunità hanno già provveduto in autonomia alla costruzione del proprio centro ma ci sono ancora aree non raggiunte dai necessari servizi di tutela della salute.

Colombia,
il teatro degli oppressi a Cali

Sempre a minoranze e gruppi vulnerabili è rivolto il progetto «Teatro degli oppressi» che si realizza a Cali, grande città della Colombia occidentale. Qui il keniano padre Venanzio Mwangi Munyiri sta lavorando da anni con i giovani discendenti degli schiavi deportati dall’Africa a partire dalla fine del XVI secolo. La popolazione afro-colombiana ha subito da sempre discriminazioni molto simili a quelle patite dalle popolazioni indigene, alle quali si sommano oggi, in città come Cali, i problemi tipici delle periferie urbane coi le loro sacche di marginalizzazione e povertà.

Questo insieme di condizioni, spiega padre Venanzio, ha indotto negli afro-discendenti un senso di impotenza e rassegnazione alla subalteità che li spinge a ripiegare su metodi di sostentamento degradanti e li espone al reclutamento da parte delle organizzazioni criminali.

Il progetto di sei mesi, a cui contribuiscono anche le amministrazioni locali, prevede una fase di sensibilizzazione delle comunità, la formazione degli animatori e un programma didattico che valorizzzando il teatro aiuti i partecipanti a riscoprire e apprezzare la propria identità e cultura e quella degli altri al fine di crescere nell’accettazione e nel rispetto delle diversità culturali.

Harambee, insieme

Per tutti i progetti la comunità locale ha fornito un contributo: manodopera, vitto e alloggio per gli operai, trasporto dei materiali oppure una parte delle risorse. Il contributo è una combinazione della minga colombiana, del mutirão brasiliano, dell’harambee kenyano o di altre forme di partecipazione comunitaria. Sono termini in lingue diverse che condividono un principio di base: è attraverso il fare insieme che la comunità, oltre a risolvere il problema pratico di procurare risorse, promuove la propria autoconservazione.

Chiara Giovetti