Anche Puno è in Perù


Nel paese andino è uscito di scena un altro presidente: il maestro Pedro Castillo è passato dal palazzo presidenziale al carcere. Dallo scorso dicembre, il Perù è guidato, per la prima volta nella sua storia, da una donna, Dina Boluarte. La situazione è però esplosiva. Le proteste continuano. Anche a causa di un Congresso che (per ora) rifiuta l’anticipo delle elezioni al 2023.

In piedi davanti alla lavagna, la scolara scrive e riscrive più volte la stessa frase: «Puno è Perù» (Puno si es el Perù). La scolara ha le fattezze di Dina Boluarte, dallo scorso 7 dicembre nuova presidente in sostituzione di Pedro Castillo, passato dal palazzo al carcere. La vignetta – semplice e drammatica – ricorda quanto in troppi hanno dimenticato: la rivolta che in questi mesi ha sconvolto il paese andino ha profonde ragioni culturali e storiche. Il Perù da sempre dimenticato – quello delle popolazioni quechua e aymara della sierra – dice basta alle umiliazioni e alle ingiustizie.

È vero: la situazione è sfuggita di mano, ma non si possono liquidare i manifestanti semplicemente qualificandoli come «vandali, terroristi, comunisti».

Anche in base a un banale conto: la quasi totalità delle vittime (oltre 60, a inizio febbraio) si contano tra di loro. Proviamo allora a riavvolgere il nastro degli eventi per capire come si è arrivati a questo punto.

Uomini della polizia schierati a difesa del commissariato di Puno, un epicentro della protesta (19 gennaio 2023). Foto Juan Carlos Cisneros – AFP.

Pedro Castillo

Nell’aprile del 2021 era arrivato al seggio elettorale a cavallo e indossando un sombrero (vistoso, ma tipico di quella zona rurale). Vinte le elezioni, il 28 luglio era entrato in carica come presidente. Raggiunto il culmine, la sua parabola discendente era però iniziata quasi subito. Si è chiusa lo scorso 7 dicembre, quando Pedro Castillo Terrones è passato direttamente dal palazzo presidenziale di Lima al carcere di Barbadillo (distretto di Ate), dopo un fallito tentativo di autogolpe (con dissoluzione del congresso [parlamento, ndr] e governo d’emergenza).

La sua avventura alla guida del paese andino è durata meno di 17 mesi ma con ben cinque governi e settanta ministri. Un periodo contrassegnato da troppi errori, sia per l’incompetenza (incapacità e ingenuità) del presidente che per la forza della destra (spesso definita derecha bruta y achorada), padrona del Congresso e del potere economico.

Con 33 milioni di abitanti, il Perù è un paese ricco ma – identicamente a tutti gli altri stati latinoamericani – con enormi disparità economiche. Secondo dati ufficiali, nel paese ci sono 8,6 milioni di poveri, pari al
25,9 % della popolazione (Inei, maggio 2022). Pedro Castillo Terrones, maestro di scuola primaria e sindacalista, aveva vinto le elezioni presidenziali soprattutto con i voti delle regioni rurali più povere, battendo (per un soffio) l’eterna esponente della destra, Keiko Fujimori, figlia prediletta di Alberto Fujimori, il dittatore incarcerato dal 2007 per scontare una condanna a 25 anni.

L’errore decisivo

Difficile trovare successi nell’anno e mezzo di presidenza Castillo. Ad aprile 2022, proteste di piazza contro il rialzo dei prezzi del carburante portano a scontri con le forze dell’ordine e paralizzano il paese. Nello stesso mese il presidente si fa notare per una proposta di legge sulla castrazione chimica dei violentatori. A maggio, il suo progetto di riforma della Costituzione del 1993 (risalente, dunque, all’epoca fujimorista) attraverso un’assemblea costituente viene bocciato dal Congresso. Il 6 dicembre, poche ore prime di una nuova (la terza) mozione di messa in stato d’accusa («moción de vacancia», «impeachment») da parte del Congresso, Castillo si rivolge ai peruviani con un messaggio televisivo: «Fratelli e sorelle del Perù […]. Stasera confermo che non ho mai rubato un solo sol al mio paese. Non ieri, non oggi, né mai. Sono onesto. Un uomo di campagna che sta pagando gli errori per la sua inesperienza ma che non ha mai commesso alcun reato. […] Voglio ribadire, dalla casa di tutti i peruviani, il palazzo del governo, che sono un democratico che rispetta la Costituzione, le istituzioni, il giusto processo, lo stato di diritto e l’equilibrio dei poteri. Continuerò a lavorare instancabilmente, per promuovere la riattivazione e la crescita economica per raggiungere ogni angolo del paese con opere e sviluppo che generino l’eguaglianza che tanto desideriamo».

Parole del tutto condivisibili, ma clamorosamente disattese poche ore dopo con il suicidio politico dell’autogolpe.

Per il Perù, tuttavia, quella dell’ex presidente Castillo non è una storia particolarmente originale viste le disavventure giudiziarie dei predecessori (Alejandro Toledo, Ollanta Humala, Alan García, Pedro Pablo Kuczynski, Martín Alberto Vizcarra). Eppure, il male oscuro del paese non pare trovare genesi nei suoi presidenti. Stando a un’inchiesta di Ipsos Perù (del 22 settembre), è il Congresso a essere considerato come la più corrotta tra le istituzioni peruviane e quella che meno agisce per combattere la corruzione. Molto netto è anche il giudizio del Centro Bartolomé de las Casas secondo il quale «il sistema politico nel suo complesso sta attraversando un processo di disprezzo, disaffezione e diffidenza che mina la fattibilità della democrazia in Perù».

Dina Boluarte

La presidente Dina Boluarte, della quale i manifestanti chiedono le dimissioni. Foto Andina.

Alla massima carica dello stato è subentrata la vicepresidente Dina Boluarte, avvocata di 60 anni con un percorso politico tortuoso alle spalle (era alleata di Castillo). Nella storia del paese, è la prima donna ad assumere la carica di presidente, il 131° in 201 anni di vita repubblicana. Dovrebbe rimanere nel ruolo fino alle prossime elezioni anticipate, ma su quando esse avverranno, al momento (6 febbraio) non c’è accordo: il Congresso ha bocciato più volte l’anticipo a ottobre 2023, tanto da spingere la stessa presidente a presentare un progetto di legge per stabilire la data. Fin dall’inizio, la sua presidenza è stata segnata, soprattutto nel Sud del paese (Puno e Cusco, in particolare), dalle proteste di piazza (blocchi stradali, invasioni di strutture pubbliche, incendi di commissariati e tribunali, saccheggi di negozi e supermercati) di chi rifiuta l’imposizione del nuovo corso politico. Proteste che hanno lasciato sul terreno almeno una sessantina di morti, una ventina nella sola giornata del 9 gennaio (dati Defensoria del pueblo). I manifestanti hanno sempre respinto le accuse di aver fatto ricorso, per primi, alla violenza incolpando gruppi d’infiltrati che avrebbero agito per screditarli. Difficile appurare la verità, anche se varie fonti confermano che «los Ternas» (poliziotti del «Grupo Terna» che agiscono in borghese) siano stati particolarmente attivi durante le manifestazioni. Quello che è certo è che le forze dell’ordine hanno risposto con una violenza ingiustificata. Come denunciato anche dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani e dalla (pur timida) Organizzazione degli stati americani.

«Basta», è stato costretto a titolare El Comercio, il quotidiano dell’élite peruviana dopo la citata giornata del 9 gennaio. Il giornale ha scritto che molti manifestanti (non – si noti bene – la gran parte o la maggioranza di essi) sono scesi in strada in maniera pacifica e che «la risposta dello stato non è stata la più adeguata». «È necessario – ha scritto il quotidiano la República in un suo editoriale («Paren la matanza») – che si fermi il massacro, nel quale sono coinvolti un governo che si disinteressa, usa la violenza in maniera indiscriminata e agisce come se nulla stesse accadendo, e un Congresso incapace e che volta le spalle alla realtà» (10 gennaio).

Più netto César Hildebrandt, uno dei più noti giornalisti peruviani, secondo il quale non c’è nulla di eroico nella resistenza di una presidenta rifiutata dal 70% dei cittadini (secondo inchieste Iep e Ipsos). Sul settimanale da lui diretto, si legge (3 febbraio): «Ogni giorno c’è più tensione tra la presidente della repubblica e il capo del consiglio dei ministri (Luis Alberto Otárola). Questo rende ancora più debole un governo che deve affrontare un Congresso inamovibile e l’indignazione della strada. Il paese sembra un tunnel senza uscita».

Andare alle elezioni quanto prima è una soluzione suggerita (3 febbraio) anche da The Economist, il noto settimanale internazionale (che certamente non è una voce vicina alla sinistra).

Centinaia di manifestanti radunati davanti alla cattedrale (barocca) di San Carlos Borromeo, nella piazza principale di Puno, il 9 gennaio 2023. Foto Juan Carlos Cisneros – AFP.

Lima e gli altri

Gianni Vaccaro, cooperante italiano di area cattolica che abita con la famiglia peruviana alla periferia di Lima, ci dice: «Capisco i manifestanti. La popolazione che ha votato per Castillo – quella del mondo rurale, del Sud andino e della sierra in generale – sostiene che il suo voto non è stato rispettato e per questo chiede che presidenta e Congresso se ne vadano».

«Questa – sostiene il nostro interlocutore – è una manifestazione storica, perché è il mondo rurale che protesta, proprio contro i privilegi di Lima, che ovviamente è indifferente. Per Lima intendiamo la sede rappresentativa dell’élite di sempre, quella che, dal 1821 (anno dell’indipendenza, ndr), ha ereditato il colonialismo spagnolo per esercitare un colonialismo interno». Si è parlato – obiettiamo – anche d’interferenze esterne (dei paesi vicini e dell’ex presidente boliviano Evo Morales): «Un’altra volta l’idea coloniale, classista e razzista che, se il mondo rurale protesta, è perché qualcuno lo sta manipolando».

«Non può essere – conclude – che il Congresso, simbolo della Lima escludente e razzista, abbia sempre la partita vinta». D’altra parte, se quasi il 60% dei cittadini considera giustificate le proteste della piazza significa che anche Puno, Cusco e la sierra fanno parte del Perù.

Paolo Moiola


IL PERÙ SU MC
Paolo Moiola, Wilfredo Ardito Vega, Gianni Vaccaro, Perù, 1821-2021. Duecento anni sono pochi, dossier, agosto-settembre 2021,.


La Chiesa peruviana davanti alla crisi

Mons. Carlos Castillo celebra la messa nella cattedrale di Lima avendo sull’altare le fotografie delle 49 persone morte durante le manifestazioni (15 gennaio 2023). Foto Ernesto Benavides – AFP.

«il popolo sovrano ha diritto di decidere»

Una società al limite della guerra civile non poteva non trovare riflessi all’interno della Chiesa cattolica del paese. Proviamo a ripercorrere le tappe di questa escalation di eventi drammatici.

In dicembre, poche ore dopo il tentativo di golpe, la Conferenza episcopale della Chiesa cattolica (Cep) – istituzione ancora forte nel paese andino – emette un comunicato per stigmatizzare «la incostituzionale e illegale decisione del signor Castillo» ed esprimere fiducia nelle istituzioni democratiche.

La novità più interessante è, però, il comunicato interreligioso del 22 dicembre. «Interreligioso» nel senso pieno del termine visto che è sottoscritto da tutti i rappresentanti delle confessioni religiose presenti nel Perù: dai cattolici agli evangelici (di varie denominazioni), dagli islamici agli ebrei, dagli ortodossi ai mormoni.

«Riconosciamo la dura crisi sociale e politica, che non è di oggi, ma ha radici profonde in una storia di disparità e disuguaglianze», si legge nelle prime righe. La richiesta dei firmatari è precisa: «La grave situazione richiede uno sguardo che non si riduca solo all’immediato, ma si estenda alle politiche di lungo e medio periodo, dove l’istruzione e il lavoro siano l’elemento centrale, per il bene di tutti i peruviani». Il documento si conclude con queste parole: «Chiediamo pace, tranquillità, unità e riconciliazione sulla base di un ampio processo di ascolto e dialogo nazionale».

Meno legata alla situazione politica peruviana, ma sicuramente significativa, è invece la lettera di auguri natalizi firmata da mons. Héctor Miguel Cabrejos Vidarte, presidente sia della Cep che del Celam (Consiglio episcopale latinoamericano). In essa, il prelato sottolinea, infatti, la necessità di far fronte ai bisogni di «coloro che non hanno le tre T assicurate “Techo, Trabajo, Tierra” (tetto, lavoro, terra)».

Successivamente, davanti alle decine di morti di Juliaca (Puno, 9 gennaio 2023), la Conferenza dei vescovi peruviani denuncia gli eventi «come conseguenza della distorsione del diritto alla protesta, facendo ricorso all’illegalità; e, per altro lato, per l’uso eccessivo della forza (da parte di forze armate e polizia, ndr). Entrambe le situazioni sono da condannare e per entrambe occorre, prontamente, individuare i responsabili. È necessario distinguere le giuste proteste dal resto […]. Camminiamo uniti per costruire la pace nel nostro amato Perù».

Ancora più significativa è la celebrazione nella cattedrale di Lima di domenica 15 gennaio. Per l’occasione, sui gradini che portano all’altare principale vengono collocati sei pannelli con le foto delle vittime degli scontri. Mons. Carlos Castillo, arcivescovo della capitale e primate del paese, legge i nomi di tutti i 49 morti (le vittime fino a quel momento, ndr) e tiene un’omelia che, pur incentrata sul dolore per le morti e la violenza, non risparmia nessuno.

«Oggi mediteremo su cosa significhi tutto ciò che sta accadendo. Alla Chiesa compete una riflessione fondamentale di natura spirituale. Le indagini, le interpretazioni politiche, economiche e sociali, corrispondono ad altri ambiti. Noi non andiamo né a destra né a sinistra, né al centro, noi andiamo in fondo».

«Ci sono modi pacifici di organizzarci per risolvere le grandi necessità di ogni regione povera del Perù – dice ancora l’arcivescovo -. Non abbiamo bisogno di liquidare lo Stato che tanto è costato per costruirlo e che oggi  viene osteggiato per interessi meschini ed egoistici».

Tre giorni dopo, in occasione del 488.mo anniversario della fondazione di Lima, lo stesso arcivescovo officia una messa e un Te Deum con la presenza della presidenta Dina Boluarte, del sindaco Rafael Lopez Aliaga e del presidente del Congresso José Williams. A dimostrazione che la Chiesa peruviana, in questo drammatico momento storico, ha scelto di ricoprire una posizione super partes. Così, nel comunicato del 20 gennaio, i vescovi del Perù offrono la propria disponibilità «per mediare e per costruire ponti d’incontro».

Pochi giorni dopo, davanti alla presidenta è molto esplicito mons. Paolo Rocco Gualtieri, da pochi mesi nunzio apostolico nel paese andino: «Quando una parte della società cerca di godere di tutto ciò che il mondo offre come se i poveri non esistessero, questo, a un certo punto, ha le sue conseguenze. Ignorare l’esistenza dei diritti degli altri, prima o poi, provoca qualche forma di violenza inaspettata, come stiamo assistendo in questi giorni» (25 gennaio).

Se le gerarchie cattoliche – a parte qualche eccezione – sono legate a una sorta di diplomazia dell’equidistanza, meno lo sono alcuni sacerdoti. Come padre Luis Zambrano, prete diocesano e parroco della parrocchia Pueblo de Dios a Juliaca, diocesi di Puno, luogo del massacro del 9 gennaio: «Sono d’accordo che la via d’uscita più urgente sia che [Dina Boluarte] si dimetta dalla presidenza e faccia qualcosa affinché anche il Congresso si sciolga e si tengano le elezioni generali nel 2023. Si tratta di darle un consiglio affinché faccia quel gesto di distacco, quella rottura necessaria, pensando al futuro del Perù. […] Sarà un primo passo che calmerà un po’ l’attuale sconvolgimento sociale. Il tempo delle parole è passato. Ora solo un gesto può alleggerire questa situazione estrema».

In una situazione che non trova vie d’uscita condivise, il 3 febbraio anche la Chiesa ufficiale rompe però gli indugi attraverso un nuovo comunicato della Cep: «Il popolo sovrano ha diritto di decidere sui destini della nostra patria attraverso elezioni trasparenti e giuste per rinnovare i poderi esecutivo e legislativo».

Paolo Moiola

Mons. Cabrejos, presidente della Cep e del Celam. Foto Conferencia episcopal peruana – Cep.




ESwatini. Un paese in guerra con se stesso?

ESwatini. Un paese in guerra con se stesso?

Dopo i disordini del 2021, gli insistenti appelli al dialogo lanciati da tutte le Chiese del paese sembravano aver aperto vie di speranza. In realtà, nuovi episodi di violenza ai primi di ottobre 2022, segnalano una situazione che sta degenerando, come scrive il vescovo in questo testo indirizzato alla sua gente, ma anche a tutti noi.

Alcuni di noi non hanno mai dimenticato la violenza sperimentata in eSwatini nel giugno 2021@. Nel mio caso perché non ero riuscito a raggiungere casa a Manzini dopo un incontro a Mbabane con il primo ministro in carica. I blocchi istituiti lungo la strada dai giovani mi avevano costretto a cercare un posto alternativo dove dormire. Avevamo trascorso quella notte ascoltando una sparatoria nelle vicinanze. La mattina seguente ci eravamo svegliati trovando pneumatici e veicoli bruciati e pietre sulla strada.

Le domande naturali che ci poniamo sono: a che punto siamo, un anno e mezzo dopo? Che cosa è stato fatto da allora?

Alcuni, probabilmente, speravano che fosse business as usual, tutto come prima, ma gli eventi degli ultimi mesi devono essere stati un brusco risveglio per loro.

Un dialogo nazionale

Sembra esserci un accordo comune sulla necessità di un dialogo nazionale. Credo che ogni voce che ha parlato dal giugno 2021 (il governo, le organizzazioni politiche, le Chiese, le Ong) abbia ripetuto lo stesso appello.

Molti, se non tutti, hanno anche sottolineato la necessità di avere «un dialogo sul dialogo». Ricordo che mons. Sithembele Sipuka (presidente della Sacbc – Southern african catholic bishops’ conference) ne ha parlato durante una conferenza stampa al termine della visita di solidarietà a eSwatini. Questo «dialogo sul dialogo» dovrebbe aiutare tutte le parti coinvolte a mettersi d’accordo su cosa si intende per dialogo e su come dovrebbe svolgersi.

Purtroppo, a parte la richiesta di un dialogo nazionale, non pare essere successo molto di più. Sembra che si senta parlare più del «no» («nessun dialogo in mezzo alla violenza») che del «sì» (una via da seguire). Non si dice nulla sulle misure adottate nell’ultimo anno e mezzo per attuarlo. Abbiamo sentito che il denaro per un dialogo nazionale è stato stanziato, ma non abbiamo mai saputo se sia mai stato usato e come.

Il fatto che i membri del parlamento abbiano chiesto al primo ministro di parlarne con Sua maestà Mswati III rafforza l’impressione che non sia stato fatto nulla.

Questo crea, almeno in me, la preoccupazione che la parola dialogo stia lentamente (o rapidamente?) perdendo ogni significato. Diventa più uno slogan che una realtà concreta.

Nel frattempo, probabilmente si è sviluppato un circolo vizioso. La violenza è giustificata dalla mancanza di passi concreti verso il dialogo, e il dialogo non ha luogo a causa della violenza che non si ferma nel paese.

Chi avrà il coraggio di romperlo?

Visita di solidarietà di FOCCISA (the Council of Churches for Southern Africa), foto davanti alla cattedrale di Manzini

Il paese sta cambiando

L’ultimo mese (ottobre 2022, ndr) ha visto chiaramente un aumento della violenza (che è sempre stata presente a livelli più bassi). È una nuova realtà per questo paese che si è sempre vantato di essere presentato come pacifico. È interessante notare che la popolazione sembra aver accettato che la violenza sia ormai diventata parte della nostra vita ordinaria. Come ho detto nella mia dichiarazione (del 19/10/2022)@, è molto probabile che la violenza aumenterà e continueremo tutti ad adattarci ad essa.

Giovedì 10 novembre la violenza ha colpito parti di Manzini. Mentre stavo lasciando la città per Mbabane, ho potuto vedere il fumo provenire dalla zona in cui erano stati dati alle fiamme il posto di polizia presso la stazione dei Satellite Bus e altri negozi. Tornato a Manzini ho visto che l’esercito era stato schierato. Vedere l’esercito e non la polizia è stata la prima cosa che mi ha sorpreso. La seconda sorpresa è stata di vederli con il volto coperto, un’indicazione della loro paura di essere identificati dai violenti e di esporsi al richio di essere uccisi in seguito o di avere le loro case date alle fiamme.

Chi avrebbe mai pensato che eSwatini potesse cambiare così rapidamente? Chi avrebbe mai pensato che questo (che vediamo in altri paesi in Tv) potesse accadere tra di noi?

Anche le nostre relazioni ne sono influenzate. Visto che quel giorno non c’erano mezzi pubblici a Manzini, la gente cercava buoni samaritani disposti a dare un passaggio. Qualcuno ha deciso che non doveva essere così, e le persone soccorse sono state costrette a scendere dai veicoli e a camminare, mentre ad altri è stato impedito di aiutare chiunque. Anche questa è violenza, quando alcuni decidono per gli altri.

Vandalismi e distruzione nella biblioteca di una scuola, Aprile 2022

La violenza

La paura è un altro elemento che sembra essere diventato parte della nostra vita quotidiana.

Dopo gli eventi dello scorso anno, ricordo che alcuni cattolici che conoscevo bene mi informavano della presenza di membri dell’esercito che «visitavano» le case di notte. Nulla era stato detto sui media al riguardo. Doveva essere un coprifuoco in cui tutti noi dovevamo rimanere a casa.

Non molto tempo fa, tornando a casa dopo la cena a casa di un prete, ho trovato un posto di blocco fatto dai membri dell’esercito. Erano pesantemente armati. Non ero a conoscenza di blocchi stradali che si svolgevano da parte dell’esercito di notte. Siamo riusciti a scherzare mentre volevano sapere perché ero in viaggio di notte. Non è stato annunciato alcun coprifuoco, ma sembra che dobbiamo giustificare il motivo per cui viaggiamo di sera.

Un nuovo tipo di paura è diventato parte della nostra vita. Proviene dalle Swaziland Solidarity Forces (Ssf). Esse rivendicano gli attacchi incendiari e le uccisioni. Minacciano di uccidere o incendiare le proprietà di coloro che non fanno ciò che viene loro detto. Non so se qualcuno sa chi siano e chi li sta finanziando. Queste domande – per quanto importanti – sono difficili da porre.

Stiamo progettando di costruire il nostro futuro sulla paura e su più violenza? Qualunque cosa seminiamo è ciò che abbiamo intenzione di raccogliere in seguito. Poiché la paura e la violenza sono attribuite al governo, stiamo progettando di sostituirle con la paura e la violenza di qualcun altro?

I media

Da un giornale locale di eSwatini

Quello dei mezzi di comunicazione è un altro settore in cui abbiamo assistito a cambiamenti. Ero solito dire in passato che si poteva trovare poco su eSwatini sui social media. C’era una sorta di autocensura in molti: «È meglio non parlare». Non è più così da giugno 2021. Molto di più può essere letto sui social media e sulle pagine web. La sfida è essere critici nei confronti di ciò che si legge. L’informazione è difficilmente «indipendente» e «imparziale», come proclamano i media.

Tutti noi dobbiamo interrogarci su ciò che viene e che non viene detto. Si può sottolineare che i media statali limitano ciò che viene riportato sulla violenza che ha luogo, ma la stessa cosa potrebbe essere detta di coloro che scelgono di non riportare nulla di positivo su quanto fatto dal governo perché potrebbe non piacere loro. Sembra importante dipingere l’altro come il nemico che deve essere affrontato.

Entrambe le parti dicono cose sui social media che non sono state provate e che l’altra parte nega che siano vere: «I mercenari sono entrati nel paese» e «ci sono stranieri tra i soldati del nostro esercito», sono due esempi familiari.

Violenza e media vanno insieme. L’informazione può essere usata come arma per instillare rabbia e paura. Anche qui bisogna chiedersi: chi paga per questo? A volte su Twitter è possibile trovare gli stessi post su profili di persone diverse che molto probabilmente non esistono. Tutto è impostato con un unico obiettivo: sostenere una parte o l’altra e influenzare il modo in cui le persone leggono la situazione.

In questi giorni è interessante vedere la mancanza di informazioni su eSwatini da fuori dei nostri confini. I media, che in passato parlavano così tanto dei nostri disordini, ora tacciono. Sembra che non ci sia alcun interesse per ciò che sta accadendo qui. Forse la nostra violenza non è abbastanza forte da renderla degna di essere denunciata.

Tentazioni

  • In mezzo a tutto questo, si possono individuare una serie di tentazioni che colpiscono ogni parte in causa:
  • «Questo passerà, le cose torneranno alla “normalità”. Tutto questo è solo il lavoro di pochi facinorosi».
  • «Non ci sarà corruzione una volta che avremo un sistema democratico».
  • «Possiamo distruggere il paese ora, lo ricostruiremo più tardi sotto un nuovo sistema politico».
  • La democrazia risolverà tutti i nostri problemi… in una notte.
  • Il pensare che chiunque può decidere per l’intera nazione.
  • Il pensare che combattere la violenza con la violenza le metterà fine.
  • Il pensare che la violenza di genere sia sbagliata ma la violenza politica sia giustificata.

Ignorare che:

  • eSwatini è una delle società più diseguali del mondo@;
  • nel paese manca formazione politica;
  • un futuro costruito sulla violenza innescherà solo altra violenza una volta che la popolazione sarà di nuovo infelice;
  • i nostri giovani provano rabbia, paura, frustrazione (ma non solo);
  • il 60/70% dei nostri giovani è disoccupato e potrebbe sentire di non avere nulla da perdere;
  • la maggior parte dei nostri giovani non ha mai fatto parte del processo che ha portato alla Costituzione del 2005 e potrebbe non identificarsi con essa.

È necessario inoltre:

  • Non ignorare quanto sia grande la necessità di un processo di guarigione già oggi a causa dei disordini dello scorso anno e quanto la violenza dividerà questa piccola nazione (famiglie e comunità) in futuro.
  • Non sentirsi superiori ad altri paesi senza imparare dalla loro esperienza di violenza e dai loro processi democratici.

Cattedrale di Manzini, preghiera per le vittime della violenza

Le chiese

Eswatini (già Swaziland) è conosciuto come un paese cristiano. Il numero di chiese, gruppi, profeti, pastori, apostoli e altri è molto grande. Ogni anno Sua maestà chiede un servizio di preghiera di ringraziamento a palazzo. Nonostante tutto questo, non riesco proprio a ricordare un momento in cui qualcuno di questi predicatori abbia mai aperto gli occhi della nazione sul fatto che questo tipo di disordini (che non erano mai stati visti prima) si sarebbero verificati. Tutti hanno rassicurato che tutto andava bene o sarebbe andato bene.

Tre sono i gruppi cristiani più conosciuti nel Regno, ciascuno dei quali riunisce un certo numero di chiese cristiane.Tra di essi c’è il Csc – Consiglio delle chiese dello Swaziland (di cui siamo padri e madri fondatori) che è il più piccolo (solo 13 Chiese). La cosa positiva è che la leadership di questi organismi fa del suo meglio per tenersi in contatto. La sfida consiste nel trovare un terreno comune su come affrontare la situazione. Ciò potrebbe essere dovuto a ragioni storiche e ai diversi modi in cui leggiamo la Bibbia.

Il Csc è stato il più visibile: ha rilasciato dichiarazioni, ha incontrato ogni possibile attore (governo, partiti politici, gruppi tradizionali …), ha coordinato visite di solidarietà nel paese, ha sostenuto le persone in prigione, ha fornito pacchi alimentari alle famiglie di coloro che sono morti durante i disordini.

La Chiesa cattolica, da sola, è stata attiva anche in diversi modi: ha rilasciato dichiarazioni, incontrato le parti interessate, riunito alcuni cattolici per riflettere sulla situazione e sul contributo che possiamo dare alla costruzione della pace, sostenuto le vittime della violenza, fornito pacchi di cibo, offerto consulenza, creato club per la pace nelle scuole superiori, dedicato giorni o settimane speciali di preghiera per la pace, aperto spazi per il dialogo locale, condiviso brevi dichiarazioni sui social media sull’importanza della nonviolenza.

Qualche settimana fa (in ottobre 2022, ndr) la polizia ha chiesto di utilizzare la nostra cattedrale per un incontro di preghiera. La violenza che l’ha colpita ha innescato direttamente questo bisogno di riunirsi per pregare. Abbiamo acconsentito. L’avevamo aperta in passato alle vittime di violenza da parte delle forze di sicurezza. Tutti abbiamo bisogno della guarigione e della guida di Dio.

Non ho potuto evitare di ricordare che nel febbraio 2013 (se la memoria non mi inganna), la polizia aveva fatto irruzione nella stessa cattedrale per fermare un incontro di preghiera per la pace nello Swaziland accusando gli organizzatori di mascherare un raduno per disturbare le elezioni nazionali dietro un incontro di preghiera.

Quello che stiamo facendo è una goccia nell’oceano. Sono necessarie molte più gocce. C’è sempre una sfida tra i cattolici (forse i cristiani in generale) su chi abbia la responsabilità di affrontare i disordini. Come dico sempre scherzosamente: «Quando la gente dice “la Chiesa è tranquilla”, quello che intende è che “il vescovo è tranquillo”, come se gli altri avessero il diritto di stare tranquilli».

Come ho scritto sui social media non molto tempo fa: «Il nostro paese è come una persona malata, che cura il dolore, ma non ciò che lo sta causando».

+ José Luis Ponce de León
vescovo di Manzini

Il vescovo José Luis visita una scuola vicino ai confini con il Mozambico per incoraggiare gli insegnati dopo le violenze, danni e incendi subitie dalla scuola.




Mozambico.

La baraccopoli nel Grande Hotel


Nato come hotel di lusso, utilizzato dai militari e come prigione durante la guerra, da decenni il Grande Hotel di Beira è un gigantesco palazzo occupato. Ci vivono centinaia di famiglie, adattandosi in ogni possibile spazio.

Beira. Come entri nella stanza buia e spoglia, in un angolo a sinistra, a lato dell’armadio, vedi un albero di Natale. È là tutto l’anno, durante la stagione delle piogge e in quella secca. «L’ho comprato due anni fa al mercato del Goto (il più grande mercato della città, nda) perché volevo che i miei tre figli sentissero l’atmosfera del Natale, che imparassero a sognare», mi dice Ilaria con aria soddisfatta mentre guardo l’abete incuriosito.

Un pomeriggio di qualche settimana fa l’ho trovata seduta per terra sul balcone, all’ingresso della sua stanza, in compagnia di due amiche. Stavano guardando delle fotografie. «Ce le siamo fatte scattare quest’anno, il primo di gennaio, da uno dei fotografi ambulanti in piazza del municipio. Volevo che fosse di buon auspicio per il nuovo anno per me e i miei figli». Ho guardato la serie di foto: avevano messo i vestiti buoni. Lei e la figlia si erano fatte fare una nuova acconciatura. Tutti e quattro avevano l’aria fiera e soddisfatta. Sapevano che stavano facendo qualche cosa di insolito e speciale.

Qualche giorno dopo l’ho incrociata per caso nella zona commerciale della città: «Sono venuta a comprare delle stoffe per me e le mie amiche per celebrare tutte assieme il primo di maggio».

Quando parlo con Ilaria rimango sempre ammirato dalla sua forza d’animo e dalla sua determinazione nel creare dei piccoli momenti di gioia e nel cercare di dare un futuro migliore ai suoi tre figli.

Simbolo della città

Ilaria è una dei tanti abitanti del Grande Hotel di Beira, probabilmente il più popoloso e grande edificio occupato al mondo. È uno dei simboli della città, tra le principali del Mozambico.

L’hotel incarna la storia del paese, uno dei più poveri al mondo, con un bassissimo livello di sviluppo umano, aspettativa di vita e altri indicatori socioeconomici. Fu costruito a metà degli anni Cinquanta, quando il Mozambico era una colonia portoghese, per mostrare al mondo la forza e il successo del regime fascista al potere in Portogallo dal 1933. Era un luogo di opulenza e venne concepito per essere tra gli hotel più lussuosi d’Africa. Un posto solo per ricchi, per lo più bianchi. In stile Art Déco, le facciate dalle enormi forme geometriche e ripetizioni architettoniche dovevano rappresentare la modernità. Mentre l’esterno non presentava ornamenti o motivi intricati, gli interni dai sontuosi saloni e scalinate erano fatti con materiali costosi abbastanza rari nella regione.

Il Grande Hotel era famoso in tutto il mondo, ma chiuse i battenti nel 1963, perché nei suoi otto anni di attività non fu mai redditizio, dato che pochissime persone potevano permettersi di alloggiare in una delle sue 116 camere. Negli anni seguenti aprì solo in alcune occasioni per ospitare grandi eventi, come quando soggiornarono alcuni membri del Congresso degli Stati Uniti in crociera lungo la costa dell’Africa Orientale.

Durante i 16 anni di guerra civile iniziata nel 1976, l’edificio servì inizialmente come base dell’esercito e come prigione, successivamente come campo profughi. Fu solo dopo l’abbandono dal suo scopo originale che le stanze furono riempite per la prima volta. Da allora, il Grande Hotel è diventato casa per le persone più vulnerabili, in una città che è in costante crescita ma non è in grado di costruire alloggi decenti e adeguati per chi ci vive.

Comunità autogestita

Si stima che attualmente ci vivano circa duemila persone, molte delle quali bambini e adolescenti, che occupano tutte le stanze e ogni sezione di questo enorme edificio buio e umido, comprese le scale, i lunghi corridoi e gli scantinati. I suoi abitanti vivono come una comunità autogestita, ma senza i servizi pubblici essenziali, come l’acqua e servizi igienici, l’elettricità e la raccolta dei rifiuti. Per avere una stanza bisogna pagare un affitto. Pochi euro, che per alcuni sono però proibitivi. Succede allora che qualcuno debba lasciare una di quelle che, negli anni Cinquanta, erano stanze di lusso per trasferirsi in un angoletto nei corridoi o nelle cantine.

Ilaria vive presso il Grande Hotel da quando era ragazzina. Lì ha conosciuto il suo compagno, che poi l’ha abbandonata. Lì sono nati i suoi figli. Vive al primo piano, in un «appartamentino» che un tempo era una delle suite dell’hotel. Il suo letto occupa quello che in passato era un bagno finestrato. Lo si riconosce dalle piastrelle alle pareti e dalle allacciature dell’acqua. Il figlio più grande dorme su un materasso steso sul pavimento in un piccolo corridoio.

La vita si svolge prevalentemente sul balcone, più luminoso e arieggiato. Lì si cucina, si fanno i compiti e si gioca. Si chiacchiera con gli ospiti e ci si rilassa. All’ingresso dell’alloggio Ilaria ha una piccola bancarella di frutta e verdura. A volte vende delle frittelle o delle patate dolci fritte. Abbastanza per pagarsi le spese e comprare nuovi prodotti da vendere. Ma non abbastanza per risparmiare e avere più garanzie per il suo futuro.

Vivere alla giornata

La maggior parte degli abitanti dell’hotel non ha un lavoro fisso e campa alla giornata. Così come Ilaria, all’interno e all’ingresso dell’edificio molte donne allestiscono piccole bancarelle che vendono frutta, verdura e pesce.

Nei corridoi si trovano dei piccoli saloni di bellezza, specie nel fine settimana. Si sta seduti sugli scalini o sulle sedie di plastica: passano le ore tra chiacchiere e nuove acconciature.

Alcuni degli abitanti sono pescatori, ma la maggior parte sopravvive trovando lavori occasionali, alla giornata. Il numero di pasti, così come la quantità di cibo e il condimento da accompagnare al riso e alla xima (una polenta a base di mais), dipendono da come è andata la giornata. Quando si mangia pesce fresco o carne, significa che la giornata lavorativa è andata bene o c’è qualche ricorrenza da festeggiare.

Vivendo in condizioni di estrema vulnerabilità, la malnutrizione è cronica, specialmente tra i bambini. Diarrea, Aids, malaria, scabbia, tubercolosi e altre malattie sono un problema diffuso. Ma tra vicini di casa ci si aiuta.

Manuel Antonio era un signore anziano. Aveva perso una gamba a causa di una mina, da giovane, rientrando da una partita di calcio, durante la guerra civile. «Se non fossi saltato su quella mina – mi dice un giorno con un sorriso malinconico – forse non sarei qui a raccontartela perché avrei dovuto combattere durante la guerra civile». Viveva presso il Grande Hotel dall’inizio degli anni Novanta e passava le sue giornate fuori dal panificio in piazza del municipio. Il pane e qualche moneta data dai passanti erano abbastanza per sopravvivere. È là che ci siamo conosciuti, qualche anno fa. Ultimamente però era molto debole e non riusciva ad andare fino alla piazza. E così, mentre mi fermavo a chiacchierare con lui in corridoio fuori dalla sua stanza in lamiera, spesso arrivavano dei vicini con qualche cosa da mangiare. E quando, poco tempo fa, se ne è andato a causa della tubercolosi, gli amici hanno fatto una colletta per pagare il funerale.

Negli scantinati

Moltissime persone vivono negli scantinati, che sono umidi e bui. Tra loro Josè, pescatore, con sua moglie e i quattro figli. La prima volta che sono andato a visitarlo in casa mi ha incuriosito il fatto che tutti i mobili, come ad esempio il tavolo, la struttura del letto o il piano di appoggio del televisore, erano fatti di mattoni di cemento. «Con i risparmi sto comprando del materiale per fabbricare dei mattoni. Quando ne avrò abbastanza vorrei costruire una casa fuori da qui, forse nel quartiere della Manga. Però mi mancherà la vicinanza al mare».

Il Grande Hotel si trova di fronte all’oceano, non lontano dal porto costruito dai portoghesi, da cui è cresciuta la città di Beira, su una pianura alluvionale sotto il livello del mare che la espone a inondazioni regolari.

Nell’edificio si fa pochissima manutenzione. Le infiltrazioni di acqua piovana e gli allagamenti costituiscono un problema ricorrente. In diverse aree sia all’interno che all’esterno ci sono cumuli di spazzatura. I vani degli ascensori e le scale sono diventati delle voragini, in cui occasionalmente qualcuno cade. Il palazzo è esposto ai venti, alla salsedine e all’usura del tempo. La struttura è forte e regge, tuttavia si sta lentamente deteriorando. Ogni tanto alcuni soffitti e pareti crollano, anche se le persone che ci vivono fanno del loro meglio per tenere l’edificio pulito e in sicurezza.

Il ciclone Idai del marzo 2019, uno dei peggiori cicloni tropicali che abbiano mai colpito l’Africa e l’emisfero meridionale, che ha causato enormi danni e una crisi umanitaria nella regione, ha lasciato il suo segno sia sul Grande Hotel che nella memoria di chi ci vive.

Pochi mesi dopo, la situazione si è complicata ulteriormente a causa dello stato di emergenza dichiarato a seguito della pandemia, soprattutto perché molte attività economiche formali e informali in città hanno chiuso, ed è diventato più difficile trovare un lavoro. Inoltre, per parecchi mesi i bambini non sono potuti andare a scuola. In un paese dove il sistema scolastico è già abbastanza precario e non è così raro incontrare dei ragazzi che, alla fine della scuola dell’obbligo, sanno a mala pena leggere e scrivere.

Difficile andarsene

Ultimamente, l’aumento generalizzato dei prezzi, in particolare del pane e di altri beni di prima necessità, è causa di nuovi forti disagi. Diverse persone hanno dovuto chiudere le loro bancarelle perché con i guadagni non riuscivano a coprire i costi. Ma ci si inventa sempre qualcosa per andare avanti.

Da poco un ragazzo si è costruito un piccolo chiosco, dove vende cd e offre servizi di registrazione audio per chi vuole incidere un brano musicale. Il chiosco è di fronte al cinema in lamiera che in genere proietta film di azione americani doppiati in brasiliano.

Ogni tanto qualcuno riesce a guadagnare abbastanza, oppure a studiare e a trovare un lavoro ben pagato che gli permette di uscire dal ventre del palazzo. Molti ragazzi sono determinati a studiare, come Amaral che sogna di diventare tecnico di costruzione, o Regina che vorrebbe studiare per diventare infermiera e aiutare la sua famiglia. Ma non è facile, e per la maggior parte degli abitanti del Grande Hotel il mondo fuori non è destinato a essere meno precario. Molte persone lì sono nate, hanno avuto i loro figli e, in alcuni casi, hanno visto i loro nipoti nascere e crescere.

Paolo Ghisu

Paolo Ghisu è nato e cresciuto a Trento. Laureato in economia e relazioni internazionali, ha lavorato per varie Ong e organizzazioni internazionali, in diversi paesi. Dal 2018 vive a Beira, Mozambico. Da sempre appassionato di fotografia, nel 2020 ha deciso di renderla parte della propria carriera, iniziando un percorso di formazione in fotografia e narrazione visiva. Attraverso il suo lavoro racconta storie di sostenibilità, diversità, vulnerabilità e resilienza.

Il progetto Fully booked. Vivere al Grande hotel di Beira è il primo progetto fotografico di Paolo Ghisu. Nell’ottobre del 2020 ha iniziato a frequentare regolarmente il Grande Hotel. Passo dopo passo, molti degli abitanti gli hanno aperto le porte delle loro case. Per mesi ha condiviso con loro momenti di quotidianità, fatta di costante precarietà. www.paologhisu.com

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Haiti: Una vita in lockdown


Il paese dei Caraibi, nel Settecento la colonia più ricca al mondo, e seconda nazione indipendente delle Americhe, oggi vive una situazione di «stato fallito». Non è una questione di sfortuna. Le cause storiche e geopolitiche sono precise e definite.

È la notte tra il 6 e il 7 luglio 2021. Un commando di una trentina di uomini vestiti di nero si introduce nella residenza del presidente della Repubblica di Haiti, Jovenel Moise, senza sparare un colpo. Giunti in camera da letto, scaricano raffiche di mitragliatore sul presidente, poi infieriscono brutalmente sul suo cadavere. La moglie Martine resta ferita e, evacuata a Miami, si salverà. Le macabre immagini del corpo martoriato fanno il giro dei social, a bella mostra di quanto è successo.

Chi era Jovenel Moise

Moise era espressione della classe borghese del paese, in particolare dei neo arricchiti, non delle famiglie dell’oligarchia storica. Lui aveva fatto i soldi con l’agro business, l’export delle banane, e per questo era chiamato Nèg banann, in creolo, l’uomo delle banane. Era succeduto al presidente Michel Martelly (2011-2016), come suo candidato designato, del suo stesso partito, il Partito haitiano tèt kale (Phtk), di estrema destra, filo duvalierista. Aveva inizialmente perso le elezioni contestate (ottobre 2015) e, dopo un anno di transizione, con il presidente a interim Jocelerme Privert, era stato eletto nel novembre 2016 entrando in carica il 7 febbraio 2017 (cfr. MC aprile 2017).

Moise, in contrasto con la Costituzione, aveva poi evitato di organizzare le elezioni alle scadenze fissate, sia per gli eletti locali, che per il parlamento, il cui mandato si era concluso nel gennaio 2020.

Da allora legiferava per decreto, intervenendo anche su aspetti molto delicati delle istituzioni haitiane. Stava inoltre preparando una riforma costituzionale – percorrendo però una procedura  anticostituzionale – che avrebbe aumentato ulteriormente i poteri del presidente.

La popolazione lo aveva duramente contestato già nel 2018 e poi di nuovo, con manifestazioni che avevano bloccato il paese, dall’autunno 2019.

C’era pure una diatriba sulla scadenza del suo mandato, che sarebbe stata il 7 febbraio 2021, ma che lui aveva portato al 2022, giocando su un’ambiguità costituzionale (cfr. MC marzo 2021).

Photo by Ricardo ARDUENGO / AFP

Il dopo Moise

All’indomani dell’efferato assassinio, che sciocca il paese, si innesca una contesa a tre per la gestione della transizione. I protagonisti sono: Claude Joseph, primo ministro in carica, ma sfiduciato dallo stesso Moise che due giorni prima di essere ucciso aveva designato una nuova figura, il dottor Ariel Henry, a succedergli. Il secondo è Henry stesso, che rivendica la nomina. Infine il terzo è Joseph Lambert, presidente di un terzo del senato (composto da dieci senatori, un terzo del totale, non scaduti, perché la Costituzione ne prevede il rinnovo di un terzo ogni due anni), le uniche cariche elette rimaste nel paese.

La Costituzione del 1987, emendata, prevederebbe (art. 149) che, in caso di vacanza improvvisa del capo di stato, sia il presidente della Corte di Cassazione a prendere la guida del paese, ma il giudice René Sylvestre è morto un mese prima dell’omicidio, a causa delle complicanze del Covid-19.

Come spesso è accaduto nella storia di Haiti, è un intervento esterno che prevale su tutti. Il cosiddetto Core Group (coordinamento delle ambasciate di Germania, Francia, Stati Uniti, Canada, Spagna, Unione europea, e rappresentanti di Organizzazione degli stati americani, e Nazioni Unite), i paesi «amici» di Haiti, appoggia apertamente Ariel Henry, che diventa dunque premier de facto di un governo de facto. Esso infatti non potrà essere validato da un parlamento, che non esiste, e non potrà gestire il potere esecutivo insieme a un presidente della Repubblica che non c’è. Un «deserto istituzionale» senza precedenti.

Un popolo in ostaggio

La morte violenta del presidente fa precipitare la già precaria situazione di sicurezza del paese. Se le gang (bande armate di malviventi, in creolo) sono sempre esistite, e negli ultimi anni erano diventate più forti, adesso si dividono il controllo di gran parte del territorio, nella capitale come nelle principali vie di comunicazione.

La gang di Jimmy Chérisier, detto Barbecue, che si fa chiamare G9 an fanmi ak alye (Gruppo 9 in famiglia e alleati), nei mesi di ottobre e novembre 2021 arriva a impedire la fuoriuscita delle autobotti dal terminale petrolifero di Varreux (gli autisti sono uccisi o rapiti), bloccando di fatto il funzionamento del paese per mancanza di carburante. I prezzi dei trasporti e di tutti i generi alimentari, anche di base, si impennano e molti servizi, inclusi ospedali e banche, devono chiudere. Gran parte dell’energia elettrica ad Haiti è infatti prodotta da centrali termiche e da gruppi elettrogeni privati.

Barbecue, vicino al presidente assassinato Moise, chiede le dimissioni di Ariel Henry. Poi, quasi fosse il capo di stato, pubblica un video in cui dichiara una tregua di una settimana, in onore della battaglia di Vertières (18 novembre 1803: la vittoria dell’esercito «indigeno» contro l’armata napoleonica, porta all’indipendenza), lasciando uscire i camion dal deposito. Nello stesso video dice di essere a capo di un gruppo rivoluzionario, denuncia la fame del popolo e dunque chiama i suoi seguaci a prendere le armi perché «la rivoluzione sta per cominciare».

Nella festa di commemorazione della morte di Jean-Jaques Dessalines, padre della patria, il 17 ottobre, la stessa gang impedisce al primo ministro de facto, al capo della polizia Léon Charles (che si dimetterà a fine ottobre), e al loro seguito, di svolgere la cerimonia di suffragio. I suoi uomini attaccano la scorta che batte in ritirata, e in seguito Chérisier in persona, a volto scoperto e in giacca bianca, deposita una corona di fiori alla base della stele che ricorda l’assassinio di Dessaline a Pont Rouge (Port-au-Prince).

Photo by Richard PIERRIN / AFP

Rapimenti

Un’altra gang famosa, la 400 Mawozo, controlla l’uscita Nord della capitale e la strada principale verso la frontiera con la Repubblica Dominicana. È nota per alcuni rapimenti di massa. Il 16 ottobre compie un salto di qualità, sequestrando 17 stranieri (16 statunitensi e un canadese), missionari protestanti legati all’organizzazione Usa Christian aid ministries. Il rapimento di stranieri, che finora non è una pratica frequente, è la punta dell’iceberg di un fenomeno che si è esteso a tutti i livelli sociali. Chiunque può essere rapito, e i riscatti richiesti variano da decine di migliaia di dollari a milioni. Spesso, se il riscatto non è pagato, il malcapitato viene ucciso.

«I rapimenti sono una media di quattro, sei al giorno, mentre abbiamo contato una media di cinque omicidi al giorno nei primi sette mesi del 2021», ci dice Antonal Mortimé, segretario generale di Defenseur plus, associazione per la difesa dei diritti umani ad Haiti.

«La situazione è molto peggiorata dopo l’assassinio del presidente Moise, e la gente vive un clima di terrore quotidiano. Possiamo dire che il diritto alla vita è negato, in questo momento, nel paese».

Mortimé, contattato telefonicamente, ci descrive la mappa delle gang che controllano la capitale Port-au-Prince, a Nord, Nord-Est, Sud e al centro: «Siamo circondati, siamo presi in ostaggio in modo collettivo. Abbiamo paura di portare i bambini a scuola, di andare all’Università, o al lavoro. Poi ci sono tante micro gang, in guerra tra di loro».

E continua: «Ariel Henry non ha saputo ristabilire l’autorità dello stato, la sicurezza, la fiducia dei cittadini».

Un popolo sotto controllo

«Non è un fenomeno di oggi, i gruppi armati erano presenti già 30 anni fa», ci ripete una fonte autorevole haitiana, che chiede l’anonimato, perché «qui ti ammazzano per molto poco». «Le gang sono organizzazioni paramilitari, come erano i Macoute al tempo dei Duvalier, create per controllare la popolazione. Sono i grandi proprietari terrieri e i grandi padroni dell’import-export che, in accordo con il potere fascista (del partito Phtk, nda), hanno messo in piedi e controllano le gang. Fanno parte dell’azione repressiva del Phtk».

Alcuni osservatori sostengono che questi gruppi armati stiano andando fuori dal controllo di chi li ha creati e finanziati. Il nostro interlocutore non è d’accordo: «Le gang si scontrano con la polizia, ma questa è una contraddizione secondaria. Ci sono battaglie tra gang per il controllo del territorio, dei traffici di droga, ma anche questo è secondario rispetto alla repressione perpetrata ai danni della popolazione. Ci sono gang che tentano di diventare autonome, ma non ci riusciranno. L’imperialismo (intende il controllo esercitato da parte dei paesi vicini, gli Usa in primis, nda), che ha l’ultima parola, non lo permetterà, come è già successo tante volte in America Latina».

E continua spiegando l’approccio comunicativo delle gang: «A volte i loro leader dicono che lottano per la popolazione, come Chérisier, che va in video e accusa i borghesi, e dice di volere le dimissioni del primo ministro Ariel Henry. Ma è l’esatto contrario. Se davvero volessero, potrebbero andare a prenderlo quando vogliono, perché sono più forti della polizia».

In effetti le forze di sicurezza, sebbene siano state formate per decenni dalle Nazioni Unite (missione dei caschi blu Minustah dal 2004 al 2017, preceduta dalla Minuha 1993-96, e oggi sostituita dalla più leggera Binuh, Ufficio integrato delle Nazioni Unite ad Haiti), sono incapaci di opporsi alle bande, e spesso i poliziotti vengono ammazzati. Anche le neonate Forze armate d’Haiti, sciolte dal presidente Jean-Bertrand Aristide nel 1994, e ricostituite da Jovenel Moise nel 2017, non hanno mezzi né risorse.

La piramide del potere

«Ad Haiti – continua il nostro interlocutore – esiste una borghesia industriale, ma è dominata dalla borghesia del commercio (o dell’import-export) che è molto forte e blocca lo sviluppo industriale.

Questa classe dominante non ha però la forza di eliminare il sistema precapitalistico, ovvero quello dei latifondisti, in quanto ha bisogno di loro, sia per la produzione di alimenti da esportazione (caffè, zucchero, banane…) sia per reprimere le rivendicazioni popolari dei piccoli contadini.

D’altro lato l’influenza imperialista, soprattutto statunitense, ma anche canadese, francese, che si appoggia su questa classe dominante, ha dei chiari progetti per il paese».

Si riferisce a quattro settori strategici principali: le zone franche con le manifatture del tessile (aree industriali libere da tasse, delle quali abbiamo parlato in MC gen-feb 2014 e maggio 2016); l’agro industria; le ricchezze del sottosuolo e il turismo di alta gamma.

Manifattura tessile

Le zone franche del tessile fanno parte di una strategia delle multinazionali su Haiti da decenni. Sono state ulteriormente spinte dalla famiglia Clinton (Bill e Hillary) come strategia di ricostruzione dopo il terremoto del 2010. Nel giugno di quell’anno Bill Clinton divenne co-presidente, insieme al primo ministro Jean-Max Bellerive, della Commissione ad interim per la ricostruzione di Haiti. Ma di fatto comandava lui. La grande zona franca industriale di Caracol, nel Nord del paese, ad esempio, ha visto un grosso coinvolgimento di Hillary. Inaugurata nell’ottobre del 2012, è gestita da manager e capitali sudcoreani (per Clinton-Haiti si veda MC gen-feb 2014). Altre aree sono quella di Ouanaminthe (Codevi), al confine Nord con la Repubblica Dominicana, comoda per portare i manufatti direttamente oltre frontiera, e alcune più recenti a Santo (Croix-de-Bouquet, Nord della capitale), la Apaid & Baker Sa, e Carrefour (a Sud), la Palm Apparel, oltre a quella storica nei pressi dell’aeroporto di Port-au-Prince, la Sonapi. In tutte queste zone industriali, libere da tasse, vengono assemblati vestiti per i grandi brand statunitensi e non solo. Si tratta di un grande serbatoio di manodopera a bassissimo costo, a due passi dagli Stati Uniti.

Il punto cruciale, più in generale, sta nel costo del lavoro. Il salario minimo dignitoso è una lotta affrontata a più riprese dai sindacati haitiani, in particolare nel tessile, ma non solo.

Un sindacalista ci racconta: «Oggi il salario minimo è di 500 gourde al giorno, che al tasso di cambio attuale equivale a 5 dollari. Nel 2009 era di 70 gourde (1,75 dollari con il cambio dell’epoca), ma noi ne chiedevamo 250 (6,25 Usd). Uno studio di economisti haitiani e statunitensi indipendenti, aveva calcolato che per far vivere una famiglia di quattro persone, undici anni fa occorrevano 1.100 gourde al giorno (27,50 usd). Ce ne concessero 125 (poco più di 3). Oggi l’operaio del tessile salta sistematicamente il pranzo, bevendo un goccio di kléren (distillato grezzo di canna da zucchero, dal costo irrisorio, nda) per resistere al pomeriggio. Altrimenti non porterebbe a casa nulla. Inoltre, sono quasi tre anni che il salario minimo non è stato rivisto, mentre la svalutazione della moneta nazionale è stata elevata».

Agro industria

La borghesia agro industriale è un gruppo socioeconomico che sta emergendo. Ne era espressione lo stesso Jovenel Moise. Un caso esemplificativo è l’area di Savane Diane, dove l’imprenditore Clifford Apaid (di una delle famiglie più ricche di Haiti) sta impiantando la sua compagnia Stevia agro industries (Stevia Sa), per un investimento stimato di 250 milioni di dollari (1). Su circa 8mila ettari, a cavallo di tre dipartimenti, la cosiddetta Export processing zone, produrrà manioca, zucchero di canna, avocado e stevia. La stevia (s. rebaudiana) è un dolcificante ipocalorico naturale molto utilizzato nei paesi ricchi in sostituzione dello zucchero, ad esempio è usato dalla Coca-Cola per le bibite in versione light. L’area, chiamata «Zone franche agro industrielle d’exportation de Savane Diane», è stata creata grazie a un decreto presidenziale (di Moise) dell’8 febbraio 2021, che la definisce una «zona franca» ovvero «tax free zone», o zona senza tasse. Il decreto ha reso operativo un accordo firmato tra il Consiglio nazionale delle zone franche (Cnzf), rappresentante lo stato haitiano, e Nina Apaid, presidente della Stevia Sa, nell’ottobre 2019. L’operazione prevede l’esproprio di terre ai piccoli contadini e il loro impiego come braccianti (a salario minimo).

Nel decreto salta all’occhio la frase: «Considerando l’impegno delle autorità pubbliche di prendere tutte le misure necessarie per promuovere lo sviluppo socio economico del paese, in particolare attraverso la realizzazione di zone franche».

Il sottosuolo

Una risorsa non ancora sfruttata, ma presente nel paese, è quella mineraria. Secondo diverse prospezioni, fatte in Haiti e in Repubblica Dominicana (Rd), è presente una ricca vena che taglia l’isola di Hispaniola da Nord Ovest al centro, passando per Santiago (Rd). Sono stimate buone quantità di oro, argento e rame.

Alcune multinazionali che sfruttano già il sottosuolo in Rd, hanno fatto prospezioni ad Haiti, stanno firmando accordi di sfruttamento e stanno procedendo all’installazione di siti estrattivi (2). Naturalmente questo sta causando l’esproprio di terre ai piccoli contadini, i quali hanno dato vita al Komite jistis min (in creolo: Comitato giustizia miniere), per opporsi allo sfruttamento indiscriminato delle imprese minerarie internazionali. Attualmente si tratta di zone nel Nord Est del paese, come Grand Bois e Morne Bossa.

Photo by Richard PIERRIN / AFP

L’ultima frontiera

L’ultimo ambito dello sfruttamento del paese da parte di compagnie internazionali, in joint-venture con l’oligarchia locale, è quella del turismo di alta gamma. Ne avevamo parlato in MC (gen-feb 2014) quando ci eravamo chiesti perché parte dei soldi per la ricostruzione post terremoto 2010 erano stati impiegati per costruire grandi hotel di lusso. Oggi il processo continua: «Ci sono compagnie straniere in diverse zone di interesse turistico. Parlo delle isole Tortue (Nord), Gonave, e poi Mole St. Nicolas e di altre spiagge notevoli. Stanno facendo gli studi per impiantare dei resort. E per far questo manderanno via i contadini e assumeranno personale pagandolo con il salario minimo. Un’ulteriore proletarizzazione del produttore agricolo haitiano», rincara il nostro interlocutore.

«Il grosso problema in tutto questo, è che l’opposizione liberale, oltre ovviamente la destra al potere, non mettono in discussione questi mega progetti né il salario minimo». La mano d’opera a bassissimo costo, oltre che la svalutazione continua della moneta nazionale, è infatti il propulsore dello sfruttamento delle risorse naturali e umane di Haiti.

il primo ministro ad interim, Claude Joseph (a sinistra) si congratula con il primo ministro de facto, Ariel Henry (designato dal Core group), durante la commemorazione per il defunto presidente Jovenel Moise, al Pantheon di Port-au-Prince, il 20/07/21. (Photo by Valerie Baeriswyl / AFP)

Perché uccidere il presidente

Torniamo da dove siamo partiti. Perché il presidente Jovenel Moise è stato ucciso e perché con modalità tanto efferate?

Le analisi concordano su un regolamento di conti interno alla classe politica dominante, allo stesso partito Phtk di Michel Martelly e Jovenel Moise.

Un attivista haitiano nel settore dei diritti umani, da noi contattato, che ci ha chiesto pure lui l’anonimato, si esprime così: «Si tratta di un vasto complotto, ben pianificato, che vede coinvolta la mafia haitiana e quella internazionale, insieme a quella che chiamiamo borghesia conservatrice e classe politica tradizionale haitiana. Moise ha sfidato quelli che chiamiamo gli oligarchi, le grandi famiglie più ricche di Haiti, anche se per accedere al potere ha avuto il loro supporto. Ha tentato di sfidarli, riducendo il loro margine di manovra, togliendo certi privilegi, aumentando alcune imposte. Tutto ciò ha prodotto una reazione fino al complotto. Sono passati attraverso la stessa Guardia presidenziale, i cui membri sono stati pagati affinché consegnassero il presidente. Si tratta di un crimine internazionale, costato milioni di dollari, che ha mobilitato decine di persone e materiale militare sofisticato».

In effetti, pure il vilipendio del cadavere, e la sua esposizione sui social media, pare un messaggio chiaro, mandato a chi vuole fare politica ad Haiti: se ci sfidate, ecco cosa può succedervi.

Attualmente, l’inchiesta in corso è condotta dal giudice istrutture Garry Orélien, che ha sostituito ad agosto Mathieu Chanlatte, dimissionario. Una trentina di accusati sono agli arresti, tra i quali ex militari colombiani e tre haitiani-americani. Tra loro lo sconosciuto Christian Emmanuel Sanon, indicato come leader dell’attentato, colui che avrebbe voluto prendere il potere. Molto probabilmente l’uomo di paglia degli ideatori del complotto.

Avvisi a comparire davanti al giudice sono stati emanati ai miliardari uomini d’affari haitiani Réginald Boulos, Jean-Marie Vorbe e Dimitri Vorbe, e agli ex senatori Steven Benoit e Yuri Latortue, come riporta The Strategist, dell’Australian strategic policy institute, un think thank australiano di studi strategici(3).

L’arrestato più illustre è Samir Handal, fermato il 15 novembre scorso all’aeroporto di Istanbul.  Haitiano di origine palestinese (e residente a Miami), fermato grazie a un mandato d’arresto dell’Interpol, fa parte dell’oligarchia haitiana. Si stava recando in Giordania, provenendo da Miami. Dovrà essere estradato ad Haiti.

Il giudice Orélien ha ricevuto numerose intimidazioni: il suo ufficio è stato forzato da ladri nella notte tra il 27 e il 28 ottobre, la sua auto presa a fucilate lo stesso giorno, e uomini armati hanno cercato di fare irruzione, sempre nel suo studio, a inizio novembre.

Chi governa adesso?

Hillary Clinton (all’epoca segretario di stato Usa) inaugura il parco industriale Caracol, a Nord, il 22 ottobre 2012. Zona franca per la manifattura tessile, fortemente voluta da lei e dal marito, l’ex presidente Bill Clinton. (Photo by LARRY DOWNING / POOL / AFP)

Intanto la dinamica politica vede opporsi il governo de facto di Ariel Henry (che è stato ancora rimaneggiato il 24 novembre scorso, con il cambio di 8 ministri su 18) appoggiato da Core group e Binuh, e l’opposizione democratica, firmatari del cosiddetto accordo del 30 agosto, che chiede un processo di transizione differente. Si cerca una «riconciliazione nazionale» sul piano politico.

Gli obiettivi del nuovo governo de facto, dice Henry il 25 novembre, sono ristabilire la sicurezza, la riforma costituzionale e portare il paese alle elezioni a tutti i livelli. Il problema immediato è un deficit di bilancio statale. Un budget di circa 254 miliardi di gourde (2,5 miliardi di dollari), ma le casse dello stato ne avrebbero solo 96, di cui 30 già impegnati per sovvenzionare il carburante.

Come se non bastasse, un forte terremoto ha colpito il Sud Ovest del paese il 14 agosto, causando 2.246 morti e 329 dispersi e perdite economiche stimate di 1,6 miliardi di dollari. I bisogni recensiti per la ricostruzione sono di 1,97 miliardi.

Ma occorre ricordare che, dalle casse dello stato, mancano circa 3 miliardi di dollari, «evaporati» con lo scandalo PetroCaribe.

Marco Bello
(fine prima puntata/ continua)


Note
1 • Haiti-agriculture: new agro-industrial export free zone, Haiti Libre, 12/02/2021.
2 • Ruée vers l’or en Haiti, Enquet’action, 10/06/2020.
3 • Who benefits from insecurity in Haiti?, The Strategist, 14/07/2021.