Migranti in subappalto


L’Unione europea intensifica le collaborazioni con paesi terzi per la gestione dei flussi migratori. Sono accordi costosi nei quali il rispetto dei diritti umani non è un requisito. Ne parliamo con il direttore dell’ufficio per il Mediterraneo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni Unite.

I flussi migratori e la loro gestione sono uno dei temi più dibattuti in Europa. Per far fronte alla questione sono stati stipulati, negli anni, diversi patti tra l’Unione europea o i suoi membri e paesi terzi, soprattutto del Nord Africa e dell’Europa orientale. Questi paesi ricevono ingenti somme di denaro in cambio di un più o meno esplicito impegno nel fermare i movimenti di migranti.

Si parla di processi di esternalizzazione delle frontiere, cioè politiche volte a spostare i confini dell’Ue in paesi terzi ai quali viene subappaltato il controllo dei flussi di persone dirette in Europa. Il tutto nonostante si sappia che in questi paesi non ci sono gli stessi standard di tutela dei diritti umani.

I «patti» dell’Ue

Il «Patto su migrazione e asilo» approvato ad aprile dall’Unione europea va in questa direzione: la compartecipazione a cui i paesi Ue sono chiamati nella gestione dei flussi può essere risolta infatti con il versamento di un contributo monetario in un fondo comune che potrà essere utilizzato per finanziare progetti e patti bilaterali con paesi terzi coinvolti nei flussi. Analizzando i diversi accordi già in opera, emergono diversi dubbi sul rispetto dei diritti umani.

Tra gli accordi di più lunga data ci sono quelli con la Turchia e la Libia. L’Italia porta avanti dal 2017 un memorandum d’intesa con la Libia, Paese altamente instabile, dominato da istituzioni fantoccio e governi locali autoproclamati in un territorio disseminato di campi di prigionia, nuovi lager dove le vite dei disperati sono la base di un mercato di schiavismo e ricatti economici. Nonostante la situazione nota del Paese, l’Italia ha finanziato, formato ed equipaggiato la guardia costiera libica, ignorando gli avvertimenti degli organismi internazionali che da anni denunciano le violazioni dei diritti umani di cui questa si rende partecipe.

Su questa linea, uno degli ultimi passi fatti è rappresentato dalla firma del memorandum tra l’Unione europea e la Tunisia. Si tratta di un pacchetto di aiuti diviso in tre voci, di cui due subito disponibili. Esse prevedono 150 milioni di euro a sostegno delle finanze del Paese e 105 milioni per la gestione dei flussi migratori. Fondi destinati al governo di Kaïs Saïed, ritenuto sempre più autoritario, anche per aver accentrato negli ultimi anni i poteri su di sé indebolendo parlamento e magistratura. Le migrazioni sono proprio uno dei cavalli di battaglia del presidente che da tempo porta avanti discorsi di odio nei confronti dei migranti subsahariani. Parole spesso tradotte in repressioni violente.

La Tunisia è uno dei paesi al centro di una grossa inchiesta giornalistica internazionale, intitolata «Desert dumps», che mostra come i paesi nordafricani utilizzino i finanziamenti europei per compiere azioni violente nei confronti dei migranti subsahariani. Come la pratica di intercettarli sulle imbarcazioni e portarli in zone remote del deserto abbandonandoli in condizioni terribili.

Kigali, capitale del Rwanda.

Il punto di vista dell’Oim

Per indagare a fondo questi temi abbiamo intervistato Laurence Hart, direttore dell’ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni Unite.

L’Oim è nata nel 1951, dal 2016 fa parte delle Nazioni Unite e si occupa di assistere i migranti e i suoi 175 paesi membri nella gestione organizzata dei flussi migratori.

L’ufficio di coordinamento del Mediterraneo copre diplomaticamente Italia, Malta e Santa sede e ha il ruolo di supportare un approccio coerente e costruttivo alle migrazioni su entrambe le coste del Mediterraneo, quindi collaborando anche con i paesi del Nord Africa. Cerca di supportare i processi di cooperazione tra stati e lo sviluppo delle loro politiche migratorie, interviene nelle situazioni di emergenza, e offre un grosso supporto alle autorità italiane nei processi di accoglienza, ad esempio con oltre 180 mediatori culturali che affiancano la guardia costiera e gli uffici immigrazione nella valutazione delle domande di asilo.

Il nuovo «Patto su migrazione e asilo» dell’Unione europea vuole coordinare gli sforzi dei vari paesi nella gestione dei flussi migratori. Sono però emerse molte critiche su come questo possa impattare sulla vita dei migranti. Riguardo a questo, l’Oim come si pone?

«Cercare di riassumere in un documento unico quelle che possono essere le risposte al fenomeno migratorio – non lo chiamo mai problema, diventa un problema se non gestito – è sicuramente uno sforzo lodevole. Bisogna capire quanto queste dichiarazioni poi si tradurranno in azioni concrete ed efficaci.

Certamente un punto abbastanza complesso e critico è la tendenza crescente all’esternalizzazione delle frontiere nella gestione migratoria. La cooperazione deve essere inquadrata in una partnership più globale che includa, ad esempio, la migrazione regolare e il rafforzamento delle capacità istituzionali. Non ci si può limitare al pagamento di una somma in cambio del controllo delle frontiere. È già stato dimostrato in passato che queste sono politiche di respiro corto. Spesso poi ci sono cambi politici nei paesi terzi che possono portare a qualche forma di ricatto con lo scopo di alzare la posta aumentando le richieste finanziarie per sostenere la gestione migratoria. Si rischia inoltre di creare nuovi appetiti in paesi che possono, sulla base dei precedenti, sentirsi legittimati a richiedere un aiuto economico».

Mark Rutte, Ursula von der Leyen, Kais Saied e Giorgia Meloni durante l’incontro che ha portato al Memorandum con la Tunisia.

Sono stati da poco fatti nuovi accordi con la Tunisia. Accordi di questo tipo sono accusati di finanziare gravi violazioni dei diritti umani, come recenti inchieste sembrano dimostrare. State studiando questo fenomeno?

«Non ne sono testimone diretto ma non mi sorprenderebbe che queste cose succedano, purtroppo. Il rischio è scaricare il peso della gestione del fenomeno migratorio su un paese di transito che non ha le possibilità di assorbirlo. Penso ai paesi nordafricani che sono territori di transito, di origine, ma anche di destinazione. C’è necessità di moltissima manodopera anche in questi Stati i quali vanno quindi accompagnati anche su altre misure, come quelle di inclusione e di collocamento all’interno del tessuto sociale.

Abbiamo situazioni anche molto diverse, per esempio quella della Guardia costiera libica che è un soggetto molto delicato. Esiste sì una struttura ma esistono anche tante infiltrazioni di interessi diversi, soprattutto economici e finanziari, che purtroppo vanno a sfruttare ulteriormente i migranti che vengono riportati in Libia: in questo senso si può considerare un paese “non sicuro”.  Noi lo diciamo da tempo ormai.

Quello che fanno i libici è un lavoro difficile, nel pieno di una crisi che dura ormai da parecchi anni. La Libia è un Paese che richiede la costruzione di infrastrutture, piuttosto che di altri servizi per cui le competenze non esistono necessariamente tra i lavoratori libici. La consapevolezza che la manodopera e le competenze straniere sono uno strumento per lo sviluppo del Paese deve ancora radicarsi. Accompagnare i libici in questo lavoro è estremamente importante.

Trovare le soluzioni che possano venire incontro alle esigenze di tutti è la sfida che oggi ci si ritrova ad affrontare. Purtroppo, documenti come il Patto europeo rischiano di essere ripiegati solo sulle preoccupazioni interne dei paesi dell’Unione, e di dimenticare che il fenomeno è complesso e richiede anche soluzioni che non sono quelle canoniche».

Laurence Hart

Regno Unito e Italia stanno sviluppando nuovi centri per migranti rispettivamente in Rwanda e in Albania, e molti paesi europei vorrebbero emularli. Spostare questi processi in altri paesi quali risvolti può avere?

«Innanzitutto, Albania e Rwanda sono due casi assolutamente diversi, proprio da un punto di vista legale. Uno è un paese che è di futuro accesso all’Unione europea e l’altro invece è un paese che non ha degli standard internazionali riconosciuti o che comunque molti paesi mettono in questione.

Ci sono ancora da capire una serie di elementi nel contesto dell’accordo Italia-Albania: qual è la giurisdizione che sarà applicata? Nella misura in cui la legislazione è italiana, quindi garantista, e viene applicata su tutto il processo, non abbiamo, noi dell’Oim, grandi obiezioni da fare. Sappiamo che esisteranno tutta una serie di tutele.

Diverso è il caso del Rwanda, dove invece si applica una legislazione che non è parte del sistema europeo. Da quel punto di vista ci preoccupa l’esternalizzazione nella misura in cui l’allocazione di queste procedure ad altri paesi può violare i diritti fondamentali delle persone.

Esistono poi altre considerazioni che secondo me sono importanti da fare riguardo il rapporto costi benefici di queste operazioni. Bisogna chiedersi se, visti i numeri, è opportuno investire ingenti somme di denaro per la costruzione di strutture dedicate, e per finanziare un meccanismo che richiederà una serie di viaggi e di enti preposti. Se non sia più efficiente investire nelle strutture già esistenti sul territorio.

Sono domande aperte. Penso che le considerazioni debbano essere fatte tenendo conto della globalità degli elementi. Sicuramente chi porta avanti queste azioni vede la questione più come una specie di deterrenza, con l’obiettivo di creare una serie di ostacoli per far ridurre l’appetito di una migrazione clandestina».

Rifugiati in attesa di attraversare il confine serbo-croato tra le città di Sid (Serbia) e Bapska (Croazia). Sid, Serbia – 17 ottobre 2015.

In questi ultimi anni avete notato dei cambiamenti nelle rotte migratorie e nelle motivazioni che spingono a intraprendere questi viaggi?

«La fotografia è quella di un mondo che si ritrova di fronte a una crescente instabilità la quale va affrontata con soluzioni molto specifiche. Il numero dei conflitti è aumentato negli ultimi anni, basti pensare al Sudan, per esempio, che è uno degli ultimi esplosi in maniera importante e che ha generato non solo sfollamento interno, ma anche – ovviamente – un movimento di richiedenti asilo verso l’Europa e l’Italia. Ci sono molti altri conflitti aperti in corso, come in Etiopia, Sud Sudan, Yemen, Myanmar e Afghanistan.

Esistono anche situazioni di conflitti a bassa intensità: pensiamo ai paesi del Sahel che oggi si ritrovano di fronte a conflitti interni che generano spostamenti di popolazioni.

Ci sono anche interessi internazionali: si stanno svolgendo elezioni in molti paesi, e la narrativa migratoria viene usata come arma di paura e minaccia nei confronti della popolazione. Quindi l’instabilità è sicuramente uno degli elementi che ci porterà ad avere un aumento del movimento di migranti che hanno necessità di protezione. E fornire la necessaria protezione è prima di tutto un dovere per tutti i paesi che sono firmatari di convenzioni internazionali.

Un altro elemento è il cambiamento climatico. Ad oggi non ci è dato sapere con esattezza quante persone emigrano perché la loro attività è vittima di una situazione climatica estrema o avversa. Bisogna indagare quanto il fenomeno del cambiamento climatico incide sulla decisione delle persone di spostarsi, perché è quello che permette poi di capire quali possono essere le risposte a monte per poter mitigare questa situazione e accompagnare le persone che sono in loco, quelle che si muovono e poi quelle nei paesi di destinazione».

Nel prossimo periodo, secondo lei, quali saranno le situazioni più importanti su cui intervenire per una gestione migliore dei flussi migratori?

«Le sfide sono tante e richiedono delle soluzioni che non siano solamente quelle di frenare la migrazione. Si parla molto spesso di sviluppo dei paesi di origine, per esempio il piano Mattei è un’iniziativa che l’Italia ha messo in piedi con questo proposito.

Però dobbiamo anche interrogarci sul concetto stesso di sviluppo. Certamente piccole progettualità possono alleviare sofferenze e difficoltà nei paesi di origine, ma non risolvono la problematica fondamentale: quella di far fiorire l’imprenditoria dei giovani africani nel loro contesto.

Ho letto un articolo che parlava di come le linee aeree low cost in Europa abbiano favorito la creazione e lo sviluppo dell’industria turistica di accoglienza, permettendo un maggior movimento di persone e favorendo la nascita di iniziative e di business tra paesi.

Oggi per fare lo stesso viaggio in aereo in un contesto africano si spende il triplo, questo significa che la classe media africana non ha le risorse per poter viaggiare in forma ricreativa.

Il che non permette la costruzione di un’industria dell’accoglienza e ostacola la circolazione di idee e capitali tra paesi africani.

Gli ostacoli burocratici e di integrazione nel sistema africano sono tra gli elementi su cui gli economisti dovrebbero interrogarsi perché l’aiuto esterno è importante, ma è fondamentale eliminare le barriere strutturali interne ai paesi. Il rischio altrimenti è quello di mettere dei soldi senza avere però anche dei risultati a lungo termine».

Mattia Gisola

 




Migrazioni. Per terra e per mare


Muri, forze di polizia, norme di legge non bastano a fermarli: la forza della disperazione li spinge a proseguire, nonostante tutto. Maurizio Pagliassotti è stato sulle rotte dei migranti e li ha raccontati in due libri, crudi. Come crudo e irrisolto è il fenomeno migratorio.

In cerca di pane e futuro. Sono migranti tunisini, nigeriani, siriani, egiziani, afghani, pachistani, bengalesi. Da un paio di mesi, in seguito al ritorno della guerra in Sudan, ci sono anche molti cittadini di quel paese africano.

Per tentare l’entrata in Europa, questi migranti hanno due possibilità, entrambe molto rischiose: prendere la strada del mare o quella della terra ferma. La prima è più scenografica e, dunque, più raccontata, la seconda è più nascosta e, pertanto, meno conosciuta.

La realtà delle migrazioni verso l’Europa viene descritta in tutta la sua durezza e disumanità nei due libri – forse imperfetti ma sicuramente pregevoli – che Maurizio Pagliassotti, giornalista (Domani, il Manifesto, ma anche Missioni Consolata) e scrittore, ha dedicato al fenomeno, non studiandolo da fuori ma calandosi in esso.

Il primo lavoro – «Ancora dodici chilometri» (2019) – è ambientato sul confine tra Italia e Francia (Claviere, Briançon, Monginevro, Bardonecchia, Colle della Maddalena, …) dove operano soprattutto gendarmi d’oltralpe, molto solerti nel riportare i migranti sul territorio italiano1.

Il secondo – «La guerra invisibile» (2023) – parte dai luoghi del primo, ma allarga l’orizzonte dalle Alpi ai Balcani, attraversando vari confini e arrivando fino al Kurdistan turco (Erzurum, Van, Igdir).

(Photo by Matteo Trevisan / NurPhoto / NurPhoto via AFP)

Vittime e novelli carnefici

«Il mondo delle migrazioni – scrive Pagliassotti – è duro […]. Il migrante sa che per tutto ciò che farà durante il suo viaggio dovrà pagare qualcosa. Con il denaro, con il lavoro, con la schiavitù, con il sesso». Pagine dalla parte dei migranti – le vittime, anzi i nemici di questa «guerra invisibile e silenziosa» -, ma senza paternalismo o pietismo e, soprattutto, senza alcun giro di parole: il racconto di Pagliassotti è crudo e senza sconti per alcuno. Neppure per gli anziani avventori di un bar di montagna che commentano una storia di migranti affogati in mezzo al mare. «L’odio di questi paesi non è quello dei quartieri periferici di Torino, o di un’altra grande città. […] in un posto così, dici “se lo meritano”, “ma chi se ne frega”, “crepino”. Solo così sei accettato. Qui non c’è il nigeriano che spaccia o ti ruba la bicicletta. Qui non c’è nulla. Lo dicono tutti, quindi lo dici anche tu. E tutti ridono nel bar, dandosi di gomito. […] Un sodalizio strapaesano tra vecchi piemontesi e vecchi meridionali accomunati da un rancore irrazionale, soprattutto i secondi: furibondi nei loro “noi siamo venuti qui per lavorare e quelli vengono a fare un c… Che se ne stessero a casa loro”. […] La vittima che diventa carnefice. Infiniti patimenti e angherie, ma poi alla fine è arrivato qualcuno ancora più reietto, ancora più scuro di pelle, ancora più terrone».

Il clima politico di questi anni complicati non aiuta. È ormai annosa la questione delle Ong del Mediterraneo da molti considerate «pull factor» (fattori di attrazione) per i barconi e i barchini dei migranti. Se – come racconta Pagliassotti in Ancora dodici chilometri – anche una piccola associazione come «Il Pulmino verde» viene minacciata perché aiuta i migranti irregolari, significa che il degrado umano è profondo.

«Che vita schifosa deve essere quando tutti ti odiano e tu odi tutti», commenta l’autore a un certo punto de La guerra invisibile. Eppure, non mancano incontri con figure tanto umane da fare notizia. Come a Trieste.

Dopo Bolzano, l’autostrada che conduce al Brennero, il confine tra Italia e Austria. Foto Tibor Pelikan – Pixabay.

Gli «eserciti» del papa

«I loro nomi si protendono lungo la rotta dei Balcani fra migranti, cooperanti, giornalisti e non sempre sono amati neppure tra noi buoni: “troppo mediatici”. Lei è una psicologa clinica, lui un ex docente di liceo in pensione. […] Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi ogni sera, da anni, vanno a ricucire le ferite di chi giunge dalla rotta dei Balcani

[…]. Lei, una signora apparentemente semplice ma dal portamento aristocratico, lava e medica i piedi luridi coperti di fango e sangue di chi arriva qui […]. Due anziani che in cambio di niente salvano la dignità di un continente […]. Indubbiamente sono sotto i riflettori ma questo che problema è?». «Esiste una vasta invidia nel nostro mondo di buoni», chiosa con sarcasmo Pagliassotti. Che non può dimenticare gli operatori e volontari della Caritas.

«Li apprezzo molto – confessa l’autore – , pur essendo ateo e molto molto critico rispetto all’altruismo fondato sulla misericordia. […] La Caritas che ho conosciuto io l’ho trovata nei campi di frutta del Nord Italia

[…]. La Caritas che mi accoglie a Šid (cittadina serba al confine con la Croazia, ndr) fa parte di un esercito della misericordia

[…] che si protende verso l’aiuto degli umiliati e offesi in marcia».

Papa Francesco, capo di questo esercito2, parla spesso in difesa dei migranti. In Ancora dodici chilometri Pagliassotti cita un suo passo: «“Spostarsi e stabilirsi altrove con la speranza di trovare una vita migliore per se stessi e le loro famiglie: è questo il desiderio profondo che ha mosso milioni di migranti nel corso dei secoli”». Ma, come ricorda l’autore, anche il pensiero del papa è spesso derubricato alla categoria denigratoria del «buonismo».

 

C’è profugo e profugo

Le guerre parevano lontane. Almeno fino al febbraio 2022, quando la Russia di Putin ha aggredito l’Ucraina e la guerra è entrata di prepotenza nell’esistenza di noi europei. Maurizio Pagliassotti abbandona il suo percorso narrativo sulla rotta balcanica e turca per portarci più a nord, in Polonia, paese appartenente al cosiddetto «gruppo di Visegrád», ovvero i quattro stati europei (oltre alla Polonia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia e l’Ungheria di Orbán) «reazionari, cementati, tra le altre cose, dall’ossessione delle frontiere chiuse che hanno trasformato i migranti in nemici».

«Sono stato nei giorni scorsi – racconta l’autore riferendosi all’inizio di marzo 2022 – al confine tra la Polonia e l’Ucraina per vedere cosa è l’umanità in fuga che viene accolta. Io arrivo da un viaggio dove ho incrociato solo l’umanità che viene respinta. Profughi delle guerre in Afghanistan e Siria sono gli esseri umani incontrati nei Balcani e in Turchia: i siriani possono perfino condividere l’origine delle bombe con gli ucraini. Bombe russe».

In definitiva, via libera a milioni di ucraini, stop indefinito per siriani, afghani, africani. Perché – si chiede l’autore – «esistono profughi che sono giustamente degni della nostra umanità e altri a cui viene concessa soltanto la nostra disumanità?».

Dall’esperienza nella stazione polacca di Przemyśl, l’autore esce (anche) con altre stoccate accuminate. «I fotografi – scrive – sono tra i più eccitati e spietati, sono tra quelli che meglio annusano il sangue: i loro obiettivi si avvicinano al volto dei bambini fino ad abusarne, e scavano alla ricerca dello scatto più duro, affamati di lacrime e senza scrupoli; le madri si ribellano, subentra la polizia che vieta di fare le foto, ma tutti se ne infischiano, ci sono discussioni. Sulla pelle dei profughi campa un sacco di gente e la sofferenza è un grande mercato da sfruttare a fondo».

«Ci servono»

I passaggi dei confini tra Italia e Francia, tra Italia e Austria e – soprattutto – tra i paesi della ex Jugoslavia e tra Grecia e Turchia sono pagine dense di storie e ingiustizie, che suscitano l’indignazione e l’impotenza di Pagliassotti.  «Perché – scrive con acuta perfidia – i muri che alziamo e le milizie che schieriamo per mari e per monti sono, in realtà, strumenti per evitare la tragedia: questo è il messaggio mai esplicitato, ma nemmeno troppo sottinteso. Una forma di bontà e altruismo con il mitra in mano».

C’è la guerra degli Stati contro i migranti e, all’interno di questa, la guerra dei penultimi contro gli ultimi. «“Ci odiano perché lavoriamo”, mi ha raccontato un ragazzo (siriano, ndr) di Erzurum. “Dicono che rubiamo il lavoro ai turchi. Ma questo non è vero […]. Lo stipendio medio di un muratore siriano è di circa 400 euro, contro gli 800-1.000 di un turco. Un panettiere 300 contro 600.

[…] il rifugiato siriano è percepito come un concorrente sleale che si vende per pochi soldi pur di non tornare al suo Paese».

Odio, razzismo, guerra: i due libri di Pagliassotti lasciano poco spazio alla speranza. Anzi, proprio non ne lasciano. Ma come si fa a dargli torto?

È triste ammetterlo, ma oggigiorno il mondo e il sistema sono questi. Prendiamo, ad esempio, l’Italia. Oggi, escludendo alcune chiese (cattolica, valdese, ecc.) e diverse organizzazioni della società civile, chi non si oppone3 all’arrivo di migranti lo fa quasi esclusivamente sulla base di un calcolo di mera convenienza: «Ci servono». Per fare i lavori che gli italiani non vogliono più fare, per garantire le nostre pensioni, perché gli italiani invecchiano e non fanno più figli.

D’altra parte, meglio essere cinicamente pratici piuttosto che dare spazio a concetti (guerra etnica, difesa della razza, suprematismo bianco, teoria della grande sostituzione, purezza razziale) bocciati dalla storia e dalla morale. Ma che potrebbero anche tornare.

Paolo Moiola

Le montagne attorno a Claviere, zona di confine con la Francia molto battuta dai migranti. Foto Piero Mobile – Unsplash.


Note

(1) Sulla questione migranti lo scontro tra Francia e Italia è aspro. Dopo aver rafforzato il confine con altri gendarmi, i transalpini hanno accusato il governo Meloni di incapacità nella gestione del problema (4 maggio).

(2) Peraltro, anche la Caritas ha i suoi problemi. Lo scorso novembre papa Francesco ha deciso di commissariare Caritas Internationalis, la confederazione delle 162 Caritas nazionali operanti nel mondo.

(3) Il clima culturale vigente è stato sintetizzato (con toni esasperati) da una copertina (riprodotta sopra) e un’inchiesta del settimanale «Panorama»: «Un’Italia senza italiani» (3 maggio).

 

I MIGRANTI SU MC

Tra i molti articoli sul tema leggibili sul sito della rivista, ne segnaliamo alcuni:




Dalla Bosnia. La porta è chiusa


Rispetto a quella del Mediterraneo, la rotta dei Balcani è meno nota ma sempre più frequentata. Qualunque sia la strada seguita, la questione delle migrazioni verso l’Europa rimane irrisolta. Reportage dai campi profughi della vicina Bosnia.

Silvia Maraone è la responsabile del progetto di Ipsia (Istituto pace sviluppo innovazione, la Ong delle Acli) a Bihać e a Lipa, in Bosnia. Schietta e cordiale, Silvia si muove con autorevolezza e determinazione con istituzioni locali, poliziotti, cittadini, volontari, operatori di varie organizzazioni e con i profughi.

Ci accompagna all’interno del campo di Lipa, raccontando come funzionano le cose, come sta evolvendo la situazione, quanto siano preziosi gli aiuti che arrivano dall’Italia.

Siamo nel distretto bosniaco di Una Sana, una terra ricca di fiumi e di boschi, con paesini caratterizzati da piccoli minareti. In questi luoghi, che trent’anni fa videro il conflitto dell’ex Jugoslavia, negli ultimi due anni si è creata un’emergenza straordinaria.

La cittadina di Bihać, che conta circa 30mila abitanti, ha visto arrivare seimila profughi, in maggioranza provenienti dal Medio Oriente e diretti in Europa. Persone che, nonostante il diritto di chiedere asilo, vengono bloccate proprio sul confine tra Bosnia e Croazia, dove si fa di tutto per non farle proseguire.

Una veduta del nuovo campo profughi di Lipa, in Bosnia, aperto il 19 novembre 2021; posto a 20 chilometri da Bihać, può ospitare fino a 1.500 persone. Foto di Geoffrey Brossard – Nangka Press – Hans Lucas – AFP.

La strategia di Frontex

Logo dell’agenzia europea Frontex.

È la «fortezza» Europa che non li vuole e che, come spesso accade, li ferma per interposta persona. In questo caso, è la Croazia – paese dell’Unione europea – che respinge i profughi, mentre la Bosnia prende il posto della Turchia o della Libia nel trattenerli. L’agenzia europea Frontex trova conveniente utilizzare la vicinanza geografica dei Balcani e la collaborazione di diversi governi desiderosi di entrare nella Ue (come la Bosnia Erzegovina), per rendere il contenimento dei migranti più semplice e, soprattutto, meno costoso.

Nel 2021, con un aumento del 125% di passaggi irregolari su questa rotta rispetto all’anno precedente, Frontex ha perseguito una logica securitaria fatta di fili spinati, campi di confinamento e militarizzazione dell’area. Ciliegina sulla torta, l’uso di moderne tecnologie, dai droni allo studio di sistemi di sorveglianza e controlli di tipo biometrico, come le impronte digitali, il riconoscimento facciale, ecc. (vedi Luca Rondi su Altreconomia n. 245). Pratiche che già molte organizzazioni contestano, considerandole illegali e pericolosissime dal punto di vista dei diritti umani e della privacy in campo digitale (lo si fa con i migranti, ma anche con i cittadini di molti paesi).

La mappa mostra i tragitti dei migranti per raggiungere la Bosnia.

Il «non luogo» di Lipa

Così la zona è divenuta una sorta di collo di bottiglia, e la radura di Lipa, a 20 chilometri da Bihać e da qualsiasi altro centro abitato, si è trasformata inizialmente in una tendopoli di quasi duemila profughi, mentre altri venivano ospitati in città, in due campi provvisori. Dopo l’incendio di un anno e mezzo fa, le organizzazioni internazionali e la municipalità di Bihać hanno deciso di attrezzare l’area, che ora si presenta più funzionale e dove in maggio è stata inaugurata una nuova zona per le attività dedicate ai bambini (grazie ai fondi inviati direttamente da papa Francesco). Ma non cambia il fatto che questo campo tra i boschi della Bosnia resti un «non luogo» in mezzo al nulla, con millecinquecento posti – fino a giugno, occupati da circa 400 ospiti – con ben poche possibilità di interazione con il territorio. Oltre alla distanza fisica, infatti, esiste anche una differenza culturale importante: la maggioranza di queste persone provengono da Afghanistan e Pakistan, ma ci sono anche siriani, iraniani e diversi africani. Oltre a un centinaio di cubani, la cui storia è davvero originale, nella sua drammaticità. Andare negli Usa può costare troppo, e allora si ripiega sull’Europa, e la Russia – non distante dal sogno europeo – è uno dei pochi paesi in cui un cubano può sbarcare senza visto (ma dove non può restare né chiedere asilo). Di respingimento in respingimento, anche i cubani sono finiti a Lipa, luogo nel quale tutti (maschi e femmine, famiglie, giovani e meno giovani, di qualsiasi provenienza) hanno un unico scopo: varcare il confine.

Alcune strutture del nuovo campo profughi di Lipa. Foto di Roberto Calza.

La struttura

Lipa è la tappa principale per chi prova e riprova «the game», il cammino verso l’Europa, ed è disposto a tutto per realizzare il proprio progetto migratorio. Un percorso sempre più ostacolato – anche con metodi brutali – dalle autorità croate che hanno persino «rasato» una striscia di bosco a ridosso del confine per individuare meglio con i droni coloro che provano ad emigrare – come cantava Ivano Fossati – «da una terra che ci odia ad un’altra che non ci vuole».

Ipsia è un’organizzazione particolarmente attiva a Bihać e nel campo, dove ha promosso alcune iniziative innovative, sostenute da molti donatori italiani, come il servizio di lavanderia, le cucine collettive, i social cafè. Il primo si era reso necessario per urgenti problemi igienico sanitari, in quanto molti migranti indossavano per giorni gli stessi vestiti senza poterli lavare e cambiare, cosa che aveva provocato diversi casi di scabbia. Le cucine – una decina di grandi bracieri a legna – sono invece una felice intuizione che permette a molti ospiti di sentirsi protagonisti nel cucinare i loro pasti, secondo la loro tradizione e le loro capacità. I social cafè sono infine una modalità per favorire le relazioni all’interno del campo, tramite un tè o un caffè, alcune attività ludico ricreative e culturali, con il supporto di operatori e volontari.

«Ora i posti a disposizione sono sufficienti e l’essenziale c’è – ci dice Silvia -, ma per proseguire con le cucine (cibo e legna costano 3/4mila euro al mese) e la lavanderia (altri 5mila) serviranno altri fondi, oppure dovremo ridurre il numero di beneficiari. Inoltre, oggi i profughi in tutta la Bosnia sono meno di duemila, ma se i numeri aumenteranno – come potrebbe accadere – rischieremo nuovamente di trovarci in difficoltà».

Oltre a Ipsia, il campo – ma anche la città di Bihać – vede la presenza di una decina di realtà internazionali e locali che hanno costruito efficaci sinergie finalizzate a rispondere alle innumerevoli esigenze portate dai migranti. Caritas Italiana (con l’appoggio di numerose Caritas diocesane), Caritas Banja Luka, Ipsia, Croce Rossa (sia internazionale che locale), l’agenzia delle Nazioni Unite per le migrazioni (Iom), alcune Ong di Danimarca e Austria e pure l’ambasciata italiana, hanno permesso di gestire la situazione in modo tutto sommato efficace, per quanto sempre emergenziale.

«All’inizio dell’emergenza – racconta il responsabile della Caritas di Banja Luka che a Bihać ha aperto un ufficio appositamente per far fronte alla complessa situazione – erano presenti una cinquantina di associazioni, che poi sono scomparse. Chi è rimasto ha capito che, perché le cose funzionassero, era necessario collaborare, facendo ognuno la propria parte».

Così il progetto lavanderia funziona grazie ai volontari e operatori Ipsia (tra cui alcune ragazze italiane in servizio civile) che raccolgono gli indumenti al campo, mentre la Croce Rossa di Bihać provvede al lavaggio e alla consegna, grazie a lavatrici industriali e furgoni finanziati dall’Italia. La Croce Rossa poi – autorizzata dal governo bosniaco a monitorare quanti si accampano nei dintorni (nei cosiddetti «jungle camp», vedi riquadro pp. 20-21) – condivide le informazioni con Caritas Bihać che, tramite tre suore di Madre Teresa, due infermiere e due psicologi, raggiunge questi dimenticati portando loro viveri, vestiti e assistenza sanitaria. Inoltre, per evitare uno sbilanciamento di risorse verso i profughi, si interviene anche sulle povertà della comunità locale. Similmente per la scuola: le attività e le risorse messe in campo per favorire l’inserimento dei bambini stranieri (in verità non molti), sono nei fatti destinate a tutti i minori, senza distinzioni.

Un migrante si prepara la cena in un rifugio di fortuna nei boschi fuori Lipa. Foto di Stefano Calza.

Sotto la cenere

Nonostante una situazione che al momento appare più tranquilla, restano impressionanti alcuni numeri forniti da Caritas Bihać, che opera grazie all’aiuto di varie Caritas in Italia e di altri donatori, nonché al supporto degli operatori Ipsia con cui collabora da tempo. Grazie ai fondi Caritas, in questi ultimi mesi la Croce Rossa locale ha distribuito 120mila pasti per il campo, a cui se ne aggiungono altri 40mila per quanti vivono accampati nei boschi e nei ruderi, mentre altri 16mila pasti vengono distribuiti in altre realtà. Allo stesso tempo si sostengono circa 400 famiglie bosniache bisognose di Bihać con aiuti di prima necessità.

Purtroppo, la questione migratoria non è l’unica preoccupazione. Daniele Bombardi, operatore di Caritas Italiana, che da anni viaggia tra Serbia, Bosnia e Kossovo, ammonisce: «Non è solo la questione migratoria a preoccupare. I compromessi su cui si è costruito il governo bosniaco dopo la guerra, appaiono sempre più fragili (riquadro a pag. 22). A livello governativo vi sono state alcune provocazioni, con richieste di autonomie che risultano divisive. E se non si presidia la situazione, basta una scintilla per riaccendere un fuoco che cova sotto la cenere».

Ogni tanto un paio di ragazzi escono dal campo con lo zaino in spalla. A loro non interessano i discorsi delle autorità venute a inaugurare il nuovo padiglione, né le beghe politiche nel governo bosniaco. Partono per «the game», alla ricerca di un futuro. Dovessero fallire e tornare indietro, Lipa probabilmente sarà ancora lì: un letto, un pasto e centinaia di compagni di sventura con cui condividere informazioni, fatiche e speranze. E qualche persona amica pronta a regalare un sorriso e a provare a salvaguardare la loro dignità.

Roberto Calza*

 (*) Già direttore della Caritas diocesana di Trento per dieci anni, attualmente referente per la pastorale Migrantes della stessa diocesi. Coordinatore della campagna «Cambiamo Rotta», promossa nel maggio 2021 da alcune realtà trentine a sostegno dei progetti di Ipsia a Bihać e Lipa in Bosnia.

Si parte per un nuovo tentativo di attraversamento del confine. Foto di Stefano Calza.


Storie di altri migranti

Ancora, ancora e ancora

Sopravvivono fuori dai campi ufficiali, ma resistono e non demordono: continueranno a provare il passaggio in Europa. Assistiti dai volontari del Jrs.

I boschi della Bosnia non sono la giungla tropicale, ma «jungle camp» è il modo in cui vengono indicati gli accampamenti nei boschi, fuori dai campi profughi autorizzati («squat» invece è il termine usato in area urbana). In mezzo agli alberi o appoggiandosi a qualche rudere nelle campagne piuttosto che a qualche capannone dismesso in una periferia urbana, alcune centinaia di persone stazionano nei pressi del confine, pronte all’ennesimo giro di giostra, per attraversare quella linea che li separa da un’Europa che, in questi anni, è divenuta una sorta di nuovo Eldorado.

All’interno delle attività del Jesuit refugee service (Jrs, in Italia rappresentato dal Centro Astalli), che ha un presidio nel campo di Lipa, c’è quella di «outreach», la ricerca di questi campi informali, con conseguenti visite a chi li popola, in particolare nella zona di Bihać e di Velika Kladuša. È un lavoro particolare, fatto di relazioni, di contatti, di condivisione di informazioni con altre organizzazioni e anche di un’attenta lettura del territorio. Se infatti alcuni luoghi sono ormai divenuti punti fermi di transito di molte persone, altre volte è necessario intuire – da un sentiero accennato in un prato, dalla presenza di volti nuovi in città, da qualche rifiuto lasciato nei boschi – dove si formano nuovi insediamenti.

Il sostegno che viene fornito da Jrs a chi vive nei jungle camp è principalmente di due livelli: quello materiale, che consiste nel rifornire i profughi di quanto può servire ad affrontare «the game» (es. vestiti e powerbank per i cellulari), e quello sanitario con visite mediche per accertare le condizioni di salute e, in caso di necessità, inviare le persone a professionisti (dentisti, oculisti, medici) convenzionati con l’associazione che paga il conto. Non è concesso consegnare viveri.

Un gruppo di volontari di Jrs visita un rifugio di migranti nei boschi attorno a Lipa. Foto di Stefano Calza.

L’altra faccia della rotta balcanica

Chi vive nei jungle camp? Per lo più si tratta di uomini, soprattutto pachistani e afghani, anche se non manca qualche famiglia (nei nostri giri abbiamo incontrato un paio di nuclei nepalesi e una famiglia iraniana) che decide di attendere in ripari di fortuna il momento buono per partire.

Sono luoghi che rappresentano l’altra faccia della rotta balcanica, che raccontano vicende che vale la pena far conoscere.

Nei pressi di una casa abbandonata alla periferia di Velika Kladuša incontriamo John, giovane camerunense che necessita di cure mediche. Ha infatti un labbro enorme, tumefatto da un pestaggio da parte delle guardie di frontiera, confermato dai segni di uno stivale sulla guancia. Gli operatori di Drc (Danish refugee council), la grande organizzazione danese che – tra i vari interventi – si occupa di fornire cure sul campo, esaminano il volto di John e sostengono che loro possono fare ben poco, meglio sarebbe se fosse sotto controllo medico per qualche giorno, per evitare complicazioni. Gli viene suggerito di farsi portare al campo di Lipa (è possibile chiamare il dipartimento per l’immigrazione bosniaco che fa questo servizio) dove l’assistenza medica è più strutturata e h24. John tentenna, non gli piace troppo dover tornare al campo, ma alla fine accetta, ponendo però una condizione: si farà trovare sulla strada principale, non vuole che il dipartimento immigrazione conosca esattamente l’ubicazione di quel rifugio né chi ci abita. Forse una sorta di rispetto per i suoi compagni di campo. Quando starà meglio, sicuramente farà tappa qui e poi, come tutti, proseguirà per fare un altro tentativo.

Un cartellone con i nomi delle organizzazioni attive nel nuovo campo di Lipa. Foto di Roberto Calza.

Dal Pakistan

Ci sono poi le storie di Sajad e Ibrahim, che troviamo insieme ad altri ragazzi pachistani in una vecchia fabbrica. Sajad, che compirà 18 anni quest’anno, ci racconta che, dopo diversi tentativi, era riuscito a passare – con un gruppo di quaranta connazionali – sia il confine croato che quello sloveno. A Novo Mosto, in Slovenia, la comitiva è stata fermata dalla polizia che ha chiesto chi fosse il capo del gruppo. Qualcuno ha indicato Sajad che – senza alcuna accusa precisa, senza una intermediazione né un traduttore e nemmeno una comunicazione formale – è stato arrestato e tenuto in carcere per sei mesi, prassi ormai piuttosto frequente. Una volta rilasciato – senza alcun processo – è stato rispedito in Bosnia.

Quella di Ibrahim, sui trent’anni, è invece una vicenda più complessa. Lui conosce quasi tutte le frontiere dell’Est Europa, avendo provato a passare da ogni pertugio possibile. Partito anche lui dal Pakistan, ha attraversato Iran, Turchia, Grecia, Kosovo, Albania, Serbia, Ungheria (passando il tristemente noto muro tra questi due paesi).

Arrivato finalmente in Austria, è stato fermato e riportato in Serbia e da qui in Bosnia. Tuttavia, Sajad e Ibrahim non demordono.

Proprio pochi giorni prima di incontrarli avevano riprovato «the game», insieme. Ma stavolta la reazione delle pattuglie che controllano il confine croato è stata particolarmente severa. Hanno preso loro i telefoni a cui hanno sparato, dando poi fuoco ai pochi soldi che avevano, ricacciandoli indietro ancora una volta.

La partita infinita

Dopo alcuni giorni passati tra queste persone diventa inevitabile chiedersi il senso di questo «gioco», che di ludico ha ben poco, e se non ci siano modi meno rischiosi e più dignitosi per arrivare in Europa. Ma il semplice fatto che qualcuno ce la faccia (e la cosa rimbalza velocemente di smartphone in smartphone) motiva tutti quelli che ancora – magari dopo aver provato 30 o 40 volte – sono in attesa. Perché qualcuno il confine lo passa comunque ogni giorno. In stazione a Zagabria, mentre torno in Italia, incrocio casualmente alcuni volti noti, sfiniti ma sorridenti. Sono ragazzi incontrati a Lipa alcuni giorni prima. Dopo tre giorni di cammino ora sono lì, forse a un passo dalla conclusione del loro progetto migratorio. Offro loro quel poco che ho, sperando arrivino alla loro meta.

Stefano Calza*

 (*) Laureando in sociologia, attualmente in tirocinio presso il Centro Astalli (Jesuit refugee service, Jrs) di Trento, da due anni vive un’esperienza di condivisione abitativa con alcuni migranti presso i padri comboniani del capoluogo trentino.

Rappresentanti di Jrs spiegano la loro presenza in Bosnia Erzegovina. Foto di Stefano Calza.


Bosnia-Erzegovina, venti di secessione

  • Superficie: 51mila Km2;
  • Popolazione: 3,8 milioni;
  • Sistema politico: dal 1995, Repubblica parlamentare federale composta da due entità: la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (croato-musulmana) e la Repubblica Serba (Republika Srpska);
  • Presidenza: tripartita, con un rappresentante per ogni gruppo etnico: Milorad Dodik (serbo), Šefik Džaferović (bosgnacco), Željko Komšić (croato);
  • Capitali: Sarajevo, con circa 300mila abitanti; Banja Luka, capoluogo della Repubblica Serba;
  • Date essenziali: secessione dalla Jugoslavia nell’aprile 1992; guerra civile (1992-1995) con 38.697 civili uccisi; accordi di pace di Dayton (Ohio, Usa) del novembre 1995;
  • Principali gruppi etnici: bosgnacchi 48% (musulmani), serbi 37,1% (ortodossi), croati 14,3% (cattolici);
  • Religioni principali: islam, cattolicesimo, Chiesa cristiana ortodossa;
  • Economia: a 27 anni dalla fine della guerra, l’economia del paese rimane di sussistenza; lo stipendio mensile medio è di 500 euro; in crescita il turismo internazionale;
  • Gas: le forniture di gas provengono dalla Russia;
  • Situazione politica: la Repubblica Serba spinge per la secessione dalla Federazione bosniaca; come il governo di Belgrado, il leader Milorad Dodik è vicino alle posizioni di Vladimir Putin;
  • Bosniaci in Italia: 21.500 persone (dati Istat al 31 dicembre 2020);
  • Rotta balcanica: è il percorso dei migranti attraverso Grecia, Macedonia del Nord, Bulgaria, Serbia, Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovenia.

(a cura di Paolo Moiola)

Mappa della Bosnia Erzegovina e dei paesi nati dallo smembramento della ex Jugoslavia.


Gli ultimi articoli su migranti e rotta balcanica:

Daniele Biella – Luca Lorusso, Ragazzi dimenticati, dossier, dicembre 2021;
Simona Carnino, Il «game» infinito dei respingimenti, aprile 2021.