La persona al centro

«Una dignità infinita, inalienabilmente fondata nel suo stesso essere, spetta a ciascuna persona umana, al di là di ogni circostanza e in qualunque stato o situazione si trovi. Questo principio, che è pienamente riconoscibile anche dalla sola ragione, si pone a fondamento del primato della persona umana e della tutela dei suoi diritti. La Chiesa, alla luce della Rivelazione, ribadisce e conferma in modo assoluto questa dignità ontologica della persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio e redenta in Cristo Gesù. Da questa verità trae le ragioni del suo impegno a favore di coloro che sono più deboli e meno dotati di potere, insistendo sempre “sul primato della persona umana e sulla difesa della sua dignità al di là di ogni circostanza”».

È l’inizio di Dignitas infinita, la dichiarazione circa la dignità umana che papa Francesco ha rilasciato il 2 aprile scorso. È una forte provocazione a ripensare l’approccio che la nostra società ha oggi verso la persona. Un approccio che si rispecchia nelle scelte politiche che i nostri paesi stanno facendo in questi giorni.

Due sono le aree che destano in me particolare preoccupazione: la difesa della vita dal suo inizio alla sua fine, e la realtà dei profughi e migranti.

Migranti. Oggi, in tutta Europa, assistiamo a una progressiva chiusura sull’accoglienza dei migranti, con la scusa di difendere le frontiere e combattere i trafficanti. Senza andare alle vere cause delle migrazioni rischiamo di convincerci che le persone in fuga da paesi come Afghanistan, Eritrea, Siria, Pakistan, Ciad, Sudan e altri ancora, affidino «per sport o diletto» le loro vite alle promesse dei trafficanti, e non per le durissime condizioni di vita nei loro Stati dilaniati da guerre o segnati da ingiustizie, povertà croniche e mancanza di libertà.

La tristezza è vedere che, dopo aver buttato giù il muro di Berlino, abbiamo costruito nuovi muri e barriere (fisiche, sociali e virtuali) per difendere, si dice, la nostra cultura e identità. E ci si dimentica che da sempre il Mediterraneo e tutta l’Europa sono il crogiolo di popoli diversi: la nostra origine sta nell’India (siamo indoeuropei); dai tempi dell’Impero romano abbiamo importato centinaia di migliaia di schiavi dall’Africa e dall’Asia, non ultimi i molti figli che i nostri soldati hanno generato in Etiopia e Somalia. La nostra cultura è quella che è proprio perché abbiamo saputo assorbire valori e stimoli da tante civiltà diverse.

Difesa della vita. Questo è un altro tema caldo e conflittuale, con posizioni che vogliono far riconoscere sia l’aborto che l’eutanasia non semplicemente come azioni da depenalizzare ma come «diritti umani» da iscrivere in quella che dovrebbe divenire la Costituzione dell’Europa e quindi di ogni Paese, sull’esempio della Francia. Il tutto sostenuto da argomentazioni sofisticate e ammaliatrici, con accuse pesanti e anche minacce, soprattutto sui social media, contro chi la pensa diversamente. Dimenticando, per esempio, che per secoli noi abbiamo trattato da «selvaggi» quei popoli che abbandonavano nella foresta perché venissero finiti dalle fiere gli anziani ormai troppo vecchi e malati, o quei bambini che nascevano fuori da relazioni culturalmente approvate, da ragazze incirconcise o, addirittura, i gemelli che una madre da sola non avrebbe potuto nutrire.

Sono cresciuto con il sogno di un’Europa capace di rigettare il suo passato coloniale e razzista per impegnarsi nella costruzione di un mondo nuovo dove ogni persona fosse accettata per quello che è. Figlio del secondo dopoguerra, credevo avessimo imparato a rifiutare razzismo, autoritarismo, dittatura, etnocentrismo dopo aver sperimentato gli amari frutti dei sistemi dittatoriali che abbiamo avuto prima della nascita della nuova Europa.
Pensavo avessimo messo al centro la pace e il rifiuto della guerra. Che valori come la vita dal suo principio alla fine; la dignità della persona nella sua unicità e nei suoi diritti senza distinzione di genere, di età, di razza o di stato sociale; l’ambiente, «casa» comune, patrimonio e responsabilità di tutti; il lavoro, la salute e la libertà religiosa, fossero ormai nel nostro Dna. Invece, la ricchezza si accumula sempre di più nelle mani di pochi mentre aumentano povertà e sfruttamento, la cura della salute diventa ogni giorno di più un affare per i privati,
il lavoro è sacrificato al profitto, l’«io» prevale sul «noi».

E intanto non ci si sposa, non si fanno figli, si invecchia brontolando, cresce la violenza e il disagio, si svuotano le chiese, si dipende dai social, si ricorre al fentanyl. Dove vai Europa? Troveremo chi è ancora capace di farci sognare? Chi mette al centro la dignità della persona, ogni persona, ogni momento della sua vita?

 




Ritorna il feudalesimo?


Viviamo in un tempo strano e unico. Unico, perché è il solo tempo che abbiamo: nessuno di noi può scegliere quando e dove nascere. Strano, perché, nonostante il nostro orgoglio per le conquiste scientifiche, le nuove possibilità della comunicazione, i risultati in medicina, i sistemi democratici, la crescita di responsabilità nei confronti dell’ambiente, stiamo vivendo innumerevoli contraddizioni.

Tra queste c’è la crisi di identità di genere e, di conseguenza, delle relazioni tra uomini e donne, della famiglia, della natalità e della difesa della vita con aborto e morte assistita che diventano diritti. C’è la democrazia che scricchiola, insidiata da autoritarismi e dittature, ma anche da politici al servizio dei grandi poteri economici.

Per quanto riguarda l’ambiente, le decisioni sono ancora dettate da chi gestisce petrolio, carbone e grandi industrie. Inoltre, nell’agricoltura si espandono i latifondi a monocoltura e l’allevamento intensivo delle multinazionali che riducono la biodiversità di vegetali e animali, le produzioni a km zero, e tolgono spazio ai piccoli agricoltori.

Altro ambito di grandi potenzialità, ma anche di enormi problematiche, è quello della comunicazione e dell’intelligenza artificiale. L’internet e lo sviluppo del digitale hanno decisamente modificato il nostro modo di comunicare, di essere informati, di studiare e lavorare. E ne sono contento. I miei confratelli dicono che sarei stato uno dei primi missionari della Consolata a usare il cellulare, e ho cominciato a smanettare sui computer dai primi anni Ottanta. Ho vissuto con gioia e aspettativa l’evoluzione di questo mondo, con il sogno che aiutasse a far sparire le guerre, a far crescere la fraternità, favorendo la conoscenza e stima reciproca, e cancellare le disuguaglianze.

Oggi, però, i media digitali rischiano di essere strumenti di manipolazione, disinformazione sistematica e controllo, rafforzando il potere dei regimi autoritari e dei monopoli economici, e facendo crescere la disparità tra la ricchezza di pochi e la miseria di molti.

Guardando alla millenaria storia dell’umanità, ci sentiamo orgogliosi di vivere in un tempo dove non abbiamo più né imperatori né feudatari e dove «uno vale uno». Non siamo più nel Medioevo, ci diciamo. Abbiamo acquistato l’autonomia della politica dalla religione, abbiamo fatto passi da gigante in tutti i campi del sapere… eppure è bastata una crisi come quella del Covid-19 per buttare all’aria tutte le nostre sicurezze e accentuare tutte le nostre fragilità, che rivelano un mondo decisamente malato. Un mondo nel quale i ricchi diventano sempre più ricchi a spese della maggioranza, non solo nei paesi poveri, ma anche in quelli del Nord del mondo, mentre le istituzioni sovranazionali, Onu inclusa, diventano via via irrilevanti. Sembra iniziata l’epoca di un nuovo feudalesimo.

Che fare per reagire a una simile situazione?

Non ho soluzioni in tasca. Ma certamente una delle prime cose da fare è quella di sviluppare un pensiero critico e libero che si fondi sulle domande e sulle ragioni centrali del nostro vivere. Un pensiero che passi dall’io al noi, dalla sete di potere e ricchezza alla coscienza che solo diventando servitori del bene comune possiamo costruire bellezza, bene essere e pace.

Questo, per noi che crediamo in Gesù Cristo, può venire solo dal confronto profondo con la Parola di Dio, nella quale troviamo le chiavi e i criteri per la vera libertà interiore, per rinnovare i nostri rapporti interpersonali e sociali, per un approccio bello e responsabile al creato. Lì c’è l’humus per supportare un vero cambio di mentalità («conversione») che non sia solo un’operazione di cosmesi fatta solo di parole, ma diventi un reale impegno che si realizza in piccoli gesti quotidiani e anche in un rinnovato schierarsi nel volontariato e nella politica (come cura della polis, la città, per il bene comune, come scriveva Aristotele).

Nella Parola troviamo anche le motivazioni per non mollare, per non cedere allo scoraggiamento e non rassegnarci alla violenza del mondo nel quale viviamo, e giocare la nostra vita al servizio degli altri, come ha fatto Gesù e, sul suo esempio, tantissimi testimoni che ricorderemo in modo particolare il prossimo 24 marzo, giornata dei missionari martiri.

Gigi Anataloni




L’Africa dei militari

L’Africa, e in particolare il Sahel, ha vissuto una serie di colpi di stato dal 2020 a oggi. Due in Mali (18 agosto 2020 e 25 maggio 2021), uno in Guinea (5 settembre 2021), due in Burkina Faso (24 gennaio e 30 settembre 2022) e infine in Niger e in Gabon (26 luglio e 30 agosto 2023). Del golpe in Niger si è parlato molto, a sorpresa, anche in Italia. Forse perché è un paese strategico come crocevia delle migrazioni e di molti altri traffici. Forse perché vi sono presenti diversi eserciti stranieri, tra i quali un contingente italiano (sul quale si è spesso taciuto).

Sovente le popolazioni, soprattutto i giovani, hanno salutato con favore questi colpi di stato. In alcuni casi, le manifestazioni pro putsch sono state organizzate o promosse dalle giunte militari, mentre quelle contrarie prontamente represse (ad esempio in Niger).

La presa del potere con le armi è il sintomo di profondi problemi che sfociano in una deriva autoritaria e militarista.

La grave situazione di insicurezza dei paesi del Sahel, causata del proliferare e rafforzarsi di una galassia di gruppi armati legati ai diversi cartelli jihadisti (aggravatasi con la caduta di Gheddafi in Libia nel 2011, ma già iniziata in precedenza), ha portato a profonde crisi economiche e sociali. Il sociologo ed ex ministro del Burkina Faso Antoine Raogo Sawadogo ci diceva (MC maggio 2022): «Il colpo di stato è solo l’atto finale di una crisi istituzionale profonda, di società toccate da problematiche alle quali i regimi democratici non sono stati in grado di dare soluzioni». E ancora: «L’appoggio, almeno iniziale, delle popolazioni è dovuto al fatto che queste sperano che un governo forte, seppur non democratico, possa risolvere i loro problemi», e quindi «la democrazia all’occidentale è diventata una questione di secondo ordine, adesso si tratta di sopravvivenza».

Ma i militari non saranno la soluzione, neppure dei problemi di sicurezza, come già stanno dimostrando in Mali e in Burkina Faso. D’altronde sono gli stessi eserciti che non hanno saputo vincere i gruppi jihadisti prima dei colpi di stato.

Anzi, i golpe portano alla luce anche una crisi dello stesso esercito repubblicano. Un’istituzione che dovrebbe difendere la popolazione anziché prendere il potere con la forza.

Il risultato è una regressione dei diritti civili che, faticosamente, avevano fatto qualche passo avanti. Peggio, in molti casi, è la repressione violenta della popolazione. Come è avvenuto in diversi eccidi perpetrati dalle Forze armate maliane (Fama), affiancate dai nuovi alleati russi del gruppo Wagner. Un esempio tra i tanti è quello del villaggio di Moura, dove il 27 marzo 2022 sono state trucidate tra le 200 e le 400 persone dai militari loro compatrioti.

Tra i massacri di civili compiuti dall’esercito in Burkina Faso, ricordiamo quello a Karma, a 15 km dalla città di Ouahigouya, nel Nord del paese, il 20 aprile scorso. Qui i militari hanno ucciso almeno 147 civili inermi, tra cui 45 bambini.

Fa riflettere, poi, ascoltare le parole del presidente golpista del Burkina Faso, il capitano Ibrahim Traoré che, all’incontro Africa-Russia a San Pietroburgo, nel luglio scorso, ha fatto un discorso populista atteggiandosi a novello Thomas Sankara (il presidente rivoluzionario del Burkina Faso, assassinato il 15 ottobre 1987), consegnando però il paese nella mani della Russia di Putin. «Qui di Sankara non ce ne sono», ci dicono dal Sahel. E si vede: Sankara non avrebbe mai fatto massacrare il suo popolo.

Il sentimento antifrancese e antimperialista presente in tutta l’area è legittimo (noi in MC abbiamo sempre denunciato lo sfruttamento dell’Africa da parte delle potenze occidentali), ma chi applaude ai diversi golpe solo perché si contrappongono alla presenza francese ha una visione superficiale, se non miope. Intanto i golpisti si rivolgono a nuovi attori imperialisti, come il citato gruppo Wagner, dalla nota attitudine predatoria nei confronti dei paesi loro alleati. Inoltre in Niger è stato deposto un presidente che tentava di contrastare la corruzione della classe politica, e indirettamente anche il potere neocoloniale francese.

Non saranno i militari a portare lo sviluppo e l’autonomia all’Africa. Il potere autoritario delle armi e di una classe – nella quale è presente a grandi dosi la corruzione – incapace di progetti politici non salverà il continente. Insomma: Africa indietro tutta.

 

 




Perché partire? Perché restare?


All’alba del 3 ottobre del 2013 un’imbarcazione carica di migranti somali ed eritrei, già in vista dell’isola di Lampedusa, prende fuoco. Sul ponte ci sono centinaia di persone. Alcune si buttano in acqua, altre resistono. Saranno 155 i sopravvissuti, e 368 i morti. Si parla subito della «più grande tragedia dell’immigrazione», ma sarà presto superata da altre.

Nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023, un altro barcone proveniente dalla Turchia, si incaglia non lontano da Steccato di Cutro (Calabria). L’impatto è violento e il mare forza 5 completa l’opera distruggendo il battello. Su di esso viaggiano 180 migranti di diversi paesi (Afghanistan, Pakistan, Siria, Tunisia, Palestina). Ottanta saranno i sopravvissuti. Tra le vittime, sono in aumento le donne e i minori.

È il 13 giugno 2023. Al largo di Pylos, Grecia, un peschereccio stipato di persone si ribalta. Sono circa 700. Ne vengono salvate 104. Nella parte interna dello scafo ci sono donne e bambini. In generale, chi paga di meno occupa i posti peggiori.

Tra questi eventi, dieci anni di naufragi e migliaia di morti in mare.

All’indomani di quello del 2013 mi trovavo in Burkina Faso. Il fatto era sulla bocca di tutti. C’era un generale stato di shock per quel numero di morti così alto. Molti – forse con il senno di poi – mi dicevano che loro «non avrebbero mai tentato una simile avventura, perché la probabilità di fallimento, e il rischio di morire, erano troppo elevati».

Facendo un balzo indietro nel tempo, mi torna in mente il molo di Port-au-Prince, ad Haiti, nel 1997. Gli haitiani partivano con delle barche di legno dalla costa nord dell’isola, nel tentativo di raggiungere le Bahamas. Pochi ci riuscivano, molti morivano naufraghi o, come si diceva, «divorati dagli squali». Molti altri, intercettati dalla guardia costiera Usa, venivano riportati sull’isola. Ricordo le file di giovani appena sbarcati dalle motovedette a stelle e strisce: tra le mani un sacchetto bianco con un «kit di rimpatrio» (un po’ di cibo, una maglietta), in faccia la delusione di chi ha fallito. Molti haitiani mi dicevano che era da pazzi tentare la traversata. Ma il flusso continuava.

Quale sarà stato l’impatto del naufragio di Pylos sulla gente di Afghanistan, Pakistan, Siria? Dall’Europa, noi abbiamo sempre solo la nostra prospettiva, e facciamo fatica ad ascoltare cosa hanno da dire i popoli dei paesi di provenienza.

Dovremmo metterci in ascolto, invece di classificare i migranti in categorie (economici, climatici, politici), e chiedere loro: Perché partire? Perché restare? Perché pagare cifre da capogiro e rischiare la vita?

I migranti che ho incontrato in Niger negli ultimi anni, provenivano da tutta l’Africa occidentale e avevano tentato di attraversare il Sahara. Tutti con forti motivazioni.

Mi ha colpito una famiglia del Ciad: genitori e quattro figli. Lui nel suo paese aveva tentato più volte di studiare giurisprudenza, ma non era riuscito a causa della situazione: «Sappiamo che è un rischio lanciarsi con una famiglia in una migrazione. Siamo stati spinti dal fatto che il nostro paese non è stabile. La gente vive sempre in conflitti armati, o intercomunitari, c’è la repressione del governo, la cattiva gestione. Inoltre, le ricchezze del paese non sono condivise in modo che tutti ne possano beneficiare per vivere in pace». L’articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti umani (1948) recita: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. Ogni
individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese».

Liberi di scegliere se migrare o restare è il titolo del messaggio di papa Francesco per la 109a «giornata del migrante e del rifugiato» (24 settembre): «Migrare dovrebbe essere sempre una scelta libera, ma di fatto in moltissimi casi, anche oggi, non lo è. Conflitti, disastri naturali, o più semplicemente l’impossibilità di vivere una vita degna e prospera nella propria terra di origine costringono milioni di persone a partire […]. Per fare della migrazione una scelta davvero libera, bisogna sforzarsi di garantire a tutti un’equa partecipazione al bene comune, il rispetto dei diritti fondamentali e l’accesso allo sviluppo umano integrale».

Marco Bello, direttore editoriale




La missione sfida i missionari


Dal 22 maggio al 20 giugno 2023 quaranta rappresentanti eletti dei Missionari della Consolata sono stati riuniti a Roma nel XIV capitolo generale dell’istituto, un evento che avviene ogni sei anni. Il suo risultato più immediato è l’elezione del nuovo superiore generale e del suo consiglio, ma il frutto più sostanziale sono le scelte che vengono fatte, a partire dal carisma originale dell’istituto, per dare una risposta creativa alle sfide che il mondo contemporaneo pone all’evangelizzazione.

Mentre mi leggete il capitolo è già terminato, ma ho scritto queste righe quando stava per cominciare e, quindi, posso solo provare a condividere con voi alcuni degli elementi che hanno stimolato la riflessione e la ricerca dei capitolari prima di riunirsi.

Il punto di partenza è stato una constatazione: stiamo tutti vivendo un tempo della nostra storia che chiede nuove attenzioni e nuove risposte.

Ad esempio, il mondo occidentale non è più cristiano, la famiglia tradizionale è in crisi e in alcuni paesi come il nostro si registra un declino demografico.

Esiste poi, nell’Occidente, un’ostilità neanche troppo nascosta contro la Chiesa e la religione cristiana, con attacchi che vanno dalla denigrazione alle notizie inventate o enfatizzate, dalle battute apparentemente spiritose agli insulti, strumentalizzando proverbi stantii come: «Quando nasci alimenti il prete, quando vai a nozze inviti il prete, quando muori il prete gode», o luoghi comuni di stampo anticlericale ottocentesco.

Il futuro della Chiesa e dell’evangelizzazione è una sfida a tutto campo per la quale non servono risposte preconfezionate e che obbliga a guardare avanti con creatività, lungimiranza, tanta fede e umiltà. È un tempo che richiede un profondo discernimento per andare al cuore dei problemi e capire quello che davvero Dio vuole. Non è l’ora del fare, ma dell’ascolto, per una vera conversione.

Sono quattro le aree dell’ascolto: la Parola di Dio, per andare alle radici della vocazione missionaria e del suo stile; il carisma trasmessoci dal nostro fondatore, il beato Allamano; la realtà viva, sofferta e sfidante del mondo di oggi; l’Istituto stesso, fatto di persone concrete con le loro potenzialità ma anche le loro fragilità.

Oggi i Missionari della Consolata sono ben coscienti di non essere più un corpo monolitico come erano fino agli anni Settanta. Gli italiani sono ormai una minoranza, più anziani che giovani. Il cuore della forza missionaria oggi viene dall’Africa: uno scenario bellissimo che vede protagoniste delle Chiese giovani, aperte e generose, pur nella loro povertà, però anche pieno di incognite e nuovi problemi.

Il capitolo si è, quindi, messo in ascolto del nostro mondo con un’attenzione speciale ai poveri, ai popoli indigeni, agli sfruttati, ai marginali della storia, alle periferie e a quelle aree, soprattutto in Asia, mai raggiunte dal Vangelo. I capitolari hanno anche fatte proprie le sfide della comunicazione, della cura del creato, della promozione della pace, delle migrazioni. C’è poi una situazione nuova, che richiede risposte nuove: quella dell’Europa che tradizionalmente mandava missionari, ma oggi li richiede con urgenza.

Dall’ascolto viene poi la conversione per vivere le dimensioni più autentiche dell’identità dei Missionari della Consolata: «Prima santi, e poi missionari», diceva il beato Allamano, affinché ogni missionario diventi testimone e costruttore di gioia, libertà, fraternità, pace e giustizia là dove la Madonna Consolata ha voluto mandarlo.

Una delle caratteristiche dei Missionari della Consolata, fin dalle origini, è stata proprio quella di ascoltare le realtà che man mano andavano a incontrare, mettendo al centro del loro interesse la persona, ogni persona, con una predilezione per i poveri, i lontani, gli emarginati, quelli che la società considera di meno. Come ha fatto Gesù, il primo vero missionario del Padre.

Non abbiamo ancora in mano i documenti finali del capitolo. Non ci aspettiamo proposte spettacolari. La missione più vera si realizza di solito nel silenzio e nell’umiltà, in un dono di vita concretizzato in piccole cose fatte con amore in un quotidiano lontano dal clamore.

Che davvero ogni missionario possa essere strumento di consolazione nelle mani di Dio.

Gigi Anataloni

I due capitoli – IMC e MdC – con il cardinal Parolin


XIV Capitolo generale dei Missionari della Consolata

MESSAGGIO FINALE

Gratitudine, passione e speranza

Trentatre giorni vissuti insieme, un corpo solo! Missionari giunti dai diversi luoghi della Missione, impegnati a conoscersi, attraverso il racconto personale proprio e dei tanti che hanno rappresentato, attraverso la condivisione dei cammini belli e dei percorsi che ancora sfidano a camminare per andare “oltre”. La diversità delle provenienze ha, però, lasciato presto spazio a quella capacità di riconoscersi, tutti, Missionari della Consolata.

Sì, è stato facile riconoscersi e dirsi che siamo fratelli oltre ogni differenza: fratelli nell’ispiratrice, la nostra madre Consolata; fratelli nell’ispirato, il nostro padre e fondatore, Beato Giuseppe Allamano; fratelli nell’ispirazione, quel carisma ad gentes, novità che non tramonta.

Il Capitolo, infatti, ha voluto confermare ancora una volta la scelta della missione ad gentes, nella sua specificità e nella molteplice fantasia dell’amore che si dona.

Ad gentes che in questi giorni abbiamo accolto con commozione dalle parole e testimonianza di chi, tra le lacrime, ci raccontava della sua gente in Venezuela che non ha di che mangiare o di chi nel Congo, in Mozambico e in Ucraina continua a morire e a subire violenza a causa di guerre di cui non si vede mai la fine. Di chi, come profugo, arriva in Marocco stanco, ferito e sfinito dopo un lungo cammino. E, come queste, tante altre sofferenze tra le quali siamo presenti essendo chiamati a fermarci per ascoltare, per sederci accanto, per servire con semplicità ed essere presenza che annuncia Gesù con gesti di vita, con l’ascolto e la parola.

Più volte ci siamo detti che dobbiamo anche “prenderci cura” di ogni missionario in tutto l’arco della sua vita con un progetto di formazione continua. Occorre aiutare ognuno a camminare verso la sua pienezza di vita e di donazione, partendo da una relazione viva con Cristo, per “essere” prima che “per fare”, dove santità e missione si fondono ed esprimono la nostra identità e carisma.

Con gratitudine abbiamo volto lo sguardo al passato della nostra vita e della nostra storia scritta con la dedicazione ed il sacrificio di tanti nostri confratelli e di quelli che oggi continuano ed essere per noi di stimolo ed esempio “completando nella loro carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).

Con voi, guardiamo al presente con passione e con quella gioia nella quale il Papa ci ha chiesto di camminare, in comunità chiamate ad essere in uscita e in mezzo alla gente con la forza del nostro carisma e la ricchezza delle nostre culture e in comunione con le Missionarie della Consolata ed i Laici.

Guardiamo, inoltre, al futuro con speranza al vedere ancora tanti giovani che vogliono dare la loro vita per l’annuncio del vangelo e tanti altri dei quali vogliamo prenderci cura nel servizio pastorale e di animazione missionaria e vocazionale.

La Solennità della nascita di S. Giovanni Battista, il precursore, è occasione propizia a conclusione di questo nostro XIV Capitolo Generale. Con lui e come lui sappiamo accogliere il Vangelo perché desiderosi di giustizia e di libertà. Con lui e come lui non ci poniamo come l’esempio perfetto da seguire, ma rimaniamo aperti al futuro, indicandolo, Gesù Cristo.

I capitolari
Roma, 24 giugno 2023

 

 

 

 

 

 




Fare bene il bene (facendo informazione)


È per me un grande onore, ma anche una grande responsabilità, assumere il ruolo di direttore editoriale della rivista Missioni Consolata. Una pubblicazione che ha 125 anni di vita e ha avuto 12 direttori a cominciare dal canonico Giacomo Camisassa. Se, da un lato, il beato Allamano diceva ai suoi missionari «Fate bene il bene, senza fare rumore», ovvero fatelo, ma senza vantarvi o farvi pubblicità, dall’altro, fin da subito, aveva intuito l’importanza della comunicazione e dell’informazione, fondando la rivista «La Consolata», già nel 1899. Questa, da periodico che raccontava le attività del santuario di Torino, è diventata il mezzo per far conoscere le missioni, non appena i primi quattro missionari sono partiti nel maggio del 1902.

Mondi lontani, culture diverse, avventure e incontri molto particolari, sono diventati il principale contenuto che la rivista portava nelle case delle famiglie italiane di oltre cento anni fa. E iniziava così a fare, con il linguaggio e lo stile del tempo, informazione missionaria. Nel 1928 la testata ha dato vita a «Missioni Consolata» che ha affiancato «La Consolata».

Oggi, in un mondo che non sta andando bene, dove la guerra, la contrapposizione e il commercio delle armi sembrano dominare rispetto al dialogo, ai diritti e al benessere di tutti; dove la sopravvivenza stessa del pianeta è messa a rischio dalla peggiore crisi climatica mai vista, sotto lo sguardo disinteressato e cieco di chi governa; Missioni Consolata continua a raccogliere e raccontare in modo approfondito le storie che non hanno spazio su quotidiani, radio, web e Tv. Storie di persone, comunità, popoli, luoghi che hanno una grande importanza, anche se trascurate, e che solo una pubblicazione «alternativa» come la nostra, riesce a diffondere. Vicende talvolta positive e di speranza che, comunque, esistono.

Personalmente, mi prefiggo di continuare nel solco dei 12 direttori che mi hanno preceduto e, allo stesso tempo, di aprire lo sguardo a mezzi di comunicazione diversificati, per assicurare che le storie e il messaggio di MC viaggino sempre più lontano e raggiungano più persone possibile. In un cambiamento di epoca, anche una pubblicazione come la nostra deve attrezzarsi.

Il che significa portare MC a essere più presente nel mondo digitale, con un linguaggio adeguato, per riempire spazi di informazione con i nostri temi e i nostri valori. Senza abbandonare il supporto di carta.

Missioni Consolata è una rivista missionaria, e crediamo che continui ad avere un ruolo importante nella nostra società, forse ancora di più che 100 anni fa.

Pure essendo nato a Torino, ho conosciuto i missionari della Consolata in Brasile, nel 1992, durante un lungo viaggio «on the road» in Sudamerica. Esperienza che mi ha stimolato nella scrittura del mio primo articolo, pubblicato su MC nel febbraio dell’anno successivo. È stato l’inizio di un percorso. Sono così diventato collaboratore esterno di questa rivista.

Dal 1997 ho lavorato come volontario e cooperante prima ad Haiti, poi in Burundi e in Burkina Faso. Ad Haiti, in particolare, ero il responsabile della sezione fotografica del giornale in lingua creola «Libète», occupandomi di cronaca, ma anche della camera oscura, dell’archiviazione e della formazione di un giovane fotografo haitiano. Nel maggio 2006, rientrato dall’Africa, ho avuto la possibilità di integrare l’équipe di redazione di MC.

Nel cominciare questa nuova avventura, il mio pensiero va con gratitudine ai missionari che mi hanno preceduto. Francesco Bernardi, che ha pubblicato il mio primo articolo; Benedetto Bellesi, il mio primo direttore in MC; Ugo Pozzoli, sempre aperto e accogliente, e Gigi Anataloni, che ci ha guidati negli ultimi 12 anni e che continua come direttore responsabile della pubblicazione oltre che ad assumere l’incarico di direttore dell’archivio fotografico e video dell’istituto. Da ognuno ho imparato qualcosa. Sono riconoscente, inoltre, a padre Gottardo Pasqualetti, che mi chiamò, sotto indicazioni di Bernardi, a lavorare in redazione nel 2006.

Come équipe di redazione, rinnoviamo il nostro impegno di servizio alle lettrici e ai lettori di MC, per fornire loro un’informazione corretta, precisa, ricercata e approfondita. È verso di loro la nostra responsabilità più grande.

Marco Bello,
direttore editoriale




Cuore e verità


Le cifre parlano: 58 giornalisti uccisi nel 2022, 48 scomparsi, 65 trattenuti in ostaggio, 533 incarcerati, di cui 110 in Cina, 47 in Iran, e 169 giornalisti fermati, arrestati, indagati o sotto processo in Russia dall’inizio della guerra. Quasi quasi fare il giornalista è più pericoloso che fare il missionario. Un «mestiere», quest’ultimo, che ha il suo bel numero di vittime, come ricordato il 24 marzo scorso nella «giornata dei martiri»: 18 nel 2022, 22 l’anno prima, 20 nel 2020, con il record di ben 40 nel 2018, senza contare quelli «scomparsi», come padre Paolo Dall’Oglio in Siria nel luglio 2013.

Il 3 maggio ricorre la «giornata mondiale della libertà di stampa» proclamata dall’Onu, e il 21 la «giornata mondiale delle comunicazioni sociali», celebrata dalla Chiesa ne mondo, per la quale papa Francesco ha proposto il tema «Parlare col cuore. Secondo verità nella carità (Ef 4,15)».

Comunicare, e soprattutto comunicare la verità come dovrebbero fare sia giornalisti che missionari, è un mestiere rischioso. Sì, perché è vero che la verità rende liberi, ma non piace a chi costruisce il proprio potere e la sua ricchezza sulla menzogna, sul controllo dell’opinione pubblica, la manipolazione, il monopolio, il pensiero unico e l’ostentazione.

Comunicare, come insegnare, dovrebbe aprire nuovi orizzonti, far vedere oltre il proprio naso, stimolare la mente a ricercare idee inedite, far incontrare nuove realtà ed esperienze di vita. Aiutare quindi le persone a diventare più libere, creative, responsabili, fraterne, serene, rispettose e solidali. Far capire che la bellezza del mondo non finisce con i muri del proprio giardino, con il proprio pezzetto di cielo, con la propria lingua e cultura.

Purtroppo, spesso, la realtà che viviamo è tutto il contrario di questo. Siamo in un tempo in cui la comunicazione non è solo quella fatta dai giornalisti, ma è soprattutto quella subdola, incontrollabile, invasiva di internet, dei social, della pubblicità, dei video virali, dei programmi televisivi e delle molte altre forme di comunicazione da cui siamo colpiti quotidianamente senza accorgercene. Tutte forme di comunicazione che non hanno lo scopo di rendere libere le persone, ma di condizionarle e asservirle.

Quando un bambino, lasciato per ore davanti a uno schermo (Tv, smartphone, tablet) cresce senza saper distinguere un cartone animato dalla pubblicità o da un programma serio, come può far maturare in sé una mentalità critica e libera?

Dove finisce la libertà e il senso critico di chi viaggia nel web condotto da algoritmi e intelligenza artificiale che, potenzialmente positivi, sono usati invece per condizionare le scelte, annullando la capacità di distinguere tra realtà e finzione, verità e fake news, a servizio dei profitti sempre più alti di pochi e del potere di politici, partiti e governi intenti a mantenere o costuire il consenso a tutti i costi?

Per questo c’è da ringraziare per quei giornalisti che ancora oggi sono disposti a pagare di persona per servire e comunicare la verità. Essi sono un segno positivo che alimenta la speranza e che mostra quanto la verità sia più forte della menzogna, in qualsiasi forma essa si presenti.

Grazie a persone come il nostro amico Gianni Minà, comunicatore appassionato e gentile, che è stato gradito ospite anche su queste pagine.

Oggi abbiamo più che mai bisogno di quello che il Papa, nel suo messaggio, chiama «comunicare la verità nella carità». «In un periodo storico segnato da polarizzazioni e contrapposizioni – da cui purtroppo anche la comunità ecclesiale non è immune – l’impegno per una comunicazione “dal cuore e dalle braccia aperte” non riguarda esclusivamente gli operatori dell’informazione, ma è responsabilità di ciascuno. Tutti siamo chiamati a cercare e a dire la verità e a farlo con carità. Noi cristiani, in particolare, siamo continuamente esortati a custodire la lingua dal male (cfr. Sal 34,14), poiché, come insegna la Scrittura, con la stessa (lingua, ndr) possiamo benedire il Signore e maledire gli uomini fatti a somiglianza di Dio (cfr. Gc 3,9). Dalla nostra bocca non dovrebbero uscire parole cattive, “ma piuttosto parole buone che possano servire per un’opportuna edificazione, giovando a quelli che ascoltano” (Ef 4,29)».

È quello che stiamo provando a fare con questa rivista, che non ha altre pretese oltre a quella di aiutare a guardare agli altri, vicini e lontani, per conoscerli nella verità, vincendo pregiudizi e stereotipi, senza piegarsi alle mode del momento, smascherando manipolazioni, paternalismi o paure alimentate ad arte. Siamo una piccola voce, una goccia nel mondo della comunicazione. Ma abbiamo una forza che ci brucia dentro: l’amore per l’uomo, ogni uomo, con una preferenza: quella per il più debole, indifeso, emarginato e sfruttato, visto con gli occhi di Cristo.

 




Centoventicinque


Dopo dodici direttori, oltre millequattrocento numeri e 60mila pagine, MC entra nel suo 125° anno di onorato servizio all’evangelizzazione nel nome della Consolata. Periodico fondato dal beato Giuseppe Allamano e da subito affidato alle mani capaci del canonico Giacomo Camisassa, nel gennaio 1899 esce «l’anno 1 – n. 1» de «La Consolata». Nasce dopo che, nel 1898, la città di Torino ha vissuto momenti di intensa religiosità mariana e mentre si prepara, per il 1904, alla «celebrazione dell’ottavo centenario del miracolo del cieco di Brianzone (sic invece di Briançon)» con il ritrovamento del quadro della Consolata. Con il periodico, infatti, l’Allamano vuole offrire ai torinesi e ai fedeli di tutto il Piemonte «studi, notizie e relazioni sulla divozione della Consolata fuori del suo santuario in Torino: in Piemonte specialmente, dove esistono santuari, cappelle, compagnie che dal suo nome si intitolano. Daremo notizie sulla divozione della Consolata nel resto d’Italia, in Francia, nell’Inghilterra e nelle Americhe, dove i nostri migranti portano questo tesoro di pietà e di speranza» (da La Consolata 1/1899).

Sono 32 pagine ogni mese, impreziosite da fotografie di alta qualità, per le quali si fanno produrre le matrici in piombo a Vienna, perché nessuno in Italia è in grado di eseguire un lavoro così bello.

All’inizio del 1901 nelle sue pagine si legge un appello a tutte le famiglie che hanno «congiunti o amici fuori dall’Italia, specialmente in America», affinché mandino gli indirizzi di persone a cui «giungerebbe gradita la lettura del periodico». Fin dai primi anni la rivista vuole raggiungere tutto il mondo, così come l’istituto missionario nato in quello stesso 1901. «La tenerezza, la divozione a Maria sono germi fecondi di eroismo e sacrificio. Non è dunque a far meraviglia se sotto l’egida della Consolata sorse un istituto che ha per altissimo scopo di formare giovani […] all’apostolato […] attraverso i lontani e barbari paesi ove il Signore li chiama ad evangelizzare gl’infedeli. […] L’importanza di tale fondazione sta a dimostrare come il culto della Consolata non sia soltanto contemplativo, ma attivo […] oltre i confini della nostra terra» (La Consolata, 1/1902).

L’annuncio della nascita dell’istituto dei Missionari della Consolata è già stato dato nel novembre del 1900. La data ufficiale di fondazione è il 29 gennaio 1901. Il periodico ne riparla nel luglio del 1901, e, poi, nel settembre 1902 presenta il primo resoconto dell’arrivo dei missionari nell’Africa equatoriale, dedicando a esso tutte le sue 24 pagine con ben quattro foto e una dettagliata cartina su due pagine.

Da questo momento in avanti le notizie dalle missioni cominciano a dominare «La Consolata», a spese di quelle sul santuario. Così, dopo la morte del beato Allamano (1926), nel marzo del 1928, si rende necessaria una separazione, non senza qualche sofferenza, e la versione missionaria de «La Consolata» diventa «Missioni Consolata».

Ancora oggi la testata «Missioni Consolata» rimane, superando la tentazione di un nome più accattivante per i canoni della comunicazione contemporanea. Rimane «Consolata» perché Lei, amata con questo nome nel suo santuario a Torino, è la prima missionaria ed è cittadina del mondo, e perché è stata Lei a spingere l’Allamano a fondare una comunità di uomini e donne che sognano di far conoscere Gesù Cristo a tutti, soprattutto ai più poveri, ai marginali e agli esclusi. Rimane «Missioni» perché i missionari non sono i padroni di quanto raccontano, ma solo dei servitori e inviati: di Dio che li manda; di ogni uomo con il quale condividono il desiderio di un mondo giusto e fraterno; del creato che si sentono chiamati a curare, abbellire e rendere un «paradiso» per tutti.

Sappiamo di correre il rischio di essere ignorati a causa di questo nome che «sa troppo di Chiesa», e quindi puzza di vecchiume o bigottismo, e fa pensare a gente in cerca solo di offerte in denaro.

Sappiamo anche, però, che chi si concede di sfogliare la nostra rivista è felice di scoprire che le «Missioni» che serviamo raccontano realtà estremamente moderne e allo stesso tempo capaci di proporre una critica profonda al nostro mondo. Abbiamo fatto nostro il detto di Terenzio: «Tutto quello che è umano mi interessa». E poi, chi ci legge, scopre che la madre di Gesù, la Consolatrice, si sente «Consolata» ogni volta che viviamo l’amore, la pace, la giustizia, la fraternità e la gioia per cui suo Figlio ha dato la vita.

Anche nel suo 125° anno e negli anni futuri questa rivista sarà testimone del genuino interesse dei Missionari della Consolata per l’uomo e per tutto ciò che lo riguarda. Ispirati e sorretti dal Signore Gesù e da Maria, madre sua e nostra.

 




A Gesù Bambino


Caro Gesù Bambino,
quando sei nato c’era la «pax romana». Che fosse pace lo dicevano i dominatori del tempo e i loro lacchè, ovviamente. In realtà la maggioranza delle persone viveva sotto una servitù diffusa, drogata da «panem et circenses». Se nascessi oggi, troveresti invece la «pax atomica», «garantita» da oltre 13mila testate nucleari. Una vera follia, visto che se ne esplodessero anche solo 600, ogni forma di vita sarebbe estinta per sempre su tutta la terra. Nessuno, per ora, sembra davvero intenzionato a lanciare la prima. E speriamo non lo sia mai.
Intanto, però, tutte le altre guerre «normali» continuano e prosperano. In questo 2022 se ne contano ben 59 in giro per il mondo. Sono in aumento e fanno la felicità dei mercanti di armi che hanno visto le spese militari mondiali superare i due bilioni di dollari e hanno buone speranze che crescano ancora. C’è poi anche il mercato gemello, quello delle «armi piccole» nelle mani dei privati, che inonda, ad esempio, il Messico, fiorisce negli Stati Uniti al ritmo di stragi di civili, e avvelena le relazioni etniche nell’Africa subsahariana. Risultato? Oltre cento milioni di profughi nel mondo «a causa di persecuzioni, conflitti, violenze, violazioni dei diritti umani o eventi che compromettono gravemente l’ordine pubblico», come informa il report del giugno di quest’anno dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati. Tra essi ci sono milioni di ucraini, siriani, venezuelani, etiopi, sudanesi e poi afghani, birmani, somali, eritrei, nigeriani, congolesi, maliani… una lista senza fine. A questi devi aggiungere i profughi e migranti a causa dei cambiamenti climatici (almeno venti milioni ogni anno).

Caro Gesù, i tuoi genitori sono potuti scappare abbastanza facilmente in Egitto, dove sono rimasti fino a quando il tuo persecutore è morto. Fossero fuggiti oggi da uno dei tanti Erodi del mondo, probabilmente sarebbero, con te in braccio, su un camion che percorre le piste nascoste del deserto, oppure su uno dei barconi che cerca di attraversare il Mediterraneo, per essere, se va bene, raccolto da una delle navi delle Ong che poi rimangono al largo senza accesso a un porto sicuro per motivazioni pretestuose (navi pirata), propagandistiche (favoriscono l’invasione) e disumane (donne e bambini ignorati). E saresti tra i fortunati, visto il gran numero di barconi che, invece, affondano nel «mare nostro» con tutti i loro occupanti, o quelli che sono respinti verso il «porto sicuro» della Libia, dove i trafficanti non hanno scrupoli a pestare, uccidere, ricattare, violentare, torturare, con l’Europa che finanzia e tace.

Vorrei dirti tante altre cose, ma una in particolare mi preme. Voglio ringraziarti perché ogni anno ci dai l’opportunità di celebrare la tua nascita e ricaricare così la nostra voglia di vita, di speranza, di giustizia, di pace. Se consideri anche solo questi ultimi tre anni, tra Covid, cambiamenti climatici e guerra, davvero la tentazione di mollare tutto è stata grande. E invece vieni tu presentandoti a noi nella fragilità di un bambino che ha bisogno di tutto. Non parli, non minacci, non incuti timore. Eppure, con i tuoi occhi arrivi dritto al cuore. Quando ci avviciniamo a te e, soprattutto, ci lasciamo guardare da te attraverso gli occhi, i volti, le storie di chi oggi è vittima di guerra, violenza, intolleranza e fanatismo, sfruttamento e tratta, non possiamo più barare con noi stessi. Il tuo sguardo ci scruta nell’intimo più profondo, là dove gli occhi della gente che ci sta attorno non arrivano. È un balsamo contro lo scoraggiamento e la rassegnazione, perché tu continui a dirci che non ti sei stufato di noi, che credi in noi, nell’umanità più vera che sta nel profondo di ogni uomo. Grazie, perché tu credi in noi più di noi stessi e più di quanto noi crediamo in te.




Missione donna

Scrivo queste righe durante il mese missionario. Un mese che comincia con la memoria di santa Teresa di Lisieux e si conclude con quella della beata Irene Stefani. La prima, vissuta solo 24 anni, è protettrice delle missioni, pur non essendoci mai stata; la seconda, missionaria della Consolata, è morta di peste in Kenya a 39 anni, mentre serviva i poveri. Due giovani donne innamorate di Dio, due che hanno fatto della dedizione incondizionata lo scopo della loro vita. Due donne consumate dall’amore.

A esse, voglio aggiungere suor Carola Cecchin, beatificata il 5 di questo mese. Un’altra missionaria di inizio Novecento in Kenya, detta «mamma buona». Anche lei bruciata dall’amore e «sepolta» nelle acque del Mar Rosso.

Nonostante debba tantissimo a suor Irene e ai suoi scarponi logori (ho letto la sua biografia «Gli scarponi della gloria» quando avevo 12 anni), non mi è mai venuto spontaneo pensare alla missione al femminile. Ma sempre di più è doveroso farlo, a maggior ragione in questi giorni segnati da figure femminili che, nel bene o nel male (lasciamo a voi giudicarlo), segnano la storia: la
regina Elisabetta; la leader della nuova maggioranza parlamentare in Italia, Giorgia Meloni; le donne iraniane che non si lasciano intimorire dal maschilismo violento mascherato di religione di alcuni loro connazionali. Senza contare tutte le donne che costituiscono lo zoccolo duro e la maggioranza dei membri attivi delle parrocchie.

Come scordare, poi, che noi missionari della Consolata abbiamo la nostra ispirazione e il nostro modello proprio in una donna, la madre di Gesù, che noi, con i torinesi, chiamiamo affettuosamente Consolata?

In questo nostro tempo le donne sono protagoniste. Anche se a volte mi lasciano quantomeno confuso, come nella battaglia per far riconoscere l’aborto un diritto, oppure come nell’accettazione acritica di mode, spesso determinate da stilisti uomini, che di rispetto per la dignità della donna hanno ben poco.

Sono protagoniste, purtroppo, anche della cronaca che ci racconta un crescendo di violenze contro di loro, indice di grande confusione negli uomini, impreparati a una relazione paritaria con esse. Questo disagio è ancora più evidente in paesi del Sud del mondo, dove, grazie all’educazione e a tanti progetti mirati al loro empowerment, le donne stanno scoprendo una nuova dignità con la quale gli uomini non riescono a tenere il passo, aumentando comportamenti violenti e alcoolismo e lasciando sulle donne il peso della famiglia. Peso che, con la crisi che tutti stiamo vivendo, diventa sempre più gravoso.

Un altro ambito di violenza sulle donne è quello del traffico di persone, che vede proprio in loro la «merce» primaria da buttare nel vortice della prostituzione e nel mercato della pornografia online. Questi si nutrono, come ricordato da un recente rapporto presentato al parlamento francese, di violenze estreme proprio su donne e bambini. Non ultimo, in questo scenario, è l’aumento della schiavitù, anche nei nostri paesi che si ritengono così orgogliosamente superiori agli altri (vedi pag. 56). Corollario di questa nuova schiavitù è l’utero in affitto, che pure è rivendicato come diritto da alcuni che hanno grande influenza sui social.

Il nostro paese ha incoronato capo della nuova maggioranza in parlamento una donna. Non credo che questo basti da solo a risolvere i problemi di discriminazione e violenza. Come non basta lo scrivere aggettivi che finiscono con un asterisco o senza l’ultima consonante per creare nuove relazioni di rispetto della dignità di ogni persona. Chi è stato come me in Africa, ha usato lingue inclusive, ma ha sperimentato quanto maschilismo e sessismo ci fosse nella società. Senza un reale cambio di mentalità, espedienti linguistici come l’omissione delle ultime lettere delle parole per indicare un genere «neutro» rischia di essere solo un intervento cosmetico.

Le tre sante che hanno fatto da corona al mese missionario, non hanno fatto teorie, ma hanno vissuto una mentalità nuova centrata sull’amore, facendosi serve – non padrone – degli altri, fino a dare la propria vita perché le persone che hanno incontrato potessero essere vive, libere e amate. Ci hanno mostrato la strada, quella che Gesù indica per «farsi servi» gli uni degli altri.

L’augurio è che tutti la percorriamo.