House of Mercy, casa di tutti


La Mongolia, dove il 28 giugno ci sono state le elezioni legislative, ha affrontato un inverno fra i più freddi della sua storia recente, perdendo milioni di capi di bestiame. Eppure è un Paese in crescita, tra grandi diseguaglianze e grandi opportunità. La Chiesa e i missionari ne accompagnano il cammino.

«Quando sono arrivato in Mongolia, nel 2004, Ulaanbaatar, la capitale, era una cittadina tranquilla, quasi sonnacchiosa. Poi è iniziato lo sfruttamento su scala industriale delle miniere, soprattutto di carbone, rame e oro, e l’economia è decollata».

Padre Ernesto Viscardi, missionario della Consolata classe 1951, racconta così l’inizio dei suoi vent’anni di missione in Mongolia e, anche adesso che da poco è stato trasferito a lavorare nella casa generalizia a Roma, quando parla di quei luoghi e delle persone che li abitano usa la prima persona plurale, come si fa con un paese e un popolo a cui si sente ormai di appartenere. «Certo, questa crescita ha generato anche problemi ambientali, corruzione e diseguaglianze: ma piano piano li stiamo affrontando».

Le difficoltà a cui padre Ernesto si riferisce riguardano ad esempio la contraddizione fra l’aumento delle esportazioni di carbone verso la Cina, che l’anno scorso hanno superato i 50 milioni di tonnellate@, e l’esigenza planetaria di ridurre le emissioni di gas serra per far fronte alla crisi climatica. E anche gli scandali legati alla corruzione e alla distrazione di fondi pubblici, con la vendita illegale di carbone , e le mancate restituzioni dei prestiti alla Banca di sviluppo della Mongolia da parte di aziende legate ad alcuni membri della classe politica@.

La cattedrale di Ulaanbatar il giorno della visita di papa Francesco, 14/09/2023

Un’economia in espansione

«La Mongolia», continua padre Viscardi, «è un paese giovane, in crescita economica, alla ricerca di una sua affermazione e presenza mondiale: insomma, un paese che ha un presente e un futuro». Diciannovesimo paese al mondo per superficie (è grande cinque volte l’Italia), la Mongolia ha una popolazione di 3,4 milioni di abitanti, di cui la metà vive nella capitale Ulaanbaatar. La crescita economica attesa per l’anno in corso, riportava ad aprile l’Asian development bank (Adb), è del 4%: c’è un rallentamento rispetto al 7% del 2023@, ma si tratta comunque di una crescita sostenuta, trainata dal settore minerario e dall’espansione della spesa pubblica.

È stata l’esportazione di carbone, acquistato per la quasi totalità dalla Cina che lo utilizza soprattutto per la produzione di acciaio@, a sostenere il settore minerario, ma un ruolo importante continua ad averlo anche il rame, estratto dalla più grande miniera del paese, quella di Oyu Tolgoi, di proprietà del governo mongolo per il 34% e del colosso anglo australiano Rio Tinto@ per il 66%. Altre risorse importanti sono l’oro, l’argento, il molibdeno e le terre rare@, impiegate in numerosi prodotti e tecnologie attuali, dai motori elettrici ai display ottici. Nel 2023 inoltre il gruppo francese Orano ha firmato un accordo per lo sfruttamento della miniera di uranio di Zuuvch Ovoo, nel Sud Est della Mongolia@.

Quanto al settore agricolo, riferiva sempre Adb, ci si aspetta una contrazione, perché l’inverno 2023/2024 è stato uno dei più rigidi della storia recente@, con fenomeni di freddo estremo – o dzud, in lingua mongola – che ha toccato i -47°C nelle regioni del Nord e dell’Ovest. «Sono morti almeno 4 milioni di animali», conferma padre Ernesto: «Non è stato come lo dzud del 2010, in cui ne morirono almeno il doppio, ma le perdite sono ingenti. In un paese con una media di 20 capi di bestiame per abitante, 65 milioni in totale, si fa preso a capire quanto questo settore determini la vita di migliaia di persone».

Le stime citate a fine maggio dal portale Reliefweb, quantificavano in 7,2 milioni i capi di bestiame persi, l’11% del totale. Le famiglie rimaste completamente senza animali risultavano essere 4.957 e, secondo l’Unicef, i bambini le cui esigenze di salute mentale, nutrizione e istruzione rischiavano di non venire soddisfatte erano circa 24mila.

Ulaanbaatar e la sua crescita

«Guardando Ulaanbaatar dalle colline che la circondano, fino a pochi anni fa si vedeva una coltre di smog che la copriva», racconta padre Ernesto. «Era la capitale più inquinata del mondo, ma oggi la situazione sembra migliorata, anche grazie all’uso del “carbone pulito” invece di quello grezzo». Si tratta di bricchetti di carbone lavorato in modo da ridurre le emissioni@, e sono diverse le fonti che confermano il miglioramento della qualità dell’aria della città, non solo rispetto al fumo emesso ma anche alla presenza di polveri sottili.

Il carbone viene usato dalle fasce più povere della popolazione per scaldare le abitazioni. In particolare nei cosiddetti gher district, i quartieri che si sono formati a partire dagli anni Novanta del secolo scorso con l’arrivo, dalle zone rurali e dalle steppe, di famiglie che per diversi motivi – spesso la perdita del bestiame – avevano dovuto spostarsi in città. Le gher (iurta in russo, gher in mongolo) sono le tende tradizionali, smontabili e trasportabili, nate per ospitare le famiglie di allevatori in movimento con il bestiame. A queste, si affiancano anche casette a un piano, molto essenziali. «Mentre l’elettricità arriva quasi dappertutto», continua padre Ernesto, «altri servizi come l’acqua corrente e il gas non sono disponibili nei quartieri più poveri, e le persone per scaldarsi devono bruciare carbone».

Ulaanbaatar ha raddoppiato la propria popolazione negli ultimi vent’anni e, secondo diverse proiezioni, nel 2035 raggiungerà i due milioni di abitanti.

Secondo i dati più recenti dell’ufficio nazionale di statistica (2022)@, il tasso di povertà nel paese è del 27%, supera il 35% nelle zone rurali mentre scende al 23% nelle città. Nella capitale, i poveri sono il 21,6%, una persona su cinque. Nel 2023 il tasso di inflazione è stato dell’8%, in calo rispetto al 13% dell’anno precedente, ma ancora sufficiente per erodere di molto il potere d’acquisto delle famiglie.

La mancanza di un’adeguata nutrizione e di accesso a servizi sanitari di base, l’alcolismo, i problemi di salute mentale e la violenza domestica accompagnano e, a loro volta, aggravano le condizioni di povertà.

House of Mercy, casa di tutti

È alle persone che si trovano in queste situazioni che si rivolge la House of Mercy (Casa della misericordia), un centro dove persone con diversi tipi di problemi possono trovare un rifugio: un «punto di riferimento per una molteplicità di interventi caritativi, mani tese verso i fratelli e le sorelle che faticano a navigare tra i problemi della vita», l’ha definito papa Francesco che l’ha inaugurata lo scorso 4 settembre al termine del suo viaggio apostolico in Mongolia, Paese nel quale i cristiani sono circa 1.500.

«Il discorso del papa il giorno dell’inaugurazione e benedizione della House of Mercy@ è la nostra magna carta, sintetizzando i valori fondamentali e lo stile che ispirano il lavoro del centro», spiega il cardinale Giorgio Marengo, prefetto apostolico di Ulaanbaatar, che ripercorre anche le tappe dell’ideazione del progetto.

L’immobile che lo ospita era stato per anni una scuola materna ed elementare gestita dalle suore di San Paolo di Chartres, che nel 2019 decisero di venderlo per concentrarsi sul lavoro in un nuovo edificio scolastico nel quartiere di Bayankhooshoo. Monsignor Marengo, missionario della Consolata all’epoca appena nominato vescovo, si consultò con il nunzio apostolico Alfred Xuereb e con tutte le istanze della Chiesa locale, e prese la decisione di comprare la struttura. Gli istituti e congregazioni avevano già delle loro attività nei settori della carità e dell’assistenza, per questo, continua il cardinale, «ci rendemmo conto che serviva un luogo che fosse espressione della Chiesa locale in sé, non di un ente specifico, e che aiutasse le parrocchie a concentrare in un luogo le iniziative di carità, così da “alleggerire” il loro servizio e dare anche un’immagine più corretta di quello che sono, cioè non primariamente degli spazi di erogazione di servizi ma soprattutto dei luoghi di avvicinamento alla fede».

Per avviare la ristrutturazione occorreva individuare almeno alcune delle attività da svolgere nell’edificio. «Dall’analisi della realtà», ricorda monsignor Marengo, «capimmo che dovevamo rivolgerci alle persone senza fissa dimora, spesso affette da dipendenze come l’alcolismo, che d’inverno rischiano di morire congelate se rimangono all’esterno; oppure alle madri sole con figli a carico e spesso anche vittime di violenza domestica, che hanno bisogno di un riparo; o, ancora, alle famiglie che arrivano in città dalla campagna e hanno bisogno di una sistemazione temporanea». Altri utilizzi del centro, che da fine maggio ha iniziato a offrire il servizio mensa, si definiranno con il tempo, una volta che sarà pienamente attivo, «in base alle priorità di carità che scopriremo lavorandoci».

Cibo, sanità, riparo, ascolto

Il centro si trova nel distretto di Bayangol, che ha un tasso di povertà del 15%, quindi più basso della media cittadina, ma è attraversato da forti disparità nel tenore di vita, che si manifesta nel mescolarsi di comunità urbane e rurali e nel giustapporsi di complessi residenziali di lusso, gher tradizionali, condomini dai costi abbordabili e case unifamiliari.

Al piano terra, il centro ha un ambulatorio di primo soccorso che raccoglie l’esperienza della Saint Mary’s Clinic, una piccola struttura sanitaria attiva per oltre un decennio vicino alla cattedrale. «Oggi», continua monsignor Marengo, «con l’apertura di un centro sanitario pubblico a poca distanza dalla cattedrale, ha più senso per noi trasferire le attività della clinica all’interno della House of Mercy e offrire lì un servizio di primo soccorso, per indirizzare poi i pazienti bisognosi di cure più complesse agli ospedali della città, sempre in coordinamento con le autorità pubbliche».

Oltre all’ambulatorio, il piano terra ospita la mensa, la cucina e dei locali di ricovero temporaneo, soprattutto per l’inverno, mentre al primo piano si trovano le camere di accoglienza per le donne che fuggono dalla violenza domestica o da altri pericoli e, al secondo piano, le camere per il personale, i volontari e gli ospiti a breve termine, oltre a una sala di formazione e una cappella.

«Non possiamo ancora indicare con precisione un numero di beneficiari», spiega fratel Andrew Tran Le Phuong, religioso salesiano e coordinatore del centro. «Inizieremo con un numero di persone che sia gestibile per noi in questo momento, in base alle nostre risorse umane, finanziarie e all’esperienza da acquisire. La Casa della Misericordia non è solo un centro di servizi ai bisognosi, è un luogo in cui aiutiamo i poveri a riconnettersi con la famiglia e la società».

La responsabile locale delle attività sarà Otgongerel Naidansuren Lucia, Oghi, come la chiamano tutti, una donna mongola la cui disabilità – usa protesi per camminare poiché è priva degli arti inferiori dal ginocchio in giù e delle mani – non le ha impedito di guidare, usare il computer e il cellulare e diventare una risorsa fondamentale per la Chiesa locale, con la quale lavora da 18 anni, prima in una parrocchia e, ora, al centro.

In linea con le indicazioni del Papa, la House of Mercy cercherà di avvalersi il più possibile del lavoro dei volontari laici. L’idea del volontariato, continua fratel Andrew, ha un importante elemento educativo, anche per cambiare la visione distorta secondo cui i missionari hanno molte risorse e sono qui per fornire servizi. Questo è un modo per educare le persone all’idea che non tutto è riducibile a un rapporto economico.

La collaborazione per mandare avanti il centro, riprende il cardinale Marengo, è aperta davvero a tutti: «Ai missionari e religiosi cattolici che vorranno venire a dare il loro tempo per servire i pasti, per ascoltare le persone, per fare attività con le madri e i bambini, ma anche ai nostri amici protestanti e buddisti e ai volontari internazionali. Perché questo servizio per la Chiesa non è semplicemente assistere: è manifestare la propria identità».

Chiara Giovetti


ATTIVITÀ AIUTATE DA MCO

Oltre alla House of Mercy, sostieniamo anche alcune altre attività dei missionari e missionarie della Consolata.
Il progetto Amico Saint Paul Mongolia@ ha contribuito a creare a Zuunmod, circa quaranta chilometri a sud di Ulaanbaatar, un Children and youth centre, cioè un centro per l’infanzia e la gioventù con attività di doposcuola, creando un parco giochi e sistemando gli spazi e i materiali didattici del laboratorio di lingua e musica.

Il Centro «Il sole che sorge» a Chingeltei, nella periferia Nord di Ulaanbaatar, accompagna circa una trentina di bambini nella crescita personale e nello studio, con un aiuto per fare i compiti ma anche spazi di socializzazione e apprendimento attraverso giochi, sport, attività creative come il canto, la danza e il disegno e un mini Centro ricreativo estivo portato avanti con l’aiuto di volontari locali@.

Ad Arvaiheer, città di circa 30mila persone a 437 chilometri a Sud Ovest di Ulaanbaatar, i missionari hanno diverse attività fra cui il Day care centre che ha sede in una gher attrezzata presso la missione e offre attività educativa e pasti a una trentina di bambini dai 2 ai 5 anni; un programma di doposcuola e di attività ricreative per bambini e ragazzi; un progetto di formazione in attività sartoriali per circa trenta donne della zona e altre attività che sono descritte nei dettagli sul sito dei missionari della Consolata in Mongolia@.

Chi.Gio.

 




Carbone, petrolio, gas vincono ancora


I combustibili fossili continuano a dominare la scena mondiale e a crescere di prezzo. In primis, per la speculazione. L’energia rinnovabile rimane una piccola percentuale dell’energia consumata.

Proprio quando il mondo sembrava deciso a volersi impegnare seriamente contro i cambiamenti climatici, è tornata l’angoscia per i prodotti energetici. Un’angoscia alimentata in parte dalla nostra indolenza, in parte da fatti contingenti. L’indolenza si riferisce alla nostra incapacità di agire finché eravamo in tempo. Da decenni, gli scienziati ci avvertono che i cambiamenti climatici sono dovuti all’accumulo di anidride carbonica emessa dai combustibili fossili e ci esortano a risolvere il problema convertendoci alle energie rinnovabili, principalmente eolico e solare. Ma noi abbiamo temporeggiato facendo orecchie da mercante. Imperterriti, abbiamo continuato a rifornirci di energia elettrica da centrali alimentate a gas e carbone dedicando alle rinnovabili solo le briciole. Secondo i dati dal Centre for climate and energy solutions, nel 2019 l’energia rinnovabile incideva solo per l’11,2% sul totale dell’energia consumata a livello mondiale per elettricità, trasporti e riscaldamento. Considerato che nel 2009 la percentuale era attestata su 8,7%, in un decennio il peso delle rinnovabili è aumentato di appena 2,5 punti percentuale, lasciando che i combustibili fossili continuassero a farla da padroni coprendo tutt’ora l’80% dei consumi energetici a livello mondiale.

Solo nell’ultimo decennio, il consumo mondiale di petrolio è passato da 4 miliardi di tonnellate nel 2010 a 4,4 nel 2019 registrando un aumento percentuale del 10%. Quanto al gas, il consumo è passato da  3.160 miliardi di metri cubi nel 2010 a 3.903 nel 2019, un aumento percentuale del 23%. Intanto anche un altro combustibile fossile ha registrato un aumento importante. Si tratta del carbone che, pur essendo molto più inquinante, è però meno caro e quindi preferito da paesi come Cina, India, ma anche Polonia, affamati di energia a basso costo per recuperare il terreno perduto sulla strada dello sviluppo industriale. Così il suo uso è passato da 7,2 miliardi di tonnellate nel 2010 a 8 miliardi di tonnellate nel 2019, l’11% in più. Con inevitabili conseguenze sulle emissioni di anidride carbonica, passate da 38,5 gigatonnellate nel 2010 a 43,1 nel 2019.

Dal punto di vista dei prezzi, benché i prodotti energetici siano soggetti a repentini cambiamenti, complessivamente nel secondo decennio del nuovo millennio, si è assistito a un certo ribasso. Segno che l’industria dei combustibili fossili ha saputo rispondere alle maggiori richieste di mercato, producendo addirittura qualcosa di più. Nel caso del petrolio, la quotazione è passata da 79 dollari al barile nel 2010 a 64 dollari nel 2019. Per il gas naturale, invece, siamo passati da 6,7 dollari per milione di Btu (British thermal unit) nel 2010, a 4,45 nel 2019. Ma questa situazione di relativa stabilità si è rotta con l’arrivo del Covid. I lockdown, decretati nel 2020 nelle maggiori economie del mondo, hanno provocato una caduta brusca nel consumo di prodotti energetici per l’arrestarsi di molte attività produttive, la cancellazione di viaggi aerei, la riduzione dei viaggi su strada. Complessivamente nel 2020 il consumo mondiale di petrolio si è ridotto del 9% mentre quello del gas del 2%, provocando una riduzione di prezzo che è stato rispettivamente del 34 e del 23%. Con beneficio anche per il clima, dal momento che il 2020 ha registrato una riduzione nelle emissioni di anidride carbonica nell’ordine di due miliardi di tonnellate. Ma la tregua è durata poco.

Centrale termoelettrica e animali al pascolo. Foto Peggychoucair-Pixabay.

Consumi e prezzi

Decisi a voler tornare a crescere, molti governi hanno stanziato somme enormi, tutte a debito, per finanziare spese e investimenti di ogni tipo, finalizzati a rilanciare le proprie economie. Basti citare il Next generation Eu, il piano di investimenti messo a punto dall’Unione europea, del valore di 750 miliardi di euro finalizzato alla transizione ed efficienza energetica, all’ammodernamento dei trasporti, alla ricerca industriale, al rafforzamento dell’edilizia sociale, al sostegno di produzioni strategiche. Come potremmo citare l’American rescue plan, il piano di rilancio americano decretato nel marzo 2021 che destina 1.900 miliardi di dollari a interventi a favore di famiglie, enti pubblici e imprese. Senza dimenticare il pacchetto di stimolo economico del valore di 940 miliardi di dollari decretato a fine 2021 dal governo giapponese.

Ed è successo che la ripartenza contemporanea di tutte le economie mondiali ha creato una crescita inaspettata di domanda di prodotti energetici che il mercato ha immediatamente tradotto in aumento dei prezzi. Nel caso del petrolio, le prime tendenze al rialzo si sono palesate già nel novembre 2020 per proseguire lungo tutto il 2021, fino a raggiungere gli 86 dollari al barile a fine anno. Ma la vera mazzata è stata per il gas naturale che, nel corso del 2021, è passato da 7 a 38 dollari per milione di Btu, un aumento del 400%. Eppure, l’Iea, l’Agenzia internazionale dell’energia, ha certificato che nel 2021 l’aumento dei consumi di gas è stato solo del 4,6%. Dal che si capisce che qualcuno ha avuto interesse a trasformare in incendio ciò che era solo un focherello. Questo qualcuno è il mondo della finanza che riesce ad agire incontrastata per l’incapacità della politica di metterle dei freni.

il ruolo dei futures

In Europa, uno dei luoghi in cui si determina il prezzo del gas è la Borsa di Amsterdam, dove non si stipulano solo contratti di compravendita a consegna immediata, ma anche contratti futures, tecnicamente a consegna futura la cui vera finalità è scommettere sull’andamento dei prezzi. Chi punta sul rialzo si impegna a comprare a una certa data futura ai prezzi di oggi; chi invece punta sul ribasso si impegna a vendere in futuro ai prezzi d’oggi. Ma quando il contratto giunge a scadenza, fra le parti non avviene nessuno scambio di prodotto fisico. Più semplicemente la parte perdente salda quella vincente versando la differenza fra il prezzo pattuito e quello che, nel frattempo, è maturato. Potrebbe anche succedere che nessuno paghi niente a nessuno come avviene quando le due parti sono diverse solo in apparenza mentre nei fatti sono entrambe espressione della stessa realtà economica che gestisce il gioco speculativo.

Tutti sanno che i contratti futures si stipulano solo per scopi speculativi. Ma poiché il mercato è stupido, o forse fin troppo cinico, non fa differenza fra contratti veri, stipulati per il reale interesse a commerciare, e quelli fasulli, stipulati per guadagnare sulle variazioni di prezzo. E facendo di tutta l’erba un fascio, interpreta come domanda reale quella che in realtà è solo domanda fittizia, creata apposta per mandare alle stelle i prezzi degli scambi reali. Non di rado con conseguenze sociali disastrose. In Europa, l’aumento del prezzo del gas ha fatto esplodere le bollette dell’energia elettrica e del riscaldamento, gettando milioni di famiglie nella disperazione. E anche se non si saprà mai chi ha orchestrato il tutto, è un fatto che nel 2021 le imprese energetiche hanno aumentato considerevolmente i propri profitti. Valga come esempio l’Eni, che è passata da  una perdita di 750 milioni di euro nel 2020 a guadagni per 4,5 miliardi nel 2021. O la Shell, che è passata da 5 miliardi di dollari di profitti nel 2020 a 19 miliardi nel 2021. Nel silenzio più assordante della politica che, volendo, potrebbe assumere provvedimenti normativi e fiscali per contenere la finanza speculativa. Ma tant’è: questo sistema non è organizzato per la dignità delle persone, ma per permettere a chi già è ricco di arricchirsi sempre di più.

il gas russo e quello degli altri

Intanto altre nubi si stanno addensando in Europa, gettando pesanti ombre sul futuro del mercato del gas. Si tratta delle «tensioni» con la Russia che è il secondo produttore e il primo esportatore al mondo di gas naturale. L’Unione europea importa il 41% del suo gas da Mosca, ma dopo l’aggressione russa all’Ucraina, sta cercando altri fornitori. Anche l’Italia, che dipende dal gas russo per il 38%, sta cercando delle alternative, ma non è detto che ne trovi di preferibili né da un punto di vista politico, né ambientale. Il governo ha individuato parte della soluzione nel potenziamento di forniture di gas naturale da parte di altri tre paesi con i quali l’Italia è già collegata attraverso gasdotti: Algeria, Libia e Azerbaigian. Peccato che tutti e tre siano classificati come paesi non liberi da parte di Freedom House, l’istituto statunitense che annualmente attribuisce un voto a tutti i paesi del mondo in base al loro rispetto per le libertà civili e i diritti politici.

Il governo italiano è convinto che un altro pezzo di soluzione risieda nel potenziamento di importazione di gas naturale liquefatto (Gnl), che però presenta due generi di problemi: è più costoso ed è più rischioso. Più costoso sia per il trasporto che avviene via nave, sia per il doppio cambio di stato del gas: prima da gassoso a liquido, poi di nuovo da liquido a gassoso. Più rischioso per gli incidenti a cui possono andare incontro le navi da trasporto, ma anche i rigassificatori di solito posti in mare a qualche chilometro dalla costa di fronte a città importanti, come quello che si trova davanti a Livorno. L’Eni ha fatto sapere che le quote aggiuntive di Gnl potrebbero arrivare da Stati Uniti, Mozambico, Qatar, Angola, Repubblica del Congo. Di essi solo gli Stati Uniti sono classificati come paese libero. Tutti gli altri sono classificati come non liberi a eccezione del Mozambico, definito parzialmente libero. Ma, al di là del dato politico, c’è quello sociale: tutte le organizzazioni non governative denunciano che in Africa lo sfruttamento delle materie prime non porta giovamento alla popolazione locale, mentre aggrava le disuguaglianze per l’alto grado di corruzione che arricchisce solo l’élite politica.

Una pipeline in Alaska. Foto David Mark-Pixabay.

Dubbi e speranze

Per finire, due parole sulla posizione degli Usa. Come esportatore di gas, gli Stati Uniti vivono la Russia come un concorrente: ogni metro cubo di gas esportato dalla Russia è un metro cubo di meno che può essere venduto dagli Usa. E allora è spontaneo chiedersi se la politica di isolamento messa in atto nei confronti della Russia, e sollecitata anche all’Unione europea, non sia dettata più da ragioni di egemonia commerciale ed economica che dalla volontà di difendere i valori politici e sociali dell’Ucraina. Se così fosse, si dimostrerebbe come il cinismo dei grandi sia senza limiti, come senza limiti sarebbe il servilismo dei piccoli disposti a tutto pur di assecondare i desiderata della potenza di riferimento.

L’unico modo per uscirne è convertirsi a un altro modello economico non più orientato alla crescita infinita di produzione, vendite e consumo, ma alla costruzione della dignità della persona nel rispetto del senso del limite.

Francesco Gesualdi




Carbone vegetale,

risorsa o piaga?

Testo di Chiara Giovetti |


Un terzo della popolazione mondiale usa legna e carbone per cucinare e a volte anche per fornire energia alle proprie piccole e medie imprese. In Africa si tratta di un settore in forte espansione e i potenziali danni per ambiente, finanze pubbliche e lotta al terrorismo non sono da sottovalutare.

Una donna seduta su uno sgabello a bordo strada e, accanto, qualche sacco chiaro alto più di un metro, con le scritte sbiadite di questa o quella industria locale, di questa o quella agenzia umanitaria. Dentro, tanti cubi neri trattenuti da una rete di cordicelle o di foglie di palma annodate ai bordi del sacco. Oppure un uomo che spinge una bicicletta con almeno un paio di questi sacchi posati uno sopra l’altro e assicurati al portapacchi con un legaccio di camere d’aria annodate fra loro. Succede spesso di imbattersi in scene come queste lungo le strade africane, in città come nelle zone rurali. I cubi neri sono pezzi di carbone vegetale e il loro impiego più frequente è quello di fare fuoco per cucinare.

A vederli così, questi venditori improvvisati, si direbbe che quello del carbone è uno dei tanti piccoli commerci con cui molte famiglie africane si guadagnano di che sopravvivere. Ma sarebbe un’impressione errata. Aggregando tutte le donne sedute a bordo strada e gli uomini che spingono una bici nel continente, il giro d’affari del carbone vegetale appare nella sua reale dimensione: colossale. E ingenti sono i danni che rischia di infliggere all’ambiente, alle finanze pubbliche e persino alla lotta al terrorismo perché, nonostante abbia un ruolo di primo piano nelle economie del continente, il settore del carbone e della legna da ardere rimane per la maggior parte informale.

Vendita di carbone nello slum di Kibera a Nairobi (© The Seed / Pamela Adinda)

Legna e carbone vegetale in numeri

Secondo i dati del rapporto The Charcoal Transition della Fao, nel 2016 il mondo ha estratto circa 3,7 miliardi di metri cubi di legno dalle foreste del pianeta. Di questi, circa la metà sono stati usati come combustibile e sono diventati per l’83% legna da ardere e per il 17% carbone vegetale. Quest’ultimo è dunque è quantificabile 351 milioni di metri cubi, pari a in 52 milioni di tonnellate, di cui 32 milioni prodotti nella sola Africa@.

Per farsi un’idea delle proporzioni può essere utile un confronto con i volumi italiani: nel 2016 una nota del Crea (Consiglio per la ricerca nell’agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) riportava che i boschi italiani contengono «oltre 1,2 miliardi di metri cubi di legno, con un aumento annuale di massa legnosa di oltre 36 milioni di metri cubi. Di questi ogni anno vengono tagliati oltre 10 milioni di metri cubi»@.

Sempre i dati Fao indicano che ancora oggi quasi due miliardi e mezzo di persone sul pianeta ricorrono a legna e carbone per cucinare: un terzo della popolazione mondiale. In Africa subsahariana, il dato sale di parecchio: a contare su queste fonti di energia è il 90% della popolazione. Sostengono il trend, in crescita, della produzione e del consumo principalmente due fattori: l’aumento demografico e la rapida urbanizzazione.

Trasporto di carbonea Bagamoyo, Tanzania (© AfMC / Jaime Patias)

In Tanzania, ad esempio, l’85% della popolazione urbana utilizza carbone sia per cucinare che per la fornitura di energia a piccole e medie imprese: secondo uno studio del 2007 citato nel rapporto Fao, alla fine del secolo scorso la sola città di Dar es Salaam, il centro urbano più grande del paese, era responsabile del consumo di metà del carbone a livello nazionale.

Quanto al volume economico dell’industria del carbone vegetale in Africa subsahariana, nel 2011 le proiezioni di Afrea – il programma della Banca mondiale finanziato dai Paesi Bassi che si occupa di studiare le energie rinnovabili in Africa – indicavano in 8 miliardi di dollari il valore del settore per il 2007 e ipotizzavano per il 2030 lo sfondamento della soglia dei 12 miliardi, con un totale di 12 milioni di persone impiegate nella produzione, vendita e distribuzione del carbone.

Unep, l’agenzia Onu per l’Ambiente, propone invece altri dati, partendo dal valore ufficiale della produzione di carbone (dati 2012) e usando prezzi variabili da 200 dollari per tonnellata sul mercato locale (cioè 5 dollari per un sacco da 25 chili) a 800 dollari per tonnellata sul mercato internazionale. Con queste premesse Unep arriva ad assegnare al settore un valore economico compreso fra i 9,2 e i 24,5 miliardi di dollari.

Per fornire il polso della situazione a livello dei singoli paesi, il rapporto Fao riporta ad esempio che in Tanzania il settore del carbone vegetale contribuisce all’economia nazionale per circa 650 milioni di dollari (pari a circa il 2,2% del Pil) mentre in Kenya il valore più che raddoppia toccando 1,6 miliardi (1,2% del Pil).

Si cucina col carbone nello slum di Korogocho a Nairobi (© The Seed / Purity Mwendwa)

Carbone e vita quotidiana

Guardando al quotidiano delle vite delle persone, la popolarità del carbone è facile da spiegare. Dal lato di chi lo compra, è la fonte di energia più conveniente: brucia più a lungo e produce più calore della legna, è più leggero e per questo più facile da trasportare e può essere conservato più a lungo, senza rischiare di marcire o di essere danneggiato dagli insetti.

Dal lato di chi lo produce e vende, data l’abbondante domanda, è una fonte di reddito piuttosto sicura. Standard Digital, uno dei principali quotidiani keniani, racconta la storia di Sipporah Kemunto, che vende carbone a Kisii, nel Kenya occidentale. Sipporah ha iniziato vent’anni fa con 200 scellini (circa 2 euro al cambio di oggi) prestati da un’amica, con i quali ha comprato il suo primo sacco di carbone. «Con quell’unico sacco sono riuscita a vendere dieci barattoli di carbone il primo giorno: molto al di sopra delle mie aspettative». Oggi la signora Kemunto vende un sacco a 1.100 scellini, per un guadagno fra i 500 e i 550 scellini, in un paese dove la paga giornaliera per un addetto alle pulizie, ad esempio, è di 622 scellini a Nairobi e 349 scellini in aree non urbane. Il suo lavoro l’ha costretta a molti sacrifici, come quello di svegliarsi prestissimo la mattina per fare il giro dei ristoranti suoi clienti e fornire loro il carbone, o quello di lavorare in condizioni non molto salubri. Ma grazie al carbone è riuscita a comprare due acri di terra fuori Kisii e a far studiare due figli all’università mentre il terzo sta finendo le superiori@.

Taglio della foresta nel Congo RD ( AfMC / Ennio Massignan)

Impatti del carbone

Il primo impatto connesso alla produzione di carbone vegetale riguarda il degrado delle risorse forestali – definito come riduzione della biomassa, declino della composizione e della struttura della vegetazione – se non addirittura la deforestazione. È difficile, avverte il rapporto Fao, indicare con chiarezza quanto la produzione di carbone vegetale da sola determini degrado o deforestazione. Un tentativo di fornire una stima del fenomeno è uno studio del 2013 che quantifica gli ettari di foresta persi in Africa a causa del carbone in quasi tre milioni, pari all’80% della deforestazione complessiva nelle aree tropicali. La Tanzania distrugge così ben un terzo delle sue risorse forestali, mentre lo Zimbabwe si ferma allo 0,33 per cento.

Vi è poi la questione delle emissioni di gas serra (anidride carbonica, ma anche metano e carbonio) durante tutte le fasi della filiera. Anche in questo caso si tratta di un dato stimato e si collocherebbe fra 1 e 2,4 miliardi di tonnellate di gas serra, cioè fra il 2 e il 7 per cento delle emissioni globali imputabili all’attività umana.

Altro impatto è quello sulle casse dello Stato: la Fao stima che le perdite per tasse non pagate si collochino, a livello continentale, fra il miliardo e mezzo e i 3,9 miliardi di dollari. Anche in questo caso è la Tanzania il paese dove il danno è maggiore: 100 milioni di dollari di tasse non riscosse. Un ruolo non secondario in questo meccanismo di evasione è quello della consolidata prassi della tangente, che ha anche l’effetto di aumentare il prezzo del carbone per il consumatore finale. L’incidenza delle mazzette – di solito richieste da militari e polizia durante il trasporto – sarebbe pari al 12% in Malawi e fino al 30% in Kenya.

Infine, l’ampia informalità del settore genera un sommerso che apre ampie zone di manovra per gruppi criminali e terroristici. Il rapporto di Unep e Interpol, The Environmental Crime Crisis@, stima che milizie e gruppi terroristici nei paesi africani dove sono in corso conflitti – fra cui Mali, Repubblica Centrafricana, RD Congo, Sudan e Somalia – possono guadagnare fra i 111 e i 289 milioni di dollari all’anno fra mazzette e partecipazione attiva al commercio illegale. In un posto di blocco nel distretto di Badhadhe, Somalia, i terroristi di Al Shabaab sono riusciti a raccogliere fra gli 8 e i 18 milioni di dollari in un anno, più altri 38-56 fra commercio in proprio e tangenti nei porti.

Quanto al contrabbando internazionale le osservazioni sul campo degli estensori del rapporto hanno permesso di documentare, fra Uganda, RD Congo e Tanzania, movimenti di camion che di notte portavano sacchi di carbone in punti di raccolta nei pressi di aree protette o addirittura attraverso i confini. Nel complesso, il giro d’affari del carbone illegale crea profitti fra i 2,4 e i 9 miliardi di dollari nella sola Africa orientale, centrale e occidentale.

Fornello ad uso domestico di bassa resa e grande spreco di calore (© AfMC / Ennio Massignan)

Ultimo aspetto è poi quello della salute umana: alcuni studi indicano che nei contesti domestici in cui si usano fornelli a carbone la concentrazione di Pm10 (polveri sottili) è di un sesto rispetto alle case in cui si usa legna da ardere. La transizione da legna a carbone potrebbe ridurre del 65% le infezioni respiratorie. Tuttavia, i bracieri tradizionali attualmente in uso, e sono la stragrande maggioranza, rappresentano una minaccia alla salute perché sprigionano più monossido di carbonio.

Le possibili soluzioni

Secondo il rapporto Fao, una riduzione pari all’86% nelle emissioni generate da produzione e consumo di carbone vegetale potrebbe ottenersi attraverso una serie di interventi. Fra questi vi sono l’introduzione di pratiche sostenibili nella gestione delle foreste, l’uso di biomasse alternative provenienti ad esempio dagli scarti della lavorazione del legno, l’introduzione di prodotti agglomerati (briquettes) che riutilizzino la polvere di carbone combinata con scarti della produzione agricola o con terreno e l’introduzione di fornelli migliorati, in grado di consumare meno carbone.

La riduzione più significativa tuttavia verrebbe, secondo la Fao, dal miglioramento dei sistemi tradizionali di carbonizzazione, che di solito avviene dentro fornaci con un’efficienza di conversione molto bassa. Secondo uno studio del 2016, migliorare tale efficienza dal 15 al 25% permetterebbe di ridurre del 40% la legna necessaria per produrre la stessa quantità di carbone.

Lavoro comunitario per ripiantare alberi nelle colline attorno a Morogoro, le Mukunganya Hills, durante la stagione delle piogge.  (© AfMC)

Il lavoro dei missionari della Consolata

In Tanzania, dove il problema del degrado delle risorse forestali e, a volte, addirittura della deforestazione è particolarmente serio i missionari della Consolata hanno iniziato in due località altrettanti progetti per sensibilizzare la popolazione e coinvolgerla in un’opera di rimboschimento.

  • Il primo microprogetto si svolge nel villaggio di Makota, a Ihemi, circa 50 chilometri da Iringa. La popolazione locale vive di agricoltura di sussistenza, alla quale affianca altre attività occasionali per aumentare il proprio reddito. Fra queste vi è proprio il taglio degli alberi per ottenere legname e carbone. Le attività relative al legname vengono svolte in modo incontrollato, senza pianificazione né reintegro delle piante tagliate con nuovi alberi. Per questo l’erosione del suolo e la deforestazione stanno diventando fenomeni evidenti. Il progetto in corso prevede tre seminari di formazione per la popolazione locale tenuti dai leader locali e dai funzionari dell’agenzia tanzaniana per i servizi forestali. Le persone formate parteciperanno poi alla posa di alcune piante pr ogni famiglia e se ne prenderanno cura.
  • Alle Makunganya Hills, vicino a Morogoro, vi è poi in corso da fine 2016 un progetto simile. In questa zona, le colline sono ora spoglie, sia a causa dei frequenti incendi che del taglio degli alberi per ottenere legname per costruzioni e legna da ardere. A detta del responsabile sul campo, il microclima locale è cambiato e le risorse idriche della zona si sono notevolmente ridotte. Anche qui il progetto prevede la posa di migliaia di piante e tre seminari di approfondimento per la popolazione locale sui problemi e sui rischi connessi alla deforestazione. Parteciperanno circa 500 persone e, oltre al rimboschimento, si lavorerà con la comunità locale per avviare un progetto parallelo di apicoltura.

Chiara Giovetti