Turismo: si è imparato poco dalla pandemia


Quest’anno segnerà probabilmente il ritorno dei flussi turistici ai volumi precedenti la pandemia. Le speranze che la pausa forzata potesse contribuire a un ripensamento del turismo e alla correzione di alcuni errori sembrano essere in gran parte deluse.

Gli introiti del turismo in Uganda sono cresciuti nel 2023 di quasi il 50%, superando il miliardo di dollari per la prima volta dall’inizio della pandemia da Covid-19. Lo riportava lo scorso marzo il sito di news Semafor@, aggiungendo che il settore dà lavoro a più di 600mila persone nel Paese ed è uno dei maggiori motori dell’economia. Sempre Semafor ad aprile riportava il dato, riferito da W. hospitality group, una società di consulenze con sede a Lagos, Nigeria, secondo il quale le catene alberghiere internazionali avevano in progetto di costruire 524 hotel con oltre 92mila camere in 41 Paesi africani. Due su tre di questi hotel erano progetti delle cinque maggiori catene del mondo: le multinazionali statunitensi Marriott, Hilton, Radisson, la francese Accor e la britannica Ihg Hotels@.

Ritorno ai livelli pre-pandemia

Questi dati di espansione del settore in Africa trovano conferma nelle statistiche ufficiali, in particolare nel Un turism barometer dell’organizzazione mondiale del turismo delle Nazioni Unite che esce quattro volte l’anno@. Secondo Unwto, il turismo internazionale ha raggiunto il 97% dei livelli precedenti la pandemia da Covid-19 nel primo trimestre 2024; si prevede che eguaglierà e forse supererà quei livelli nel corso di quest’anno.

Il dato si riferisce agli arrivi internazionali, cioè alle visite da parte di viaggiatori che passano almeno una notte in un Paese diverso da quello di residenza, ed è una media fra i dati di tutti i Paesi del mondo.

Il Medio Oriente, segnala lo stesso Un turism barometer, ha registrato nel primo trimestre del 2024 la crescita relativa più sostenuta, con un aumento del 36% rispetto allo stesso periodo del 2019 (dato che probabilmente non riguarda però Israele, Libano e Palestina, ndr), mentre Africa ed Europa hanno già superato il livello pre pandemia del 5% e dell’1%. Per il resto dell’anno in corso, la previsione a maggio era di un possibile crescita del 2% rispetto ai livelli del 2019, trainata dallo sblocco della domanda accumulata a causa delle passate restrizioni e non ancora soddisfatta, dall’aumento dei collegamenti aerei e da una più forte ripresa delle destinazioni asiatiche, nonostante l’aumento globale dei costi.

Nel 2023, a livello generale, il recupero rispetto all’epoca pre Covid era già stato dell’88%, con poco meno di 1.286 milioni di arrivi internazionali a fronte dei 1.464 del 2019. In termini economici, invece, i dati preliminari indicavano che la meta era già raggiunta l’anno scorso: il prodotto interno lordo diretto del turismo, quello cioè legato alle industrie direttamente in contatto con i visitatori, era infatti stimato a 3.300 miliardi di dollari, cioè il 3% del Pil mondiale: lo stesso del 2019.

L’Unwto a fine giugno non aveva dati più recenti del 2022 circa il numero di lavoratori, ma World travel & tourism council (Wttc), forum degli operatori privati del settore turistico a livello mondiale, quantificava ad aprile in 348 milioni i posti di lavoro legati al settore del turismo e dei viaggi, con un incremento di quasi 14 milioni rispetto al 2019@.

La ripresa del settore turistico è dunque ormai nei fatti. Meno chiari, invece, sono i progressi verso il rispetto dei principi proposti ad esempio dal Global sustainable tourism council (Gstc) nel 2021@ con l’intento di approfittare della battuta d’arresto della pandemia per correggere alcune storture del settore.

AfMC / Adriano Coletto

Turismo e clima

A violare almeno la metà di questi principi è, ad esempio, il cosiddetto last chance tourism, il turismo dell’ultima possibilità. Su Futura network, il sito di dibattito promosso dall’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (AsviS), Flavio Natale commentava qualche mese fa un articolo del New York Times che descriveva questo fenomeno come un tipo di turismo nel quale i viaggiatori pagano cifre spesso molto alte per vedere luoghi che presto potrebbero non esistere più a causa dei cambiamenti climatici: ghiacciai, isole, barriere coralline. Un esempio di questi luoghi è la Mer de glace, cioè il ghiacciaio del Monte Bianco: un turista intervistato dal New York Times racconta che alla sua prima visita, 40 anni fa, il ghiacciaio arrivava appena sotto la piattaforma panoramica, mentre oggi è circa 240 metri più in basso. Natale cita anche un articolo del Guardian su Pond Inlet, un villaggio a maggioranza etnica Inuit nell’Artico canadese dove le principali attività di sussistenza sono la pesca e la caccia di mammiferi marini. A Pond Inlet i turisti vanno a osservare un paesaggio e una fauna in rapido cambiamento: l’Artico, infatti, sta scaldandosi quattro volte più velocemente della media globale, gli orsi polari stanno spostandosi e si prevede che nel 2050 il territorio sarà completamente privo di ghiaccio durante l’estate. Il paradosso di questo turismo è che se da un lato può contribuire ad aumentare la sensibilità delle persone rispetto ai cambiamenti climatici, dall’altro però rischia di accelerare i processi che stanno portando alla scomparsa di quegli stessi ecosistemi. A Pond Inlet il dibattito oppone chi ricava un reddito dalle attività di accoglienza a chi pensa che le navi di turisti spaventino la fauna marina, rendendo più difficile la caccia e aumentando così la dipendenza dell’economia locale dal turismo@.

Il settore del turismo e dei viaggi rappresentavano, in uno studio del Wttc pubblicato a fine 2023 su dati degli anni precedenti, una quota di emissioni di gas serra pari all’8,1% del totale globale nel 2019, diminuita poi a 4,2% nel 2020 e a 4,6 nel 2021. Oggi, con il ritorno degli arrivi internazionali ai livelli pre pandemici, è verosimile che la quota sia di nuovo vicina dal dato del 2019@.

AfMC / Sergio Parmentola

L’impatto su piante e animali

L’industria del turismo non solo emette gas serra, ma sacrifica i migliori alleati che abbiamo per ora a disposizione per catturare l’anidride carbonica: gli alberi. Semafor riferiva a marzo 2024@ che 7,3 milioni di alberi erano stati tagliati in Messico fra il 2019 e il 2023 per realizzare il Tren Maya, la ferrovia turistica e commerciale di 1.525 chilometri che connette Palenque a Cancún e di cui MC ha parlato a novembre 2023@.

Uno dei danni del treno, segnalava Semafor citando il sito messicano Animal Politico, è che il suo passaggio modificherà il sistema di cenotes (grotte) e canali sotterranei, sacri al popolo Maya e necessari per l’approvvigionamento idrico delle comunità dello Yucatán.

Come le piante, anche gli animali subiscono gli effetti del turismo: in Uganda, riportava la rivista Nature a febbraio scorso@, il 59% degli scimpanzé morti negli ultimi 35 anni nel parco nazionale di Kibale sono stati uccisi da agenti patogeni come il metapneumovirus umano, che si manifesta negli esseri umani con sintomi simili al raffreddore ma è spesso letale per gli scimpanzé.

Va meglio agli squali balena, la più grande specie di pesci esistente: ogni anno ci sono 25 milioni di persone in 23 Paesi del mondo che vogliono nuotare con loro. Questo alimenta un giro d’affari da 1,9 miliardi di dollari, ma fa anche crescere i timori riguardo all’impatto negativo che questa esposizione agli umani può avere sugli squali. Fortunatamente, un recente studio pubblicato sul Journal of sustainable tourism realizzato a Ningaloo Reef, nell’Australia occidentale, ha monitorato i movimenti dei pesci dopo aver applicato loro dispositivi biometrici e ha mostrato che gli impatti sono minimi. Lo studio conclude che il turismo legato alla fauna selvatica, se ben gestito – evitando di attirare gli squali con del cibo e di esporli per lungo tempo a grandi quantità di turisti – può essere sostenibile sia per le persone che per gli animali@.

Il turismo che divora

A non essere sostenibile è, invece, la situazione del lago di Como, come raccontava il giornalista Luigi Mastrodonato la scorsa primavera in un articolo@ e in un podcast@ di Internazionale dal titolo «Il turismo ha divorato il lago di Como».

Quello del lago è un ecosistema che l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) ha definito fragile ed esposto a un alto rischio idrogeologico. Si tratta di un territorio selvaggio e impervio, sconosciuto al turismo di massa fino all’inizio degli anni Duemila, quando l’attore statunitense George Clooney ha comprato casa nella zona. Da quel momento, il territorio si è trasformato in una meta di lusso, con la ristrutturazione di ville d’epoca e la costruzione di nuove case per i personaggi famosi e di grandi strutture di accoglienza per ospitare turisti da tutto il mondo: nel 2023 il lago ha sfiorato i 5 milioni di pernottamenti.

Tutto questo ha sottoposto il territorio a stress, perché la cementificazione ha peggiorato la tenuta del terreno facendo aumentare le già frequenti frane. Inoltre, molti abitanti sono stati costretti ad andarsene a causa dell’aumento dei prezzi degli immobili e per via dello stesso fenomeno che è all’opera da oltre un decennio in tante città del mondo, cioè quello degli affitti brevi per turisti, che i proprietari degli immobili preferiscono ai meno redditizi affitti a lungo termine per persone intenzionate a vivere in modo stabile nel luogo.

A sua volta, lo spopolamento ha fatto diminuire gli interventi di manutenzione e messa in sicurezza del lago e delle montagne che lo circondano, creando ulteriori difficoltà quando le piogge, rese meno frequenti ma torrenziali dal cambiamento climatico, si abbattono con violenza su un territorio ormai provato.

Il lago di Como è già saturo, spiega Mastrodonato riportando le parole del sociologo Agop Manoukian, come una bottiglia piena che ci si ostini a voler riempire ancora. Eppure, le amministrazioni locali valutano tuttora progetti per la costruzione di un ulteriore complesso da 29mila metri quadrati con hotel, spa, darsene private, e per la creazione di una stazione sciistica a mille metri con neve artificiale sul vicino monte San Primo, così da estendere la stagione turistica anche all’inverno.

AfMC / Ennio Massignan

Convivenza difficile

La convivenza con le attrazioni turistiche è complicata anche altrove: in Tanzania, che deve all’industria del turismo il 5,7% del suo Pil, pari a 2,6 miliardi di dollari, una parte significativa delle attività riguarda i parchi nazionali e la fauna selvatica. Dal 2022 una legge stabilisce compensazioni economiche e materiali per le persone danneggiate da episodi di conflitto tra fauna selvatica e comunità umane. Ma, sosteneva ad agosto dell’anno scorso Laura Hood sul sito The Conversation@, questo conflitto e i suoi effetti sono gestiti in modo inadeguato e il cambiamento climatico sta peggiorando la situazione, come risulta dalle interviste fatte con alcuni abitanti dei villaggi di Kiduhi e Mbamba, al confine con il Parco nazionale Mikumi, il quarto più grande della Tanzania.

Anche i Maasai che vivono intorno al Serengeti, il parco nazionale più noto del Tanzania@ dove adiacente al cratere di Ngorongoro, sono da anni in lotta per mantenere i loro territori che hanno attirato l’attenzione dell’industria turistica internazionale sotto il paravento dell’ecologia e della conservazione.

Lo scorso aprile Stephanie McCrummen, giornalista vincitrice del premio Pulitzer nel 2018, ha raccontato ai microfoni dell’emittente radiofonica Usa Npr, che la presidente del Tanzania, Samia Suluhu Hassan, ha un approccio molto aggressivo nello sviluppo turistico e prevede il trasferimento forzato di circa centomila Maasai dall’area protetta di Ngorongoro ad altre parti del Paese e la creazione di una riserva di caccia di 600 miglia quadrate a uso esclusivo della famiglia reale di Dubai@.

AfMC / Ennio Massignan

Turismo e pace

Il tema della giornata mondiale del turismo, che cade il 27 settembre, quest’anno sarà «Turismo e pace» e a ospitare le celebrazioni sarà Tblisi, capitale della Georgia. Il turismo, si legge nella presentazione della giornata mondiale sul sito del Unwto, può svolgere un ruolo vitale come catalizzatore per promuovere la pace e la comprensione tra nazioni e culture e nel sostenere i processi di riconciliazione. Viceversa, che la guerra arrechi grosse perdite al settore turistico lo ha sottolineato a febbraio scorso l’Unesco in uno studio, che ha quantificato in 19,6 miliardi di dollari i mancati ricavi e in 3,5 miliardi i danni causati dalla guerra alle risorse culturali e turistiche di un Paese come l’Ucraina@.

Anche la guerra a Gaza, riportava già a dicembre Agence France presse, ha determinato un crollo dei flussi turistici verso Israele e una forte riduzione anche nei Paesi limitrofi, come la Giordania e l’Egitto@.

Chiara Giovetti

 




Popolo Indigeno d’Europa

testo e foto di  Valentina Tamborra |


Nell’estremo Nord del continente da sempre vivono i Sami. Nella storia oppressi e assimilati, stanno oggi lottando per mantenere la loro cultura e tradizioni. A dispetto della modernità che avanza.

I Sami sono una popolazione indigena che oggi conta circa 75mila persone. Divisi dalle frontiere di quattro stati – Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia – vivono in un’area da loro chiamata Sapmi.

L’area ha una propria bandiera i cui colori identificano le sue diverse zone: rosso per la Svezia, verde per la Finlandia, giallo per la Russia e blu per la Norvegia, dove vivono la maggior parte dei Sami.

I nativi di queste zone sono comunemente definiti «lapponi». Il termine però, aveva inizialmente una valenza dispregiativa in quanto la parola svedese «lapp» stava a indicare una «toppa, pezza».

Solo nel 1989 è stato istituito un parlamento sami della Norvegia, in riconoscimento dei loro diritti. L’edificio è stato costruito nella città di Karasjok e la sua architettura ricorda la forma di un lovvo, ovvero una tenda (abitazione tradizionale dei Sami dediti all’allevamento delle renne), pur essendo moderno e all’avanguardia.

Inoltre, dal 1956 è attivo il Sami Council, organizzazione volontaria non governativa che ha come scopo la promozione della cultura e la difesa dei diritti e degli interessi di questo popolo.

La costituzione di un parlamento sami è di particolare rilevanza, in quanto i nativi del Sapmi hanno subito una sorte che sfortunatamente, nella storia, ha toccato diversi popoli nativi.

Sami, Valentina Tamborra

Assimilazione forzata

Tra il 1850 e il 1970 infatti, il popolo sami ha subito quella che è stata chiamata «norvegizzazione».

Durante questo periodo ai Sami residenti in Norvegia venne impedito di parlare la propria lingua e imposto di assumere un cognome norvegese per poter acquistare delle terre e integrarsi con il resto della popolazione norvegese. A quei tempi appartenere al popolo Sami era un marchio d’infamia.

Gli adulti vennero assimilati al modo di vivere occidentale e solo con estrema fatica alcuni di loro – soprattutto i Sami della tundra – continuarono a lavorare con le renne e a preservare la tradizione.

I bambini nati durante il periodo della norvegizzazione infatti, spesso non imparavano neppure la propria lingua. I genitori, per preservarli e far sì che si integrassero fra la popolazione norvegese, parlavano con loro solo nella nuova lingua. Ad oggi molti sono gli adulti che sentono di aver perso le proprie radici.

Una delle prime distinzioni da fare quando si parla di questo popolo è quella fra Sami di mare e Sami della tundra. I primi, vivendo lungo le coste dei fiordi che costellano il paese, sono stati fra i primi a subire il processo di norvegizzazione. Fra di loro, la percentuale di persone che non parlano Sami è molto alta. Mediamente le persone fra i 30 e i 60 anni di età, infatti, non conosco la propria lingua madre. Per ovviare a questo, sono in corso diverse iniziative per il recupero dell’identità: il parlamento sami, infatti, ha reintrodotto la lingua sami nelle scuole e con essa anche lo studio della tradizione e della storia. Esistono poi specifici corsi per adulti che desiderino apprendere la lingua.

I Sami della tundra invece, in quanto nomadi dediti all’allevamento delle renne, hanno subito meno la norvegizzazione e in città come Karasjok e Kautokeino, entrambe in Norvegia, l’85% della popolazione parla sami come prima lingua.

Sami, Valentina Tamborra

I nomadi della tundra

I Sami della tundra sono dediti all’allevamento delle renne e questo li rende nomadi in quanto debbono seguirne i movimenti.

Sin da bambini vengono iniziati dai genitori a questo lavoro che prevede un costante e completo contatto con la natura.

Le renne vivono in assoluta libertà e sono gli uomini a doversi adattare ai loro movimenti. Gli animali infatti, si spostano dalla costa alla tundra a seconda delle stagioni, e seguono la stessa tratta da millenni: lo spostamento segue questa rotta da quando i primi Sami iniziarono a vivere di questa attività, e il movimento è strettamente connesso alla ricerca di cibo da parte delle renne.

I Sami sono al seguito delle renne. Se una volta essi si avvalevano di slitte trainate da renne e sci, oggi le renne vengono dotate di collare gps, e un’apposita App permette di localizzare con più precisione possibile dove gli animali si stanno muovendo.

Questo ha ovviamente semplificato di molto il lavoro dei Sami: prima dell’avvento del gps infatti, era necessaria una costante vigilanza sulla mandria. Intere famiglie Sami vivevano per mesi smontando e rimontando il proprio lovvo seguendo il movimento degli animali. Quando la mandria si fermava a riposare, anche la famiglia poteva fermarsi, ma se gli animali si rimettevano in cammino bisognava immediatamente seguirli. L’ultima transumanza con le slitte e le renne è stata fatta, in Norvegia, nel 1976.

Oggi grazie alla moderna tecnologia, i Sami hanno costruito delle cabin (sorta di piccoli rifugi costruiti in legno, molto basici, vedi box) nelle tratte di percorrenza delle renne e, con potenti motoslitte in inverno e quad (specie di moto a quattro ruote) in estate, sono in grado di raggiungere gli animali molto velocemente.

Sami, Valentina Tamborra

La marchiatura

In estate, quando i nuovi nati fanno capolino nella mandria, è il momento della conta: ogni Sami si predispone a seguire la mandria e direzionarla verso grandi recinti dove ogni renna giovane verrà marchiata con il simbolo proprio del Sami che riuscirà a prenderla.

Portare le renne nei recinti della marchiatura è operazione tutt’altro che semplice: per loro natura infatti, in quanto animali liberi e non abituati all’uomo, le renne tendono a fuggire non appena qualcuno si avvicina. Così i Sami si dividono in gruppi: le motoslitte accerchiano le renne e, stando a una distanza importante (circa 200 metri), cercano di spingerle verso i recinti. Le renne si spostano naturalmente in una sorta di fila indiana che può raggiungere centinaia di metri se non a volte anche qualche chilometro. Raccogliere la mandria è un’operazione assai delicata in quanto se uno solo degli animali cambia percorso, tutte le altre renne lo seguono.

Dopo la marchiatura, che avviene con il tradizionale coltello Sami realizzato a mano utilizzando legno, osso e acciaio, le renne vengono immediatamente rimesse in libertà.

In inverno, tra dicembre e febbraio, sarà il momento di tornare nella tundra e scegliere quali animali verranno utilizzati per fornire carni, pelli e quanto serve per il sostentamento.

Oggi questa forma di allevamento è messa a dura prova in quanto, con lo scavo di nuove miniere e l’installazione di pale eoliche o tralicci della corrente, le renne trovano difficile orientarsi. La nuova conformazione del paesaggio nonché i rumori prodotti da queste installazioni disturbano gli animali durante la transumanza costringendoli a cambiare percorso e facendo loro spendere molta energia in più rispetto al passato. Questo mette a dura prova la mandria e molti animali non sopravvivono. La paura dei Sami, oggi, è quella di vedere nuovamente venir meno la propria tradizione e la propria cultura in nome dell’avanzamento tecnologico.

Sami, Valentina Tamborra

Nel profondo dei fiordi

I Sami di mare vivono prevalentemente lungo le coste norvegesi e non sono nomadi.

Il nome «Sami di mare» potrebbe suggerire una tradizione di pesca, ma in realtà essi si occupavano, in passato, prevalentemente di allevamento di ovini e di tessitura di lana. La pesca non rappresentava la principale fonte di sostentamento ma era parte dell’economia che si reggeva prevalentemente sul baratto. I legami fra Sami di mare e Sami della tundra infatti, erano e sono ancora oggi fortissimi. Le prime strade di collegamento con il resto della Norvegia infatti, vennero costruite solo nel 1970, dunque fino a quegli anni l’economia doveva per questioni di forza maggiore, basarsi sullo scambio fra le due popolazioni Sami.

Se i primi potevano fornire lana, materiale tessile e oggettistica realizzata in legno e osso (oggetti tipici chiamati duodji e dunque utensili come coltelli, calze in lana, coperte, il tutto rigorosamente fatto a mano), i secondi potevano rifornire i Sami di mare con pelli di renna (ottimo isolante dal freddo di queste zone oltre il circolo polare artico), e carne.

Oggi i Sami di mare svolgono i più svariati lavori: perfettamente integrati nel tessuto sociale norvegese, non vivono più di forme di baratto ma sono impegnati in lavori quali insegnanti, medici, cuochi.

Sami, Valentina Tamborra

Spiritualità e religione

Sebbene i Sami siano per lo più luterani, il loro legame con la religione d’origine, lo sciamanesimo, resta estremamente forte.

Lo sciamanesimo era un culto politeista che traeva la propria ispirazione dalla natura. Tra le più antiche divinità troviamo quindi la Madre Terra (colei che governa le nascite e dunque la vita) e il Dio del tuono.

Tra il XIII e il XVI secolo ci furono molte spedizioni missionarie atte a convertire i Sami al cattolicesimo e al luteranesimo. Con l’avanzata dei coloni scandinavi e norvegesi, intere comunità sami furono costrette ad abbandonare le pratiche religiose pagane.

Proprio in Norvegia, nel 1716, nacque il Seminarium Lapponicum: organizzazione con il compito di cristianizzare i Sami fornendo loro le Sacre scritture in lingua Sami. Questa iniziativa fallì in quanto la maggioranza ecclesiastica si oppose alla conservazione dei valori tradizionali (fra cui la lingua) e si procedette al sequestro e al rogo degli oggetti simbolici, come i tamburi, legati al culto pagano.

Fu con l’arrivo di Lars Levi Laestadius, nel XIX secolo, che avvenne una vera svolta.

Questo pastore luterano di origine sami fondò un suo proprio movimento, il Laestadianesimo.

Il primo precetto di questo movimento è la remissione dei peccati e l’incontro con lo Spirito Santo.

Dopo l’arrivo dei coloni infatti, complice il forte cambiamento di vita con l’imposizione di nuove abitudini, l’esproprio forzato dai terreni, la perdita della lingua madre, molti Sami erano caduti nella spirale dell’alcool.

L’alcool però era altresì associato alle pratiche sciamaniche, necessario per cadere in trance.

Laestadius, grazie alla fondazione del suo movimento religioso, aiutò i Sami a trovare una nuova salvezza dalla spirale di abbruttimento nel quale erano caduti dopo l’invasione dei coloni, ma allo stesso tempo impose loro concetti molto restrittivi creando fratture fra la comunità stessa. Chi non si convertiva, infatti, veniva guardato con sospetto e messo in qualche modo al bando dalla comunità.

Il racconto del processo di colonizzazione e di quanto avvenne in quel tempo è ben documentato nel film «La rivolta di Kautokeino» del regista Nils Gaup. Il film è incentrato sulla rivolta di un gruppo di Sami, nel 1852, contro un mercante locale e il suo alleato, un pastore luterano.

Ad oggi, come dicevamo, molti Sami seguono il cristianesimo ma continuano a conservare figure come il «guaritore». La differenza con il passato è che, se una volta il guaritore/sciamano, utilizzava il tamburo per mettersi in collegamento con gli Dei e guarire una persona, oggi la guarigione viene operata tramite l’uso della Bibbia e di Gesù. Questa mescolanza fra cristianesimo e paganesimo è ancora più forte quando scopriamo che alla celebrazione del Natale i Sami affiancano il «Nissetoget» per la celebrazione del Capodanno.

La notte del 31 dicembre, infatti, è usanza ritrovarsi verso le ore 20 per dar luogo a una lunga processione in maschera: ogni famiglia, nelle settimane precedenti all’evento, costruisce maschere e costumi.

Le maschere sono spaventose perché debbono rappresentare i demoni o comunque il «male» che verrà bruciato alla fine della processione, a mezzanotte, in un grande rogo simbolico per far iniziare il nuovo anno al meglio.

Con il rogo delle maschere, gli spiriti maligni vengono allontanati e si fa spazio agli dei benevoli a cui rivolgere le proprie preghiere per un anno nuovo sereno.

Sami, Valentina Tamborra

Le pietre del sacrificio

C’è poi un’altra usanza che dimostra come l’antico credo legato alla terra e alla natura sia radicato e forte. Nella tundra infatti, ci si può imbattere in quelle che vengono definite «pietre del sacrificio». Si tratta di grosse rocce su cui i Sami lasciano offerte (possono essere monete, corna di renna, carne) per ingraziarsi gli dei della natura e ottenere così una buona pesca o un buon anno di caccia o di allevamento.

Oltre alle pietre del sacrificio, restano ancora oggetto di attenzione e di culto altre rocce: un tempo infatti, prima dell’avvento del luteranesimo, i Sami identificavano come luogo sacro ove ritrovarsi a pregare, delle pietre di forma particolarmente allungata verso il cielo – luoghi che simboleggiavano l’unione fra terra e mondo invisibile.

Molto importante è poi per questa popolazione, il legame con gli antenati: la morte, che è vista come passaggio e naturale parte della vita, non è la fine di tutto. Per i Sami chi ci ha preceduto è in qualche modo eternamente presente. Una credenza diffusa infatti è che portare via un oggetto da una delle molte pietre del sacrificio, possa far infuriare gli spiriti che non daranno pace ai vivi sino a quando l’oggetto non verrà riposto nel luogo ove è stato trafugato.

Paganesimo, cattolicesimo, luteranesimo e sciamanesimo si fondono creando così una spiritualità molto forte che attinge alla tradizione antica.

Tutto questo è ben espresso nelle parole di un guaritore che per rispondere alla domanda «in quale dio credi?», ha usato la seguente espressione: «Che importanza ha il nome che gli dai? Se è uno, se sono molti? Ciò che conta, è che tutti si preghi per la pace».

Sami, Valentina Tamborra

La natura e la lingua

I Sami, sia di mare che della tundra, vivono strettamente a contatto con la natura. Questo li porta a un rispetto e a un rigore estremo.

Pur dovendo cacciare e allevare, non esiste Sami che non biasimi ad esempio la pesca o la caccia sportiva.

Per questa popolazione infatti, il rispetto della Madre Terra resta la base di ogni azione. Prima della caccia, prima della pesca, all’inizio della stagione della transumanza, si ringrazia e si chiede il permesso a Madre Terra per portare avanti la propria attività.

Un altro aspetto singolare e che racconta molto di quanto possa essere complicato e allo stesso tempo strettamente legata alle questioni ambientali la cultura Sami, è la loro lingua.

Catalogata in undici differenti dialetti, di cui uno estinto nel 1800 e l’altro nel 2003, solo sei di loro hanno una storia letteraria. È molto complicato comprendere e imparare questa lingua in quanto per una singola parola abbiamo talvolta più di 100 diverse espressioni, un esempio concreto è la parola neve. Vivendo nell’artico infatti, ove per circa sei mesi all’anno la neve, il ghiaccio e la poca luce fanno da padroni, è necessario poter definire al meglio uno dei componenti essenziali che determina la loro capacità di movimento e di lavoro in territori tanto duri come la tundra. E così per descrivere una neve secca, o fragile, o farinosa, o ghiacciata si usano parole completamente diverse fra loro.

Modernità e tradizione

Ad oggi risulta sempre più difficile per i Sami portare avanti il loro tradizionale stile di vita per via di diversi fattori che concorrono a rendere difficile la prosecuzione di una vita nomade e «al servizio» dei ritmi naturali: cambiamenti climatici, riduzione delle terre loro concesse per l’allevamento delle renne, nonché un turismo che raggiunge sovente mete che sino a poco tempo fa erano precluse proprio perché dedicate all’allevamento e al pascolo delle renne, sono tutti elementi che rendono difficile il mantenimento della tradizione.

In alcune città fra Norvegia e Svezia si sono già verificate proteste al fine di impedire la costruzione di nuove miniere, e alcuni capi della comunità dei Sami della tundra hanno provato a far sentire la loro voce ai propri governi. Nonostante ciò sembra inevitabile l’avanzamento del progresso e con esso, come spesso avviene, il sacrificio di realtà minori e dedite a una vita lontana dalla frenesia moderna.

Ciò che si spera, nella comunità, è che la tenacia, la forza di volontà e l’attaccamento alle radici consentano ai giovani Sami di portare avanti la propria tradizione anche se con fatica e sacrificio.

Valentina Tamborra

Sami, Valentina Tamborra

Vivere nelle cabin

Il riparo dei «rennari»

Le cabin, rifugi molto spartani, hanno sostituito l’utilizzo dei lovvo, tende tipiche che oggi vengono utilizzate essenzialmente per affumicare la carne di renna. Ciononostante la vita nella cabin è tutt’altro che agevole: l’energia elettrica viene fornita da un generatore posto all’esterno della cabin stessa e non è presente acqua corrente.

Date le temperature rigide dell’inverno, all’interno della cabin raramente si superano i 15 gradi e si è costretti a stare in molti dentro spazi davvero risicati. Spesso infatti gli allevatori condividono un rifugio formato da due o tre piccole stanze, in sei o sette persone.

L’acqua per cucinare o lavare le stoviglie viene ottenuta grazie al ghiaccio che si forma sulla superficie dei laghi. Raccolto in contenitori di metallo, viene poi sciolto sul fuoco.

Il bagno non è ovviamente presente, si costruiscono delle piccole capanne in legno a circa 200 metri dalla cabin.

I Sami che seguono la transumanza spesso restano nella tundra per due o tre settimane, adattandosi così a un modo di vivere estremamente semplice e spartano.

V.T.

Sami, Valentina Tamborra

 




Kenya: In viaggio con il vescovo «selvaggio»

Foto e testi di Daniele Romeo


Sole. Polvere. Calore. Il suono delle campane delle mucche. Il belato delle capre. Il sottofondo costante, ritmico, quasi ipnotico del canto di guerrieri Samburu, che si preparano a festeggiare l’evento dell’iniziazione alla vita adulta di un gruppo di ragazzi. Accade ogni quindici anni circa. È una scena affascinante, antica, quasi biblica. Come biblica è la figura di Virgilio Pante, the wild bishop, il «vescovo selvaggio», come lo chiamano nella diocesi di Maralal e come lui stesso ama definirsi.

Pante, come preferisce essere chiamato, è la mia guida e il mio «autista» instancabile alla scoperta del territorio abitato dalle etnie Samburu, Turkana e Pokot, in un safari fotografico che mi permetterà di conoscerlo e apprezzarlo insieme a un altro grande missionario poco convenzionale in un territorio difficile, isolato, al centro di eterni conflitti e dominato dalla filosofia dell’«Io, adesso»: monsignor Virgilio Pante e padre Aldo Giuliani, missionari della Consolata.

Il viaggio

Mi trovo nel Kenya del Nord, la Samburu County, nella diocesi di Maralal, per un viaggio fotografico esplorativo in un’area nella quale da decenni, esattamente dal 1952, operano i missionari della Consolata. Partito da Nairobi, sono arrivato a Maralal, dove monsignor Pante ha la sua sede. E da Maralal partirò, accompagnato dal missionario, alla scoperta delle missioni più remote della sua diocesi.

Lungo l’itinerario percepisco un’atmosfera fraterna, serena, fatta di amicizia e condivisione che solo il viaggiare in compagnia e col supporto di chi da sempre vive in simbiosi e sintonia con questa terra, può creare. Un senso di pace interiore mi fa sentire solidale con questi luoghi isolati. Siamo in una delle zone forse più difficili del Kenya, segnata dalla violenza causata dalla follia dell’uomo e dalla durezza e sobrietà di un ambiente naturale che pure è di sorprendente bellezza.

A decidere ogni singola tappa, villaggio e missione da visitare, per tutto il tempo al volante della sua Toyota 4×4, è il vescovo Pante, narratore instancabile e conoscitore di ogni angolo di quella che lui chiama la «sua sposa» (la sua diocesi) che ha attraversato in tutte le direzioni con la sua moto.

Monsignor Pante, la mitra, la Yamaha

Ordinato vescovo della diocesi di Maralal il 6 ottobre del 2001, è fiero di aver donato, un paio di anni fa, a papa Francesco la sua mitra in pelle di capra. Mitra che non rappresenta per lui solo un simbolo cristiano, ma uno stile di vita e la memoria della sua stessa esistenza in mezzo ai pastori samburu da quando nel 1972 iniziò la sua avventura missionaria in un territorio in bilico tra montagne e deserto e segnato dalla conflittualità delle tribù di pastori nomadi che lo abitano, sempre in competizione per le magre risorse.

Durante il nostro viaggio mi racconta che da quel lontano 1972, molte cose sono cambiate in meglio mentre molte sono peggiorate. Altre sono rimaste identiche, come la sua smisurata passione missionaria.

Allora quelle terre erano relativamente pacifiche, spazi infiniti e incantati tra gli scenari maestosi della Rift Valley, punteggiati, come in un dipinto, dai pastori samburu al seguito delle loro greggi. A quel tempo era solo, lui e la sua motocicletta Yamaha, che ancora oggi custodisce gelosamente a Maralal e usa spesso e volentieri, non solo sulle strade e piste polverose del Nord.

Viaggiare nel Nord del Kenya non è agevole. Lontani solo poche ore da Nairobi, ci si addentra in zone con strade sterrate e prive di qualsiasi indicazione, sulle quali un fuoristrada non è certo un lusso. In questo ambiente, Pante si muove come nel giardino di casa, senza esitazioni, conoscendo a occhi chiusi il cammino che porta ai villaggi più isolati, alle manyatte (tipici insediamenti dei Samburu) immerse nel mezzo del nulla e alle missioni di Baragoi, Barsaloi, South Horr, Tuum e Sererit.

Veniamo accolti dai bambini. All’inizio ci fissano con i loro sguardi timidi e incuriositi, ma, dopo pochi attimi, ci circondano sorridenti festeggiando l’arrivo del vescovo. Grazie alla sua dimestichezza con le lingue samburu e swahili, il vescovo mi aiuta a godere di racconti, storie e leggende degli anziani dei villaggi.

La Suguta Valley e i conflitti etnici

«Cactus, alberi di acacia e polvere: sono le ultime cose che i militari della polizia keniota hanno visto quando sono stati uccisi in un’imboscata in uno dei luoghi più inospitali della terra». Queste le parole con cui Pante descrive la «valle della morte» quando l’osserviamo dall’alto andando verso Baragoi. Situato a Sud del lago Turkana e parte della Rift Valley, questo è uno dei luoghi più caldi e inospitali del mondo. La valle è stata ed è tuttora luogo di rifugio sicuro per razziatori di bestiame, sia Turkana che Samburu, che si rubano il bestiame a vicenda, un tempo solo per dare prova di coraggio contro il «nemico», oggi anche istigati da mestatori e trafficanti di bestiame.

Il conflitto tra Samburu, Turkana e Pokot è il tema dominante delle conversazioni con monsignor Pante. La riconciliazione è l’obiettivo della sua missione di vescovo. Sono decine gli episodi raccontati durante le lunghe ore trascorse in auto. Capisco così come la competizione per il bestiame e l’approvvigionamento di acqua e pascoli nella Samburu County sono oggi manifestazioni di contese e rivalità non solo di tipo etnico ma anche politico.

La cultura della razzia tra le comunità di Samburu, Turkana, Pokot, Borana, Gabbra e Rendille è cambiata negli ultimi 40 anni. Mentre un tempo erano gli anziani i guardiani delle istituzioni tribali, oggi lo sono molto meno. Tra le fila delle comunità di pastori nomadi, sono emersi politici e astuti uomini d’affari pronti a sfruttare le rivalità tradizionali e l’oggettiva scarsità di risorse per scatenare le violenze e affermarsi. Queste lobby politiche e imprenditoriali giocano un ruolo determinante nel conflitto, pagando e armando i guerrieri. La competizione per la supremazia politica è strettamente intrecciata con quella per le scarse risorse idriche e dei pascoli tra Turkana, Samburu e Pokot. Le élite politiche armano le loro comunità non solo durante la stagione secca per prendere il sopravvento nella corsa alle risorse limitate, ma durante tutto l’anno, per sostenere politiche locali e contese tra leader delle diverse etnie.

A guadagnarci sono poi i trafficanti di bestiame che lo possono acquistare a prezzi irrisori e rivendere vantaggiosamente a Nairobi o addirittura in Medio Oriente.

Ma Pante è anche molto fiducioso nel cammino di riconciliazione da lui avviato. Il ruolo della Chiesa, la presenza dei missionari sempre più «neri» e la crescita del numero dei sacerdoti locali offrono a Samburu, Turkana, Pokot, strumenti che permettono di costruire una convivenza pacifica: il dialogo, la scuola, il mercato. Incontri di preghiera, condivisione e scambio tra anziani delle diverse etnie, bambini Samburu e Pokot che dormono, mangiano e giocano insieme nella stessa scuola-collegio, mercati intertribali, nuove scuole.

È un cammino lungo e difficile, ma lentamente sta portando risultati.

Dan Romeo


Scatti ed emozioni di un fotografo

U na serie di articoli fotografici, sotto il titolo «I viaggi di Dan», troveranno spazio su queste pagine per un po’ di tempo. Confesso che è emozionante per me avere l’opportunità di condividere con i lettori di Missioni Consolata la mia passione per la fotografia, i viaggi e le azioni umanitarie.

Mi auguro di riuscire a farvi partecipi di cosa c’è dietro al lavoro di un fotografo e viaggiatore umanitario. Ho vissuto esperienze con Onlus e Ong come la stessa Missioni Consolata Onlus, Unicef, Save the children e molte altre in 55 nazioni diverse.

Vorrei soprattutto farvi entrare in contatto con le realtà che ho visitato, tutte molto diverse dalla nostra, e con le situazioni vissute, ben lontane dalla quotidianità, dal comfort e dal consumismo a cui siamo abituati. Sarò felice di poter condividere con voi una passione che ha aperto per me nuovi orizzonti.

Chi è il fotografo umanitario

Essere un fotografo umanitario e documentare le attività di una Ong, non rappresenta solo l’opportunità di viaggiare
e di vedere decine di posti diversi in tutto il mondo, ma di provare, e poi trasmettere,
emozioni che difficilmente altri tipi di lavori
o di fotografia possono offrire: paesaggi, sguardi, profumi, odori, gioie, dolori.

I viaggi e la fotografia umanitaria sono uno strumento potente che può generare consapevolezza e cambiamenti nelle nostre vite.

Le immagini catturate dalle fotografie possono far sognare le persone e proiettarle in territori remoti, far comprendere popoli, tradizioni, condizioni di vita lontani dai nostri.

Ci sono poi sempre alcune immagini che, per il fotografo, segnano i singoli viaggi e reportage perché sono legate a momenti nei quali si è creata una connessione umana e un’empatia particolare con i soggetti ripresi. Sono quelle che condividerò con voi.

Dan Romeo
www.iviaggididan.it

 




L’insostenibile leggerezza del turista

Testo di Chiara Giovetti – Foto di Ennio Massignan


Il turismo si conferma anche per il 2018 un settore in espansione nel mondo, con un miliardo e 400 milioni di viaggi internazionali e un giro d’affari di 1.700 miliardi di dollari. Ma, accanto a realtà e comunità che hanno saputo governare il fenomeno, ve ne sono altre che ne sono state travolte.

Secondo le stime dell’Organizzazione mondiale del turismo (Omt), nel 2018 il settore del turismo a livello globale ha registrato un’ulteriore espansione raggiungendo con due anni di anticipo rispetto alle previsioni il tetto del miliardo e 400 milioni di movimenti internazionali che la stessa Omt aveva invece previsto per il 2020. Il dato 2018 consolida quello del 2017 – pari a un miliardo e 326 milioni – e rappresenta in termini percentuali un incremento di sei punti. Considerando che l’economia mondiale nel suo complesso è cresciuta al ritmo del 3,7%, si può dire che il settore turistico preso singolarmente «viaggia» a una velocità un terzo più elevata rispetto a tutti i settori economici aggregati.

L’Europa resta la meta preferita con 713 milioni di arrivi internazionali, seguita dall’Asia con 343 milioni e dalle Americhe con 217, mentre Africa e Medio Oriente si attestano rispettivamente sui 67 e 64 milioni di turisti internazionali@.

Quanto al dato economico, il giro d’affari è stato pari a 1.700 miliardi di dollari, cioè il 7% delle esportazioni mondiali (nella bilancia dei pagamenti il turismo figura come esportazione per il paese ricevente e come importazione per quello di provenienza dei viaggiatori).

Questa cifra è composta dagli introiti del settore più quelli relativi al trasporto passeggeri@.

Circa sei turisti su dieci hanno viaggiato in aereo e poco più della metà si sono spostati per svago e diporto, mentre uno su dieci ha viaggiato per motivi di lavoro. Sono i cinesi a guidare con ampio margine la classifica delle dieci nazionalità che nel 2018 hanno speso di più in turismo; ben 277 miliardi di dollari. I secondi classificati, gli statunitensi, hanno speso un po’ più della metà rispetto ai cinesi: 144 miliardi. Seguono poi tedeschi, britannici, francesi, australiani, russi, canadesi, sudcoreani. Decimi gli italiani, con 30 miliardi di dollari.

Il World Travel and Tourism Council (Wttc), forum dell’industria del turismo e dei viaggi, ha quantificato il Pil del settore del turismo, una grandezza che considera non solo il denaro generato dalle imprese che vendono prodotti e servizi direttamente ai turisti – alberghi, agenzie di viaggio, trasporti e souvenir – ma anche gli investimenti, la spesa pubblica per il turismo, gli effetti sulle filiere connesse (cibo, offerta culturale, eccetera) e sul reddito di coloro che lavorano direttamente nel turismo. Nel 2018 il turismo ha raggiunto un Pil di settore di 8,8 mila miliardi, pari a un decimo del Pil mondiale, e ha impiegato 319 milioni di persone. Oggi, nel mondo, un posto di lavoro ogni dieci esiste perché esiste il turismo e il Wttc prevede che nei prossimi dieci anni continuerà a crearne ulteriori 10 milioni l’anno, fino a un totale di 421 milioni nel 2029.@

I rischi ambientali

È chiaro che, con questi numeri, il settore del turismo ha un potenziale enorme che può contribuire parecchio a devastare o, viceversa, a salvaguardare il pianeta a seconda di come viene usato.

Uno degli aspetti che desta più preoccupazione rispetto alla sostenibilità del fenomeno turistico riguarda i danni da esso provocati all’ambiente. Secondo un rapporto del Wwf che si concentra sul bacino del Mediterraneo, «gli oltre 200 milioni di turisti che lo visitano annualmente generano un aumento del 40% dei rifiuti in mare ogni estate»@.

La mancanza di infrastrutture adeguate e lo sfruttamento massiccio del territorio ha costretto nell’aprile del 2018 il governo delle Filippine a chiudere al pubblico per mesi un’intera isola, la bellissima Boracay@, ridotta a «una cloaca» dai rifiuti e dagli scarichi abusivi che rovesciavano il proprio contenuto direttamente in mare, minacciando la barriera corallina. Situazioni simili si sono verificate in Thailandia, dove Maya Bay – spiaggia di una delle isole Phi Phi nota per il film The Beach – rimarrà chiusa fino al 2021 per permettere all’ecosistema e in particolare ai coralli di rigenerarsi dopo essere stati messi a dura prova da un’eccessiva presenza di turisti, che arrivavano fino a 5.000 al giorno@.

In Europa, fra i casi più discussi di turismo di massa vi è senza dubbio quello di Venezia, una città che riceve giornalmente un numero di turisti più alto della sua popolazione di 53 mila persone residenti nel centro storico. Secondo uno studio dell’Università Ca’ Foscari del 2018, Venezia può reggere 52mila turisti al giorno, mentre ad arrivare sono in 77mila@. Tale flusso di viaggiatori mette a dura prova una città per sua natura fragile e i motivi di maggior preoccupazione riguardano la gestione dei rifiuti, l’inquinamento causato dalle navi da crociera@, lo spopolamento della città, l’invecchiamento della popolazione e la conversione in bed & breakfast di molte case del centro.

Altra notizia che di recente ha portato l’attenzione sul cosiddetto overtourism riguarda il numero di escursionisti morti sull’Everest e la quantità di rifiuti da loro lasciata. Lo scorso maggio, in una sola settimana sono decedute sette persone per il sovraffollamento del sentiero che porta alla cima@ e per l’impreparazione fisica di molti scalatori che per il fatto di pagare pensano di avere il diritto di arrivare in cima a tutti i costi.

Nel documentario Gringo Trails@,  uscito nel 2013, si racconta di diverse di queste situazioni finite ormai fuori controllo, ma anche di luoghi dove il governo e le comunità sono riusciti a imbrigliare e regolare i flussi turistici. Uno di questi è il regno del Bhutan, stato dell’Himalaya incapsulato fra Cina e India: chi vuole visitarlo deve prevedere una sorta di tassa, obbligatoria e ufficiale, di 250 dollari al giorno che comprendono vitto, alloggio, trasporti via terra e il servizio di guide autorizzate. I risultati del provvedimento, sinora, sono stati soddisfacenti nel demotivare il turismo di massa e nel contempo rendere gratificante il soggiorno di chi sceglie di accollarsi la spesa.

Un fenomeno da governare

Un altro aspetto ancora poco misurato, ma di cruciale importanza, è quello del cosiddetto leakage, la dispersione (o perdita, come quella dei tubi idraulici bucati) degli introiti derivanti dal turismo e può prendere la forma di profitti e ricavi pagati agli operatori turistici internazionali, di costi per beni e servizi importati, o di pagamenti di interessi sul debito. Uno studio della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad) stima che il leakage medio per la maggior parte dei paesi in via di sviluppo è tra il 40% e il 50% dei proventi lordi e tra il 10% e 20% per i paesi sviluppati o in via di sviluppo ma con economie più diversificate e quindi in grado di rispondere almeno in parte alla domanda di beni e servizi che il settore turistico rivolge ai vari comparti produttivi del paese@.

Il Wttc fornisce del leakage una stima al rialzo, segnalando fughe di introiti che vanno dal 40% dell’India all’80% dei Caraibi, con punte dell’85% in posti come le Bahamas@.

Tenendo in considerazione entrambe le ipotesi si può in sintesi dire che su 100 dollari spesi da un turista in un paese in via di sviluppo, dieci, bene che vada, o addirittura 85, nella peggiore delle ipotesi, escono dal paese e vanno a incrementare i profitti di intermediari turistici, oppure di aziende alimentari o tessili che producono cibo, tovaglie o lenzuola a migliaia di chilometri di distanza e li esportano perché siano utilizzati in un resort tanzaniano o in un mega albergo thailandese.

Chiunque si sia trovato a viaggiare nei paesi del Sud del mondo per vacanza o per lavoro si è probabilmente trovato almeno una volta nella sala da pranzo di una struttura turistica africana, asiatica o sudamericana e si è sentito disorientato nel constatare come questa fosse identica al ristorante di un centro congressi all’uscita di un’autostrada francese, inglese o italiana, l’unica differenza sta nella variante esotica rappresentata dal tetto in paglia e dalle finestre senza vetri.

Spesso l’importazione di beni è legata all’assenza di collegamento fra le filiere produttive locali e le strutture turistiche: la mancanza di una catena del freddo affidabile per la conservazione dei cibi nel tragitto dagli agricoltori e allevatori locali al turista consumatore, le condizioni precarie delle vie di comunicazione che rendono troppo costoso il trasporto e altre simili interruzioni del processo che connette il produttore interno all’utente sono fra i principali ostacoli. Lucie Servoz, esperta di turismo dell’Organizzazione internazionale del lavoro, indica come primo passaggio verso un turismo sostenibile proprio il «rafforzamento dei collegamenti del settore turistico con i settori connessi nella sua filiera (ad esempio l’agricoltura, l’artigianato, i trasporti, le infrastrutture, le costruzioni) e la contestuale promozione di un approccio integrato e dell’approvvigionamento locale»@.

Altro aspetto da tenere in considerazione quando si parla di turismo sostenibile è quello delle ricadute occupazionali che potrebbe avere, ad esempio, in un continente come l’Africa, che secondo le proiezioni raggiungerà nel 2030 il miliardo e settecentomila abitanti e dove i bambini di età compresa fra 0 e 14 anni rappresentano oggi il 43% della popolazione nei paesi subsahariani, tre volte tanto rispetto ai coetanei che abitano nell’Unione europea@.

Sempre secondo le stime del Wttc, se i Paesi africani faranno riforme in materia di visti per facilitare gli spostamenti, si impegneranno per aumentare la connettività nel trasporto aereo e realizzeranno programmi efficaci di crescita, entro il 2028 il settore del turismo e dei viaggi potrebbe arrivare a generare fra i 30 e i 45 milioni di posti di lavoro.

Che cosa può fare il turista?

L’Organizzazione mondiale del turismo ha diverse raccomandazioni anche per i viaggiatori che vogliano contribuire a rendere il turismo sostenibile. Fra queste: non sprecare il cibo, dare visibilità alle iniziative interessanti – sulla promozione delle donne, o sulle risposte al cambiamento climatico – che si incontrano nel corso del soggiorno, informarsi prima di partire in modo da soggiornare in strutture che applichino pratiche sostenibili e non dannose per l’ambiente, imparare qualche parola della lingua locale per entrare in contatto con le comunità.

In aiuto del viaggiatore vengono anche i sistemi di certificazione bio e fair trade applicati alle strutture turistiche; di solito queste certificazioni sono accompagnate da un simbolo che viene esposto sia nelle strutture che nei loro siti web. Le «etichette» sono tante perché tanti sono gli enti e i metodi di certificazione e in effetti tutti questi simboli – spesso verdi e contenenti una fogliolina o qualcosa che richiama la natura – rischiano di assomigliare a una giungla. A tentare di mettere ordine sono state alcune organizzazioni tedesche, austriache e svizzere, che hanno prodotto una guida dal titolo Sostenibilità nel turismo. Una guida nella giungla di etichette@.

Per chi parla solo italiano, un buon punto di partenza anche solo per farsi un’idea di quali caratteristiche ha un viaggio improntato a principi opposti a quelli del turismo di massa, è il sito dell’Associazione italiana turismo responsabile (Aitr), che raccoglie fra l’altro le proposte di viaggio dei soci, in Italia e all’estero@.

Chiara Giovetti




Tigri, uomini e riserve in India:

La vita non vale un parco

Testi e foto di Eleonora Fanari


Sommario

Reportage dall’area protetta del Bengala occidentale: Attenti alla tigre

Popolazioni Indigene in India
I parchi in India

Rischi e contraddizioni delle politiche ambientali:  Più ambiente per tutti, meno diritti per alcuni

Conservazionisti versus Ambientalisti
Campa

Resort lussuosi per l’«eco turismo» sulle terre degli sfollati: Largo al turismo

Questo dossier è stato firmato da:

Reportage dall’area protetta del Bengala occidentale: Attenti alla tigre

Essere pescatori residenti nei dintorni della riserva delle tigri di Sundarbans e vedere rispettati i propri diritti è sempre più difficile. Le politiche ambientaliste del governo producono norme e divieti che portano molti alla fame, diversi a rischiare l’illegalità e, a volte, la morte per sbranamento, e molti altri all’emigrazione.

La riserva delle tigri del Sundarbans – il cui nome in bengalese significa «la bella foresta» -, patrimonio dell’Unesco dal 1987, è il parco naturale nel quale si consuma uno dei più discussi e complessi conflitti tra conservazione ambientale e diritti umani nel territorio indiano. La riserva, che si trova nell’India Nord orientale, è situata nel golfo del Bengala, sul delta del Gange, estremo Sud dello stato del Bengala occidentale, nella più grande foresta di mangrovie del mondo.

Il grosso arcipelago sul quale si estende è formato da 102 isole, 54 delle quali ospitano una popolazione di 4,5 milioni di persone, per la gran parte dalit e indigeni che lottano per la propria sopravvivenza spartendosi il territorio con la famosa tigre del Bengala, una specie in via d’estinzione e protetta dal 1973.

Remi in barca, ma senza smettere di lottare

Sohankharo Arhi, abile pescatore del villaggio di Mathurakhanda, raccoglie i remi della sua piccola barca per sistemarla sulla sponda del fiume.

Ci troviamo qui, sull’isola di Bali (non quella famosa), una delle isole dell’arcipelago, per svolgere delle ricerche sul conflitto che da anni produce vittime tra i più poveri, e lo osserviamo. In questo villaggio, secondo il censimento del 2011, vivono 3.826 persone, delle quali l’80,4 per cento sono dalit, la casta più bassa degli intoccabili, e il 2,2 per cento indigeni1.

Oggi Sohankharo torna a casa a mani vuote. La sua famiglia e le famiglie dei suoi colleghi pescatori in questa giornata mangeranno, forse, solo riso bianco. Le guardie forestali li hanno avvistati mentre navigavano all’interno della riserva, in zona proibita, e li hanno sanzionati con una multa di 2mila rupie (25 euro) a testa e la confisca delle reti e dell’intero pescato. Da quando le normative sulla conservazione ambientale hanno iniziato a inasprirsi, influenzando le sorti di questi piccoli pescatori, un nuovo conflitto socio ambientale emerge in questa «bella foresta» di mangrovie.

Mentre la tigre del Bengala diventa sempre più visibile, soprattutto agli occhi stranieri, attraendo milioni di turisti ogni anno da tutto il mondo, le comunità che abitano questo territorio sono, al contrario, sempre più invisibili. Le loro necessità, i loro bisogni e i loro diritti sembrano affondare in quel terreno fangoso sul quale abitano che non lascia tregua nemmeno nei momenti di secca.

Nuove regole contro la pesca

Il rischio continuo di maree e alluvioni tipico del territorio e la salinità della terra, che impedisce una florida attività agricola, creano una costante incertezza. Gli uomini come Sohankharo non hanno facoltà di scelta, e l’attività di pesca rimane una delle più importanti fonti di reddito per la maggior parte delle famiglie, sfamando circa l’ottanta per cento della popolazione.

Il «Progetto tigri», nato nel 1973, è stato rinforzato dal governo tra il 2005 e il 2006 con nuove norme che hanno creato, tra le altre cose, zone protette inviolabili nelle quali l’accesso è proibito. La popolazione si è ritrovata, così, senza un’alternativa valida, se non quella di infrangere la legge.

«La zona accessibile non è abbastanza pescosa per poter sfamare tutti e, spesso, non siamo al corrente dei confini imposti dalle guardie. Nessuno ci avvisa, se non a bastonate e con multe salate quando ci sorprendono pescare nelle acque del fiume», si sfoga Sohankharo, mentre ci racconta delle difficoltà poste da un territorio già di per sé difficile, e si lamenta del fatto di aver dovuto pagare ingenti somme di denaro semplicemente per svolgere il proprio lavoro.

L’isola si affaccia direttamente sulla zona inviolabile del parco al di là del fiume, e navigare quelle acque rappresenta un rischio.

923 licenze di pesca per 52mila pescatori

Le ultime norme emanate sulla protezione ambientale si assommano ad altre e macchinose regolamentazioni del passato. Una di queste è quella riguardante il certificato di licenza di navigazione, un documento rilasciato nel 1973 dal dipartimento forestale per regolare l’attività di pesca in un’area di 892 km2. Da allora queste licenze, pari a un numero di 923, non sono mai state incrementate e, a oggi, quelle attive per i 52.917 pescatori dell’intero arcipelago, sono di circa 713, un numero irrisorio che lascia quasi tutti i pescatori in una situazione di illegalità permanente.

Alcuni titolari di queste licenze le adoperano dandole in affitto a prezzi inaccessibili ai piccoli pescatori che spesso si indebitano pur di proseguire la loro attività.

Sohankharo commenta: «Non essendo in possesso della licenza, per pescare ho bisogno di prenderne una in concessione a un costo di 30/32mila rupie l’anno (circa 400 euro). Ma negli ultimi anni questo certificato non mi ha permesso ugualmente di pescare, e molti di noi si sono ritrovati a pagare il certificato e anche le sanzioni e le confische da parte delle guardie, lasciandoci in un perenne stato di debito».

Pescatori sbranati e tigri in aumento

Mentre, da un lato, i pescatori lottano con le norme proibizioniste imposte dal dipartimento forestale e con il sistema burocratico e corrotto che ne consegue, dall’altro si ritrovano a dover fare i conti con le «norme naturali» imposte da un territorio ostile nel quale anche l’aggressività delle stesse tigri protette ha la sua parte.

Il timore di essere intercettati dalle guardie forestali spinge la maggior parte dei pescatori a recarsi in luoghi meno visibili, esponendosi di fatto ai possibili attacchi dei felini.

Per il dipartimento forestale del Bengala gli attacchi mortali delle tigri sono dieci all’anno, ma per le comunità locali e le organizzazioni che operano nel territorio, i morti sono almeno dieci al mese2.

Mentre visitiamo il villaggio di Muthurakhanda, abbiamo l’onore di conoscere il capo del villaggio, Ankul Das, che ci racconta: «Nel corso degli anni la popolazione di granchi, gamberetti e pesci è diminuita nelle zone cuscinetto (zone attigue alla riserva, accessibili alla popolazione, ndr). Gli abitanti dei villaggi entrano illegalmente nella zona centrale alla ricerca di una buona pesca, e alcuni vengono uccisi. Poiché queste morti non vengono denunciate, il governo ne rimane all’oscuro».

Le numerose vedove del Sundarbans spesso non ricevono alcun compenso per la loro perdita: un eventuale rimborso è stabilito solo se il pescatore viene aggredito dalle tigri in acque legali.

Da quando il «progetto tigri» è stato inaugurato, il numero dei felini è in crescita. Nilanjan Mallick, il direttore della riserva del Sundarbans, lo conferma al quotidiano «The Tribune»3: le videocamere installate nella riserva hanno registrato nell’anno 2016/17 un numero di circa 83 tigri.

Questo risultato rispecchia gli sforzi del progetto del governo indiano. Il paese è oggi sede della maggior parte delle tigri nel mondo: 2.226 secondo la stima ufficiale del 2014. Un aumento del 30 per cento rispetto alle 1.706 del 2010.

Il mondo conservazionista esulta a questi numeri, mentre le vedove come Aparna Singh, 30 anni e tre figli, dell’isola di Koltali, gemono in silenzio e a stento mandano avanti le loro famiglie.

Incontriamo Aparna nella nostra seconda visita alle Sundarbans nel marzo 2017. Timida, ci invita a entrare nella sua piccola casa. Appesa alla parete di bambù vi è la foto del marito, Pradhan Singh. Con gli occhi rivolti verso il basso Aparna ricorda il giorno in cui il marito fu catturato dalla tigre: «Erano in tre nella barca. Come ogni giorno, erano andati per la raccolta dei granchi. Da quel giorno Pradhan non è mai ritornato».

Il padre di Pradhan, che vive insieme alla nuora, ci spiega che gli attacchi sono aumentati, sia per l’aumento delle tigri che per la necessità dei pescatori di spingersi in acque pericolose: «I pescatori, per paura dei guardiaparco, si avventurano nelle zone forestali più interne, ed è lì che si trovano le tigri». Poiché la tigre attacca sempre una persona alla volta, i pescatori vanno in gruppetti di almeno tre persone. Se uno di loro dovesse morire per un attacco, gli altri si assumerebbero l’onere di prendersi cura della sua famiglia.

L’alternativa di emigrare

Mentre le guardie forestali ingrassano con le confische di pesce fresco, i piccoli pescatori si indebitano per rischiare la vita ogni giorno.

Per capire meglio le condizioni di vita dei pescatori, ci rechiamo nell’isola Satjelia, una delle più povere e popolose. «Non abbiamo altra scelta, se non quella di morire di fame», commenta Utpal Mishra, un pescatore che ci spiega come le norme vigenti non propongono alcuna alternativa alle comunità locali, se non quella di emigrare. Utpal Mishra ci racconta che alterna il lavoro di pescatore a quello di migrante: «Per sei mesi all’anno vivo a Delhi, per fare il bracciante nell’edilizia. Altre volte vado a Mumbai, Bangalore, Calcutta, o Tamil Nadu. Siamo in molti a spostarci, ma la famiglia e il legame con la nostra terra non ci permettono di abbandonare le acque del fiume».

Un altro pescatore sui 50 anni, anche lui da mesi senza licenza in quanto confiscata dalle guardie, ci dice che suo figlio vive lontano, in Italia. Ce lo dice con fierezza. Anche alcuni suoi amici che vivono nella Sundarbans del Bangladesh, al di là del confine nazionale, hanno famiglia in Italia.

Senza possibilità di sopravvivenza in India, si recano in terre lontane: potremmo forse chiamarli rifugiati della conservazione ambientale?

Quelli che invece rimangono qui, rischiano ogni giorno sanzioni, estorsioni o abusi da parte del corpo forestale, e a volte la vita, com’è successo il 16 marzo 2017, quando un peschereccio con 28 persone a bordo è stato avvistato dalla forestale e capovolto. Gli uomini, le donne e i bambini, subito soccorsi e trasportati in ospedale, hanno poi dovuto sostenere i costi per le cure mediche, negate dal dipartimento forestale4.

Pescatori no, turisti sì

Il Sundarbans, ecosistema ricchissimo di biodiversità, è oggi un territorio a rischio. Le problematiche legate al suo degrado non sono certo da attribuirsi solo ai suoi abitanti, ma a decadi di sfruttamento delle risorse. Nonostante questo, i pescatori continuano a essere incriminati per danni contro l’ambiente, mentre il turismo continua a proliferare in maniera incontrollata. Vengono proibite le imbarcazioni a remi dei residenti, ma le numerose barche turistiche a motore attraversano ogni giorno la zona protetta del parco senza problemi.

Gli abitanti della zona si domandano se queste misure di protezione ambientale, che ledono i loro diritti fondamentali, stiano effettivamente contribuendo alla protezione dell’ecosistema. Alcuni denunciano, ad esempio, la presenza di uomini, probabilmente legati alla mafia del legname, che tagliano alberi nella foresta senza curarsi di farlo anche quando sono in fiore, ostacolandone la riproduzione. È una pratica teoricamente illegale che però pare non essere ostacolata dalla forestale. Molti altri denunciano poi i grossi pescherecci che attraversano le acque protette rilasciando materiale inquinante.

Tutto ciò senza menzionare i diversi disastri ambientali che non vengono risolti dalle autorità, come quello causato nel 2014 da una petroliera che, collidendo con un’altra imbarcazione nelle acque al confine tra Bangladesh e India, ha rilasciato nel mare migliaia di litri di petrolio5.

Le popolazioni locali esistono

Secondo l’ambientalista Santanu Chacraverti, autore del report The Sundarbans fishers pubblicato nel 2014 dal Collettivo internazionale a sostegno dei pescatori (International collective in support of fishworkers), la problematica in Sundarbans è legata all’incapacità dell’amministrazione locale di analizzare il problema in termini olistici e di cercare soluzioni che prendano in considerazione tutte le questioni: dal degrado ambientale al sovraffollamento, dalla protezione forestale ai diritti delle popolazioni, dal turismo alla gestione comunitaria delle risorse. Quest’ultimo elemento è tra i più importanti, perché riguarda l’inclusione delle comunità locali nella gestione del territorio.

Nonostante l’assoluta importanza della protezione della biodiversità, le norme legate alla conservazione ambientale non possono dimenticarsi dell’esistenza dell’uomo che vive dentro o ai margini di questi territori.

Alcuni studiosi, come Paul J. Ferraro (del dipartimento di economia alla Georgia state university di  Atlanta, Usa), osservano che la creazione di zone protette con misure restrittive, come nel caso del Sundarbans, non sempre crea vantaggio all’ambiente, in quanto i conflitti che sorgono in risposta al malessere della popolazione impediscono la giusta gestione del territorio.

Gli abitanti delle Sundarban, come Utpal Mishra o Sohankharo, sono i primi a voler proteggere la natura. La loro vita dipende da essa, ma per loro non è solo fonte di reddito, rappresenta la loro casa e la loro identità.

È proprio Utpal Mishra che, un giorno, esplorando le Sundarbans in barca, ci dice: «Scendiamo, camminiamo nella foresta. Come potete studiare il nostro territorio se non capite cosa significa camminare su questo terreno?».

Mentre una guerra globale sulle risorse naturali è alla ricerca di ipocrite soluzioni omogenee per tutti, i pescatori delle Sundarbans ci dicono che non si possono trovare soluzioni se non si sa cosa vuol dire sporcarsi i piedi nel terreno fangoso e buio della foresta.

Eleonora Fanari

Note:

1   www.census2011.co.i
2  Shreya Das, The tiger widows of Sunderbans: caught between the tiger and apathy, «The Indian Express», 27/12/2017.
3  Pritha Lahiri, Sujoy Dhar, Tigers burn bright in the Sundarbans, «The Tribune», 07/10/2017.
4  Informazione condivisa con l’autrice dall’organizzazione Dakshinbanga Matsyajibi Forum (Dmf).
5  Un sends team to clean up Sunderbans oil spill in Bangladesh, «The Guardian», 18/12/2014.

 

Popolazioni Indigene in India

I popoli originari dell’India, o adivasi, rappresentano l’8,6 per cento del totale della popolazione indiana, circa 104 milioni di persone (secondo il censimento del 2011). L’uso del termine adivasi risale al periodo coloniale e si parla di comunità tribali già nel primo censimento del 1901.

A livello istituzionale le comunità tribali in India vengono riconosciute con la locuzione scheduled tribes (St) che appare per la prima volta nella costituzione indiana del 1950, nell’articolo 366 (25). In essa si attribuiscono agli adivasi diritti legati al loro stato di marginalità storica e alla loro diversità culturale, considerata una ricchezza per il paese.

Secondo l’Iwga (International work group for indigenous affairs) «in India, ci sono 705 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti come scheduled tribes. Ci sono poi diversi gruppi indigeni non riconosciuti. La maggiore concentrazione di queste popolazioni si trova nei sette stati Nord orientali dell’India e nella cosiddetta “cintura tribale centrale” che si estende dal Rajasthan al Bengala occidentale». Gli adivasi vivono in tutta l’India, ma principalmente nelle zone montuose e collinari, lontano dalle pianure fertili. Tra le comunità più conosciute vi sono i Santhal e i Gond nello stato di Orissa, i Baiga in Chattisgarh, i Gujjar e i Tharu in Uttar Pradesh e Uttarakhand.

La lotta indigena per il bene comune

Gli adivasi considerano la terra come una risorsa comune, e tradizionalmente hanno sempre controllato e gestito le risorse naturali disponibili attraverso istituzioni comunitarie consolidate.

La maggior parte di queste comunità vive in aree fortemente boscose, la loro economia si basa principalmente su un’agricoltura di sussistenza, sulla caccia o la raccolta.

Le politiche Indiane da decenni sfruttano le risorse naturali delle terre ancestrali indigene danneggiando l’ambiente e minando lo stile di vita delle popolazioni native. I numerosi conflitti, a volte armati (come in Bhastar, Chattisgarh), tra lo stato e le comunità indigene, continuano a perpetuarsi in tutto il territorio indiano, incidendo sul loro stato di povertà e di salute. Per questo motivo, un gran numero di membri di queste comunità si ritrova a dover migrare nelle grandi città come New Delhi, Mumbai e Calcutta, nelle quali vengono spesso sottopagati e posti alla mercé di grandi impresari e latifondisti (Karnika Bahuguna, Madhu Ramnath et al., Indigenous people in India and the web of indifference, DownToEarth, 10/08/2016).

E.F.

I parchi in India

L’idea di istituire delle aree protette nasce negli Stati Uniti nel 1872 con la creazione dello Yellowstone nel territorio di Montana e Wyoming. In India, i parchi naturali nascono nel 1935, quando viene fondato il primo, l’Haley national park, oggi conosciuto come il Corbett national park, nello stato di Uttarakhand.

Fino al 1970 i parchi istituiti sono cinque. Ma a inizio anni ‘70 esplode l’interesse per la protezione ambientale, ed entra in vigore la Wildlife protection act (Wlpa) 1972, una legge molto restrittiva per la gestione e la protezione di flora e fauna. La Wlpa 1972 proibisce la caccia all’interno delle zone protette e stabilisce una serie di reati classificati sotto la fattispecie di crimini ambientali.

Da questo momento in poi le restrizioni aumentano e iniziano i conflitti tra le comunità indigene e il corpo forestale.

 

Mezza Italia di aree protette

Fino al 2002 le aree protette erano divise in due categorie: National park (Np), dove non sono permesse numerose attività umane, e Wildlife sanctuary (Wls) dove le attività umane sono maggiormente tollerate. Con la modifica della Wlpa nel 2002 vengono introdotte due nuove categorie di aree protette: Conservation reserves e Community reserves, aree protette che fungono da zone cuscinetto o connettori e corridoi di migrazione tra parchi nazionali, riserve naturali e foreste protette. Le aree di conservazione sono quelle disabitate e di proprietà del governo indiano, ma utilizzate per sussistenza da comunità umane, le aree comunitarie sono quelle nelle quali parte delle terre è di proprietà privata.

Secondo i dati ufficiali del Gennaio 2019, in India oggi vi sono un totale di 868 aree protette (104 parchi nazionali, 550 santuari della fauna selvatica, 87 riserve di conservazione, 127 riserve comunitarie), che coprono circa il 5 per cento del territorio indiano, 165.088 km2, equivalente a mezza Italia.

Alcuni parchi nazionali e santuari della fauna selvatica che ospitano una considerevole popolazione di tigri, sono stati definiti Tiger reserves, riserve delle tigri, e godono di uno status speciale e di politiche di maggiori restrizioni. A oggi nel paese le riserve delle tigri sono 51.

E.F.


Rischi e contraddizioni delle politiche ambientali:

Più ambiente per tutti, meno diritti per alcuni

Nella corsa mondiale alla conservazione ambientale, l’India si difende bene. Le sue foreste coprono una superficie maggiore di due volte l’Italia, le aree protette aumentano a vista d’occhio, e tra queste, fiore all’occhiello, le riserve delle tigri sono quasi raddoppiate in 15 anni. Peccato che le sue politiche sempre più restrittive per conservare l’ambiente producano migliaia di sfollati, soprattutto tra le popolazioni più povere di indigeni e dalit, territori militarizzati, violenze impunite e appetiti economici che tutto sono fuorché rispettosi della natura.

Negli ultimi decenni siamo stati testimoni dello sviluppo internazionale di nuove politiche ambientali per espandere zone verdi, creare aree protette, ridurre il bracconaggio, preservare specie animali a rischio, conservare la biodiversità.

Il tema è all’ordine del giorno di numerosi paesi che vedono nella biodiversità anche un contributo alla sicurezza alimentare e alla salute dell’intera società, e un fattore di diminuzione della vulnerabilità del territorio di fronte ai disastri ambientali e ai cambiamenti climatici.

La Convenzione sulla diversità biologica

Il principale strumento che la comunità internazionale si è data per la tutela della biodiversità a livello planetario è la Convenzione delle Nazioni unite sulla diversità biologica (Cbd), oggi sottoscritta da 193 paesi. Adottata a Rio de Janeiro nel 1992 al primo Summit della terra, la Conferenza sull’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni unite (Unced), la Cbd è un trattato giuridicamente vincolante che si pone come obiettivi principali «la conservazione della diversità biologica, l’uso durevole dei suoi componenti e la ripartizione giusta ed equa dei benefici derivanti dall’utilizzazione delle risorse genetiche».

L’organo di governo della Cbd è la Conferenza delle parti (Cop) che si riunisce ogni due anni per analizzare i progressi compiuti, verificare le priorità e pianificare nuovi ambiti di lavoro. Tra i venti obiettivi stabiliti nella Cop10 tenutasi nell’ottobre 2010 in Giappone, nella prefettura di Aichi, l’undicesimo prevede che, entro il 2020, le aree di conservazione coprano almeno il 17 per cento delle zone terrestri del pianeta e il 10 per cento delle aree marine e costiere.

Questo obiettivo, secondo il rapporto Protected planet 2019 del Programma delle Nazioni unite per l’ambiente (Unep), si sta raggiungendo efficacemente: «Vi sono buoni progressi nell’ampliamento delle aree protette. La copertura terrestre è in aumento dal 14,7 per cento nel 2016 al 14,9 nel 2019, e la copertura marina è passata dal 10,2 per cento al 17,3 delle acque nazionali. Se gli sforzi da parte dei governi per attuare gli impegni proseguiranno, è probabile che gli obiettivi di copertura terrestre e marina saranno raggiunti entro il 2020. […] Attualmente le aree protette nel mondo sono 245.449. La maggior parte di esse sono terrestri e coprono oltre 20 milioni di km2. Le aree marine protette coprono 26 milioni di km2, rappresentando il 7,47 per cento degli oceani»1.

L’India, le aree protette e gli sfollati

In linea con gli obiettivi della Cbd, anche l’India sta compiendo il suo percorso di espansione forestale e di creazione di aree protette: le foreste, a inizio 2019, sono arrivate a coprire il 21,34 per cento del territorio, cioè 701.673 km2, più di due volte l’Italia, e le aree protette sono passate da 604 nel 2006 a 868 nel 20192, un’area pari a 165.088 km2, il 5 per cento della superficie complessiva del paese.

Si direbbe un successo per tutti, se non fosse che queste politiche, che vogliono rispondere alla crisi ambientale planetaria, sono talvolta strumento di violazione dei diritti dei popoli che abitano da sempre le terre che si vogliono preservare.

In India, si stima che vivano nelle zone forestali protette circa 4,3 milioni3 di persone, e la loro presenza, per la maggior parte dei casi, è indesiderata e bersaglio di violenze e sfratti.

Il governo, nel salvaguardare le foreste, ha «dimenticato» di tutelare i diritti delle popolazioni che vi abitano: spesso le zone protette sono state create senza tener conto delle esigenze delle comunità locali, le quali, in maniera inaspettata, si sono ritrovate a vivere dentro nuovi confini.

Se prendiamo il caso particolare delle riserve delle tigri, dal 2005 a oggi il loro numero è raddoppiato, da 28 a 51, provocando lo sfollamento di migliaia di famiglie. Secondo uno studio di Lasgorceix e Kothari4, già nel 2009 il numero delle famiglie sfrattate dalle proprie terre era di circa 20mila, cioè più o meno 100mila persone.

Secondo la nostra ricerca sul campo, condotta per conto dell’organizzazione Kalpavriksh e finanziata da Rights and resources inititiaves (Rri)5, sarebbero da aggiungere negli ultimi dieci anni altri 60mila6 sfollati ai 100mila rilevati nel 2009.

In nome delle tigri

«Le tigri sono sempre state venerate da noi come animali sacri, noi le rispettiamo e loro rispettano noi […]. Non abbiamo paura delle tigri, il nostro peggiore nemico sono ora le guardie forestali», ci dice Sukharo Arhi, pescatore del Sundarbans.

In questo territorio le vittime delle tigri del Bengala sono molte, ma per i locali la vera minaccia sono le guardie forestali. Le restrizioni legate alla pesca, le minacce e, a volte, le torture inflitte ai pescatori per vietarne l’attività, hanno lasciato l’intera comunità senza un’alternativa, facendola sprofondare in una situazione di miseria.

Stiamo parlando di violazioni di diritti umani tollerati dalle istituzioni. Esse di solito non vengono denunciate e, quando lo sono, non vengono perseguite dalle autorità perché a denunciare sono persone di casta bassa, indigeni o dalit, che non vengono prese in considerazione.

Secondo le popolazioni locali e numerose organizzazioni, tra le quali Kalpavriksh, negli ultimi dieci anni i casi di torture e minacce da parte dello stato sono aumentati7. Questo dato è confermato anche dal recente rapporto delle Nazioni unite (Report of the special rapporteur on indigenous people 2018), nel quale si afferma che il numero di crimini, violenze, conflitti e sfratti dalle zone protette è in continua crescita.

L’aumento di restrizioni all’interno di queste aree coincide con l’aumento di attenzione internazionale per la difesa della tigre, considerata specie a rischio e inserita dal 2008 nella lista rossa dell’Iucn (Unione mondiale per la conservazione della natura). L’allarme sull’estinzione delle tigri, ha condotto le numerose organizzazioni conservazioniste e lo stesso ministro indiano dell’Ambiente e delle foreste a prendere dei provvedimenti.

Senza scienza né consenso

In India il primo documento che parla esplicitamente della necessità di aumentare le restrizioni per preservare le tigri, è un rapporto del 2005 redatto dalla «Task force della tigre» istituita nel 2003 dal ministero indiano dell’Ambiente e delle foreste, intitolato Joining the dots, nel quale si evidenzia come l’estinzione della tigre sia un effetto della crisi ambientale8.

Nello stesso 2005 l’India ha creato un nuovo corpo per la protezione della tigre, la National tiger conservation authority (Ntca), con lo scopo di assicurare la riproduzione della specie e la protezione del suo habitat. L’anno dopo, nel 2006, è stata modificata la Wildlife protection act del 1972 per stabilire nuove regole e delimitazioni all’interno delle riserve delle tigri istituendo un’area inviolabile chiamata Critical tiger habitat (Cth) nella quale è vietata qualsiasi attività umana e, attorno a essa, una cintura di territorio protetto, la buffer area (zona cuscinetto), che prevede la coesistenza tra fauna e attività umana. La buffer area dovrebbe garantire i diritti forestali delle popolazioni locali, come l’uso sostenibile delle risorse naturali, e i diritti sociali e culturali.

Il 16 Novembre 2007 il ministro indiano dell’Ambiente e delle foreste e la Ntca hanno dato ordine ai singoli stati del paese di creare le Critical tiger habitat entro il 2008. Sono state così create 31 zone inviolabili in tempi brevi, violando le misure che si sarebbero dovute adottare, cioè fare degli studi scientifici preventivi e approfonditi, informare le comunità locali e raccoglierne il consenso.

Queste nuove disposizioni, oltre a negare alle comunità l’uso delle risorse naturali, hanno istituito un meccanismo che legalizza gli sfratti prevedendo una semplice ricompensa economica. Ne è conseguito che dal 2008 gli sfratti dalle aree protette sono aumentati senza peraltro che siano state elargite le ricompense alle comunità colpite.

Sradicati, su terre sterili e senza diritti

Uno dei tanti casi è quello della riserva di Achanakmar, nello stato del Chattisgarh: nel 2009 sono stati sfollati dal Critical tiger habitat sei villaggi che corrispondevano a circa 600 famiglie, tutto ciò senza alcun consenso da parte delle comunità.

Abbiamo visitato la zona di recente, e constatato che oggi quelle famiglie, ricollocate all’esterno dell’area inviolabile, si trovano a vivere in case di cemento decadente, su un lembo di terra sterile, e prive del diritto di accedere alle risorse naturali.

Secondo il nostro studio sul campo, lo stesso è accaduto nella riserva delle tigri di Melghat, in Maharastra, dove sono state sfrattate 1.360 persone. Altre 20mila sfrattate dal parco delle tigri del Kanha nel Madhya Pradesh; 597 famiglie dal parco di Sariska in Rajasthan e più di 3.814 famiglie dal parco di Nagarhole in Karnataka9. La lista continua, e si allunga sempre di più.

Le riserve delle tigri sono le zone più colpite, ma gli sfratti riguardano tutte le zone di conservazione, perfino i corridoi ecologici, cioè quelle «corsie» create per far muovere liberamente gli animali da una zona protetta all’altra, e altre zone attigue ai parchi. Com’è successo, ad esempio, al villaggio di Tummadhia Katha che si trova ai margini del parco naturale del Corbett, nello stato dell’Uttarakhand, dove le dimore abitate dalla comunità indigena dei Van Gujjar, una comunità pastorizia di origini musulmane, sono state demolite per due volte negli ultimi tre anni.

Proteggere la natura con le forze armate

Com’è chiaro dai casi riportati, le politiche di conservazione non si limitano a salvaguardare la biodiversità, ma a controllare i territori utilizzando spesso modalità militari, come l’uso di forze armate e di network informativi.

Le armi da fuoco vengono utilizzate contro le comunità locali accusate di bracconaggio o di altri crimini contro l’ambiente. Di fatto queste comunità sono considerate dai conservazionisti, come ad esempio il Wwf, nemiche dell’ambiente e usurpatrici dell’ecosistema. Un giudizio che si riflette nelle politiche ambientaliste del governo indiano.

Un recente rapporto del Wwf Italia, pubblicato nel maggio 2018, intitolato Bracconaggio connection, descrive il bracconaggio come una delle cause principali dell’estinzione animale, considerando queste azioni «pervasive e devastanti». Questo nonostante alcuni studi dell’Iucn, pubblicati nella rivista online «Natura» e nel Iucn red-list report10, mostrino come tra gli undici maggiori rischi per l’estinzione delle specie animali non vi sia il bracconaggio, ma altre attività umane come lo sfruttamento delle terre per le attività agricole e lo sviluppo urbano. È interessante notare come il report del Wwf colleghi la rete di criminali che fa bracconaggio alla povertà e al bisogno di «facili guadagni»: sono collegamenti pericolosi che si ritorcono sulla pelle dei piccoli contadini locali, doppiamente vittime delle politiche conservazioniste e delle grosse organizzazioni illegali di bracconaggio.

Con la licenza di sparare a vista

Uno dei casi più discussi ed emblematici dell’India è quello del parco nazionale di Kaziranga, in Assam, dove una squadra armata di 430 uomini, tra guardie forestali, paramilitari11 e forze speciali per la protezione della tigre e del rinoceronte, pattugliano la zona con fucili calibro 200 e 303.

Il parco, famoso per i rinoceronti a un corno in via d’estinzione, è altrettanto famoso per il numero delle vittime uccise in nome della lotta al bracconaggio. I guardaparco, per assicurare la massima protezione agli animali, godono di immunità legale e, in accordo con quanto dichiarato nel Piano di conservazione dei rinoceronti nel parco nazionale di Kaziranga, hanno il dovere di «sparare a vista»12 a chiunque sia sospettato di bracconaggio, senza prove, senza arresto né processo.

Come denunciano diversi attivisti locali, questa condizione d’immunità conferita alle guardie, le ha deresponsabilizzate spingendole a sparare anche senza una ragione. Ne è un esempio il caso di Akash Orang, un bambino di 7 anni che nel settembre 2016 è stato ferito alla gamba da un guardaparco con dei colpi di pistola che gli hanno procurato un’invalidità a vita. Secondo gli attivisti, molte vittime della lotta al bracconaggio sono innocenti cittadini che vengono utilizzati dalle guardie per esibire dei risultati visibili. Secondo i dati della Bbc13, dal 2009 a oggi sono state circa 65 le persone uccise ai margini del parco. Numerose quelle accusate di crimini contro l’ambiente, arrestate o torturate impunemente.

Diritti forestali: sanciti e poi violati

La legge indiana sui diritti forestali delle popolazioni indigene e degli altri abitanti tradizionali della foresta (il Fra, Forest rights act), emanata nel 2006, riconosce la diversità dell’uso, dell’accesso e delle pratiche di conservazione della foresta e della biodiversità da parte delle popolazioni native, e garantisce alle comunità il diritto alla terra ancestrale. Il Fra riconosce l’ingiustizia sociale ed economica inflitta alle popolazioni forestali sin dal periodo coloniale, conferendo ampio potere di gestione del territorio al gram sabha (il consiglio degli anziani), e aprendo nuovi spazi democratici e meccanismi d’inclusione a favore di un nuovo modello di conservazione.

Queste disposizioni legislative che concepiscono la conservazione come basata sulla coesistenza piuttosto che sul conflitto, sono in linea con gli impegni internazionali sottoscritti dall’India firmando la Convenzione sulla diversità biologica (Cbd). Nella Cbd, infatti, si afferma la necessità di «promuovere la piena ed effettiva partecipazione delle comunità indigene e locali, e anche il loro previo e informato consenso e coinvolgimento nella creazione, espansione e gestione delle aree protette».

Le atrocità raccontate sopra allora non violano solo i diritti umani e costituzionali fondamentali, ma anche le stesse disposizioni nazionali e gli impegni internazionali in materia di conservazione ambientale presi dal paese. Lo afferma anche il già citato rapporto delle Nazioni unite sui diritti degli indigeni14 che denuncia: «In India i popoli tribali sono stati sfrattati dalle riserve delle tigri per decenni, spesso senza alcuna forma di riparazione. Ciò continua a verificarsi nonostante il Forest rights act del 2006».

Interessi ambientali o economici?

Nonostante quello che dicono l’Onu e altri osservatori internazionali, il governo indiano continua a essere appoggiato da una rete di organizzazioni protezioniste come il Wwf, la Wcs (Wildlife conservation society), l’Ifaw (International fund for animal welfare), e altre (anche chiamate Business international organizations, Bingo), che difendono un modello di conservazione basato su esclusione e controllo. Sembra non interessare loro che dietro la pretesa governativa della difesa ambientale ci siano anche corposi interessi economici.

Secondo un rapporto del 2015 dell’Istituto indiano per la gestione delle foreste di Bhopal15 che ha stimato i dati economici relativi a 25 servizi ecosistemici offerti al paese da sei riserve delle tigri (quelle di Corbett, Kanha, Kaziranga, Periyar, Ranthambore e Sundarbans), il loro valore economico ammonta a circa 1 miliardo di euro l’anno. Di questo, solo il 9 per cento (90 milioni) va a favore dalla popolazione locale. Il 47 per cento (470 milioni) a favore del paese, mentre ben il 43 per cento (430 milioni) è il valore in qualche modo utilizzato a livello mondiale.

Tra i valori economici stimati, quello che riguarda l’industria del turismo è facilmente quantificabile. Ogni anno i parchi delle tigri, infatti, mentre tengono fuori le popolazioni locali, attirano migliaia di persone dall’India e dal resto del mondo. L’introito derivato dai biglietti per l’ingresso al parco di Corbett ammonta a 1 milione di euro annui.

Un altro elemento di contraddizione delle politiche restrittive per la salvaguardia dell’ambiente è il giro d’affari legale e illegale legato al taglio degli alberi16. Capita che il corpo forestale favorisca gruppi criminali organizzati nel taglio e commercio illegale della legna. Nella riserva delle tigri di Buxa, nello stato del Bengala occidentale, alcuni agenti forestali e alti ufficiali di polizia sono stati colti in flagrante17.

Nel parco di Buxa e di Jaldapara le comunità locali avevano già più volte denunciato il taglio illegale degli alberi ma non avevano ottenuto alcuna risposta dalle autorità, in quanto queste erano direttamente coinvolte. Altri introiti provengono da attività come la pesca, il foraggio, la vendita di miele, frutti e altri prodotti che tradizionalmente vengono utilizzati dalle comunità per la loro sussistenza, ma che sempre di più vengono controllate dai governi locali degli stati indiani.

Per esempio, dal 2017 lo stato del Chattisgarh ha proibito la vendita diretta del mahua, un frutto da cui si ricava un liquore che rappresenta un’importante fonte di sussistenza per la comunità indigena dei Baiga. Questa proibizione ha influenzato negativamente l’economia locale18.

Inoltre è molto importante lo sfruttamento da parte dello stato dei bacini idrici utilizzati anche per la produzione di energia elettrica. Molte sono le dighe presenti all’interno di zone protette, come ad esempio la diga di Kalagarh nella riserva di Corbett, nello stato dell’Uttarakhand, costruita nel 1974 per contribuire alla distribuzione idrica in tutto lo stato e nella città di New Delhi.

La diga ha lasciato gli abitanti di queste zone quasi a secco.

Inoltre, bisogna menzionare il mercato legato allo scambio di emissioni di gas serra – ossia le quote di emissioni fissate dai rispettivi governi locali alle imprese – che gioca un ruolo fondamentale nell’interesse sulla protezione delle foreste. In India, uno dei meccanismi per ridurre le emissioni inquinanti e riforestare le zone degradate è il Campa, o Compensatory Afforestation Act, un meccanismo di compensazione in base al quale il valore delle imposte versate dai privati è calcolato in rapporto alla perdita forestale in termini di biodiversità e servizi ecosistemici. Questi fondi poi dovrebbero essere utilizzati per riforestare aree degradate, peccato che spesso anche questo meccanismo si basi su giochi di corruzione e interesse. Infatti in molte zone, le aree prese in considerazione per riforestare non sono aree degradate ma aree utilizzate a livello comunitario dalle popolazioni indigene che vengono quindi sgomberate. Come è avvenuto nel caso del parco delle tigri del Tadoba, nel Maharastra, dove a Sitarampeth, in quella che era una zona usata dalla popolazione locale per il pascolo, è stata eretta una staccionata per creare un sito di «riforestazione» con circa 100 alberi in un terreno che ha una superficie di 608 ettari, 6 milioni di metri quadrati.

Un paese in lotta

«Se la comunità internazionale continua a nascondersi dietro false promesse di conservazione, non ci resta altro che lottare, e mostrare che un nuovo modello di conservazione non è solo possibile ma necessario», commenta Neema Pathak dell’organizzazione indiana Kalpavriksh. Numerose sono le realtà, sia in India che in altre parti del mondo, che hanno tramutato la loro lotta in atti fruttuosi, riuscendo a sviluppare dei progetti di conservazione e di gestione comunitaria del territorio.

È necessario riesaminare e rivedere criticamente le pratiche di conservazione e di sviluppo, e utilizzare le disposizioni della legge sui diritti forestali e sulla protezione della biodiversità per costruire dei progetti di convivenza non solo nelle aree protette, ma anche nelle aree limitrofe. Bisogna inoltre fare in modo che le istituzioni internazionali prendano coscienza delle situazioni locali e che si preoccupino di usare maggiori provvedimenti per far rispettare gli accordi internazionali sul rispetto dei diritti umani. Solo allora lo stato indiano, e gli stati tutti, riusciranno a prendere dei provvedimenti per garantire la conservazione della biodiversità in maniera adeguata, garantendo anche diritti e opportunità uguali per tutti.

Eleonora Fanari

Note:

Conservazionisti versus Ambientalisti

Organizzazioni come la World wide fund for nature (Wwf), la Wildlife conservation society (Wcs) e l’International conservations (Ic), sono considerate estremiste da molti attivisti e ambientalisti, a causa delle loro politiche di conservazione, identificate sotto il nome di Fortress conservation. Infatti nonostante il Wwf riconosca apertamente la necessità di integrare le comunità locali nella conservazione dell’ambiente, spesso finanzia operazioni militari come nel citato parco di Kaziranga in Assam.

Questo comportamento è da un lato frutto della cecità di molti conservazionisti nel considerare la protezione ambientale una priorità a qualsiasi costo, anche quello della vita delle persone. Dall’altro queste organizzazioni internazionali risentono di idee coloniali ed eurocentriche e non considerano le popolazioni tribali capaci di governare in maniera appropriata le zone forestali.

L’importanza di includere le comunità indigene nella conservazione ambientale è stata riconosciuta solo recentemente, nel 2007, dalle Nazioni unite.

Questa mentalità coloniale, in un paese come l’India è rappresentata dalle classi dominanti che spesso siedono ai vertici di queste organizzazioni e che ostacolano il riconoscimento di leggi come la Forest Rights Act.

Dall’altro lato, come dimostrato dalle ricerche di Rosaleen Duffy (Rosaleen Duffy, We need to Talk about the militarisation of conservation, 20/07/2012)., sono numerose le organizzazioni transnazionali che finanziano training militari e altre misure anti bracconaggio, attività che risultano lucrative per il settore privato. Inoltre numerosi sono gli articoli che accusano il Wwf di scandali e di partnership con grosse multinazionali. In un articolo di Jonatham Latham (Jonathan Latham, Way Beyond Greenwashing: Have Corporations Captured Big Conservation?, 07/02/2012). si legge che l’organizzazione del panda ha stipulato delle partnership con aziende come la Monsanto, legata agli Ogm, e la Wilmer, una delle più grandi compagnie mondiali di olio di palma, primo responsabile della distruzione forestale del Borneo indonesiano.

Survival International ha inoltre più volte condannato le attività del Wwf, considerato direttamente coinvolto in Africa in attività lucrative come concessioni per la caccia e per il taglio di legname.

Il dibattito tra nuovi e vecchi conservazionisti è oggi grosso oggetto di discussione, e un campo di ricerca ancora in esplorazione.

E.F.

Campa

Il Campa (Compensatory and afforestation fund management and planning authority bill), approvato nel luglio 2016, rappresenta una delle strategie del governo Indiano per ridurre le emissioni inquinanti senza rinunciare all’obiettivo della crescita economica, considerata prioritaria.

Attraverso il meccanismo del Campa il governo ha dichiarato l’investimento di 6,2 miliardi di dollari per le politiche di riforestazione, fondi che provengono dai tributi pagati dai privati negli ultimi 12 anni per impiantare le proprie aziende in zone forestali.

Il Campa, come affermato dal ministro dell’Ambiente, Prakash Javadekar «potrà assicurare la crescita economica senza rinunciare alla salvaguardia degli ecosistemi».

La legge è stata fortemente criticata e considerata come «anti tribale», «anti forestale» e, infine, contraria ai princìpi etici. Le politiche di riforestazione, infatti, consentono l’approvazione dei progetti ancor prima che vengano individuate le stesse aree forestali interessate dai piani di riforestazione. Un sistema che rischia di compromettere abitabilità, diritti ed economie rurali.

Uno studio condotto dal Community forest rights – learning and advocacy ha analizzato un campione di 2.548 piantagioni, approfondendo 63 casi attuali di riforestazione coperti con i fondi del Campa. Esso rivela che nel 60 per cento dei casi i progetti sono consistiti nella installazione di monocolture, per lo più di alberi teak piantati in zone precedentemente utilizzate dalle comunità locali. Inoltre molti piani di riforestazione hanno trasformato zone precedentemente considerate come aree di massima biodiversità in monocolture. Ciò significa che questi fondi non solo vengono utilizzati nella violazione più totale del diritto alla terra delle comunità locali, ma che stanno anche contribuendo alla distruzione degli ecosistemi, là dove erano nati per uno scopo esattamente opposto, ovvero quello di preservare e proteggere l’ambiente.

E.F.

Resort lussuosi per l’«eco turismo» sulle terre degli sfollati:

Largo al turismo

Mentre le comunità locali sono cacciate dalle loro terre perché considerate nemiche dell’ambiente, numerosi resort turistici sorgono dentro e attorno le riserve.

Il 14 febbraio 2017 il villaggio di Tumadhia Katta è assalito dalle guardie forestali che hanno distruggono le case degli abitanti, accusati di invasione illegale in territorio protetto. Il villaggio si trova all’esterno dei limiti del parco naturale di Jim Corbett, ed è abitato da 46 famiglie della comunità indigena dei Van Guajjar, una comunità nomade che da sempre si dedica alla pastorizia.

La riserva delle tigri di Jim Corbett, situata nella prospera foresta occidentale del Tarai, nello stato dell’Uttarakhand, è il più vecchio parco naturale del continente asiatico istituito nell’anno 1936. È la riserva con la maggiore densità di tigri, circa 215, e rappresenta un importante polmone verde e uno dei parchi più preziosi del paese. È distante 200 km dalla caotica capitale New Delhi, e offre un facile accesso per i 200mila turisti che lo visitano ogni anno.

Nel report The value of wildlife tourism for conservation and communities pubblicato nell’ottobre 2017 da TofTigers, si legge che il turismo è un’importante fonte di reddito per le comunità locali, le quali possono giovarsi di tale risorsa come beneficio positivo per il loro sviluppo economico. Purtroppo però, al contrario di quanto sostenuto dallo studio, i Van Gujjar non sembrano godere di una situazione particolarmente favorevole. Spesso, anzi, il loro stile di vita nomade e pastorizio, è considerato ostile per la conservazione e la protezione del territorio e quindi osteggiato.

I Van Gujjar, pastori discriminati

Gli abitanti del villaggio di Tumadhia lottano dal 2013 contro l’ordine di sfratto emanato dal tribunale dell’Uttarakhand, ordine fortemente contestato sia per la sua infondatezza che per il suo carattere discriminatorio.

I Van Gujjar sono una comunità proveniente tradizionalmente dagli altopiani del Jammu e del Kashmir. Secondo la loro mitologia discesero dalle alte cime dell’Himalaya su richiesta del Re, perché gli portassero in dono il loro pregiato latte di bufala, principale prodotto dei pastori Van Gujjar. Nel corso del tempo si insediarono nelle ricche praterie dell’Uttarakhand, preziose per il pascolo del bestiame.

Intorno alla foresta protetta di Corbett vi sono oggi circa 37 insediamenti abitati da una popolazione di 340 famiglie. La maggior parte di esse si trova nel distretto di Nainital, dove sorge il villaggio di Tumadhia Katta.

In balia degli umori delle guardie

Nel nostro viaggio verso il parco naturale di Corbett incontriamo Safi Bhai, 42 anni, membro dell’Aiufwp (All indian union of forest working people), un sindacato nazionale che supporta i diritti delle comunità forestali. Ci accompagna nel villaggio di Tumadhia Katta, dove risiede.

Saphi è il pastore della casa, si sveglia ogni mattina alle 5 per mungere i bufali e inizia la sua giornata con un denso chai (té) lattiginoso. Nella sua dimora, che si trova al centro di un’immensa prateria, ognuno ha un ruolo ben definito. Il figlio di 15 anni raccoglie il fieno per il bestiame, la figlia prepara la colazione e la madre ripulisce l’esterno della casa dalle erbacce.

I Van Gujjar del villaggio di Tumadhia, come molti altri nella zona, sono sempre stati discriminati dalle istituzioni dell’Uttarakhand, stato che non ha mai riconosciuto la comunità nomade come gruppo indigeno.

Considerati estranei nella loro terra, sono maltrattati dal dipartimento forestale che ha sempre esercitato un potere di tipo feudale sulla comunità. Sempre in balia degli umori delle guardie, i Van Gujjar trascorrono la vita pagando imposte e sanzioni ingiustificate al dipartimento che, in cambio di permessi, come quello per il pascolo, richiede tangenti sotto forma di latte, burro, yogurt e altri prodotti.

Proteggere zone eco fragili con espulsioni

Le problematiche nel villaggio sono aumentate dopo la revisione del 2011 delle linee guida per l’istituzione di una zona eco fragile (Esz, eco sensitive zone) intorno all’area protetta: una fascia di 10 km lungo il suo perimetro. Nonostante l’Esz abbia la potenzialità di regolare le attività commerciali e di sviluppo, alcune organizzazioni ambientaliste e sociali la considerano problematica perché non dice niente sulle necessità degli abitanti.

Nel 2015 il ministro indiano dell’Ambiente e delle foreste ha iniziato a fare pressione sul processo di istituzione dell’Esz perché venisse accelerato, tanto che il 19 dicembre 2016, la corte suprema dell’Uttarakhand ne ha disposto la creazione. Nella stessa ordinanza, il tribunale ha ordinato anche l’immediata espulsione della comunità dei Van Gujjar dalla zona, poiché considerati «responsabili di incendi e altre attività illecite all’interno e ai margini dell’area protetta».

Ashok Chaudhary, il presidente dell’Aiufwp, ha dichiarato al Times of India che «oltre ad essere un’affermazione infondata, non dobbiamo dimenticare che i diritti dei Van Gujjar sono protetti dal Forest rights act del 2006, che deve essere ancora riconosciuto sia nei fatti che nello spirito».

In seguito al pronunciamento della corte, Saphi Bhai, già nel mirino delle autorità locali per il suo attivismo, nel febbraio 2017 è stato sfrattato con la sua famiglia dalle forze di polizia e dalle guardie forestali. Il loro villaggio è stato assalito con violenza, gli abitanti umiliati e le case distrutte.

La moglie di Saphi Bhai è stata vittima di abusi sessuali, i suoi figli sono stati brutalmente molestati e lui pestato e poi arrestato.

Resort turistici vs nativi

Mentre da un lato le comunità locali soffrono lo stigma di stranieri nella propria terra e sono vittime di violenze, dall’altro investitori e turisti sembrano essere accolti nelle aree protette a braccia aperte. Il parco, infatti, ospita 77 resort sorti per la maggior parte lungo i corsi dei due fiumi principali che attraversano la zona cuscinetto della riserva, il Ramganga e il Kosi. Questi resort, che possono accogliere fino a 3.200 persone, sono tutti privati e, secondo un reportage prodotto nel 2012 dalla testata locale Tehelka, intitolato Corbett: now on sale, gli appezzamenti di terra che si trovano lungo i 17 km che vanno dal fiume Dumunda fino a Marcha sono tutti in vendita. Inoltre quasi tutte le località turistiche sono recintate e il 70 per cento di esse sono state costruite in terre che originariamente erano coltivate dalle comunità locali. Ma chi vende queste terre che dovrebbero essere protette dal dipartimento forestale?

 

Crimine organizzato e forestali corrotti

Nel corso delle nostre ricerche sulle violazioni del Forest rights act intorno all’area protetta di Corbett, incontriamo Nainital P. C. Joshi, un attivista che abita nella città di Ramnagar, ai margini del parco. Secondo Joshi queste terre erano precedentemente di proprietà delle numerose comunità che abitavano in questi territori. «Col tempo la maggior parte dei villaggi sono stati evacuati per la creazione della riserva delle tigri; altri sono stati minacciati dalla mafia edilizia, e la maggior parte dei villaggi oggi presenti nella zona cuscinetto sono quasi disabitati».

Joshi mi racconta che un’organizzazione criminale sta inducendo i contadini, tramite minacce, a vendere le loro terre per un prezzo irrisorio di 125 euro per ettaro. Lo scopo è quello di rivendere in seguito quelle stesse terre a prezzi commerciali per lo sviluppo di attività turistiche.

Le stesse notizie vengono riportate da Tehelka che documenta il coinvolgimento del dipartimento forestale nella vendita privata di terreni teoricamente protetti e nel rilascio di permessi per lo svolgimento di attività lucrative all’interno del parco. Rajiv Bhartari, direttore del parco dal 2005 al 2008, racconta a Tehelka che durante il suo mandato aveva sollevato diverse obiezioni sugli accordi presi dal suo predecessore con alcuni privati, in particolare con il Leisure Hotel che utilizzava parte della riserva delle tigri come sua proprietà privata con libero accesso al fiume e alle strade forestali anche durante la notte. Bhartari, in seguito alle sue denunce, è stato trasferito.

L’ipocrisia del turismo sostenibile

Mentre si vietano attività commerciali alle comunità locali, il turismo, sotto la forma di «eco turismo», viene giustificato come attività sostenibile in grado di migliorare le condizioni di vita delle comunità locali.

Di fatto, però, i grossi interessi legati al turismo così come ad altre attività lucrative all’interno della foresta, non fanno altro che ledere sia i diritti delle comunità indigene dei Van Gujjar, sia quelli della natura stessa.

Molti resort stanno estraendo pietre e sabbia dal letto dei fiumi, incidendo sull’intero equilibrio idrico. Mentre, la pesca nel fiume Ramnagar, autorizzata dal 2004 con il pretesto di generare profitto per le comunità locali, è diventata un’attività eco sostenibile promossa dai vari resort per i loro ospiti appassionati di quello sport.

Tutto questo va a discapito degli animali da proteggere che non sono liberi di accedere a quei luoghi recintati da alti muri. Motociclette, musica ad alto volume e matrimoni sontuosi si svolgono nelle località alla periferia della riserva, in violazione delle disposizioni conservazioniste che sono invece perentorie per quanto riguarda lo sfratto della comunità dei Van Gujjar dalla loro terra.

In definitiva, i Van Gujjar, che vengono considerati invasori delle aree protette e nemici della conservazione ambientale, vivono in case fatte di mattoni di terra cruda, consumano solo cibo vegetariano e conducono una vita semplice senza fuoristrada, macchine, strade asfaltate o altre fonti di inquinamento. Al contrario, i promotori del turismo sostenibile sono stanziati all’interno della zona protetta del parco con numerosi resort di lusso, strade asfaltate e attività che minacciano la zona eco fragile della riserva delle tigri.

Il richiamo sordo della notte

I Van Gujjar, il cui nome significa «Gujjars che vivono all’interno della foresta», non vengono riconosciuti come abitanti nativi di queste zone e, ancor meno, come loro protettori, nonostante la foresta rappresenti il loro rifugio, il loro tempio e il loro dio. «Noi ci prendiamo cura degli alberi e dei nostri bufali, e loro si prendono cura di noi», commenta ad alta voce Safi Bhai. Durante la nostra visita al villaggio di Tumadhia, i suoi abitanti si riuniscono nel patio della casa di Saphi per discutere sulle strategie e i nuovi sviluppi politici da intraprendere. «Siamo stanchi di queste accuse di intrusione nella zona protetta. Vorremmo solo vivere una vita sicura e il governo dovrebbe darci l’opportunità di farlo». Mentre ci appisoliamo su una piccola branda postaci sulla terrazza della casa, respiriamo il silenzio scandito dai dolci mormorii della notte: la brezza smuove le erbacce da togliere al mattino; sentiamo il muggito del bufalo in attesa di esser munto; l’acqua del fiume si rinfresca nella notte per essere riposta nelle ampolle dalle donne. C’è anche il leggero ronfo di Saphi Bhai che riposa i suoi sensi per potersi prendere cura della foresta al sorgere del sole. «Siamo come animali», dicono i Van Gujjars, «noi eseguiamo il richiamo della natura e la natura ci restituisce i suoi frutti». Se il governo indiano rispondesse al grido di queste popolazioni, se ascoltasse i rumori della notte e il richiamo della foresta, forse potrebbe creare delle alternative valide e nuovi modelli di protezione ambientale nel rispetto della natura e della vita dei suoi abitanti.

Ma questo non cambierà, finché verranno salvaguardate le sole tigri per farne un’attrazione turistica.

Eleonora Fanari

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Questo dossier è stato firmato da:

  • Eleonora Fanari – ricercatrice indipendente, attivista ambientale. Laureata in Lingua e letteratura hindi all’Università orientale di Napoli. Dopo un master in Sociologia alla Jawaharlal Nehru University, New Delhi, ha iniziato a collaborare con varie organizzazioni indiane no profit, in particolare Kalpavriksh, interessandosi principalmente dei problemi legati all’esclusione sociale e al diritto alla terra.
    Negli ultimi anni si è interessata dei conflitti socio ambientali derivanti dalla contraddittorietà di molti processi di sviluppo nel sub continente indiano, con particolare riferimento alla complessità dei cosiddetti forest rights. Ora lavora come ricercatrice presso l’Universita autonoma di Barcellona, Spagna, nel progetto di ricerca dell’EjAtlas/EnvJustice, una piattaforma interattiva che cataloga migliaia di storie di resistenza locale. Per l’EjAtlas continua ad affrontare le tematiche relative alla conservazione ambientale e ai conflitti derivanti da essa.
  • A cura di – Luca Lorusso, giornalista redazione MC.
  • Archivio MC: Survival International, La loro terra, il nostro futuro, dossier MC agosto-settembre 2017.