Etiopia. La grande Avventura


Sommario

Foresta di Saio: ponte primitivo su ruscello costituito da un tronco d’albero; in fondo, P Barlassina.

La Consolata in Etiopia: 1913, atto primo

I commercianti della Provvidenza

L’Etiopia è un sogno di Giuseppe Allamano, che fin dagli inizi, vede nel cardinal Massaia un’ispirazione. Ma le difficoltà sono tante, e i suoi primi missionari partono per il Kenya nel 1902. Dieci anni dopo ci riprova, e la sua tenacia, unita alla scelta delle persone giuste, porta all’apertura di alcune missioni in un territorio ostile. Inizia così una storia appassionante che sarà influenzata dai futuri eventi mondiali.

Fino dalla fondazione dell’Istituto Missioni Consolata il beato Giuseppe Allamano pensa di mandare i suoi in Etiopia, a continuare l’opera del cardinale Guglielmo Massaia (1809-1889), che è stato missionario cappuccino nella regione dei Galla (sud ovest). Le difficoltà a entrare in quel Paese, però, fanno sì che i primi quattro partano per il Kenya nel 1902.

Ma il sogno dell’Etiopia resta vivo, così, dieci anni dopo, il fondatore inizia una intensa opera diplomatica, aiutato da Giacomo Camisassa e da monsignor Filippo Perlo (responsabile del gruppo in Kenya), che porta alla creazione della prefettura del Kaffa il 28 gennaio 1913 (area etiopica nel sud ovest) da parte di Propaganda Fide (l’organo della Curia romana preposto alle missioni). La nuova prefettura confina a sud con il Kenya, dove la Consolata è presente. A guidarla è scelto padre Gaudenzio Barlassina, da dieci anni missionario, proprio in quel Paese.

Un paese difficile

Mappa del 1913

Il contesto è complesso e gli impedimenti molteplici. L’Etiopia è divisa in zone governate da capi locali che fanno riferimento all’impero con capitale Addis Abeba. La morte dell’imperatore Menelik II, nell’agosto del 1913, aumenta l’instabilità a causa della lotta per la successione. Inoltre, le potenze coloniali dell’area, Francia, Inghilterra e Italia, hanno interesse a espandersi nei suoi territori.  I cappuccini francesi guidati da monsignor André Jarosseau, vicario apostolico di Harar, sono ostili all’ingresso di missionari italiani in una zona tradizionalmente di loro competenza, ma dalla quale erano stati cacciati (lo stesso vescovo aveva ostacolato il primo progetto dell’Allamano). Infine, il clero della Chiesa copta, dominante nell’impero, è contrario a un’espansione del cattolicesimo. Le rappresentanze italiane ad Addis Abeba esprimono pure loro un parere contrario (e non tarderanno a mettere i bastoni tra le ruote).

Nonostante tutto, Camisassa da Torino e Perlo dal Kenya, lavorano per organizzare l’arrivo dei missionari della Consolata e l’apertura di missioni nel Kaffa. Prende piede l’ipotesi di una penetrazione dal Kenya, attraverso Moyale, città di frontiera sotto controllo britannico.

È nel novembre del 1914 che la carovana affidata alla guida di padre Angelo Dal Canton, parte da Nyeri, in Kenya, per iniziare il primo avventuroso tentativo di condurre una spedizione esplorativa. Monsignor Barlassina, già nominato prefetto apostolico, ne viene tenuto fuori.

Le difficoltà iniziano nel nord del Kenya, nell’attraversare 500 km di zona desertica e senza stazioni di rifornimento. Dal Canton è con due fratelli, Aquilino Caneparo e Anselmo Jeantet, sette portatori, cammelli e muli carichi di acqua e provviste.

La carovana non ha i permessi per entrare nel Paese. I missionari, però, ottengono un permesso di transito, ma come commercianti.

I rischi e le difficoltà sono elevatissimi, nonostante la tenacia dei missionari. La carovana, pur riuscendo a entrare in Etiopia, è poi costretta a ripiegare verso il Kenya un anno dopo.

In seguito, si pensa a una seconda carovana da sud, che non partirà mai. Le indicazioni delle fonti diplomatiche italiane, che hanno interesse nell’installazione di connazionali nel Kaffa, sono, infatti, di «ottenere un permesso non solo di transito ma di “stabilire sedi di commercio” per mercanti missionari, escludendo “ogni propaganda religiosa o proselitismo”», ma Giuseppe Allamano vuole che «i suoi entrino a viso aperto, senza nascondere la propria identità di missionari».

Umbi, Kaffa 1922. Bozzoli, Barlassina, Biancotto, Bruno,Toselli, Goletto, Borello G., Olivero, Borello M.

La via più semplice

A questo punto è Barlassina che, dopo aver aspettato ed essere stato escluso dal primo tentativo, prende l’iniziativa. Nell’ottobre 1916 dal Kenya si sposta a Gibuti passando da Mogadiscio, poi, in treno, arriva ad Achachi e in seguito, a dorso di mulo, nei panni di un «turista», raggiunge Addis Abeba il 25 dicembre installandosi nel miglior albergo della città, il Bollolakos. Qui mantiene la massima discrezione per restare in incognito. Avvisa mons. Jarosseau, che non lo vede di buon occhio, ma lui è appoggiato da Propaganda Fide, anch’essa avvisata.

Monsignor Barlassina, ancora lontano dal Kaffa, inizia il suo lavoro di diplomazia e di conoscenza del Paese. Si fa conoscere e si fa ben volere, come era nel suo carattere.

Ottiene un incontro con l’erede al trono, il ras Tafari nel marzo dell’anno successivo (si veda cronologia pag. 42). Riesce a spiegargli i suoi obiettivi: «esplicare la nostra attività ed essere utili alla popolazione […] essere utili allo sviluppo intellettuale del popolo con coltivazioni e commerci […]». Tra i due si approfondirà una conoscenza reciproca e un rispetto che saranno molto utili. L’erede al trono è però condizionato dal vescovo copto e dal suo clero: non può farsi vedere troppo aperto verso i cattolici. Le autorità etiopiche dicono no a una «Missione cattolica».

Monsignor Barlassina comprende la questione: «Farà il missionario ma a modo suo, vestendosi da mercante» (cfr. libro di Crippa in bibliografia). Il governo italiano, intanto, moltiplica le pressioni per la fondazione di una società commerciale perché vuole ottenere vantaggi dalla presenza dei missionari sul territorio. Monsignor Perlo, dal Kenya, sostiene questa via. Ma, mentre questa strada stenta, compare l’uomo della provvidenza: il signor Felice Gullino, un vero commerciante incontrato ad Addis da Barlassina. Gullino, tramite accordi privati, senza cioè l’interessamento della rappresentanza italiana, ottiene i permessi necessari per aprire due concessioni della «Società Felice Gullino e compagni», che altro non saranno che le prime missioni della Consolata in Etiopia.

Intanto Barlassina, argomentando che «la nostra opera al principio sarà solo morale e materiale, ma sempre benefica ed efficace […]», ottiene il permesso di procedere da Torino e da Propaganda fide, ricevendo felicitazioni da quest’ultima per «il suo tatto e la sua prudenza» e i risultati ottenuti.

La prima missione

Il 15 ottobre 1917 arrivano ad Addis dal Kenya padre Delfino Bianciotto e fratel Carlo Angrisani. Con una carovana, accompagnati dal signor Gullino, entrano nella zona del Kaffa chiamata Leka, e si installano a Ghimbi (oggi Gimbi). Indossano vestiti civili e affittano tre «tucul» (capanne) nei pressi del mercato, per poi costruire una casetta e aprire un negozio. È questa la prima missione-agenzia commerciale della Consolata in Etiopia. Un anno più tardi, padre Giovanni Emilio Toselli aprirà a Billo, sempre nel Kaffa. Il viaggio da Addis a Ghimbi è un’avventura. Nonostante abbiano i permessi, numerosi sono i posti di blocco tra i territori di capi e capetti e le imposte da pagare per passare, a rischio di dover fare dietro front. Inoltre, ci sono i predoni che infestano alcune zone. I missionari incontrano persone locali e non, che li aiutano e li proteggono. Percorrono così 430 km in circa 22 giorni.

Rispetto al Kenya, l’Etiopia è un altro mondo. Qui il modo di fare missione è ben diverso: non si può agire allo scoperto, a causa dell’ostilità dei preti copti. Si rischia di essere denunciati ed espulsi. Si tratta dunque di un «apostolato occulto», e lo sarà per molto tempo.

Barlassina, rimasto in capitale, può contare sull’appoggio dell’Allamano, con il quale c’è vicinanza e comprensione. Frequenti e dettagliati sono i resoconti del neo prefetto al fondatore.

Padre Bianciotto studia quali sono i commerci possibili a copertura della missione. Parla di pelli di animali e cereali, di fabbricazione del sapone, di filatura del cotone, di agricoltura e di allevamento.

I padri sono impressionati dal commercio degli schiavi, che fiorisce all’interno del Paese. E proprio questi saranno tra i primi a ricevere l’attenzione dei missionari, in quanto sono gli ultimi nella scala sociale. Occorre «il coraggio dei profeti e la prudenza dei pastori» (cfr. Crippa). Per ogni mossa falsa, si rischia di essere scoperti: ogni ministero pubblico è proibito. Tutte le iniziative sono esperimenti da valutarsi nel tempo.

La carovana del Blas

Monsignor Barlassina (detto Blas), non ha ancora messo piede nel Kaffa, la sua prefettura apostolica. All’inizio del 1919 organizza una carovana, con la quale vuole fare un ampio giro di perlustrazione di quel territorio. Parte con padre Toselli, che è arrivato a ottobre del 1918. Vuole toccare Billo, Ghimbi, Gore, Didu, Kaffa, Gimma, Lìmmu.
Questo viaggio verrà ricordato come «la carovana del Blas».

È così che Barlassina entra in contatto con una realtà importante: i cattolici (e loro discendenti) che si erano convertiti grazie ai missionari del cardinale Massaia, e che poi sono stati costretti a praticare in segreto, o a uniformarsi ai riti copti. Sono incontri delicati: da entrambe le parti occorre fare molta attenzione. Il prefetto intuisce che il recupero e l’assistenza di queste comunità cattoliche clandestine costituirà una priorità per il suo ministero. I «pagani» verranno in seguito, senza essere dimenticati. Particolarmente toccante è l’incontro con un vecchio prete cattolico, ordinato dal cardinale Massaia.

La Consolata si espande

Nel 1925 si possono contare sette missioni nel Kaffa e attività ad Addis Abeba: Andreaccia-Irgalem, Umbi-Saio, Magi, Ciaha, Comto (Lechemti), Bonga e Addis Abeba. Billo è stata chiusa nel 1920.

Barlassina, che nel 1904 ha partecipato alle Conferenze di Murang’a in Kenya (cfr. MC ottobre 2022), decide che è tempo di radunare i confratelli per riflettere sulla metodologia missionaria da adottare. Nascono così le Conferenze di Umbi, tenutesi nel gennaio del 1925.

Nel frattempo, il Blas, fin dal 1923, ha richiesto l’arrivo di suore e le prime sei sono arrivate nel marzo del 1924. Tre destinate nell’interno e tre ad Addis Abeba hanno l’utilissima qualifica di infermiere.

Nelle conferenze si discutono le Norme e raccomandazioni per la prefettura del Kaffa, un insieme di regole per i missionari. Si delineano, inoltre, le priorità dell’azione.

Particolare attenzione si dà ai «cattolici occulti», cercando di dare loro lavoro e facendo in modo che le famiglie vivano nei pressi della missione, per dare coraggio e riportarli alla normalità del culto.

In secondo luogo, i praticanti di religioni tradizionali (detti pagani) sono favoriti, anche perché sono i più disprezzati. Con i copti occorre invece fare molta attenzione, per i rischi di denuncia.

A livello di opere, le missioni-agenzie di commercio si occupano di cure mediche (soprattutto grazie alle suore), di scuole, in prevalenza per mestieri e primaria, e poi di catecumenato. Importante è la scuola voluta dal Blas e diretta da padre Luigi Santa nella capitale.

Molte attività sono però quelle commerciali di paravento, che comunque permettono ai missionari di entrare in contatto con la gente di diverse estrazioni e fedi. Sono creati mulini, piantagioni di tè e caffè, allevamenti.

Un’altra caratteristica peculiare è che le missioni sono a molti giorni di carovana una dall’altra, e che i viaggi sono utili per trovare cattolici occulti.

Ordini superiori

Nel 1933 monsignor Gaudenzio Barlassina viene richiamato in Italia, in quanto nominato superiore generale dell’istituto, in sostituzione di monsignor Perlo, che a sua volta era succeduto ad Allamano. A malincuore deve lasciare l’Etiopia, ma obbedisce, e il bilancio del suo lavoro è molto positivo. Come prefetto è nominato padre Santa, inizialmente con padre Mario Borello incaricato della procura di Addis Abeba.

Nel 1935 le truppe italiane invadono l’Etiopia senza dichiarazione di guerra. I missionari, diventati nemici, sono espulsi.

Ritornati al seguito degli invasori, nel 1936, con lo scoppio della Seconda guerra mondiale e la vittoria sul campo degli inglesi, i missionari della Consolata sono espulsi in via definitiva tra la fine del 1941 e l’inizio del 1942. L’ultimo a partire è proprio monsignor Luigi Santa.

Delle 43 stazioni missionarie aperte, solo due restano attive, gestite da due sacerdoti etiopi.

Ma il sogno dell’Etiopia resta vivo.

Marco Bello

Bibliografia:

  • Giovanni Crippa, I Missionari della Consolata in Etiopia, dalla prefettura del Kaffa al vicariato di Gimma (1913-1942), ed. Missioni Consolata 1998.
  • Giovanni Tebaldi, L’ultimo carovaniere, Gaudenzio Barlassina 1880-1966, ed. Emi 2004.

 

La Consolata in Etiopia: 1970, atto secondo

Il ritorno in punta di piedi

I missionari della Consolata non mollano. E nel 1970 tornano in Etiopia. Questa volta non come mercanti, ma come «Fatima fathers». Si confrontano con i difficili anni della dittatura marxista e poi della carestia. Ma resistono. Di nuovo sono importanti alcune figure guida, come padre De Marchi e padre Bonzanino.

Il sogno del beato Allamano per l’Etiopia resta vivo nei suoi missionari, e nel 1970 la Consolata rimette piede nel Paese, con discrezione, sotto il nome di Fatima fathers, assumendo alcune missioni (Meki e Shashemane) nel vicariato di Harrar, centro est.

A fine giugno, il superiore generale, padre Mario Bianchi, incontra il vicario apostolico di Harrar, monsignor Urbani Marie Person, per accordarsi sulla presenza dei missionari della Consolata a Meki, a metà strada tra Addis Abeba e Awasa. Incontra pure i padri Comboniani, operanti nella zona.

Per le trattative dirette viene incaricato padre Giovanni De Marchi che, nel 1971, con padre Lorenzo Ori, apre il centro di Meki. Qui si contano 600mila abitanti, di cui la metà musulmani, 250mila aderenti a religioni tradizionali, 50mila copti, 2.500 protestanti e appena 150 cattolici. È un’area Oromo-Arsi (musulmani) e Shoa-Oromo (cristiani).

Nel 1975 i missionari della Consolata sono dieci, guidati dal carismatico padre De Marchi, e operano a Meki, ad Addis Abeba, a Shashemane, aperta nel 1972, e nel 1973 a Gambo (missione con lebbrosario che ospita oltre 100 lebbrosi) e Gighessa (missione e centro per bambini poliomielitici).

Tempi difficili

Il lavoro missionario in Etiopia non è facile, anche per le esigenze e i continui controlli del governo, il quale, più che missionari, desidera persone esperte in promozione umana, e impone una pesante burocrazia.

A Meki, la missione dedicata a Nostra Signora di Fatima è bene avviata e organizzata, con case per i padri e le suore, cappella, scuole, laboratori di tecnica, falegnameria, ospedale.

Nel 1980 proprio a Meki viene creata una nuova prefettura apostolica, che viene affidata all’istituto. Viene nominato amministratore padre Giovanni Bonzanino e, nonostante sia destinato a diventare vescovo, i missionari propendono per un sacerdote locale, e così Yohannes Woldegiorgis diventa il primo vescovo di Meki (1981).

La Prefettura apostolica di Meki copre un’area di 156mila km² (la metà dell’Italia), con una popolazione di oltre tre milioni di abitanti, di cui ottomila cattolici. I missionari della Consolata sono diciannove, dei quali uno solo è etiopico, e occupano nove missioni. Oltre all’evangelizzazione si dedicano al servizio dei più poveri: a Gambo gestiscono un ospedale e un centro di controllo per la lebbra; a Gighessa e ad Asella dirigono due centri per bambini con disabilità fisiche e mentali; a Shashemane reggono una scuola per ciechi, lebbrosi e disabili; a Meki dirigono una piccola scuola tecnica a livello accademico. La concessione agricola a Gambo, proprietà della Diocesi, è messa a disposizione della missione per il sostentamento di tutte le attività. Il terreno è ancora in gran parte foresta e solo 100 ettari sono coltivabili.

I missionari operano dunque su due settori: quello sociale, che caratterizza la loro presenza, e quello pastorale per la creazione di comunità cristiane.

Gighessa 20/XII/1975: P Angheben e bimbi poliomielitici.

Missione e rivoluzione

Il contesto politico, in questi anni, è molto complesso. L’imperatore Selassié viene deposto nel 1974, dopo una serie di scioperi, manifestazioni studentesche e proteste generali contro l’assolutismo del Negus, e a causa della mancanza di cibo.

Un comitato delle forze armate, diretto dal generale Aman Andon, abolisce la monarchia e proclama la repubblica. Nel 1977 assume il potere il colonnello Menghistu Hailé Mariam, che instaura un regime di «socialismo scientifico»: nazionalizza ogni settore produttivo, statalizzando suolo e sottosuolo, ponendo fine al latifondismo.

Con il «terrore rosso», fra il 1977 e il 1978 stronca ogni opposizione con migliaia di esecuzioni sommarie. Nel 1977 l’esercito deve affrontare le ribellioni in Eritrea e nell’Ogaden (Somalia). L’Etiopia è appoggiata dalla Russia e da Cuba. Nel contempo scoppia la guerriglia dei contadini del Tigray.

Verso la fine del 1980, padre Bonzanino scrive una nota positiva: «La rivoluzione ha un volto meno ostile e persino favorevole ad opere socio-caritative a cui attendono i missionari della Consolata per essere accettati dal governo». Poi aggiunge: «Si spera persino in una primavera di vocazioni». In effetti a Nazareth c’è un seminario e ad Addis Abeba padre Francesco Ponsi, insegna alla National University di Addis Abeba, ma anche al seminario minore.

Nel 1984 il paese incomincia a risentire degli effetti della siccità iniziata nel 1982 che uccide più di 500mila contadini, minacciando la vita di oltre 5 milioni di persone.

I missionari della Consolata aprono una ventina di centri per la distribuzione di viveri. A coadiuvare il Prefetto apostolico è soprattutto il padre Paolo Angheben. Nel 1986, il superiore generale dell’Imc, Giuseppe Inverardi, dopo una visita in Etiopia, scrive: «Il futuro è incerto e imprevedibile, cioè precario. Non è il caso di passare alla denuncia. È  faticoso confrontarsi con una forza che agisce non ispirandosi alle necessità ma ad una ideologia». Il regime è antireligioso. È perciò comprensibile un senso di amarezza e di frustrazione nei missionari in attesa di tempi migliori.

Alcuni si chiedono: «Cosa deve fare un missionario nella rivoluzione?». Altri lasciano il Paese. Occorre la capacità di mantenere l’equilibrio missionario. Tante sono le difficoltà burocratiche e fiscali create dal governo per la gestione di scuole, ospedali, lebbrosari, o anche solo per ottenere un lasciapassare.

Ma i cambiamenti mondiali e la caduta del Muro di Berlino (novembre 1989) portano il regime a ridimensionare le proprie posizioni e strategie. Nel marzo 1991, Menghistu fugge in fretta e furia dal paese, e gli succede, come capo del governo, Meles Zenawi.

Il dialogo con i copti

Un’opera altamente benemerita favorita dai missionari della Consolata in Etiopia è quella delle varie iniziative ecumeniche con i cristiani copti. La Chiesa ortodossa copta, con 16 milioni di fedeli, ha iniziato un dialogo con la Chiesa cattolica. E i missionari sono all’avanguardia, mirando non al proselitismo, ma alla collaborazione. Oltre a curare le scuole, i ciechi e i lebbrosi, i missionari della Consolata proseguono nelle varie iniziative ecumeniche in un clima di vera fratellanza.

Lo sviluppo della presenza dell’Imc in Etiopia è dipeso dalla capacità coraggiosa e intelligente di padre Giovanni De Marchi prima, e di padre Giovanni Bonzanino poi. Questi ha guidato i missionari dal 1979, fino alla sua morte prematura nel gennaio 1983.

 adattamento da testi di Igino Tubaldo


Cronologia essenziale

1889. Menelik II diventa imperatore d’Etiopia, unificando i regni di Scioà, Oromo, Amara e Tigré. È l’inizio della dinastia Salomonide.

1913, 28 gennaio. Eretta la Prefettura del Kaffa.

1913, 12 dicembre. Morte di Menelik II, breve regno del nipote Ligg Jasu, seguito da una conflittuale divisione di potere tra l’imperatrice Zauditù, e il ras Tafari, successore designato.

1914, novembre. Primo tentativo di carovana dei Missionari della Consolata, travestiti da mercanti, dal Kenya verso il Kaffa. La guida padre Dal Canton.

1916, 25 dicembre. Monsignor Barlassina, partito da Mombasa (Kenya) arriva ad Addis Abeba, «ben camuffato».

1917, ottobre. I padri Bianciotto e Angrisani, entrati nel Leka, aprono la prima missione a Ghimbi. Un anno più tardi, padre Toselli aprirà la missione di Billo.

1919, gennaio. «Carovana del Blas»: mons. Barlassina compie un ampio viaggio di perlustrazione nel Kaffa, per vedere dove aprire le altre missioni.

1923. Ammissione dell’Etiopia nella Società delle Nazioni. Il Paese si impegna a rispettare le libertà fondamentali, abolire la schiavitù, garantire la libertà di culto e di educazione.

1924, 3 marzo. Arrivo delle prime sei suore della Consolata ad Addis Abeba. Impossibile nasconderle a causa degli abiti.

1925, gennaio. I missionari della Consolata presenti in Etiopia si riuniscono per pregare e fare il punto sul metodo: «Conferenze di Umbi».

1930. Sale al potere il ras Tafari Maconnen, con il nome di Hailé Selassié, in seguito alla morte improvvisa dell’imperatrice Zauditù.

1935, 3 ottobre. L’Italia invade l’Etiopia senza dichiarazione di guerra.

1936, 5 maggio. Gli italiani arrivano ad Addis Abeba, l’imperatore scappa in esilio, l’Etiopia è annessa all’Africa orientale italiana. Vengono iniziate opere di infrastrutture e abolita la schiavitù che coinvolgeva ancora nove milioni di persone.

1941. Cade l’impero coloniale italiano, l’Etiopia è liberata dagli inglesi. Torna l’imperatore Selassié (secondo regno). I missionari italiani sono espulsi.

1955. Costituzione dell’Etiopia.

1970. I missionari della Consolata tornano in Etiopia sotto il nome di Fatima fathers. Sono guidati da padre De Marchi e poi da padre Bonzanino.

1974, 12 settembre. Colpo di stato a opera di un gruppo di ufficiali dell’esercito. Deposto dal Derg (giunta militare al potere), Selassié scompare misteriosamente nel 1975.

1975, 12 marzo. Proclamata la fine del regime imperiale e la nascita dello Stato comunista.

1977. Prevale Menghistu Hailé Mariam che instaura il regime di «terrore rosso».

1980. La prefettura apostolica di Meki viene affidata alla Consolata.

1984-85. Grande siccità e carestia, muore circa un milione di persone.

1987. Il Paese prende il nome di Repubblica democratica popolare d’Etiopia, la dittatura è sostituita dal monopartitismo.

1991. Il negus perde l’appoggio dell’Urss e scappa in esilio, il Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (Eprdf) fonda la Repubblica federale democratica d’Etiopia.
Meles Zenawi, leader del Fronte popolare di liberazione del Tigray, resta a capo del governo di transizione dal 1991 al 1995.

1995. Prime elezioni multipartitiche. Zenawi nominato primo ministro e poi confermato alle elezioni del 2000.

1998-2000. L’Etiopia è in guerra con l’Eritrea. Terminerà con l’accordo di Algeri.

2005. Le elezioni, considerate le prime realmente multipartitiche, e quelle del 2010, vedono Zenawi riconfermato.

2012. Zenawi muore improvvisamente ed è sostituito da Hailé Mariam Desalegn, confermato alle elezioni del 2015.

2018, 15 febbraio. Desalegn rassegna le dimissioni. Un mese dopo Abiy Ahmed Ali, presidente dell’Organizzazione democratica del popolo Oromo, uno dei quattro partiti di coalizione al governo, è designato leader dell’Eprdf, il 2 aprile è eletto primo ministro dal parlamento, è il primo premier oromo dell’Etiopia.

Ma.Bel.


La Consolata in Etiopia negli anni 2000: le sfide di oggi

Gli eredi di Barlassina

Il sogno del beato Allamano sull’Etiopia continua ancora oggi e, dopo oltre 100 anni, è portato avanti anche da molti missionari e missionarie etiopici. Le sfide non sono lontane da quelle di un tempo: l’esiguo numero di cattolici, le difficoltà burocratiche, i problemi economici e le continue guerre interne.

Asella, Meki, Shashemane, Alaba, Gambo, Weragu, Minne, Modjo, Ropi e, più tardi, Shambu: sono le missioni dove i missionari della Consolata hanno lavorato e continuano tutt’ora a lavorare. Dopo anni di impegno nel creare comunità cristiane, le missioni di Asella, Shashemane, Meki e Ropi sono state passate al clero locale che continua le attività iniziate della Consolata.

Gambo, conosciuta per il suo ospedale e per il villaggio dei lebbrosi, continua a essere servita dall’Imc anche se l’ospedale tre anni fa è stato consegnato al governo della regione Oromia. La missione, oltre a continuare a dare supporto all’ospedale, sostiene con aiuti economici tanti lebbrosi che abitano nella zona, molti dei quali sono anziani e vivono grazie all’aiuto ricevuto.

Il gruppo oggi

Oggi i missionari della Consolata che lavorano in Etiopia sono diciassette, di cui dieci etiopici, tre italiani e quattro keniani.

Da sempre, l’attività missionaria comprende sia la cura pastorale delle comunità cristiane, sia le attività di sviluppo sociale e umano. I missionari, in collaborazione con due congregazioni femminili, portano avanti due asili, a Modjo e a Shambu,
e due cliniche mediche con reparto maternità, a Weragu e ancora a Modjo.

Sempre in Modjo, oltre al seminario propedeutico, i missionari gestiscono un centro di animazione e spiritualità missionaria, molto apprezzato sia per ritiri che per convegni.

Piccole comunità

Una delle caratteristiche delle missioni della Consolata in Etiopia, è la loro presenza in zone abitate in prevalenza da popolazioni di fede musulmana e con piccole comunità di cattolici. Si va dalle poche decine di fedeli in Modjo a qualche migliaio in Weragu. Questa è una delle sfide maggiori, sia dal punto di vista dell’evangelizzazione che finanziario. Nonostante la generosità delle comunità cristiane, l’esiguo numero e povertà dei loro membri, in maggioranza contadini, rende difficile l’auto sostentamento delle missioni. Senza gli aiuti provenienti dai benefattori dell’Italia e di altri paesi, sarebbe impossibile gestirle.

Il numero esiguo dei fedeli non è solo un elemento delle nostre missioni, ma una caratteristica dei cattolici in Etiopia che sono meno del 1% della popolazione, la quale si aggira intorno ai 115/120 milioni di abitanti.

Sono quindici i missionari della Consolata di origine etiopica. Otto giovani seminaristi stanno studiando teologia nei vari seminari internazionali dell’Imc, e saranno ordinati nei prossimi anni. Nel seminario propedeutico di Modjo ci sono dieci giovani in discernimento vocazionale e altrettanti nel seminario di Addis Abeba che stanno studiando filosofia.

Le sorelle

Oltre ai missionari della Consolata, sono presenti nel Paese le missionarie della Consolata che per anni hanno condiviso la stessa missione.

Arrivarono in Etiopia nel 1924. Al momento hanno una missione in Addis Abeba che funge anche da casa di formazione con otto ragazze in discernimento vocazionale.

Senso di insicurezza

In molti avranno sentito parlare in questi ultimi anni dell’Etiopia. La guerra che si è combattuta nel Tigray, nel nord del paese, tra il Tplf (Fronte popolare per la liberazione del Tigray, ndr) e il governo etiope, ha lasciato una triste eredità di sofferenza e di morte per milioni di persone. Si calcola che circa 500mila etiopi siano morti durante i due anni di guerra. Alla fine del 2022 si è firmato in accordo di pace promosso dall’Unione africana.

Nonostante le armi abbiamo cessato di sparare, gli odi etnici permangono e tutt’ora esiste un senso di insicurezza nel Paese a causa delle continue tensioni che nascono tra le varie realtà.

Recentemente una specie di scisma si è verificato all’interno della chiesa ortodossa causato dalle rivendicazioni dei cristiani di etnia oromo. La crisi ha coinvolto anche politici, sia a livello locale che nazionale, e la componente politica nazionalista è fondamentalmente alla base di diverse di queste rivendicazioni.

Aumentano le disuguaglianze

La divisione tra coloro che vivono nell’abbondanza e coloro che a fatica riescono ad avere un pasto al giorno si sta facendo sempre più acuta.

Fa impressione vedere nella capitale Addis Abeba un aumento di auto di lusso nuove, mentre in altre zone del Paese la gente fa la fame. A causa della guerra, ci sono ancora milioni di rifugiati interni che vivono in campi gestiti dalle agenzie dell’Onu o dalle autorità locali. A tutto questo si è aggiunta recentemente una carestia in alcune zone come il Borana e la Somalia etiopica. Oltre a migliaia di animali, sono morti decine di bambini per malnutrizione e malattie connesse.

Mancanza di unità

L’Etiopia è un paese ricco di risorse naturali e umane, con tradizioni e una cultura millenaria, nonostante ciò, ha raramente avuto periodi di pace negli ultimi cent’anni.

Come in ogni situazione umana, molti dei problemi di questo Paese sono riconducibili alla povertà della leadership. Tutt’ora non esiste una coscienza nazionale condivisa, piuttosto ci si identifica con la propria etnia a scapito di una visione unitaria di Paese.

Le tensioni indipendentiste sono molto forti tra i vari gruppi etnici. La sfida maggiore per i politici presenti e futuri è quella di creare un senso di unità nazionale.

La corruzione, come in tanti altri paesi del continente, è dilagante (nella classifica dell’indice di percezione della corruzione Cpi di Transparency international, l’Etiopia si trova al 94° posto su 180 paesi, in peggioramento, mentre l’Italia è al 41°, ndr).

Nonostante le difficoltà presenti e le sfide dell’evangelizzazione, i missionari della Consolata continuano la loro missione fiduciosi in un futuro migliore sia per il Paese che per la Chiesa.

Marco Marini

 

Una storia e uno sviluppo economico senza pari

Identità e globalizzazione

L’Etiopia è un paese molto particolare. Di storia cultura millenaria, fatica a trovare un’unità. Al contrario, molti conflitti vengono ancora regolati con le armi. L’economia galoppante sta ora rallentando, mentre importanti risorse, come la terra, sono state svendute a privati e all’estero.

Il 12 gennaio 2015, in occasione degli auguri per il nuovo anno ai rappresentanti del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, papa Francesco parlava di «globalizzazione uniformante che scarta le culture stesse, recidendo così i fattori propri dell’identità di ciascun popolo».

Se si guarda ai secoli passati, dagli antichi fasti di Aksum alle complesse dinamiche feudali, l’Etiopia è senza dubbio il Paese africano che può vantare la storia più peculiare. Se si guarda ai tempi recenti, con l’accettazione degli investimenti cinesi e il boom edilizio nella capitale, sembra invece una delle nazioni macinate dalla «globalizzazione uniformante» di cui parlava il papa. Quale di queste due tendenze prevale nel caratterizzare l’attualità etiope?  Abbagliati dalle cifre da capogiro che le statistiche economiche hanno evidenziato negli ultimi anni, si sarebbe tentati di pensare alla seconda. Tra il 2000 e il 2020, infatti, il Paese ha fatto registrare una crescita del Pil di quasi il 9% annuo, diventando la quarta potenza economica del continente dietro a Nigeria, Sudafrica e Angola. Come tale ricchezza sia distribuita tra i suoi 120 milioni di abitanti, è tutto un altro discorso. Inoltre, per gli effetti della pandemia da Covid-19 e della guerra in Tigray, nel 2021 tale crescita è scesa al 2%, contro il 6% dell’anno precedente.

Ma cos’è che cresceva? Come è noto, i numeri delle statistiche economiche riportano solo quanto viene ufficialmente contabilizzato e quindi escludono l’economia informale, quella sulla quale si basa il sostentamento della maggioranza degli abitanti dell’Africa subsahariana. Non di rado, poi, accade che una crescita in certi settori, classicamente indirizzati all’esportazione, provochi un impoverimento di altri, spesso proprio quelli che riguardano gli strati più poveri della popolazione. Ne sanno qualcosa contadini e pescatori nigeriani che si sono ritrovati terre e acque inquinate dalle fuoriuscite di petrolio provenienti dagli impianti della Shell.

A differenza di ciò che è avvenuto in Angola e Nigeria, lo sfruttamento delle risorse di idrocarburi etiopi, presenti nella regione dell’Ogaden ed estratte dalla società cinese Poly-Gcl, è iniziato solo nel 2018, e richiederà tempo prima di entrare a regime. Una volta tanto, quindi, è stata l’economia agricola quella su cui si è puntato. Conformemente ai dettami del mercato globale, ci si è concentrati sulle esportazioni così da favorire l’ingresso di moneta pregiata: quasi il 60% dei redditi etiopi derivanti da valuta estera provengono dal caffè, che rappresenta oltre un quarto dell’export. Altri prodotti di vario tipo, dai fiori recisi ai semi oleosi, hanno concorso ad aumentare i profitti, contribuendo, secondo le statistiche ufficiali, a dimezzare la povertà estrema che nel 1995 affliggeva ancora il 45% della popolazione.

Investimenti e grandi opere

La crescita economica basata sul settore agricolo ha favorito una certa industrializzazione, seppur limitata ad alcune zone nelle quali si sono adottate agevolazioni fiscali e forniti servizi logistici per attrarre capitali d’investimento. Sono comunque aumentate anche le industrie manifatturiere destinate al mercato interno, quelle che molti analisti ritengono essere una delle chiavi per lo sviluppo dell’Africa. Infine, nel febbraio 2022 è entrata in funzione sul Nilo Azzurro la diga del «Grande rinascimento etiope», il maggiore impianto idroelettrico del continente che, con i suoi 5.200 megawatt, raddoppierà presto la produzione energetica dell’Etiopia.

Nondimeno, tale successo ha avuto un rovescio della medaglia, essendosi prodotto anche a seguito di pratiche di land grabbing. Valutando le risorse effettive del Paese, nel 2003 il governo aveva messo a fuoco l’idea che uno sviluppo industriale sarebbe potuto essere finanziato da uno sviluppo agricolo destinato all’esportazione. Su questa base, nel 2010 è stato varato un piano quinquennale di crescita e trasformazione a seguito del quale l’anno successivo, oltre a spingere, mediante agevolazioni fiscali, molti piccoli proprietari a dedicarsi a coltivazioni indirizzate ai mercati esteri, l’Etiopia ha siglato ben 406 contratti di sfruttamento commerciale della terra, per un totale di un milione di ettari concessi in locazione pluridecennale a imprese nazionali o straniere. Per attrarre gli investitori, i canoni di affitto sono stati tenuti molto bassi (da 1 a 5 euro all’anno per ettaro); inoltre, l’inizio dei pagamenti veniva posposto di 3-6 anni e, avvenendo in valuta locale, assicurava un grande risparmio alle imprese affittuarie, le quali avrebbero potuto beneficiare della ovvia svalutazione a cui la moneta nazionale, il birr, sarebbe andata incontro in periodi così lunghi (basti dire che, se vent’anni fa il cambio con l’euro si aggirava su un valore 10, adesso è vicino a 60).

Le conseguenze di tale politica erano considerevoli su una popolazione che per l’85% opera nel settore agricolo, per di più in certi casi ancora in regime di sussistenza.

Negli studi macroeconomici delle grandi agenzie di sviluppo, la parcellizzazione della proprietà terriera in Etiopia è il fattore che da ormai lungo tempo viene indicato come l’ostacolo principale al progresso del Paese. D’altra parte, fino a meno di mezzo secolo fa, era ancora in vigore il potere imperiale e l’usufrutto della terra era regolamentato da complesse norme consuetudinarie e feudali elaborate nel corso dei secoli.

Menghistu

Con il colpo di Stato che nel 1974 ha deposto Hailé Selassié, l’ultimo imperatore d’Etiopia, il Paese è passato sotto la dura dittatura comunista del maggiore Menghistu Hailé Mariam, con conseguente nazionalizzazione delle proprietà, terra inclusa, e, nel 1984, reinsediamenti di contadini (in totale, un milione e mezzo di persone) dal nord al sud che hanno provocato una forte mortalità per malaria (i nuovi arrivati non disponevano di difese immunitarie specifiche), conflitti con gli abitanti del posto e sconvolgimento delle rotte di transumanza.

A seguito di una lunga e sanguinosa guerra di liberazione, nel 1991 Menghistu è stato sconfitto e la nuova Etiopia, sotto la guida del nuovo leader Meles Zenawi, oltre a concedere l’indipendenza all’Eritrea, si è data la formula originale di una Repubblica federale organizzata su base etnica. Siccome però le persone, a differenza dei territori, si muovono e si mischiano, i confini regionali sono rimasti incerti, tanto che trovare delle cartine unanimemente riconosciute è stato un problema ricorrente.

All’inizio, il decentramento di potere alle regioni è risultato abbastanza marcato, poi si è progressivamente ridotto. L’affitto della terra, infatti, è stato legalizzato nel 1996 e sottomesso alle diverse legislazioni regionali. Ma cinque anni dopo, anche a causa di episodi di corruzione e inefficienza, il governo centrale ha avocato a sé la gestione dei contratti riguardanti superfici superiori ai 5mila ettari.

Dopo il decesso di Meles Zenawi, nel 2012 la funzione di primo ministro è passata a Hailé Mariam Desalegn, dello stesso partito del suo predecessore. Pertanto, il nuovo piano quinquennale di crescita e trasformazione, varato nel 2015 nonostante le manifestazioni di piazza avvenute nel 2014, ha ricalcato le linee guida del precedente. E proprio il problema della sottrazione delle terre è stato alla base, negli ultimi mesi di quell’anno, delle proteste scoppiate fra la popolazione oromo che, costituendo circa un terzo degli etiopi, è la più numerosa del Paese.

La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era rappresentata dal piano di espansione edilizia di Addis Abeba, che prevedeva la confisca di molte terre prima adibite ad agricoltura e a pascolo. Gli scontri, intensificatisi nel 2016, hanno provocato diverse centinaia di morti a causa dei tentativi di repressione governativa. Per di più, proprio in quel biennio l’Etiopia veniva colpita dalla peggiore siccità degli ultimi 30 anni, con un aumento di 10 milioni nel numero di persone a rischio di insicurezza alimentare.

Abiy, oromo e premio Nobel

This handout photograph taken and released by the press office of the Italian Government (Palazzo Chigi) on April 15, 2023 shows Prime Minister Abiy Ahmed (R) speaking with Italian prime minister Giorgia Meloni before their meeting in Addis Abeba. (Photo by Handout / Palazzo Chigi press office / AFP)

Nel 2018, di fronte a una protesta che non sembrava intenzionata a scemare, Desalegn ha rassegnato le dimissioni e, dopo che i due precedenti capi di governo erano stati entrambi di etnia tigrina, il parlamento ha affidato la guida del Paese ad Abiy Ahmed, un Oromo.

L’inizio del suo mandato ha rappresentato una vera e propria svolta, con la liberazione di detenuti politici, la riabilitazione di gruppi di opposizione che erano stati messi al bando, l’abolizione della censura sulla stampa, la nomina di una donna sia alla presidenza dello Stato sia a quella della Corte suprema e, soprattutto, la tanto agognata pace con l’Eritrea, provvedimento che nel 2019 ha fatto conseguire ad Abiy il premio Nobel per la pace. Sembrava un sogno, l’inizio di una nuova era di prosperità. Peccato che l’anno dopo l’Etiopia era di nuovo in guerra.

Stato (non) monolitico

Per capire questo tragico ritorno al passato, bisogna partire dalla considerazione che l’Etiopia non è mai stata, e non lo è tutt’ora, uno Stato monolitico. La sua è una storia di molti popoli, ognuno con la sua cultura, la sua religione e i suoi modi di vita. Popoli che non di rado sono stati in conflitto tra loro, stringendo alleanze ogni volta diverse, pronte a sciogliersi per costituirne altre a seconda dei bisogni. E, in quest’ottica, disposti a coalizzarsi quando la minaccia era esterna e l’interesse comune.

Ne sa qualcosa l’Italia che, il primo marzo 1896, ha subito ad Adua la più grande sconfitta militare mai occorsa a uno Stato coloniale in terra d’Africa: le nostre autorità, avendo constatato i forti contrasti tra i vari gruppi feudali di allora, non avrebbero mai immaginato che questi riuscissero a unirsi così efficacemente, e in breve tempo, per mettersi al servizio di un potere imperiale che molti di loro consideravano opprimente.

Ciò che in Etiopia è sempre stato combattuto è il tentativo di uniformare tutto. Non a caso, l’appiattimento collettivista imposto dalla dittatura comunista di Menghistu negli anni ‘70 non ha tardato a trovare un’opposizione sempre più determinata, fino a giungere al suo rovesciamento nel 1991. Quel ribaltamento è stato possibile anche grazie all’alleanza tra i due leader dei fronti di liberazione del Tigray e dell’Eritrea, subito però di nuovo divisi all’indomani del successo e addirittura in guerra tra loro pochi anni dopo: il conflitto tra Asmara e Addis Abeba del 1998-2000, che ha causato diverse decine di migliaia di morti per parte, è scoppiato apparentemente per futili rivendicazioni territoriali ma soggiaceva a una tensione che covava da tempo.

Due anni dopo la fine delle ostilità, una commissione internazionale appositamente costituitasi ha decretato che l’area contesa fosse da assegnarsi all’Eritrea, ma l’Etiopia ha rifiutato tale deliberazione per 16 anni, fino a quando, un paio di mesi dopo la sua nomina, Abiy non ha deciso di accettarla. La cosa non è piaciuta ai dirigenti regionali del Tigray, che consideravano la striscia contesa, circostante la cittadina di Badme, come territorio proprio.

Per di più, nell’autunno 2019, il premier etiope ha fondato una nuova formazione politica, il Partito della prosperità, con l’intenzione di riunire le varie componenti della coalizione di governo. Il potente Fronte popolare di liberazione del Tigray, che fino ad allora aveva tirato le file della politica nazionale, ha deciso di non aderire, passando di fatto all’opposizione.

L’uso delle armi

E qui veniamo a uno dei grandi difetti dell’Etiopia, forse il più grande: il ricorso alle armi. Studiandone la storia, non si può evitare di provare sgomento di fronte alla successione di sanguinosi conflitti armati esplosi con troppa facilità. A questa deriva ha contribuito senz’altro la compresenza di culture forti, ciascuna sostenuta da grande orgoglio nazionalista. Poi anche la difficoltà di condividere risorse, terra e acqua in primis. Queste da sempre oggetto di scontro, ora lo sono ancora di più a seguito della recente crescita demografica, del cambiamento climatico e del land grabbing. In più, con la vertiginosa crescita economica degli ultimi anni, si sono aggiunti i lucrosi affari di compagnie di tutto il mondo.

Quando nel 2020, a seguito della pandemia da Covid-19, il governo etiope ha deciso di rinviare le elezioni, le autorità tigrine non hanno nascosto il loro disaccordo e hanno deciso di organizzarle autonomamente nella propria regione. Se tale chiamata alle urne, svoltasi a settembre, aveva tutto il sentore di un tentativo di secessione, ben più grave è stato l’attacco «preventivo» compiuto dall’esercito regionale tigrino contro alcune basi regionali federali nella regione, uccidendo molti soldati e impossessandosi di gran parte degli armamenti lì presenti. L’escalation militare così innescata ha portato a un’ennesima terribile guerra, con la solita sequela di fasi alterne a favore di uno o dell’altro dei contendenti, massacri compiuti anche contro i civili da ambo le parti, due milioni di sfollati in stato di enorme indigenza, smantellamento dei già precari servizi sanitari, abbandono delle attività agricole, destrutturazione dei tessuti sociali, spese militari esorbitanti per dotarsi dei più recenti ritrovati della tecnologia bellica, nonché oltre 600mila morti.

A rendere il conflitto ancora più cruento è stato l’ingresso dell’Eritrea a fianco dell’esercito federale etiope, contro gli odiati vicini del Tigray. Qualche speranza di pace si è fatta strada dopo gli accordi, siglati a Pretoria il 2 novembre scorso, che prevedono il disarmo dell’esercito tigrino, nonché il ritiro di quello eritreo e delle milizie regionali amhara che appoggiavano le forze armate federali. Nel contempo, però, sembrano riacutizzarsi le tensioni contro la regione oromo.

Progresso e retaggi feudali

Quando ci siamo ormai addentrati nel XXI secolo da oltre 20 anni, l’Etiopia continua a presentare un’incredibile coesistenza di eccellenze nel campo del progresso e di retaggi feudali. Addis Abeba, sede dell’Unione africana e di ben 115 ambasciate, è uno dei principali centri politici internazionali fin dagli anni ‘60, ma il Paese sembra proprio non riuscire a trovare una formula di governo che possa soddisfare le circa 80 etnie in esso presenti. I «fattori propri dell’identità di ciascun popolo» e la «globalizzazione uniformante» di cui parlava il Papa, in Etiopia non risultano opposti, ma si coniugano in un mix micidiale dagli effetti troppo spesso tragici. Come non ricordare Abraham Demoz, il linguista eritreo che, nel 1968, aveva scelto l’eloquente titolo «I molti mondi dell’Etiopia» per un suo intervento presso la Royal african society di Londra? La relazione dello studioso iniziava così: «L’Etiopia è la disperazione del classificatore compulsivo».

Alberto Zorloni


Il Paese in cifre

  • Repubblica federale di Etiopia
  • Superficie: 1.127.127 km2 (3,7 volte l’Italia).
  • Popolazione: 121 milioni (2022).
  • Indice di sviluppo umano (posto nella classifica): 175/191 (2021).
  • Pil procapite annuo [PPP$]: 2.360.

Nota: PPP$ significa «dollari in parità di potere d’acquisto», tiene conto dei livelli dei prezzi nel paese.


Hanno firmato il dossier:

Marco Marini
Missionario della Consolata, è in Etiopia dal 2017. È stato superiore dei missionari in Etiopia fino al 2022 e ora è amministratore. Ha lavorato anche in Kenya, Italia, Canada. È stato consigliere generale dell’Imc.

Alberto Zorloni
Veterinario tropicalista, ha lavorato in diverse attività di sviluppo in Etiopia e in altri paesi africani. Tra le sue pubblicazioni: Etiopia, una storia africana, ed. Dissensi, 2016; Ripartire da ieri, Emi, 2015.

Marco Bello
Giornalista, direttore editoriale MC.

Si ringraziano

Fratel Domenico Brusa per i suoi appunti e la consulenza sulla presenza Imc in Etiopia. Padre Marco Marini per il suo apporto da Addis Abeba.

Foto e copertine

Tutte le foto del dossier (se non specificato) provengono dall’Archivio fotografico storico dell’Imc e furono realizzate su lastre fotografiche. Le più antiche risalgono alla fine degli anni ‘10 del secolo scorso.

 

 




Etiopia: La breve ferocia

testo di Enrico Casale |


Un conflitto velocissimo e, al tempo stesso, violentissimo. Questa è stata la guerra in Tigray scoppiata il 4 novembre 2020 e durata un mese (ma combattimenti continuano tuttora nelle montagne) con gravi conseguenze umanitarie.

È un conflitto dalle radici profonde, quello al quale abbiamo assistito nel novembre scorso in Etiopia, per questo, allo scopo di comprenderne le ragioni, bisogna ripercorrere la storia del paese degli ultimi decenni.

Dei cento milioni di abitanti dell’Etiopia, il 6-7 per cento abita nella regione settentrionale del Tigray, confinante con l’Eritrea. Essi appartengono all’etnia tigrina, la stessa che è in maggioranza in Eritrea.

Negli ultimi cinquant’anni, pur essendo minoranza, i Tigrini hanno sempre ricoperto un ruolo determinante nel paese.

Potere tigrino

Siamo negli anni Settanta. Dalle montagne del Tigray, aspre e altissime, parte la resistenza contro la sanguinosa dittatura di Menghistu Haile Mariam, l’uomo che nel 1974 ha rovesciato l’imperatore Haile Selassie, e con lui la millenaria dinastia salomonide.

Proprio su quelle montagne, i Tigrini creano le loro basi, e conducono una guerriglia durissima.

In questa lotta si serra un’alleanza storica tra eritrei, guidati da Isayas Afeworki, e Tigrini etiopi, guidati da Meles Zenawi.

Quando nel 1991 questi due attori riescono, in alleanza con altre forze regionali, ad abbattere il regime dell’odiato «negus rosso», conquistando il potere, l’Eritrea si avvia all’indipendenza, e Meles Zenawi diventa premier, sostenuto dal Tigray people’s liberation front (Tplf, Fronte popolare di liberazione del Tigray).

Meles rimane al potere fino alla morte nel 2012. Sono anni duri nei quali, nonostante venga introdotto nel paese un sistema federale, il potere è concentrato saldamente nelle mani dei Tigrini che lo gestiscono con fermezza, senza grande rispetto delle altre etnie, in particolare gli Amhara, che per secoli sono stati l’anima della classe dirigente etiope, e gli Oromo, che, sebbene rappresentino l’etnia maggioritaria, sono sempre stati esclusi dal potere politico ed economico.

Rifugiati etiopici in fuga dalla guerra del Tigray – Photo by ASHRAF SHAZLY / AFP

La vendetta

Con la morte di Zenawi, per i Tigrini iniziano i problemi. Progressivamente sono messi ai margini, in un processo che subisce un’accelerazione nel 2018, dopo l’arrivo di Abiy Ahmed al potere.

Abiy, primo ministro etiope, è un oromo con una lunga carriera militare all’ombra dei Tigrini. Arrivato al governo, da un lato, apre spazi alle etnie oromo e amhara, dall’altro restringe l’influenza dei Tigrini.

La mossa che scatena lo scontro con il Tplf data il 21 novembre 2019, quando Abiy dà vita al nuovo Prosperity party (Partito della prosperità), tramite la fusione di tre dei quattro partiti che componevano il Fronte democratico rivoluzionario popolare etiope (Eprdf), e di altri cinque partiti affiliati. I partiti includono l’Oromo democratic party (Odp), il Southern ethiopian people’s democratic movement (Sepdm), l’Amhara democratic party (Adp), la Harari national league (Hnl), l’Ethiopian somali people’s democratic party (Espdp), l’Afar national democratic party (Andp), il Gambella people’s unity party (Gpup) e il Benishangul Gumuz people’s democratic party (Bgpdp).

Una mossa che non viene accolta bene dai leader del Tplf, i quali, infatti, ne rimangono fuori e si arroccano nel Tigray.

A settembre 2020, nonostante i divieti imposti dal premier Abiy, si svolgono le elezioni per il rinnovo delle istituzioni regionali nel Tigray, vinte, come facilmente previsto da tutti i media nazionali e internazionali, con ampio margine dal Tplf.

Il parlamento di Addis Abeba taglia i rapporti con l’esecutivo del Tigray, dichiarandolo illegittimo, e annuncia che da questo momento in avanti avrà a che fare solo con le strutture amministrative locali (comuni, amministrazioni distrettuali, ecc.) per mantenere «i servizi di base» a favore della popolazione.

La goccia che fa traboccare il vaso è l’occupazione di una base militare dell’esercito federale da parte delle milizie del Tplf. È guerra.

Conflitto breve e feroce

© GCIS / Kopano Tlape

Come tutti i conflitti civili, anche quello in Tigray è durissimo, non solo per i combattenti, ma anche per la popolazione civile.

«La situazione era già drammatica prima della guerra – spiega Fessaha Alganesh, dottoressa italoeritrea, da anni attiva nell’aiuto agli eritrei ospitati nei campi profughi del Tigray -, con l’invasione delle locuste, i campi distrutti, la carenza di cibo, l’epidemia di Covid-19. A queste piaghe bibliche, si sono aggiunti i combattimenti sul terreno e i bombardamenti dal cielo».

Presto si diffondono notizie di stragi. A Mai Kadra, il 9 novembre, sembra che siano uccise decine di persone di etnia amhara. Nella città di Axum, che gli ortodossi etiopi considerano santa perché lì sarebbe conservata l’Arca dell’Alleanza, è segnalata una strage di centinaia di Tigrini che avrebbero impedito l’accesso ai luoghi santi da parte delle milizie. Diverse sono poi le segnalazioni di incidenti, inclusi attacchi di artiglieria su aree popolate, attacchi deliberati ai civili, esecuzioni extragiudiziali e saccheggi diffusi.

Non si conosce l’esatto numero dei morti in combattimento. Si sa però che 950mila civili sono costretti ad abbandonare le proprie case e i propri villaggi.

Migliaia di Tigrini fuggono in Sudan per cercare rifugio dalle bombe e dalle violenze. «Ho parlato con una donna che è riuscita ad arrivare in un campo profughi sudanese – continua Alganesh -. Mi ha detto che quando sono iniziati i bombardamenti intorno al suo villaggio, presa dalla paura, si è caricata il figlio più piccolo in spalla e ha preso per mano quello più grande. Ha percorso, senza nulla da mangiare, decine di chilometri per cercare un rifugio sicuro. È drammatico quanto sta succedendo. I civili fanno fatica a capire che senso abbia questa guerra».

Questa situazione impedisce l’accesso degli operatori umanitari, cosa che rende impossibile verificare sul campo tutte le denunce di violazioni dei diritti umani.

«Se i civili sono stati deliberatamente uccisi da una o più parti in conflitto, queste uccisioni costituiscono crimini di guerra. Ci sarà bisogno di indagini indipendenti, imparziali, approfondite e trasparenti per stabilire la responsabilità e garantire la giustizia», dichiara la responsabile delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, che descrive gli incidenti «strazianti» e «spaventosi».

In un mese, l’esercito federale di Addis Abeba, coadiuvato dalle milizie amhara, invade tutta la regione.

Analisti militari accusano l’Eritrea di essere scesa in campo. Il governo di Asmara, che nel 2018 ha siglato un accordo di pace con Addis Abeba, avrebbe accettato volentieri di sostenere l’esercito etiope per vendicarsi di quella dirigenza tigrina che per una ventina di anni gli si era contrapposta.

A puntare il dito contro l’Eritrea sono soprattutto gli Stati Uniti. Grazie a immagini satellitari, comunicazioni intercettate e numerosi report, gli Usa avrebbero raccolto le prove del coinvolgimento dei soldati di Isaias Afewerki. Tra i loro reparti ci sarebbero anche numerosi somali che Mogadiscio aveva inviato ad addestrarsi nei campi militari eritrei e che si sarebbero trovati a combattere contro i Tigrini.

In Somalia il caso è sollevato in parlamento, ma il governo del presidente Mohamed Abdullahi Mohamed Farmaajo non offre risposte convincenti e, al momento, si sa solo che alcuni militari di Mogadiscio sono morti (anche se le autorità affermano che sono morti durante l’addestramento).

Quella che sembra una vittoria semplice, però, potrebbe trasformarsi in una sorta di Vietnam per gli etiopi. Le forze del Tigray hanno ripiegato sulle montagne. Si sono rifugiate in una regione che conoscono bene, dove per anni hanno combattuto contro il regime di Menghistu e dove, si dice, abbiano sempre tenuto in efficienza, e ben forniti di armi, alcuni rifugi.

Il Tigray oggi

«A Macallè la situazione sembra tranquilla, apparentemente pacifica. Non si vedono poliziotti per strada. Ci sono solo alcuni agenti della polizia federale nella stazione principale e nelle vie principali. Le strade sono pattugliate da soldati armati che si muovono su veicoli equipaggiati con mitragliatrici. Ci sono alcuni posti di blocco in punti strategici della città, come i valichi. L’elettricità arriva nelle case, i telefoni funzionano, ma non ci sono collegamenti Internet. Il cibo è disponibile, il sistema bancario funziona, i prezzi sembrano normali». Sono queste le impressioni di un testimone, rientrato da poco dal Tigray e che vuole mantenere l’anonimato. Le sue parole trasmettono un’immagine tranquilla della capitale del Tigray, ma la realtà pare più complessa. «Le persone – continua la nostra fonte – sono caute, alcune non vogliono uscire di casa, non vogliono essere chiamate, altre sono traumatizzate. Le donne hanno paura a uscire perché temono di essere violentate. Tutti raccontano storie orribili dei giorni in cui, a novembre, la capitale del Tigray è stata al centro dei combattimenti».

La nostra fonte conferma che gli scontri sul campo non sono terminati, e che i miliziani del Tplf stanno continuando a combattere sulle montagne. «Abbiamo udito spari di artiglieria pesante – ricorda -. Apparentemente erano lontani, ma erano talmente forti che li abbiamo sentiti all’interno della nostra abitazione con porte e finestre chiuse. La salva è durata per circa 10-15 minuti poi è finita all’improvviso com’era iniziata».

Da più parti si segnala la presenza di soldati eritrei, somali, emiratini, miliziani amhara. La nostra fonte non ha visto di persona i militari di Asmara, né quelli somali o emiratini, ma ha raccolto testimonianze sulla loro presenza. «Da quanto mi hanno raccontato – osserva la nostra fonte -, gli eritrei avrebbero annesso una striscia di confine settentrionale a Nord di Adigrat. Gli eritrei sono temuti per la crudeltà e i saccheggi. Mi hanno raccontato che spesso ucciderebbero civili innocenti vendicandosi per le perdite subite durante i combattimenti».

La nostra fonte ha raccolto testimonianze anche sui miliziani di etnia amhara, sui somali e sugli emiratini. «Secondo quanto mi hanno detto le persone del posto – continua -, anche i miliziani amhara saccheggerebbero il territorio. Per quanto riguarda i somali, sono stati visti da testimoni oculari nelle loro uniformi vicino a Macallè. Farebbero parte di quei reparti che erano stati inviati in Eritrea per addestrarsi e si dice siano stati impiegati per combattere nel Tigray. Gli Emirati arabi uniti invece avrebbero schierato propri droni facendoli decollare dalla loro base in Eritrea, anche se la loro presenza è stata denunciata solo dai media vicini al Tplf».

Un sopravvissuto del massacro di Mai Kadra, il 9 novembre 2020. / Photo by EDUARDO SOTERAS / AFP

Quale futuro?

Quello in Tigray è stato un conflitto locale che avrà profonde ricadute a livello nazionale.

La sconfitta del Tplf ha (al momento) messo la sordina a un forte movimento di fronda che minacciava direttamente il potere di Abiy Ahmed. In questo senso, la sconfitta invia un messaggio ad altre importanti forze etnonazionaliste, come l’Oromo liberation front, e quelle che hanno destabilizzato la tormentata regione di Benishangul-Gumuz.

L’allontanamento del Tplf dalla politica nazionale può inoltre essere visto, come è scritto in uno studio elaborato per Ispi da Aleksi Ylönen, del Center for international studies di Lisbona, come una mossa «per promuovere l’unità e l’armonia etnica», portando «a una ripresa della popolarità e alla fiducia in un progetto nazionale comune».

Rimuovere il Tplf da un ruolo preminente nella politica e nell’economia nazionali e garantire che non riprenderà il potere nel processo di liberalizzazione economica, è scritto nell’analisi di Ylönen, «sembra essere stato cruciale nei calcoli dell’amministrazione Abiy», perché favorirebbe «una graduale apertura dell’economia» rispetto alla visione localista dei Tigrini.

Il premier dovrà però ora pagare un prezzo elevato per il sostegno ricevuto da Asmara e dalle milizie amhara. Molto probabilmente alle truppe eritree sarà concesso il permesso di occupare quelle aree nel Tigray assegnate all’Eritrea nella decisione della Commissione per i confini Eritrea-Etiopia del 2002 (al termine della guerra del 1998-2000). A loro volta le milizie amhara potranno riprendere il controllo delle terre che erano state ritenute rubate durante il governo del Tplf.

Enrico Casale




Sulle vie d’Etiopia con le scarpe da corsa


Testo di Luca Lorusso, foto di Domenico Brusa (AfMC)


Trentanove anni di missione tra Kenya ed Etiopia, raccontati con semplicità e gratitudine. Tante persone incontrate e amate tra le loro povere abitazioni. Tanti ragazzi istruiti nelle scuole della Consolata. Tanti amici musulmani, ortodossi e protestanti. Tanti chilometri fatti di corsa per tenersi in forma e contemplare le meraviglie del creato.

«Ad Addis Abeba, in Etiopia, sono stato 13 anni, dal 1997 al 2010. Mi è piaciuto quel periodo perché vicino a noi c’erano i rifugiati dall’Eritrea. Inizialmente vivevano sotto le tende dell’Unhcr. Dato che sono dovuti rimanere lì diversi anni, alla fine si sono fatti la capanna.

Ho conosciuto diversi bambini di quel campo perché la nostra casa era proprio lì attaccata. Parlavano tigrino. Alcuni bimbi venivano nel nostro campo sportivo a giocare. Qualcuno era cattolico e frequentava la chiesa. La maggioranza era ortodossa. C’era qualche musulmano. Alla fine entravo nel campo senza problemi.

Gli ultimi anni, con alcuni ragazzini di 12-13 anni abbiamo fatto un gruppo per la corsa: venivano a chiamarmi e andavamo a correre. Facevamo tre o quattro chilometri. Era interessante, perché c’era la gente che batteva le mani, ci dava i nomi dei campioni etiopici».

Nato nel 1940 in Valle d’Aosta, fratel Vincenzo Clerici si è laureato in Fisica a Torino e ha insegnato all’Istituto tecnico commerciale di Chieri fino al 1970. Poi la missione l’ha chiamato, e lui ha risposto.

foto di Luca Lorusso

Fratel Vincenzo, come sei arrivato in missione?

«Quando ero giovane, negli anni ‘60, Giovanni XXIII e Paolo VI parlavano dei giovani che lasciavano la loro patria con spirito missionario. Io mi sentivo uno di loro. Desideravo fare il missionario anche se non come religioso. Quando mi è venuta l’idea delle missioni sono andato all’ufficio della diocesi, e lì mi hanno detto: “Chiedi ai missionari della Consolata”. Così nel 1970 sono andato in Kenya grazie a padre Giovanni De Marchi. Dice: “Tu sei insegnante e in Kenya c’è il boom delle scuole. Puoi lavorare come insegnante e vivere in missione”. Così sono andato a Mugoiri, vicino a Marang’a, dove c’erano alcuni padri anziani che anni prima erano stati internati nei campi di concentramento in Sudafrica.

Ho fatto le cosiddette scuole Harambee (termine che in Kenya significa “insieme”; si usa quando è necessario uno sforzo comune per realizzare un obiettivo, ndr). Ho fatto prima un contratto di due anni e poi un altro di tre anni».

Come hai maturato la decisione di diventare fratello?

«Finiti quei cinque anni, ho fatto l’aggregazione all’istituto: ero laico, ma membro dei missionari della Consolata. A quel punto sono andato a insegnare matematica e fisica a Sagana dove c’era una scuola tecnica molto ben attrezzata. Lì ho incontrato i fratelli della Consolata. Erano cinque. Mi sono trovato bene con loro, ed è stato lì che mi è venuta la vocazione. “Perché non essere anche io fratello? Facciamo lo stesso lavoro, stessa vita, stesso orario”.

Il postulato l’ho fatto a Sagana mentre insegnavo. Per il noviziato sono tornato in Italia, un anno alla Certosa di Pesio con padre Peyron alla fine degli anni ‘70, e poi un anno a Bedizzole. Dopo questi due anni sono tornato a Sagana per un altro anno».

Nel 1981, hai ricevuto la nuova destinazione in Etiopia.

«L’Etiopia è un paese molto diverso dal Kenya, la vita è più semplice. Anche lì insegnavo in una scuola tecnica a Meki, e poi provvedevo i materiali per la falegnameria. Caricavo fino a 7 quintali di legna sul camioncino. Facevo 100 km con le ruote davanti che rimanevano quasi sollevate».

Poi sei tornato in Kenya per un altro breve periodo.

«Quando abbiamo ceduto Meki alla diocesi, alla fine del 1988 sono tornato in Kenya per tre anni. C’erano alcuni fratelli kenioti a Langata che si specializzavano in qualche mestiere».

E quando sei tornato in Etiopia, dove sei stato?

«Nel 1992 sono stato ad Addis Abeba e poi ad Asella, nella casa “etsanat masaderia”, la casa dei bambini: c’erano orfani e alcuni handicappati. Era un bel gruppo.

Dopo Asella sono stato a Gambo per tre anni, fino al 1997. Anche lì facevo commissioni varie e mi interessavo un po’ della scuola, anche se non insegnavo più.

Gambo è vicino alla foresta, è un posto isolato. Per cercare libri per la scuola facevo quasi 40 km. Dopo Gambo, sono stato ad Addis Abeba per 13 anni, al nostro seminario di filosofia e nella procura della casa regionale».

È il periodo in cui correvi con i ragazzi del campo dei rifugiati?

«Sì, mi è piaciuto quel periodo».

E dopo Addis Abeba, sei arrivato a Modjo.

«Sì, nel 2010. Modjo è una cittadina di 50mila abitanti dove si respira aria di campagna. Nella strada davanti alla missione vediamo passare quasi solo calessi tirati da cavalli. Sono un po’ sgangherati, ma quelli sono i taxi.

Le case sono ancora tradizionali: casette a un solo piano con un pezzetto di terreno davanti.

Vicino a Modjo c’è la “città dei container” che arrivano da Gibuti. C’è la dogana, quindi ci sono centinaia di container fermi. Di lì passa l’autostrada che va da Addis a Nazareth (Adama in Oromo). Una grossa città a 20 km da noi».

Com’è la comunità di Modjo?

«I cattolici sono pochi: alcune famiglie. Poi ci sono ragazzini adolescenti ortodossi che ci frequentano. La chiesa è una bella struttura costruita da padre Zordan. Il cardinale ha voluto che diventasse anche un santuario dedicato alla Consolata.

Quando sono arrivato a Modjo c’era ancora il seminario minore. L’ultimo anno di secondaria. Lì facevo un po’ di ripetizioni la sera. Adesso il seminario è stato riaperto dopo un periodo di chiusura. Io faccio l’economo della missione. Dopo una vita, non lavoro più con le scuole».

Com’è l’economia della città?

«Fuori dalla città ci sono cinque fabbriche di pellami, di solito gestite da indiani o pachistani. Ci lavorano molti giovani. Altra attività molto diffusa è il commercio: il mercato, i negozietti. Altro impiego è quello della dogana. Poi a Modjo ci sono almeno cinque banche e molti distributori di diesel e benzina perché la città è un luogo di passaggio, sia da Gibuti che dal Sud le strade s’incrociano a Modjo per arrivare ad Addis Abeba.

Fuori dalla città ci sono villaggi tipici tradizionali nei quali le persone lavorano la terra. Diversi giovani di Modjo lavorano ad Addis Abeba o a Nazareth e tornano nei week end».

Come si presenta il territorio?

«Modjo è in una zona semiarida. La città è piatta, si trova nella Rift Valley. Attorno ci sono colline sulle quali viene coltivato grano e teff, un cereale locale.

Noi lavoriamo con la gente della città. Ma abbiamo tre cappelle fuori. Una a 4 km in zona rurale, una in una piccola cittadina a 15 km e la terza è a 11 km sulle colline. In quest’ultima operano tre famiglie. In due di queste cappelle c’erano due asili informali. Uno gestito da una suora, l’altro da una maestra. Ma il governo centrale ha chiesto di renderli degli asili formali, di tre anni, con il personale. Quindi l’attività è stata ridotta a semplice accoglienza il sabato e la domenica».

In Etiopia, su 108 milioni di abitanti, i cattolici sono pochi: intorno agli 800mila. Quasi tutti gli altri sono musulmani (37 milioni), ortodossi (47 milioni) o protestanti (20 milioni).

«Penso che nella nostra parrocchia siano elencate un centinaio di persone sul registro dei battesimi. Ci sono una ventina di adolescenti. Poi qualche famiglia con i bambini piccoli. La domenica ci sono una cinquantina di persone a messa. Le celebrazioni qui sono fatte con il rito orientale, perché Modjo è sotto la diocesi di Addis Abeba, mentre pochi chilometri più in là, a Meki, c’è il rito latino».

Come sono le relazioni con i musulmani?

«Le persone non hanno nessun problema. La convivenza è buona. I musulmani sono gentili: c’è un negoziante in città che mi fa sempre lo sconto. Vicino alla missione vive una famiglia della quale sono molto amico. La mamma è originaria di Gambo, ha tre bambini ed è moglie di un musulmano. Qualcuno della sua famiglia è cristiano. Qualche volta vado a prendere il caffè da loro. Quello tradizionale ci vuole un’ora per prepararlo: prendono i grani, li lavano, li abbrustoliscono, poi li pestano nel mortaio e intanto fanno bollire l’acqua. Due o tre amiche della signora, che incontro quando vado da lei, hanno tutte la croce appesa al collo. Sono ortodosse e non hanno problemi a indossarla. Stanno assieme, chiacchierano, si aiutano».

Che lingua si parla a Modjo?

«In Etiopia si parlano ottanta lingue. In città da noi sanno tutti l’amarico, però molti sono Oromo. In campagna la maggioranza sono Oromo. Gli Amara sono ortodossi. Gli Oromo dell’Ovest, invece, sono per lo più protestanti. Mentre gli Oromo dell’Est sono per la gran parte musulmani.

C’è un problema politico che riguarda gli Oromo, ci sono quelli che vogliono l’indipendenza da Addis Abeba, quelli che vedono male il programma di sviluppo del governo che fa molti contratti con la Cina».

Si sente il problema dell’emigrazione in Etiopia?

«In Etiopia i giovani hanno come obiettivo di andare all’estero, negli Usa specialmente, anche perché durante il marxismo gli Usa facilitavano gli esuli. Oggi molti hanno parenti negli Usa o in Canada.

Altri emigrano nella penisola arabica e in Libano. In particolare ragazze che vanno a fare le collaboratrici domestiche.

C’è un’organizzazione che procura l’alloggio e paga il viaggio. Le donne restituiscono l’anticipo ricevuto con i primi stipendi presi nel paese. Conosco una ragazza, mamma di due bambini, che è di Gambo e ora sta a Beirut. Lavora in una famiglia cristiana. I bambini e il marito sono a Gambo, e lei manda aiuti».

Qual è l’aspetto che ti piace di più del popolo Etiope?

«A Modjo ero andato a una festa patronale di una chiesa ortodossa in una zona di campagna. La chiesa è bella, su una collina. Cento metri più in basso ci sono grotte scavate nel tufo dove vivono dei monaci. A quella festa vanno migliaia di persone.

Quando sono arrivato a sei chilometri di distanza, ho iniziato a vedere la strada piena di auto parcheggiate. Allora ho lasciato lì l’auto e ho fatto un’ora e mezza di strada a piedi. C’era con me un ragazzino, sua cugina di nome Marta e un’altra ragazzina, Ghennet. Avevano 12 anni. Quando siamo arrivati alle grotte dei monaci, lì c’erano dei ragazzi che raccoglievano la sabbia perché consideravano quella come terra benedetta.

Al ritorno, i ragazzi erano stanchi e io non ricordavo neppure bene dove fosse l’auto. A un certo punto il ragazzo è andato avanti a cercare acqua perché sentiva sete. Dopo un altro po’, a causa della folla, ho perso di vista Marta. Siamo rimasti solo io e Ghennet. Quando siamo arrivati alla macchina, Marta non c’era. Ero in ansia per lei. Dopo un po’, una coppia si è avvicinata e mi ha detto: “La ragazzina sta arrivando”. Io non li conoscevo. Non erano neppure di Modjo. Però mi hanno visto lì ad aspettare e hanno capito.

Ecco. Gli etiopici sono così, sono gentili. È gente aperta».

C’è un brano biblico che ti accompagna in modo particolare nella tua missione?

«Mi piacciono i Salmi. In particolare il 63:
“O Dio, tu sei il mio Dio, / all’aurora ti cerco, / di te ha sete l’anima mia, / a te anela la mia carne, / come terra deserta, / arida, senz’acqua.
Così nel santuario ti ho cercato, / per contemplare la tua potenza e la tua gloria.
Poiché la tua grazia vale più della vita, / le mie labbra diranno la tua lode.
Così ti benedirò finché io viva, / nel tuo nome alzerò le mie mani”».

Luca Lorusso


Una visita ai monaci ortodossi

«Le chiese ortodosse si trovano spesso su cocuzzoli di montagna, con piccoli villaggi nelle vicinanze. La chiesa di Tekle Haymanot, 60 km a Nord Est della capitale, si trova su un piccolo ripiano a metà di una valle molto scoscesa, nel distretto di Bereh. Il posto è legato alla storia della Chiesa etiopica perché il santo Tekle Haymanot (nome che significa Pianta della fede) è stato riformatore del monachesimo nel XIII secolo e fondatore del monastero Debre Libanos.

Attorno alla chiesa si estendono campi sassosi dove si coltiva il grano. Ci sono un piccolo villaggio, una sorgente di acqua cui si attribuiscono proprietà curative, e un gruppo di capanne abitate dagli studenti della chiesa (quelli che noi chiameremmo “seminaristi”), qui soprannominati kollò tamari, da tamari, studente, e kollò, grano abbrustolito, perché hanno la tradizione di elemosinare nelle case il cereale.

A pochi minuti dal villaggio sulla ripida costa della montagna, vivono, in alcune grotte, dei monaci eremiti. C’è anche una piccola chiesa rupestre, scavata a mano nel tufo della montagna e dedicata a San Michele.

Facemmo una visita a quella chiesa il giorno della festa di Tekle Haymanot. Vedemmo un giovane monaco di pochissime parole. Non rispose subito alla nostra richiesta di visitare le grotte, ma fece capire che era possibile. Prima di tutto bisognava togliersi le scarpe, come usano i fedeli nei luoghi sacri. Poi, con mia sorpresa, il monaco ci condusse ai piedi della ripida scarpata che avevamo appena salito, e ci portò all’imbocco di una grotta scavata a mano. Feci presente che non avevamo niente per illuminare il tunnel, ma rispose che non era necessario. Ci fece prendere per mano come a formare una catena e iniziò a salire nel buio più completo.

Il cunicolo aveva a tratti delle impennate brusche, dove avevi l’impressione di cadere nel vuoto. Dopo un tempo che parve molto più lungo del reale arrivammo ad alcuni scalini scavati nella roccia. Qui il monaco ci fece fermare e andò ad aprire una porta. Finalmente vedemmo di nuovo la luce del giorno e ci accorgemmo di essere arrivati a pochi metri dalla chiesa di San Michele.

In seguito un altro monaco mi spiegò che il cunicolo rappresenta l’inferno (Sheol). Quando esci e ti trovi nella luce, sei come alla porta del Paradiso».




Le due Gambo: l’ospedale in Etiopia e la borgata nelle Langhe

Testodi Ugo Pozzoli su l’incontro tra Gambo in Etiopia e Gambo nelle Langhe |


Incontro Enza Fruttero per la prima volta nel suo laboratorio, nel più grande ospedale di Torino. Ha un sorrisone stampato sulla faccia, proprio di chi sta per andare in pensione e di chi ti sta parlando di una delle grandi passioni della sua vita. Interessante – mi viene da pensare. È sempre coinvolgente ascoltare persone che ti raccontano la missione in prima persona e lo fanno con la luce negli occhi, come se non avessero trovato senso a fare null’altro nella vita.

«Ma tu sei mai andato a Gambo?», mi chiede, quasi per capire se vale la pena di parlare con chi si trova davanti. In effetti, sono stato a Gambo non molto tempo fa. Ricordo bene la missione, l’ospedale, fratel Francisco Reyes, medico e missionario della Consolata allora incaricato della struttura, le suore, la fattoria, le scuole… e la grandissima sensazione di vuoto provata in quell’occasione.

Un giorno intero, passato a vagolare nell’ospedale deserto insieme a Francisco, mio cicerone, che mi dicenva: «Immagina questo reparto stracolmo di gente, queste sale operatorie in continua attività… in questo cortile la gente si accampa… tantissime persone». Quel giorno l’ospedale di Gambo era tutto vuoto. Pochi malati facevano la fila al pronto soccorso, alcuni degenti nei reparti, i lebbrosi visitati a casa loro. Era la festa del compleanno del Profeta e questo spiegava la vacanza dalle scuole, il personale quasi tutto a casa, l’ospedale deserto. Del resto Gambo si trova in Oromia, una vasta regione dell’Etiopia a maggioranza musulmana.

Ciò che non ho potuto vedere quel giorno mi è successivamente diventato familiare grazie ai racconti di Enza Fruttero, biologa, le ferie degli ultimi vent’anni «consumate» in Africa a organizzare un laboratorio ben diverso dal suo di Torino, quello di un piccolo dispensario sperduto nella foresta, al servizio dei lebbrosi, diventato poi un ospedale, punto di riferimento e segno di speranza per gran parte della popolazione circostante.

Lì, il giorno del compleanno di Maometto del 2013, è iniziata la mia storia con Gambo, un luogo divenutomi poi familiare pur non avendoci più rimesso piede.

I tanti amici e volontari, medici e tecnici specializzati che dedicano tempo, energia e sapere allo sviluppo dell’ospedale, mi hanno reso un servizio prezioso, raccontandomene ciascuno un pezzetto, narrando motivazioni, esperienze, successi e sovente non poche difficoltà. Gambo è soprattutto la loro storia, così come è la storia di tante persone che da varie parti del mondo hanno contribuito finanziariamente e spiritualmente per costruire, pezzo dopo pezzo, una struttura di eccellenza al servizio dei più poveri.

Dell’Ospedale di Gambo si è molto parlato anche su questa rivista. Dal 1974, infatti, i missionari della Consolata ne hanno la gestione, continuando a offrire ininterrottamente un servizio di promozione umana che completa in modo perfetto l’azione di annuncio e accompagnamento pastorale della missione. Nel corso di questi anni, si sono portate avanti molteplici attività per finanziare e appoggiare gli operatori locali con il servizio di una cinquantina di medici e specialisti provenienti da Spagna, Italia e Olanda che si danno il turno durante l’anno e quello di tecnici e manutentori in grado di consentire l’operatività della struttura in un ambiente complesso come quello in cui sorge.

Da Gambo a Gambo

«Ma tu sei mai andato a Gambo?». Questa volta a chiedermelo è la dottoressa Paola Palesa. È stata Enza a presentarmela. Si sono conosciute a un master di bioetica e l’entusiasmo di Enza ci ha messo poco a far breccia anche nel cuore di Paola. Racconto nuovamente la piccola, quasi insignificante, storia del mio rapporto diretto con Gambo, ma anche le tante occasioni di contatto indiretto che sono maturate in questi anni.

Enza e Paola mi parlano di un’iniziativa che potrebbe prendere piede se decidiamo di unire le forze e provare a coinvolgere qualcun altro. Gambo ne ha bisogno. A Enza preme trovare i soldi per ristrutturare il villaggio dei lebbrosi che vivono intorno all’ospedale. Sono stati loro la prima vera attenzione dei missionari, il primo vero obiettivo dell’allora piccolo dispensario. Costretti a lasciare le loro famiglie e le loro comunità a causa della malattia e dello stigma che essa comporta, centinaia e centinaia di persone si sono radunate a Gambo per avere cura, ma anche protezione e autentica consolazione.

Per anni le missionarie della Consolata si sono prodigate nell’assistenza di queste persone. Adesso le case del villaggio che li ospita hanno bisogno di una seria manutenzione.

Paola vive a Torino, ma è originaria di La Morra d’Alba, terra di vino, comune con una vista mozzafiato sulle Langhe in cui viene prodotto il Barolo D.o.c. Il belvedere de La Morra è patrimonio dell’umanità, decretato dall’Unesco, roba mica da ridere. Più in basso, all’entrata del paese, a circa tre chilometri dalla signorile piazza del Castello c’è una frazione che curiosamente si chiama «Gambo». Il collegamento è presto fatto, veloce scatta l’idea: perché non proviamo a fare una sorta di gemellaggio?

Il progetto «Colline sorelle: da Gambo a Gambo. Volti e storie di Langa e di Etiopia» è nato così, dal tentativo di mettere a dialogare mondi differenti accomunati semplicemente da un nome e dall’ambiente collinare. Del resto, in questo mondo fluido in cui il «qui da noi» e il «là da loro» si perdono grazie a una maggiore facilità negli spostamenti e, soprattutto, al continuo migrare dei popoli, è bello poter pensare a un progetto in cui l’aiuto sia vicendevole, in cui ciascuno offra all’altro parte di quello che ha, ma anche di quello che è, condividendo cultura, storia, tradizioni, pensiero.

La risposta di La Morra nell’organizzazione dell’evento è stata entusiasta, amministrazione comunale e parrocchia in testa. Gli abitanti di frazione Gambo hanno acconsentito a ospitare una mostra fotografica e un concerto per celebrare i due luoghi omonimi. Sono molti coloro che hanno accettato di mettersi in gioco per aprire una finestra sul mondo.

Da domenica 1° luglio a giovedì 12, infatti, il belvedere cittadino offrirà un panorama ancora più esaltante. Lo sguardo non arriverà soltanto ai paesi dell’alta Langa, ma si spingerà fino alle «verdi colline d’Africa» che ci trasmetteranno suoni, voci, persino i sapori. Sarà divertente e, penso, interessante vedere la cucina dell’Etiopia fare capolino in uno dei centri emergenti del turismo etnogastronomico a livello europeo.

Non si ama se non ciò che si conosce: lo scopo di questi giorni e far entrare la Gambo etiope nella casa della Gambo delle Langhe, sperando che un giorno qualcuno dei tanti, che passeranno a La Morra a inizio luglio, trovi la strada per restituire la visita.

«Ma tu ci sei stato a Gambo?». Questa volta, dopo luglio, la mia risposta sarà differente: «In quale delle due?».

Ugo Pozzoli


Gambo Hospital

Comincia con un villaggio di capanne in paglia e fango, rifugio per alcune centinaia di lebbrosi. Nel 1965 diventa un lebbrosario in muratura, completato nel 1969. Dal 1972 sono presenti i missionari della Consolata. Nel 1980, su richiesta del governo, parte del lebbrosario è trasformata in ospedale generale. Il numero dei posti letto passa da poche decine a novanta con tre sezioni: lebbrosario, medicina generale, Tbc (particolare attenzione è data ai malati di tubercolosi, molto numerosi nella regione). Oggigiorno l’ospedale ha centocinquanta letti e i seguenti reparti: Tbc, lebbrosario, pediatria, medicina, maternità, chirurgia, sala operatoria, ambulatorio e servizi di laboratorio analisi, ecografia, radiologia, per la cura di circa duecentocinquanta persone al giorno. Il bacino di utenza ufficiale è di centomila persone, ma la zona di provenienza dei pazienti è molto più ampia. Oltre alle cure mediche, ai malati che accedono all’ospedale vengono offerti servizi di medicina preventiva prenatale e di terapia per i bambini malnutriti e denutriti su un territorio composto da 23 villaggi.

da www.missioniconsolataonlus.it

Fotogalleria del’Ospedale da Gambo dall’Archivio Fotografico MC

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Colline sorelle: da Gambo a Gambo

Volti e storie di Langa e di Etiopia
Iniziativa in favore dell’Ospedale/lebbrosario di Gambo Etiopia

Comune di La Morra d’Alba (CN)

Domenica 1 luglio

Ore 11 – Santa Messa presieduta da S.E. Mons. Marco Brunetti, Vescovo di Alba.
Ore 12 – Inaugurazione dell’esposizione di prodotti artigianali e dipinti tipici dell’Etiopia (Chiesa di San Rocco).
Orario esposizione: 10.30/12 – 14.30/18 tutti i giorni.

Ore 15 – Presentazione dell’evento: obiettivi, finalità, progetti e testimonianze (Chiesa di San Sebastiano).
Partecipa p. Marco Marini, Superiore Regionale dei Missionari della Consolata in Etiopia.

Ore 17 –  Concerto del Coro “Il Bell’Humore”.
Repertorio: spirituals, classico piemontese e corali sacre di Bach (Chiesa di San Martino).

Mercoledì 4 luglio
Pomeriggio: Animazione Estate Ragazzi.

Giovedì 5 luglio
Ore 16 – Animazione con diapositive e presentazione dell’iniziativa alla Casa di riposo.

Domenica 8 luglio
Ore 11 – Santa Messa. Concelebrata da don Massimo Scotto, parroco di La Morra, e p. Ugo Pozzoli, missionario della Consolata.

Ore 12 – Pranzo etiope presso l’enoteca “Vigne Bio”.

Ore 17 – Frazione Gambo: Cerimonia dell’Amicizia, con caffè etiope e baci di La Morra.
Presenti le “Lamorresine” e costumi tipici etiopi. Concerto di fisarmoniche locali.
Esibizione di tamburi e gong con Marina Gallo e Paola Simonelli (operatrici del suono).
Durante tutto il giorno: Mostra fotografica a cielo aperto:
“Le due Gambo”.

Per dettagli sulle eventuali altre iniziative
e sulla manifestazione di chiusura prevista per giovedì 12 luglio:
Ufficio turistico di La Morra 0173 500344
www.lamorraturismo.it.

Fotogalleria della giornata dell’8 luglio a Gambo, La Morra

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Etiopia: Addis Abeba capitale d’Africa


Un paese in forte crescita dove grandi restano le disuguaglianze. La capitale si espande e si dota di modee tecnologie. Ma le tradizioni permangono radicate, come l’orgoglio di un popolo mai colonizzato. E adesso si avverte una massiccia penetrazione cinese. Impressioni di un visitatore speciale.

A volte è difficile tornare in un posto che si è amato. Si ha paura di rovinae la memoria bella e intensa che per molto tempo si è serbata con piacere, e che spesso si è utilizzata per ravvivare certi periodi un po’ spenti. Si teme che questo ricordo svanisca, che quel posto perda il suo fascino particolare e diventi come tutti gli altri.

È un po’ come quando si deve rincontrare una persona speciale dopo tanti anni, e si ha il timore che adesso la si sentirà come una qualunque.

Se c’è una cosa che colpisce sempre, giungendo ad Addis Abeba, è la vicinanza dell’aeroporto al centro. Appena il tempo di svolgere le formalità di sbarco, e ci si trova immersi nella capitale d’Africa, con il suo traffico caotico e le sue sfilate di palazzoni che stanno crescendo come funghi. Questo però me l’aspettavo, perché non c’è rivista o sito specializzato che abbia ignorato la vorticosa trasformazione urbanistica della metropoli etiope, del resto comune a molte città africane. Tuttavia, sfogliando i giornali non si può immaginare la sensazione che si prova nel trovarsi di fronte a una serie di condomini in costruzione a perdita d’occhio.

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Orgoglio di popolo

Tredici anni fa ero rimasto a bocca aperta nel visitare le straordinarie chiese di Lalibela, i castelli di Gonder, le stele di Aksum. Tuttavia, ciò che in Etiopia mi aveva colpito non si limitava alle ricche vestigia del passato, ma era stato il senso di nazione, l’orgoglio di popolo, l’attaccamento alla propria storia e alla propria cultura. A differenza degli altri stati africani nei quali avevo fin lì operato, in Etiopia non avevo riscontrato malcelati sensi d’inferiorità, rancori o impulsi di rivalsa. In altri termini, non ci avevo trovato quell’eredità strisciante del colonialismo che spesso si manifesta con un timore inconscio di non essere messi sullo stesso piano degli occidentali, di essere considerati «inferiori», e che provoca una spinta compulsiva a farsi continuamente sentire, in un modo o nell’altro.

Gli etiopi non sono mai stati colonizzati, e i cinque anni di occupazione italiana non ne hanno minimamente intaccato l’«etiopicità». Anzi, come è avvenuto per tutti gli attacchi che il paese ha dovuto affrontare nel corso della storia, la volontà di resistere al colonialismo fascista l’ha sicuramente rinforzata.

Nuovi rischi

L’Etiopia, nel suo affascinante percorso storico, è riuscita a passare indenne attraverso mille vicissitudini, trasformandosi senza mai snaturarsi. Ma ora, che il paese si è spalancato agli investimenti cinesi, le sue terre sono avvilite dal land grabbing (accaparramento delle terre da parte di multinazionali straniere, ndr), le sue tradizioni sottoposte alla lente banalizzante del turismo di massa, l’etiopicità riuscirà a conservarsi? Si troveranno ancora tracce della «restaurazione ciclica» di un sistema feudale che sembra costituire, nelle sue forme sempre cangianti, una costante della storia etiope? La scomparsa del carismatico primo ministro Meles Zenawi, ex guerrigliero e padre dell’originale federalismo su base etnica, sostituito nel 2012 dal più «anonimo» Haile Mariam Desalegn, interromperà la serie di «imperatori de facto» che si sono succeduti alla guida del paese?

Al mio ritorno, fin dai primi passi ritrovo subito quella tipica capacità etiope di «accogliere questo ma non quello», che avevo spesso riscontrato. Nemmeno due anni fa, il mondo degli affari si era stupito della decisione del governo di Addis Abeba che aveva messo sul mercato titoli pubblici a scadenza decennale (subito andati a ruba) per l’ammontare di un miliardo di dollari. Tuttavia, nonostante tale apparente apertura alla «modeità», in Etiopia si vedono solo insegne di banche locali. Molte hanno aperto una filiale nella zona del Merkato, l’esteso quartiere nel quale si vende di tutto. A dispetto delle migliaia di piccoli commercianti che trascorrono le giornate seduti per terra a contrattare la loro povera merce con avventori di varia estrazione sociale, in questo rione si concludono affari milionari.

Tra i fasci di povere galline legate fra loro e i mucchi di vestiti usati, trovo anche le mele dell’Alto Adige, a un prezzo decisamente elevato. Ma chi le comprerà mai? Non faccio in tempo a chiedermelo, ed ecco un anziano signore acquistarle senza batter ciglio.

Rivedo dunque un’altra caratteristica etiope: l’assenza di una netta separazione fra livelli di reddito molto diversi, ben visibile anche nell’organizzazione (o disorganizzazione…) urbanistica della capitale. Priva di un vero e proprio centro, alterna modei edifici di 20 piani a piccoli agglomerati di tuguri, senza che si possa parlare di quartieri ricchi e quartieri poveri. Quest’assenza di ghetti le consente di avere un tasso di delinquenza decisamente basso, specie se comparato a quello delle sue «sorelle» africane. Ad Addis Abeba, infatti, si può tranquillamente passeggiare a tutte le ore. E i suoi abitanti, che durante il giorno si dedicano a ogni tipo di attività per sbarcare il lunario, conferendo alla metropoli un aspetto brulicante, alla sera non disdegnano ritrovarsi con gli amici negli onnipresenti locali in cui si ascolta musica, per lo più etiope.

La domenica, invece, oltre a partecipare alle cerimonie ortodosse e incontrare i parenti, migliaia di giovani corrono o improvvisano partite di calcio negli spiazzi erbosi ancora rimasti fra un quartiere periferico e l’altro, dove sorgono orti e pascolano bovini. Appassionato di atletica, vado a farci una corsa anch’io, anche se la mia età è un po’ meno verde e i 2.400 metri di altitudine si fanno sentire. Tuttavia, è una buona occasione per relazionarmi in maniera più agevole di quanto solitamente avvenga nelle altre nazioni del continente. Qui, infatti, mi trattano tutti alla pari, e nessuno sembra guardarmi come un «bianco», ma tutt’al più come uno dei tanti stranieri che giungono da ogni dove.

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Le grandi opere

Nei programmi del governo, lo sviluppo del paese dovrebbe basarsi in larga parte su una serie di grandi opere, la più mastodontica delle quali risulta essere la Grand Ethiopian Renaissance Dam, cioè la Grande Diga del Rinascimento Etiope: un ciclopico muraglione alto 175 metri e largo 1.800, che sbarrerà il Nilo Azzurro prima di entrare in Sudan, formando un bacino di oltre 1.500 km2 (cioè come mezza Valle d’Aosta). Con le sue 16 turbine che potranno sviluppare una potenza di 6mila megawatt, vi sorgerà la centrale idroelettrica più grande d’Africa, l’undicesima al mondo. Fra mormorii e sospetti per l’assenza di gara d’appalto, l’incarico per la costruzione di quest’opera faraonica, ormai completata per più di metà, è stato assegnato all’italiana Salini Impregilo. Nulla di nuovo, quindi, rispetto a quanto già accaduto nella Valle dell’Omo. Assommando le altre aziende estere che foiranno le varie componenti, il costo totale dovrebbe ammontare a 4,8 miliardi di dollari, dei quali 1,8 finanziati dalla Cina e i rimanenti tre a carico dell’Etiopia stessa. C’è dunque da attendersi ulteriori emissioni di bond da parte del governo di Addis Abeba. Resta da vedere cosa accadrà quando questi, con il loro tasso d’interesse superiore al 6,5%, giungeranno a scadenza fra 10 anni.

Secondo l’esploratore scozzese James Bruce, che aveva visitato il paese nel ‘700, il mitico re etiope Lalibela aveva progettato già 8 secoli fa la costruzione di alcune dighe sul Nilo Azzurro, con lo scopo di ostacolare l’irrigazione delle terre d’Egitto, così da affamarlo e poterlo facilmente conquistare. Non si sa se tale piano sia mai stato realmente concepito, ma adesso che il fiume viene davvero sbarrato, è proprio il governo del Cairo a sollevare le principali obiezioni. Il Sudan, da parte sua, vede la diga di buon occhio poiché si trova a metà fra Khartoum e Addis Abeba, e l’energia elettrica prodotta raggiungerà entrambi i paesi. Ma l’Egitto, seppur dovrebbe anch’esso beneficiae, non è così sicuro che l’operazione sarà conveniente, anche perché vedrà diminuire la sua percentuale di sfruttamento del grande corso d’acqua. In passato, i governi Hosni Mubarak e Mohamed Morsi avevano proferito aperte minacce, ma ora la situazione, seppur fra mille discussioni e contrasti, pare un po’ più tranquilla. In ogni caso, l’Etiopia non ha mai vacillato nella sua idea di portare a termine l’impresa, costi quello che costi.

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L’ossessione per le guerre

Dopo il conflitto fratricida con l’Eritrea, negli ultimi tre lustri l’«ossessione» etiope per le guerra sembra essersi affievolita. Ma un giovane militare con il quale mi trovo a chiacchierare, mi offre un esempio della storica fierezza dei combattenti locali. Quando, davanti al suo kalashnikov che esibisce in bella mostra, gli dico scherzosamente di non spararmi, per tutta risposta si fa serio e mi ribatte piccato: «Non sono mica un pericolo pubblico, sono un soldato della Repubblica Federale d’Etiopia e sono stato addestrato a comportarmi in modo professionale!». Molti si chiedono come mai, nonostante le numerose azioni incisive portate avanti da reparti etiopi in Somalia, il paese non abbia subito attacchi terroristici della portata di quelli registrati nel vicino Kenya, anch’esso militarmente impegnato oltreconfine.

Trovandomi ad Addis Abeba, non posso rinunciare a un giro sull’ultima novità: la prima metropolitana dell’Africa subsahariana, entrata in servizio nel settembre 2015 e costata 475mila dollari. Oltre alla costruzione e alla foitura del materiale rotabile, Pechino si sta occupando anche del funzionamento: per un paio d’anni, i macchinisti alla guida dei treni saranno cinesi, gradualmente sostituiti da personale etiope sotto loro sorveglianza.

Percorro poi la nuova autostrada verso Sud e, di fronte ai carrettini e agli asinelli che procedono contromano, mi chiedo quante persone beneficino davvero di tali investimenti. Infatti, dopo più di un decennio con tassi di crescita del Pil mediamente superiori al 10%, ci si trova ancora di fronte a una maggioranza della popolazione, che ormai raggiunge i 100 milioni di abitanti, costretta a vivere con meno di due dollari pro capite al giorno. Una grande povertà, ma anche una forte capacità di accoglienza dei profughi (calcolati in circa 750mila persone), che ha stupito il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella durante la visita di stato del marzo scorso. In capitale, dove giungono molti mendicanti, sempre più persone si scostano dalle indicazioni sia ortodosse sia musulmane, per le quali ogni soldo donato sarà lautamente ricompensato in paradiso, ma pretendono che il governo sia più incisivo nei programmi di lotta alla povertà, in modo da evitare che molti bambini non vedano altro futuro che l’accattonaggio.

Seppur fra mille cambiamenti, posso affermare di aver ritrovato l’Etiopia di sempre, con le sue meraviglie e i suoi orrori, che offre fascino o sgomento a seconda di come la si guardi. Quell’Etiopia difficile da inquadrare, soprattutto se ci si ostina a utilizzare i consueti parametri statistici. Si tratta infatti di un paese nel quale, in statistica, possono anche coesistere diverse quote superiori al 50% nello stesso conteggio, o i cui confini interni risultano alquanto elastici, così come certe regole grammaticali. Basta ad esempio chiacchierare con le persone, per capire che la maggioranza della popolazione può essere cristiana, oppure musulmana, a seconda dell’interlocutore. E basta mettere in atto delle iniziative in certi villaggi, per accorgersi di come questi cambino di regione a seconda che si tratti di ricevere fondi per lo sviluppo o essere sottoposti a tassazioni. Chi poi non riesce a lavorare senza avvalersi di supporti informatici, può sempre impazzire a trovare delle traduzioni univoche per trasferire i nomi propri delle località dall’amharico (con i suoi 260 segni sillabici) al nostro scao alfabeto.

Insomma, oggi come ieri, risulta pienamente valida l’affermazione, espressa nel 1968 dal linguista eritreo Abraham Demoz: «L’Etiopia è la disperazione del classificatore compulsivo».

Repressioni estive

Nel momento in cui scrivo, giungono notizie delle ennesime manifestazioni soffocate nel sangue. Sarebbero oltre 100 i morti nel solo fine settimana del 6-7 agosto. Le proteste erano iniziate l’inverno scorso a causa di un programma, poi abrogato, volto ad allargare la giurisdizione della capitale: una città in piena espansione che ha bisogno di nuove terre edificabili, pestando così i piedi all’Oromiya, la regione che la ingloba e che, storicamente, si sente schiacciata dal potere centrale. Nel contempo, attivisti amhara sono scesi in piazza per rivendicare la territorialità di alcune aree a Nord di Gonder, ora incluse nella regione del Tigray, e anche qui l’intervento delle forze governative (apertamente filo tigrine, da ormai 25 anni) ha provocato numerose vittime. In entrambi i casi, si tratta del difficile rapporto tra centro e periferie, reso più aspro dall’ineguale distribuzione dei profitti derivanti dalla vorticosa crescita economica.

Alcuni analisti fanno notare che gli Amhara e gli Oromo sembrano finalmente in grado di superare gli annosi contrasti, così da coalizzarsi nella richiesta di una maggiore democrazia. Se così fosse l’Etiopia potrebbe rivestire un ruolo faro nell’indicare alle altre nazioni del continente una via africana allo sviluppo. Lo dimostrano i molti oppositori che, nelle loro feroci critiche al governo, si mostrano costruttivi e motivati da un grande amore per il proprio paese, manifestando un’apprezzabile larghezza di vedute. Niente di meglio per sfatare il luogo comune dell’africano che non riesce a guardare al di là del proprio gruppo etnico e delle proprie necessità immediate. Emblematico, a questo proposito, quanto accaduto alle recenti Olimpiadi di Rio. Feyisa Lilesa, fortissimo maratoneta etiope (di etnia oromo), ha tagliato il traguardo conquistando la medaglia d’argento. Al termine della gara il suo pensiero è andato alle proteste della sua gente soffocate nel sangue. E allora ha deciso di ripetere il gesto che tanti altri giovani stavano facendo in quei giorni per le strade d’Etiopia: le braccia alzate, con i polsi incrociati, a mimare le manette alle quali va incontro chi richiede un maggior rispetto dei diritti civili.

La protesta nonviolenta dell’atleta etiope ci fornisce qualche briciolo di speranza in più.

Alberto Zorloni

Alberto Zorloni veterinario tropicalista, ha operato in diversi paesi africani e centroamericani. Originario di Varzo, Piemonte, si è laureato a Milano; è specializzato ad Anversa (Belgio) e ha conseguito un master di ricerca in etnoveterinaria a Pretoria (Sudafrica). Ha pubblicato Ripartire da ieri (Emi), di cui MC ha scritto sul numero di agosto-settembre 2015. Alberto è tornato in Etiopia nel 2016, dopo averci lavorato un anno nel 2003.

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Cent’anni di Etiopia: dalle macchine Singer all’informatica,

La Missione nell’Etiopia di ieri e di oggi.

La presenza dei missionari della Consolata in un paese
tutt’altro che semplice.

La missione nell’Etiopia di ieri

«Con
santa letizia e sensi di viva gratitudine verso la S. Sede comunichiamo ai
nostri lettori un’importante notizia. La S.C. di Propaganda ha, con recente
decisione, creato una nuova prefettura Apostolica intitolata del Kaffa
meridionale, e l’ha affidata per l’evangelizzazione ai missionari del nostro
Istituto». Era il 1913, esattamente cento anni fa, quando sul numero di marzo
di La Consolata – come allora si chiamava la nostra rivista – veniva
dato l’annuncio dell’assegnazione ai missionari della Consolata della
prefettura del Kaffa in Etiopia, un territorio vasto «più che l’Italia
settentrionale (di cui) non è possibile dare notizie complete, essendo il
medesimo ancora in gran parte inesplorato». Ai missionari era affidato il
compito di portare avanti il lavoro cominciato nel 1846 dal cappuccino
monsignor Guglielmo Massaia, che fu però cacciato dall’Etiopia nel 1872.

Monsignor
Gaudenzio Barlassina, futuro superiore generale dell’Istituto Missioni
Consolata, partì nel dicembre del 1914 da Genova alla volta di Mombasa, per
entrare ad Addis Abeba due anni dopo, la sera di Natale del 1916 «travestito da
mercante, cavalcando un mulo» (vedi l’articolo Ieri e sempre di B.
Bellesi e G. Mazzotti su MC 02/2001). A rendere difficile l’entrata in Etiopia
dei missionari erano i delicati equilibri diplomatici interni e inteazionali
e la resistenza alla penetrazione di altre confessioni da parte del clero copto,
dal cui appoggio politico i regnanti etiopi non potevano prescindere.

I
primi passi della missione in Etiopia furono all’insegna della prudenza:
dall’incontro con Ras Tafari, il futuro Haile Selassie, all’epoca reggente –
mentre imperatrice era Zauditù, una delle figlie del precedente imperatore
Menelik II, – Monsignor Barlassina comprese che un permesso dato dal principe a
missionari cattolici avrebbe provocato una levata di scudi da parte del vescovo
copto che il reggente non poteva permettersi di affrontare. Barlassina decise
perciò di «travestire» la missione da impresa commerciale. Con la
collaborazione di Felice Gullino, un torinese che aveva stabilito ad Addis
Abeba un laboratorio di ebanisteria, fu creata una società che fra il 1917 e il
1918 aprì due negozi a Ghimbi e Billo, avamposti nel territorio della nuova
prefettura. Si aggiunsero poi laboratori di sartoria e, nel 1919, la
rappresentanza commerciale per le macchine da cucire Singer. Dopo il viaggio di
perlustrazione del Kaffa effettuato da Barlassina fra il gennaio e l’aprile del
1919 (e descritto nel libro di E. Borra, La carovana di Blass e in
quello di G. Tebaldi, L’ultimo carovaniere, entrambi editi da EMI), il
prefetto si fece un’idea precisa del territorio della sua prefettura e programmò
l’espansione delle missioni con l’apertura di nuove stazioni. Nel 1924
arrivarono sei suore della Consolata, autorizzate a stabilirsi nel paese come
infermiere. Questo evento rappresentò di fatto il primo passo verso l’uscita
dalla clandestinità per i missionari: «Le suore non si potevano nascondere» –
scrive padre Giovanni Crippa nel libro
I missionari della Consolata in Etiopia (Edizioni Missioni Consolata
1998), sul quale si basa questa ricostruzione. «La prudenza aveva imposto ai
missionari botteghe da mercanti e abiti civili. Le grandi sottane delle suore e
i loro crocifissi difficilmente potevano passare per un tipico costume europeo».

Agli
ambulatori – prima ad Addis Abeba e poi nel Kaffa – si affiancarono,
lentamente, le scuole, mentre più timidi e nascosti, sebbene non inesistenti,
rimanevano la ricerca di cattolici occulti e il sorgere di vocazioni fra gli
etiopi. Quando, nel 1933, Barlassina fu eletto superiore generale dei
missionari della Consolata e rientrò in Italia, la missione nella prefettura
del Kaffa poteva dirsi consolidata e godeva di una buona libertà d’azione. Il
conflitto italo–etiope portò poi nel 1935 all’espulsione dei missionari che
cominciarono a tornare in Etiopia l’anno successivo con l’occupazione fascista
in veste di cappellani militari. La parola d’ordine era «rientrare al più
presto», riporta ancora Crippa, ma l’essere al seguito di una potenza europea
affamata di colonie e accecata dal mito dell’impero rese la missione funzionale
al sistema coloniale e l’azione missionaria ne fu stravolta. Nel 1942, in
seguito alla vittoria delle truppe britanniche su quelle italiane, i missionari
vennero di nuovo espulsi dal paese.

Si
dovette attendere quasi un trentennio perché i missionari della Consolata
potessero fare ritorno in Etiopia: nel 1970 padre Giovanni De Marchi ottenne il
visto per l’entrata nel paese ma si presentò come membro dei Fatima Fathers,
per evitare di richiamare alla memoria le passate esperienze degli anni
Quaranta. Inizialmente i missionari si stabilirono nel vicariato apostolico di
Harar e solo nel 1980 assunsero la nuova prefettura di Meki dove, nel giro di
tre anni, furono messe in funzione quattro parrocchie con le relative attività
di promozione umana, cioè scuole matee, elementari, professionali, dispensari,
centri di assistenza ai bambini disabili e ai non vedenti (vedi l’articolo di
B. Bellesi su MC 05/2003, I grandi missionari: Padre Giovanni De Marchi).
Gli anni Settanta furono anche quelli dell’arrivo dei missionari della
Consolata a Gambo dove nel 1980, su richiesta delle autorità etiopi, si iniziò
ad adibire una parte del già esistente lebbrosario a ospedale generale.

Anche
oggi, a cent’anni dall’assegnazione del Kaffa all’Istituto, l’Etiopia continua
a essere un paese nel quale l’entrata e la permanenza sono tutt’altro che
scontate. Fino a poco tempo fa, riferiscono i padri attivi in Etiopia, la
Chiesa Cattolica aveva lo status di resident charity (istituzione
benefica residente) e i missionari erano autorizzati a operare in quanto membri
di tale istituzione e con incarichi specifici, determinati e a termine. Oggi,
sebbene sia di recente cambiata la legislazione, il principio sembra essere
rimasto lo stesso: la presenza nel paese è vincolata alla realizzazione di
progetti di carattere sociale e cioè nell’ambito dell’istruzione, della sanità,
della formazione.

Uno sguardo sull’Etiopia di oggi

Per
accorgersi che l’Etiopia è un paese peculiare che mal si adatta a essere
sommariamente etichettato come africano non occorre essere antropologi o
storici: basta ascoltare gli etiopi. Il loro senso di unicità, la distanza
culturale, religiosa e storica che li separa dagli altri popoli che con essi
condividono il continente sono, a loro dire, evidenti. «Pochi altri popoli
possono vantare radici così antiche», spiegava a chi scrive un adolescente
incontrato durante una visita in Etiopia nel 2009, «e probabilmente anche il
fatto di non essere mai stati colonizzati ci rende diversi dagli altri».

Che
la presenza dello stato sia più capillare e la resistenza all’occidentalizzazione
sia più decisa risulta chiaro anche a un primo sguardo alle vie di Addis Abeba:
i grandi centri commerciali e gli enormi cartelloni che pubblicizzano bibite o
capi d’abbigliamento sportivo così frequenti in molte metropoli africane sono completamente
assenti nella capitale etiope. Al loro posto ci sono piuttosto piccoli
supermercati che vendono prevalentemente prodotti locali o di importazione
cinese e poster celebrativi dell’autorità, come quello che negli anni
del governo di Meles Zenawi (morto esattamente un anno fa) ritraeva il primo
ministro con il braccio proteso in avanti come ad indicare la via verso un più
roseo futuro a un gruppo di bambini sorridenti. Sull’immagine campeggiava la
scritta «Un leader africano impegnato per la democrazia, pace e lo sviluppo» (vedi
foto qui sotto
).

Ma,
al di là dei simboli e delle generalizzazioni, l’Etiopia occupa davvero una
posizione particolare nel panorama del continente: sede dell’Unione Africana e
della Commissione Economica per l’Africa delle Nazioni Unite, il paese è
letteralmente inondato di programmi (e fondi) delle agenzie inteazionali.
Secondo i dati Ocse, l’Etiopia è il paese africano che riceve più aiuti
pubblici allo sviluppo dopo la Repubblica Democratica del Congo, con un totale
nel 2011 pari a oltre tre miliardi e mezzo di dollari. E, se gli Stati Uniti «corteggiano»
l’Etiopia – che Washington ritiene cruciale dal punto di vista geopolitico e
strategico – a suon di aiuti allo sviluppo, la Cina dal canto suo controbatte
con la strategia che sta applicando in tutto il continente, quella degli
investimenti massicci. Solo per citare il più recente, il Financial Times
riporta che Huajian – un’azienda cinese che produce scarpe da donna per brands
come Tommy Hilfiger, Guess, Naturalizer, Clarks e che ha già una
fabbrica vicino a Addis Abeba dove lavorano seicento persone – si è ora
impegnata a investire insieme alla China Development Bank due miliardi
di dollari nei prossimi dieci anni per creare una zona di produzione in Etiopia
che dovrebbe arrivare a impiegare circa centomila persone.

Con
tassi di crescita a volte anche a due cifre, l’Etiopia si trova oggi sospesa
fra la povertà oggettiva dei suoi ottanta milioni di abitanti e una politica
ambiziosa per il futuro. Il più recente e clamoroso episodio che testimonia
questa ambizione è il progetto di costruzione della «grande diga della
Rinascita» sul Nilo Azzurro, iniziativa che ha scatenato le ire dell’Egitto –
dove la maggior parte della popolazione vive nella striscia di terra bagnata dal
fiume – al punto da spingere il presidente Mohamed Morsi a dichiarare che gli
egiziani «difenderanno con il sangue ogni goccia del Nilo». Le dichiarazioni di
Morsi sono state subito ridimensionate, ma la tensione resta palpabile.
L’Etiopia, che ha affidato all’italiana Salini la realizzazione
dell’opera monumentale, ha scommesso il tutto per tutto su questa diga. Di
fronte al rifiuto da parte delle agenzie inteazionali di finanziare il
progetto in mancanza dell’assenso dei paesi rivieraschi, l’Etiopia ha deciso di
realizzae autonomamente la costruzione, che costerà circa cinque miliardi di
dollari, esortando la popolazione ad acquistare obbligazioni.

I
tempi della clandestinità di padre Barlassina sono ormai lontani; ma, oggi come
allora, la voglia di affermazione e di rivalsa del paese hanno certamente un
ruolo non secondario nel fare dell’Etiopia un luogo dove occorre sempre
chiedere permesso.

Chiara Giovetti

       Gambo, informatizzare l’ospedale                                                    

Uno dei progetti che in questo momento Mco sta sostenendo è quello
dell’informatizzazione dell’ospedale di Gambo. Dato il suo grande bacino
d’utenza – sulla carta sarebbe di circa centomila persone, ma la provenienza
dei pazienti suggerisce che quella servita sia un’area molto più ampia –
l’ospedale deve gestire una quantità notevole di pazienti e quindi di
informazioni, documenti, cartelle cliniche. Attualmente la registrazione dei
pazienti avviene in modo manuale su supporto cartaceo, ma questo metodo genera
problemi per l’identificazione univoca del paziente, la conservazione dati, la
comprensione grafica, la completa e corretta compilazione dei documenti e crea
difficoltà di cornordinamento fra i reparti dell’ospedale, il laboratorio, la
farmacia e l’amministrazione. Può succedere, cioè, che il paziente smarrisca documenti
come le prescrizioni mediche o che il personale impieghi ore nella ricerca
delle cartelle dei pazienti, a volte accatastate anche sul pavimento (vedi
foto). Con il progetto di informatizzazione si vorrebbe dunque procedere
all’acquisto di macchine e server, all’installazione dei programmi di gestione
e alla formazione del personale per l’utilizzo del sistema. I benefici
derivanti dalla realizzazione di questo progetto saranno un minor rischio di
perdita di informazioni relative al paziente e alla terapia e un alleggerimento
del carico di lavoro, oggi davvero pesante, per il personale dell’ospedale. (Chi.Gio.)

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Chiara Giovetti




Etiopia, Gambo: agricoltura e sanità

Cooperando

Si è concluso il progetto promosso da Missioni Consolata Onlus in sostegno agli agricoltori di Gambo (Etiopia), finanziato dalla Regione Piemonte nell’ambito del Programma di sicurezza alimentare e lotta alla povertà in Africa Sub – sahariana (anno 2009). Grazie al progetto, che ha visto anche la partecipazione di LVIA, ong di Cuneo, 96 agricoltori  di Gambo hanno potuto seminare e raccogliere grano e rifornire la mensa del Gambo Rural Hospital.

Montagne coperte di grandi alberi verdi e campi dalla terra scura e umida: il paesaggio, quasi alpino, che si osserva arrivando a Gambo, nell’Etiopia sudorientale, è quantomeno insolito per chi si aspetta il panorama africano classico, fatto di acacie dalle radici che lottano fra le crepe della terra ocra per bere avidamente le poche gocce d’acqua che il calore soffocante non si è ancora portato via. In uno scenario come questo non ci si aspetta di trovare scarsità di cibo e problemi di malnutrizione come quelli che stanno mettendo a rischio la vita di oltre dieci milioni di persone in tutta l’Africa orientale a causa della devastante ondata di siccità che ha colpito la regione nel corso dell’estate. «Qualcuno la chiama green drought, siccità verde, o green famine, carestia verde», dice suor Laura, missionaria della Consolata che lavora a Gambo, «ma, al di là dei termini tecnici, il risultato è evidente: tutto è verde e rigoglioso, ma i raccolti vanno perduti perché la pioggia è caduta al momento sbagliato».

Gambo Rural Hospital
Gambo è un villaggio di circa duemila abitanti a 2.200 metri sul livello del mare, nella regione dell’Arsi a quaranta chilometri da Shashemane; si è sviluppato intorno alla missione e al suo ospedale e la sua popolazione è profondamente legata alla vita del Gambo Rural Hospital, che serve tutta la zona circostante foendo assistenza sanitaria a decine di migliaia di persone. «La missione nasce negli anni Venti con i padri cappuccini, che negli anni Sessanta costruiscono il dispensario per la cura dei lebbrosi», spiega Fratel Francisco Reyes, missionario della Consolata, medico e direttore dell’ospedale. «Il Gambo Rural Hospital nasce dunque come lebbrosario ed è a partire dagli anni Settanta, quando i missionari della Consolata subentrano ai cappuccini, che si sviluppa come ospedale generale». Oggi conta 145 posti letto, ospedalizza circa quattromila pazienti e offre servizio di ambulatorio per circa cinquantamila persone all’anno. Ha una mateità, due sale operatorie, un centro nutrizionale, una farmacia, un laboratorio e realizza programmi di diagnosi e cura della lebbra, della tubercolosi e dell’HIV/Aids in quanto centro-sentinella nell’ambito del programma nazionale etiope di sorveglianza della diffusione del virus.
La popolazione di Gambo è attivamente coinvolta nella vita dell’ospedale: il personale è quasi tutto composto da abitanti del villaggio che prestano servizio sia nell’assistenza sanitaria sia nella manutenzione e nel funzionamento ordinario dell’ospedale come tecnici, operai, cuochi, elettricisti, idraulici, personale amministrativo. «Un legame così profondo fra villaggio e ospedale rischia di creare dipendenza», spiega padre Renzo Meneghini, che si occupa dell’amministrazione della missione. «Per questo, fin da subito noi missionari ci siamo sforzati per evitare il mero assistenzialismo e far sì che la gente di Gambo partecipi e collabori attivamente e responsabilmente alle attività della missione e dell’ospedale che foiscono loro assistenza sanitaria e istruzione».

Sostegno agli agricoltori
È in questo contesto di collaborazione e partecipazione che si inserisce il progetto finanziato dalla Regione Piemonte dal titolo Sostegno agli agricoltori di Gambo, Etiopia, per la coltivazione di frumento per consumo domestico e foitura all’ospedale di Gambo.
L’obiettivo del progetto era doppio: da un lato, mettere gli agricoltori di Gambo in condizione di seminare e raccogliere grano per provvedere al fabbisogno delle proprie famiglie; dall’altro lato, ottenere una riduzione dei costi di gestione dell’ospedale ricevendo dai contadini parte del loro raccolto grazie al quale rifornire la mensa dell’ospedale, che serve circa duecento pasti al giorno.
Nelle fasi preliminari, il progetto ha dovuto tenere in considerazione una serie di difficoltà che la popolazione di Gambo sperimenta a causa dell’isolamento del villaggio.
Innanzitutto, il reperimento delle sementi. Se è vero che ci sono iniziative del governo etiope per distribuire i semi nei villaggi attraverso le autorità locali e a pagamento, il villaggio di Gambo non ha finora beneficiato di questo intervento. Il centro di distribuzione delle sementi più vicino si trova a venti chilometri dal villaggio ed è raggiungibile solo con molta difficoltà attraverso una strada sterrata sulla quale circolano trasporti collettivi privati che funzionano però solo in modo intermittente e occasionale. Spesso, per raggiungere i villaggi circostanti, è necessario muoversi a cavallo e la maggior parte del trasporto di merci avviene a dorso d’asino: per questo, procurarsi un quintale di sementi può essere, per un agricoltore, molto costoso ed estremamente disagevole.
La seconda difficoltà è la mancanza di liquidità per l’acquisto delle sementi.

Pagare in natura
Un sistema, quindi, basato sulla restituzione di parte del raccolto a titolo di rimborso delle sementi e del fertilizzante ricevuto, era il solo che potesse mettere i coltivatori in grado di prendere parte al progetto e, nel contempo, di contribuire a ridurre i costi che l’ospedale deve affrontare per l’alimentazione dei pazienti.
Si è proceduto all’acquisto e alla distribuzione di sementi e fertilizzante utilizzando per il trasporto sedici asini. Le fluttuazioni del costo dei semi sono state favorevoli nel periodo dell’intervento e questo ha permesso di servire non 78 agricoltori, come il progetto originale prevedeva, ma 96, di cui un terzo sono donne. «Le difficoltà sono state diverse», spiega Fratel Francisco Reyes, responsabile del progetto, «e alcuni contadini hanno chiesto proroghe per la restituzione del grano poiché in alcuni casi le piogge hanno rovinato il raccolto. Alcuni purtroppo non sono riusciti a restituire il quintale di grano ricevuto. Tuttavia, il progetto può dirsi concluso: gli agricoltori che vi hanno preso parte hanno infatti ottenuto ca. 18 quintali di grano per ogni quintale seminato e, oltre ad aver contribuito a sostenere la mensa dell’ospedale, potranno garantire la sicurezza alimentare della propria famiglia per l’anno in corso».

Bilancio e prospettive
Il progetto prevedeva la collaborazione con LVIA – Associazione internazionale volontari laici, una ong di Cuneo che vanta un’esperienza quarantennale nella cooperazione allo sviluppo con presenze in undici Paesi africani e ha vaste competenze per quanto riguarda l’ambito agricolo in particolare.
Dalla visita a Gambo effettuata dall’agronomo incaricato da LVIA, il dottor Ayele Gebreamlak, sono emersi alcuni aspetti sui quali sarà necessario concentrarsi in futuro per rendere l’iniziativa più sostenibile e efficace.
In primo luogo, si legge nel rapporto finale, occorrerà valutare l’opportunità di utilizzare sementi differenti da quelle utilizzate nel progetto (che non possono essere ripiantate per più di un raccolto o due) per poter garantire una dotazione costante di sementi per le attività future.
Inoltre, per raggiungere la sostenibilità dell’iniziativa, occorre prendere in considerazione l’ipotesi di ripensae la struttura in modo da renderla un vero e proprio intervento di microcredito che coinvolga in modo più mirato le organizzazioni locali (in particolare gli iddirs, gruppi di solidarietà spontanei che rappresentano la principale forma associativa autoctona in Etiopia). A questo proposito, LVIA ha condiviso con MCO l’esperienza maturata in progetti agricoli realizzati presso i kebele (la più piccola unità amministrativa del sistema etiope) di Halaba, Shashego e Lemo, che si trovano in un’area non lontana da Gambo e ne rispecchiano perciò alcune caratteristiche.
Al di là del progetto specifico, vale la pena di sottolineare che il cornordinamento e la collaborazione fra partner inteazionali e locali per la realizzazione di interventi sostenibili e coerenti si rivela di un’importanza cruciale in zone come l’Africa orientale, dove l’esigenza di promuovere la sicurezza alimentare delle popolazioni locali si fa ancora più urgente alla luce delle emergenze legate alle ondate di siccità come quella che nel corso del 2011 ha privato milioni di persone di acqua e cibo.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




ETIOPIA – Tra i missionari cappuccini marchigiani

In Etiopia il tempo sembra fissato per sempre. Eppure, dalla capitale, Addis Abeba, al vicariato di Soddo, la gente, umile e serena, continua la ricerca di costruire un futuro migliore… con l’aiuto dei missionari.

C’è una signora molto nervosa tra i passeggeri dell’aereo che sta scendendo su Addis Abeba. Ha gli occhi chiusi e tiene le mani conserte sulle ginocchia. Avvolta in un silenzio che sembra quello di una preghiera, un filo di pianto le riga la guancia, segnata da una sola ruga lunga e superficiale. Sono sette anni che non torna nel suo paese e, da sette giorni, non dorme per l’emozione. Solleva le palpebre e ruota impercettibilmente il collo irrigidito per la stanchezza. Dal finestrino si scorgono spruzzi di luci, misti a zone di buio fondo; due viali illuminati si stagliano su quel nero imperlato e, come due serpenti, si irradiano intorno a una corona di regina intarsiata di giornie e dolori.
Laggiù, ad aspettare la signora, si è radunata tutta la sua famiglia. Quando finalmente escono dall’aeroporto, abbracciati e sereni, le loro facce sono investite da un forte odore di erba fresca, di valle distesa tra le montagne che si apre nella mattina dai colori tersi, in mezzo ai quali si stempera l’ansia di una lunga attesa. Trascorreranno insieme il natale ortodosso; dopodiché, lei toerà a Roma a lucidare pavimenti in qualche appartamento del centro.
Ma non c’è tempo per rattristarsi. Il sole sta sorgendo. In lontananza si dirada la foschia intorno ai rilievi, qualche indistinto rumore proveniente da un orto, il fabbro che riprende a martellare e, in fondo alla via impolverata, il primo tintinnio di una borraccia di latta che gli studenti del «Centro Romagna» usano per mettervi la colazione.

Odore di polvere

Nel Centro Romagna, un grande edificio di cinque piani, i cappuccini hanno costruito le aule per l’asilo e la scuola, fino all’ottava classe. Al suono della campanella che annuncia la ricreazione, tutti si riversano nel piazzale antistante il portone per giocare al ritmo di musiche tradizionali. I maglioni celesti della divisa si mescolano ai sorrisi, al battere delle mani e al trambusto dei piedi che segnano il selciato in un ampio girotondo.
Ma le donne che scendono la collina, alla periferia di Addis, non sanno nulla della tenerezza di quel gioco, portano da una vita e sulle spalle tutta la sofferenza di un fascio di erba e legna. Ritornano in città con il materiale necessario per riparare le loro casupole, per preparare un giaciglio o, semplicemente, per accendere il fuoco. Quando si arriva nelle vie del centro, l’odore di polvere che rotola dalle colline e impregna le vesti si mescola a quello della benzina delle auto che sfrecciano davanti all’ambasciata americana, fortificata come se stesse per essere attaccata. Lungo le vie, accanto alle case in costruzione, la vita brulica tra i banchetti dei piccoli commercianti, mentre una sottile e incessante fila di mendicanti marcia verso la cattedrale ortodossa.
Nel giardino che circonda la chiesa alcuni pregano il Cristo esposto, altri bivaccano e parlottano sotto i piccoli oleandri, da dove sbucano le mani rinsecchite di chi chiede un po’ di spiccioli. Anche nella parrocchia di San Salvatore, i cappuccini cercano di venire incontro alle esigenze delle famiglie. Hanno così organizzato un incontro pubblico per decidere una linea di intervento e cornordinare gli aiuti dall’Italia, proprio per rendere più dolci le festività natalizie: solo che le richieste d’intervento sono più numerose delle mosche che si appiccicano intorno agli occhi dei bambini.
Un lavoro quotidiano, in risposta ai problemi della povertà, viene svolto da padre Tommaso Bellesi che ha creato e ora gestisce il «Centro San Giuseppe», una sorta di Caritas etiope che segue più di 5.000 casi di persone indigenti. L’assistenza garantita dai cappuccini va dalla distribuzione di vestiti e pasti al finanziamento di piccole attività economiche, fino alla copertura delle spese mediche, comprese quelle relative a interventi chirurgici e alle tasse scolastiche. Tra loro ci sono anche malati di Aids, orfani, lebbrosi, disabili fisici e mentali che, ogni giorno, formano una processione cenciosa e dannata davanti agli operatori del Centro per chiedere una scodella, un farmaco o un paio di scarpe ortopediche.
È un’umanità che lascia sgomenti, che sconvolge la mente del visitatore, la cui anima è turbata da mille interrogativi che sorgono dai cunicoli della storia, dominata dalla precarietà dell’esistenza, che qui si fa sentire con forza: al mattino, respiri e ti sfami, ma non sai se al tramonto sarai ancora vivo o se dovrai lasciare per strada un occhio, un figlio o tutt’e due.
Al pomeriggio, il Centro chiude e la città si riprende i suoi diseredati. Intoo alla grande piazza dove il passato regime comunista massacrava gli oppositori, la polizia dell’odierno governo multipartitico non li fa girare. E allora se ne vanno in periferia, a mucchietti intorno agli incroci, fermi davanti alla fermata dell’autobus che non prenderanno mai. Un viso intagliato nella pietra scura guarda fiero la sera che scende sui negozietti di semi e di tessuti, ritagliando bizzarri giochi di ombre e di luce. E, tra quella massa grigia di storpi e affamati, ogni tanto si infila a zig-zag un monaco ortodosso con il suo candido mantello.

Il «palo» della cultura

Quando si esce da Addis Abeba, si entra in un altro mondo. L’unica strada per raggiungere il sud è asfaltata solo nei primi cento chilometri, poi si trasforma in una pista piena di buchi, che incrocia ogni tanto il letto di un fiume in secca. Lo sterrato attraversa valli e gole che si aprono sull’altopiano, in un dislivello (rispetto alla capitale) di circa 700 metri di altitudine. Lungo il tragitto, si incontrano i segni vivi dell’economia e della cultura di questo paese: venditori di collane, qualche contadino che zappa la terra, piccole chiese copte, sepolcri recintati, capanne di paglia, greggi di pecore e mandrie di buoi.
Colpiscono i pastori di dromedari, sparsi sotto i sicomori e avvolti in un logoro mantello che lascia scoperto solo il viso: maschere di un tempo antico, bocche spolpate con i denti storti e marci sotto due occhi infuocati. Sono immobili, con il bastone in mano nel bassopiano sferzato dal vento e limitato tutt’intorno da una caligine turchese, che avanza sulla sabbia a piccoli banchi.
Nonostante il tempo sembri fissato per sempre, il popolo si muove. Ai lati del cammino, scorrono due fiumi di persone: donne, uomini e bambini si dirigono al mercato o rientrano da scuola, vivono la loro storia nella polvere, socializzano sulla strada, con le suole rotte o scalzi e affaticati, con i morsi della fame, con poche monete racimolate che ballonzolano nella tasca, mentre un asino carreggia due sacchi di pietre per una casa nuova.
Dopo sette ore di viaggio e 400 chilometri, si giunge a Soddo, fulcro della regione del Wolayta, dove i tetti di lamiera brillano tra la vegetazione, sommandosi ai tradizionali tukul di paglia e legno.
A Soddo, sede del vescovo Domenico Marinozzi, uno tra i missionari della prima ora, i cappuccini hanno fondato e amministrano l’altra metà della missione in Etiopia: asili, scuole di formazione, piccole attività economiche, presidi sanitari, parrocchie, seminari, centri culturali, pozzi per l’approvvigionamento idrico.
Nella comunità di Konto, attiva sin dal 1969 (anno in cui la missione arrivò in questa zona), il giorno inizia presto. Dalla piccola chiesa si sentono il suono del tamburo e i canti delle novizie che accompagnano la messa, celebrata in lingua amarica. L’aria è fresca e trasparente e si lascia invadere dolcemente dai primi caldi raggi del sole.
Intanto, dai villaggi arrivano i piccoli scolari che, per tradizione, iniziano le lezioni con l’alzabandiera, mettendosi in fila davanti ai vessilli dell’Etiopia e del Wolayta, intonando un canto e una preghiera.
In un altro padiglione della comunità, gli studenti più grandi occupano le aule della scuola dei mestieri, finanziata dalla Confartigianato della provincia di Ancona. Sono circa 50, cornordinati da un insegnante italiano in pensione, venuto quaggiù come volontario. Studiano la teoria, ma fanno anche molta pratica nei laboratori per diventare falegnami, fabbri e meccanici con l’auspicio che, un giorno, possano avviare una attività in proprio.
A poca distanza da Konto, padre Gino Binanti ha aperto da qualche anno il «Wolayta Tuussaa», un centro culturale per i giovani. Nella lingua locale tuussaa indica il palo che regge la capanna, sul quale non solo convergono i tronchi che costituiscono il tukul, ma la famiglia lo usa per appendervi i ritratti degli antenati. Significa, dunque, fondamento. E la cultura è, in un certo senso, la base di tutto; senza di essa non c’è sviluppo.
Da qui nasce l’intuizione di padre Gino: aggregare i giovani attraverso lo sport e altre attività culturali ed educative (come la musica) al fine di non disperdere il patrimonio delle tradizioni popolari. Può sembrare bizzarro adoperarsi per cose immateriali, come la cultura, in un luogo dove si muore di fame; invece, il compito missionario del Tuussaa è preziosissimo.
In primo luogo perché, privati delle proprie radici, i giovani che scelgono di trasferirsi nella grande città sono spesso carne da macello per sfruttatori senza scrupoli; poi, creare le condizioni affinché i giovani possano esprimere il loro talento significa basare lo sviluppo sulla coscienza delle proprie risorse ed energie creative. Al momento, al Tuussaa si danno appuntamento un’apprezzata squadra di calcio e un gruppo musicale, che porta in giro per la regione il suo repertorio di canti e balli.
con occhi di silenzio
Ma padre Gino vorrebbe fare di più. Il suo progetto, ancora in fase embrionale, è di costituire un museo etnografico e una biblioteca in modo da proporsi come associazione specializzata nel turismo e formare, quindi, guide competenti in un settore che potrebbe fungere da volano per la depressa economia locale. In un altro ambito cruciale nonché di emergenza umanitaria, quello sanitario, opera la clinica di Dubbo, distante alcuni chilometri da Konto.
Inaugurata nel 2000, frutto della collaborazione tra un gruppo di benefattori marchigiani, consorziati in una fondazione per dare continuità al servizio, e il Cuamm (Centro universitario aspiranti missionari medici) mette a disposizione un reparto di chirurgia e una pediatria, quest’ultima con venti posti letto.
Per coprire le spese di degenza, si chiede una piccola somma; mentre per quanto riguarda i pazienti visitati mensilmente le stime parlano di 5.000; alcuni provengono addirittura dalla frontiera con la Somalia. Il personale della clinica, formato da medici italiani volontari e infermieri etiopi, deve misurarsi con la malaria, la tubercolosi, l’epatite virale, il glaucoma e soprattutto l’Aids che, per vergogna e disinformazione, viene nascosto come se fosse una colpa divina, finché il virus non si manifesta in tutta la sua virulenza.
Anche il parto rappresenta un pericolo per la vita. Per raggiungere la clinica, molte mamme affrontano a piedi uno spostamento di 5-6 ore, compromettendo seriamente l’esito dell’operazione. In assenza di mezzi di trasporto, il malato viene trasportato dai suoi parenti su una barella fatta in casa, percorrendo diversi chilometri. È davvero un popolo in cammino.
A Boditti (una piccola comunità, sempre nel comprensorio di Soddo) è sorto un calzaturificio, con macchinari giunti dalle Marche, che attualmente non naviga in buone acque, ma che presto si riprenderà alla grande. Le suore della comunità in cui il laboratorio è stato costruito lo sperano con tutto il cuore, perché il popolo che si raduna intorno alle parrocchie chiede quotidianamente un aiuto. E, quando si sparge la voce di un nuovo censimento per individuare i bambini e le famiglie da inserire nel progetto di adozione a distanza, vengono a frotte dai villaggi più sperduti.
L’adozione a distanza è un programma di assistenza che i cappuccini hanno avviato da molti anni e che riguarda circa 6.000 bambini. Per loro significa ricevere una benedizione, in quanto in Etiopia la guerra e le carestie hanno prodotto molti orfani e lasciato piaghe insopportabili. Drammatica è la realtà dei ragazzi di strada, ai quali i frati stanno cercando di dare una degna sistemazione con un’iniziativa che sta partendo a Borkoshé, piccola comunità non lontana da Soddo. Bambini con le croste ai piedi, i lineamenti delicati mortificati in un’espressione imbronciata del viso, rassegnata, quasi da vecchi, con capelli e pelle imbiancati dalla polvere.
Per entrare a far parte del sistema di solidarietà, grazie al quale riceveranno una famiglia italiana disposta ad «adottarli» nelle spese scolastiche e in quelle concrete di tutti i giorni, si mettono in fila silenti, accompagnati da un adulto, guardando fissi nel vuoto, con occhi che contengono solo la fame e il loro nome.

Il natale dei poveri

Tutta l’Etiopia si prepara per festeggiare il natale. Le entrate dei bar e dei negozi sono adoate con piccole luci a intermittenza. In tutte le comunità cristiane intorno a Soddo, il popolo si incontra per il rito della santa notte. Un gruppo di catecumeni, stanziato sui monti che delimitano la valle del fiume Omo, sta scendendo sulla spianata per raggiungere la chiesa di Bale, percorrendo a piedi un sentirnero di sei ore.
Nelle parrocchie dei cappuccini, i giovani hanno preparato varie scenette: un teatro povero e popolare che si ispira al vangelo, in attesa della celebrazione della Parola. Come a Embeccio, la grande chiesa costruita da poco dove, tra l’altro, si raccoglie una laboriosa comunità agricola. Dopo lo spettacolo, una folla con i gomiti sbucciati, qualche toppa sugli indumenti, sommessa ma anche istintivamente viva e sincera, entra in chiesa e inizia a pregare. Da ogni altare si diffonde il canto di una corale; lungo le strade i pubblici ufficiali escono dai loro piccoli e spartani presidi, appoggiano il kalashnikov sul muro e si siedono sotto un fascio evanescente di una lampadina, mentre un presepe essenziale luccica dentro la sua grotta, buia come la notte.
Al mattino, gli altoparlanti della chiesa ortodossa mandano la musica e le parole del predicatore che invita a partecipare alla processione. Anche i movimenti protestanti iniziano alle prime luci dell’alba a sfilare per le vie di Soddo, invasa dai veli bianchi, con i quali le donne si adoano nei giorni di festa. Sulle strade dissestate sembrano aghi mobili sulla terra rossa, disseminati alla rinfusa, muovendosi in ogni direzione, sotto una luce che appiattisce ogni spessore, leviga ogni spigolo, rende tutto comunione e armonia.
Dopo aver partecipato alla processione, Manina, una studentessa, è ritornata a casa per il pranzo con la famiglia. Il pavimento è ricoperto di foglie di granoturco, la sorella più piccola è impegnata nell’antica cerimonia del caffè, che sarà servito molte volte, visto che la casa è aperta ai parenti e a tutto il vicinato. Non esiste la regola dei regali; ci si incontra e si sta insieme, come del resto è d’uso fare anche gli altri giorni. Nella sua stanza, Manina ha i libri in inglese con i quali sta preparando il prossimo esame di economia all’università.
Nella sala da pranzo accende la televisione e, da Addis Abeba, giunge un servizio sui mercati che pullulano di manufatti e scorte alimentari; alcune industrie pubblicizzano i loro prodotti di cosmesi da cartelloni arrugginiti e sbiaditi, piantati lungo il viale che conduce all’aeroporto, da dove la signora delle pulizie aspetta il suo volo per ritornare a Roma.

Paolo Brunacci




ETIOPIA – Un pozzo di speranza

Oltre 1.500 kmq di superficie (pari alla provincia
di Savona), quasi 400 mila persone, zero strutture stradali, sanitarie e scolastiche, tanta fame e malattie endemiche… sono le sfide della nuova parrocchia
di Ropi-Kachachullo, figlia di Shashemane.

«Sono stato io il primo a mettere piede in quella zona, 25 anni fa» afferma sorridendo padre Silvio Sordella, rivendicando la pateità della nuova missione che padre Paolo Marré e fratel Domenico Brusa stanno costruendo a Ropi e Kachachullo, la zona più periferica della parrocchia di Shashemane, in cui padre Silvio svolse le sue prime esperienze missionarie e dove è ritornato come parroco.
Oggi Shashemane conta una scuola per più di 2 mila alunni e un’altra per 120 ciechi, un grande dispensario, un asilo per 600 bambini, un villaggio per ex lebbrosi, una casa per ragazzi di strada, varie attività di promozione umana e della donna, oltre a quattro comunità ben sviluppate, tra cui Alaba che ha un asilo con un centinaio di frequenze e che farà parte della nuova missione. I tre missionari sono coadiuvati dalla presenza di tre famiglie religiose.
Date le urgenze degli inizi, i missionari della Consolata hanno concentrato i loro sforzi in città e d’intorni, senza dimenticare quella parte periferica, con visite sporadiche, costruzione di una cappella a Kachachullo, attività di evangelizzazione mediante i catechisti. Ma per uno sviluppo più intenso si attendevano tempi migliori. E sono arrivati, insieme a padre Paolo.
Veramente, l’avvio della nuova missione è stato provocato da «tempi peggiori». Due anni di siccità hanno messo a rischio l’esistenza della popolazione della zona e i missionari non hanno potuto più procrastinare la loro presenza.

SOTTO LA CROSTA
Il territorio della nuova missione si estende per 100 km di lunghezza e 60 di larghezza nella Rift Valley, su un altopiano tra i 1.600-1.800 metri di altitudine. È una zona vulcanica: uno strato di terreno sabbioso sopra una distesa di pietra pomice, la cui fertilità dipende dal ritmo delle piogge. Prima della carestia c’erano 400 mila persone, ora sono scese a 300 mila: molti sono morti, altri hanno cercato futuro altrove.
Nel maggio 2003, quando visitai Kachachullo, la pioggia era appena caduta; sembrava un paradiso: prati verdi, granturco appena spuntato, due laghetti che parevano pezzi di cielo incastonati in terra come perle.
Ma poi, guardando da vicino, si scopriva una tragica realtà: strade divorate dell’erosione; donne e asini carichi di taniche per attingere acqua chi sa dove, scheletri di animali abbandonati lungo i sentirneri, fame stampata sul viso dei bambini.
La scena si fa ancora più penosa quando arriviamo a Kachachullo: la cappella è pericolante; un migliaio di uomini, donne e bambini attendono il missionario per la celebrazione della messa e per discutere sulla situazione. I vari capifamiglia ripetono la stessa litania: gli animali sono morti; le mucche ancora vive non danno latte o sono tubercolose; il governo ha fatto tante promesse, ma non le ha mantenute.
Padre Paolo assicura che a metà settimana inizierà la distribuzione degli aiuti alimentari in vari centri, con la presenza di due suore di Madre Teresa.
«La carestia ha già fatto migliaia di vittime – spiega padre Paolo -; almeno 100 mila sono a rischio. Il governo ha promesso foiture di granturco, ma ne è arrivato pochissimo, sia perché i camion non si azzardano in queste strade, sia perché questa gente al governo non interessa».
La zona di Kachachullo si trova alla periferia della regione amministrativa dell’Oromia, la popolazione è in prevalenza formata da adia, kambatta, wollaita e altri gruppi etnici, emarginati dalla maggioranza oromo che governa la regione.
La zona di Kachachullo è nella provincia di Siraro; ma il capoluogo, Agge, è distante anni luce da questa gente. «Si prevede la creazione di una nuova provincia, con Ropi capoluogo; ma la divisione non è ancora fattibile, perché non esiste un numero sufficiente di persone che sappiano leggere e scrivere, capaci di ricoprire le cariche amministrative» spiega ancora padre Paolo.

ZERO PIÙ ZERO
«La stagione è promettente, ma l’emergenza durerà almeno altri quattro o cinque mesi, quando saranno mature le prime pannocchie di granturco. Passerà la fame, ma rimangono altri problemi» continua padre Paolo.
Il conto dei problemi è presto fatto. Elettricità zero: la linea elettrica più vicina passa a 40 km di distanza. Strade asfaltate o in terra battuta zero: a ogni temporale, le piste diventano torrenti, scavando buche ad altezza d’uomo. Sanità quasi zero: un medico e 4 infermiere non specializzate per tutta la provincia, con un poliambulatorio ad Agge e tre piccoli dispensari serviti saltuariamente. Ci sono 19 scuole, delle quali 10 arrivano alla terza elementare, 9 all’ottava classe, quando la scuola dell’obbligo in Etiopia ne prevede dieci. Nessuna meraviglia (si fa per dire) se il tasso di analfabetismo della parrocchia è del 90%.
«Ma il problema più grave è l’approvvigionamento idrico» spiega padre Paolo, mentre mi porta a vedere il fiume Billate. L’acqua è abbondante, ma così melmosa che perfino gli animali sembrano schifarla. «Eppure tanta gente fa 8 ore di cammino per attingere questa porcheria e altrettante per tornare a casa – continua il missionario -. In tutta la zona esiste un solo pozzo in funzione, a Ropi, e fornisce una media di 2 litri al giorno per persona ai quasi 30 mila abitanti; mentre sulla zona ne gravitano 100 mila. C’era un pozzo a Sambaté, ma la pompa è bruciata per il sovraccarico».
E quelle due perle di laghetti? «Sono belli da fotografare – spiega padre Paolo -. Dalle analisi risulta che l’acqua ha un elevato tasso di alcalinità (pH 10.1), di fluoro, zolfo e altre sostanze che la rendono dannosa persino per gli animali».
Un rudimentale sistema di approvvigionamento è quello di scavare grandi buche ai bordi della strada, per convogliarvi l’acqua durante la stagione delle piogge. Dove rimane più a lungo, l’acqua imputridisce in fretta, essendo utilizzata da uomini e bestiame, e diventa fonte di malaria, poiché favorisce la proliferazione di zanzare e relative epidemie di malaria.

CASSETTO… APERTO
L’emergenza del 2003 ha messo a nudo le necessità della nuova missione, soprattutto l’impossibilità di una gestione «a distanza». Padre Paolo e fratel Domenico, infatti, risiedono a Shashemane e impiegano 3 ore di andata e altrettante di ritorno per raggiungere Kachachullo.
Le suore di Madre Teresa, che hanno curato la distribuzione degli aiuti alimentari, si sono sistemate nella chiesa di Ropi, facendo tui di 15 giorni: sono tornate a casa regolarmente malate. Il medico che lavorava con le suore è morto di malaria cerebrale.
I missionari hanno cominciato a stilare programmi concreti, secondo priorità immediate, progetti a breve e lungo termine. La costruzione di una casa per i missionari è una priorità assoluta, per vivere tra la gente, capire i veri problemi, rispondere alle loro esigenze, seguire da vicino i programmi di sviluppo e di eventuali emergenze, che si ripeteranno.
Il primo sogno è già fuori del cassetto: come sede della missione è stata scelta Ropi, sia perché è al centro del territorio, sia perché dovrebbe diventare il capoluogo della nuova provincia. Sul terreno, acquistato un paio di anni fa, sta sorgendo la nuova abitazione.
Kachachullo, invece, rimarrà come il luogo «storico» della missione: avrà la chiesa più grande, dal momento che su di essa gravitano quasi 3 mila persone. Un grande mucchio di pietre, accatastate attorno alla cappella sgangherata, aspetta solo il via per diventare casa di Dio e della comunità.
Tra le priorità c’è pure la perforazione di due pozzi, uno a Ropi, dove si prevede di trovare acqua a oltre 270 metri di profondità; l’altro a Kachachullo, vicino al fiume Billate, nella speranza che le falde acquifere non siano troppo profonde. Da qui, l’acqua sarà pompata, per 3 km, vicino alla chiesa, scuole e dispensario.
Tra i progetti a breve termine di Kachachullo, infatti, figura la costruzione di un dispensario e una scuola per 2 mila alunni e relative case per i maestri. È questa la zona più periferica e ufficialmente trascurata, infestata da malaria, tifo, tubercolosi, tracoma e altri malanni tropicali. La chiesa cattolica vi ha aperto una scuoletta e un ambulatorio, ma è poco più di zero: delle tre aule scolastiche, una è crollata, insieme al piccolo dispensario.
Anche nelle varie comunità sono in cantiere la costruzione di strutture più solide, per ora nella forma tradizionale: legno ricoperto di fango e paglia. In quasi tutti questi centri è stato comperato il terreno per la cappella, scuola, servizi igienici e cimitero. Quest’ultimo fa parte essenziale dell’identità di una comunità che si rispetti.
E poi ci sono progetti a lungo termine: un asilo a Ropi, pozzi ad Alemtena e Basa, grondaie e cistee in tutti i centri, per raccogliere l’acqua piovana, quando il ciel la manda. «Pensiamo di intervenire in campo agricolo – continua padre Paolo -, con la creazione di cornoperative agricole, piccoli sistemi di irrigazione, diversificazione delle colture, costruzione di silos per conservare il granturco, sia per fare fronte ai periodi di vacche magre, sia per venderlo quando il prezzo è più conveniente e avee una riserva per il momento della semina, quando i prezzi salgono alle stelle».

LA MESSE È MOLTA…
Nonostante il cumulo di sfide ed emergenze, prosegue il lavoro specificatamente religioso. La nuova missione comprende una decina di piccole comunità di base, che continuano a crescere, nonostante la carenza di strutture adeguate. La cappella di Kachachullo è in rovina; Sinta, Shirko, Damine hanno cappelle di legno e fango; Alemtena e Sambaté case in affitto; altre comunità si radunano sotto gli alberi o, quando piove, in case private. Solo la chiesetta di Ropi sembra in forma: i muri di legno e fango sono ricoperti da intonaco in cemento.
Le comunità più consistenti hanno la messa ogni 15 giorni, le altre ogni due o tre mesi. Tutte, però, si radunano ogni settimana, sotto la guida di catechisti (5 a tempo pieno e una trentina volontari) per pregare, ascoltare la parola di Dio, istruzione catechetica, preparazione dei catecumeni, sensibilizzazione sociale.
Nei giorni feriali le cappelle diventano aule scolastiche, dove una quindicina di maestri a tempo pieno e altrettanti part-time insegnano ai più piccoli a leggere e scrivere.
«Una quindicina di altri posti hanno chiesto la nostra presenza – racconta padre Paolo -. Abbiamo ricevuto petizioni firmate da 100 capifamiglia. Calcolando che ogni nucleo familiare è composto da una decina di persone… fai tu il conto. Ci dispiace non poter rispondere a tali richieste. In alcuni luoghi mandiamo i catechisti, almeno una volta al mese, per preparare il terreno e avviare il catecumenato. Appena ci saremo stabiliti a Ropi e avremo più personale potremo dissodare anche quei campi».
La gente nutre profonda simpatia per la chiesa cattolica. Adia, kambatta e altre etnie minori non vogliono avere nulla da spartire con l’islam, simbolo di oppressione ed emarginazione secolari, protratte fino ai nostri giorni. Per questo tali gruppi etnici vedono nel cristianesimo un’occasione di liberazione e distinzione dagli oromo, in maggioranza musulmani, e di affermazione della propria identità.
«Nella spinta alla conversione giocano anche motivi razziali – spiega padre Paolo -. Da parte nostra insistiamo sulla convivenza pacifica e solidale con tutti. “Come facciamo a considerarli fratelli, quando ci hanno ammazzato fino a ieri?”, ci dicono. Anche alcuni musulmani vogliono diventare cristiani; ma facciamo un discorso molto chiaro: se volete entrare nella chiesa per ricevere più aiuti, lasciate perdere, perché noi aiutiamo tutti, cristiani e musulmani».
Anche se tutti vorrebbero ricevere il battesimo, il cammino è lungo e la selezione rigorosa: il catecumenato dura 4 anni e i candidati devono dare segni evidenti di sincerità, inserendosi concretamente nelle varie attività sociali delle rispettive comunità.
«Ogni anno abbiamo centinaia di nuovi battezzati – conclude padre Paolo -. La mietitura si prospetta abbondante e preghiamo il Padrone della messe di mandare più operai».

Benedetto Bellesi




ETIOPIA – Fame di Dio

Crocevia tra nord, sud ed est del paese, Modjo è pure un luogo strategico delle attività dei missionari della Consolata: opere sociali e pastorali, seminario minore e animazione missionaria vocazionale, fino a diventare un punto di riferimento per la formazione giovanile e centro di spiritualità per preti e religiosi.

Non c’era un filo d’erba verde, 10 anni fa, quando padre Domenico Zordan mi fece visitare il luogo dove stava costruendo la missione di Modjo, lembo meridionale della diocesi di Addis Abeba. Non un albero per ripararsi dal sole, che, sull’altipiano etiopico, sembra più implacabile che altrove. Nel grande prato arido, reso più vasto dalla mancanza di recinzione, unico segno di vita erano i muratori, intenti a ultimare la costruzione dell’asilo e innalzare i muri del salone e del seminario.

Oggi, ritornato nello stesso luogo, mi sembra di sognare: un bel viale di jacarande immette in un’oasi di pace, con prati verdi, vialetti alberati e siepi in fiore che circondano una nutrita serie di edifici; da una parte la casa dei padri, il seminario, il salone l’ampia chiesa e gli edifici del centro di animazione missionaria; dall’altra parte, divisa da una rete metallica e un enorme cancello in ferro, sorgono l’asilo, il dispensario, il centro di promozione della donna e l’abitazione delle suore della Consolata che gestiscono queste attività; in fondo c’è la scuola elementare, costruita dai missionari e consegnata alla gestione governativa. Nonostante l’ampiezza dello spazio, tanti edifici sembrano allo stretto.

UNA SCELTA RESPONSABILE

Si sa come vanno le cose in Etiopia: la chiesa cattolica è considerata quasi come una Ong e la presenza di missionari è condizionata dalla gestione di opere sociali; ma, una volta ottemperata a tale condizione, è libera di svolgere le attività religiose a piacimento.
È così che a Modjo, nel grande terreno concesso dal comune per le opere sociali, i missionari della Consolata hanno costruito anche un seminario minore, per preparare gli aspiranti missionari.

«Attualmente abbiamo sette seminaristi – spiega padre Antonio Benitez -: quattro hanno terminato i dieci anni della scuola d’obbligo e frequentano l’undicesima e dodicesima classe nella scuola statale della città; gli altri tre fanno un anno di propedeutica, cioè di preparazione per entrare nel seminario maggiore di Addis Abeba e frequentare i corsi di filosofia».

Padre Antonio, giovane missionario della Consolata colombiano, è arrivato in Etiopia due anni fa e da pochi mesi è approdato a Modjo, immergendosi totalmente nella vita della missione: insegna nella scuola matea, aiuta nella pastorale e nella formazione dei seminaristi. Anzi, al momento della visita ha la piena responsabilità del seminario, poiché il direttore, il kenyano padre Gabriel Odwori, è in vacanza.

«È un’esperienza gratificante – continua il padre -, anche se non mancano le difficoltà, soprattutto a livello di comunicazione: io sono ancora alle prese con l’apprendimento della lingua amarica e i seminaristi, provenienti da diverse etnie, kambatta, adiya, oromo, hanno difficoltà ad esprimersi in inglese».

Quello dell’inglese è un problema cruciale per tutti i giovani che vogliono accedere agli studi superiori, dove l’insegnamento è impartito in questa lingua: un esame di stato, tutto in inglese, dichiara l’idoneità a tale passaggio. Ma poiché nella scuola statale questa lingua viene appresa ad orecchio, senza badare troppo alla scrittura, per affrontare tale esame è necessario un supplemento di preparazione.

Per questo, buona parte del tempo dell’anno propedeutico è impiegato dai seminaristi nello studio dell’inglese e in corsi di vario genere, per colmare eventuali lacune nella formazione intellettuale e spirituale.

«Anzitutto – continua padre Antonio – i giovani hanno bisogno di approfondire la dottrina cristiana, poiché le nozioni apprese sono alquanto superficiali e tradizionali; inoltre, diamo loro lezioni di bibbia, psicologia e formazione umana. Essi sono ancora alla ricerca della loro vocazione e hanno bisogno di chiarire le motivazioni delle loro scelte».

Negli anni passati il seminario di Modjo aveva più di una ventina di aspiranti missionari; quest’anno sono solo sette. Eppure in Etiopia c’è abbondanza di ordinazioni sacerdotali e vocazioni alla vita religiosa.
«È vero. Ma dovremmo domandarci come mai ci siano tante vocazioni – interviene padre Paolo Angheben -. Si rimane stupiti se le confrontiamo col piccolo numero dei nostri cristiani. Una superiora provinciale etiopica, passando a Modjo, mi fece questa confessione: “Se in Etiopia ci fosse più lavoro, ci sarebbero meno vocazioni”. Venendo da una suora locale, questa frase dice molto. Data la disoccupazione, i problemi di sopravvivenza, l’incertezza del futuro, non mi meraviglio più di tanto che tanti giovani vogliano entrare in seminario, dove hanno da mangiare e possono proseguire gli studi. Capitava così anche in Italia, subito dopo la guerra. La tentazione è forte. Per questo è necessario aiutare questi giovani a un serio discernimento e alla responsabilità delle loro scelte».

GIORNI DI FUOCO

Padre Paolo è ormai un veterano in Etiopia. Vi arrivò nel 1985 e, dopo un intermezzo nel Centro missionario di spiritualità nella Certosa di Pesio (Cuneo), è ritornato al primo amore, prendendo le redini della complessa missione di Modjo.

Essa è nata e cresce come «Centro di animazione missionaria vocazionale»; ma l’arrivo di padre Paolo ha aggiunto una nuova dimensione: è diventata pure centro di spiritualità, un servizio di cui la chiesa locale ha estrema necessità.

In Etiopia, infatti, non ci sono solo problemi di carattere economico e sociale, ma anche a livello di chiesa, soprattutto nella formazione del clero: i giovani affrontano gli studi di filosofia e teologia con profonde carenze di base e la scarsità di personale non permette al seminario maggiore di offrire una formazione adeguata alle sfide della situazione.
«In Etiopia c’è tanta fame, non solo di pane, ma anche di Dio – afferma padre Paolo -. Preti, suore, religiose sentono il bisogno di maggiore profondità spirituale. I sette anni di esperienza nella Certosa di Pesio mi hanno preparato a rispondere a questa sfida della chiesa in Etiopia».

Per ora il centro di Modjo organizza incontri e ritiri spirituali di una giornata; ogni mese si svolge la scuola di preghiera: il sabato per le religiose, la domenica per i giovani, il lunedì per i sacerdoti. Sono chiamati «la tre giorni di fuoco». Nel corso dell’anno sono accolti gruppi giovanili delle singole parrocchie della diocesi di Addis Abeba e di quelle circostanti, per una giornata di formazione e approfondimento della vita cristiana.
L’iniziativa sta riscuotendo un crescente successo: oltre all’apprezzamento del vescovo, sono molte le singole persone, preti, suore e laici impegnati, che vengono al Centro per trascorrere un fine settimana o più giorni in preghiera e meditazione, o fare un ritiro spirituale sotto la direzione di padre Paolo.

A tale scopo, Modjo offre molte possibilità: la città è un nodo stradale di comunicazione tra nord, sud ed est del paese; la missione è lontana dal traffico, per cui offre ampi spazi di silenzio; l’ambiente è ombreggiato e il Centro è dotato di alcune camerette semplici ma confortevoli.

Sono molte le richieste di corsi prolungati da parte di giovani e catechisti. «Finora mi sono recato nelle singole parrocchie – spiega padre Paolo – e ho guidato settimane di formazione e spiritualità nel centro catechetico di Gighessa; ma ci stiamo attrezzando per accogliere e alloggiare i gruppi giovanili anche a Modjo. Avere dei giovani che risiedono per più giorni in questo centro dà la possibilità di fare un lavoro più in profondità. Non bisogna dimenticare che la vocazione nasce dalla preghiera e noi vogliamo formare i giovani alla preghiera».

STORIA DELLA SALVEZZA

Per comprendere meglio lo scopo del suo lavoro, padre Angheben mi porta in cappella e mi spiega il significato degli oggetti che ne adoano le pareti. «È la cappella della storia della salvezza» spiega il padre.
Nella parete di fondo, in basso a sinistra, un ceppo secco richiama la profezia di Isaia: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto spunterà dalle sue radici». Il germoglio, promessa di nuova speranza per il popolo d’Israele e per tutta la storia umana, è Gesù, spiega padre Paolo, indicando l’icona della Madonna della tenerezza, che raffigura Maria mentre stringe al petto il figlio divino.

La storia della salvezza culmina nella morte e risurrezione di Cristo, raffigurata in una grande croce etiopica che domina il centro della parete. «È la croce gloriosa, la croce della risurrezione, secondo la tradizione etiopica».

Sotto la croce c’è un bastone rosso. Esso ricorda il serpente di bronzo di Mosè, che Gesù prese come simbolo del suo innalzamento sulla croce (cfr Giovanni cap. 3); al tempo stesso, richiama il bastone del pellegrino, che nell’iconografia è sempre di colore rosso. Il bastone è sostenuto da una specie di contenitore rotondo, tipico della tradizione etiopica: i viandanti vi mettono il cibo per il viaggio; qui funge da tabeacolo, dove è conservata l’eucaristia, il cibo che sostiene il pellegrinaggio della vita cristiana. «Meta del nostro cammino è la comunione con la Trinità» continua padre Paolo, indicando, a destra della croce, la grande icona della Trinità di Rublev.

«Questa storia la celebriamo ogni giorno nella messa. Al centro della cappella ci sono due massob, altro oggetto tipico della cultura etiopica: viene regalato agli sposi il giorno delle nozze: è il loro tavolo da pranzo. Quello più grande lo usiamo come altare per celebrare l’eucaristia, il banchetto delle nozze etee dell’Agnello. Su quello più piccolo c’è una bibbia aperta: entrambi i massob ci ricordano il pane della parola e il pane del corpo di Cristo».

Sulla parete destra è appeso un grande quadro del beato Giuseppe Allamano. «L’eucaristia porta subito alla missione – conclude padre Paolo -. È necessario raccontare agli altri la storia della salvezza, come ha fatto e continua a fare il nostro fondatore, chiamando e inviando i suoi missionari».

I FIGLI DEL MASSAIA

La missione di Modjo ha tutte le attività di una parrocchia. La comunità è ancora piccola: conta appena una decina di famiglie cattoliche e altrettante miste, con un genitore cattolico e l’altro ortodosso. È una situazione familiare non priva di tensioni, ma potrebbe diventare un punto di partenza per il dialogo ecumenico, con un approccio ancora tutto da inventare.
La maggior parte di coloro che frequentano la chiesa sono giovani, a volte con afflusso massiccio, ma incostante, attirati dalle iniziative religiose e sportive promosse dalla missione e, forse, dalla speranza di avere qualche aiuto materiale.

Modjo dà l’impressione di essere una zona ricca; ma in realtà c’è molta povertà, soprattutto morale. Essendo un importante nodo stradale nel cuore del paese, la cittadina è nata e vive di attività legate a piccoli commerci e alberghetti per gente di passaggio, specie camionisti, con conseguente diffusione di prostituzione e Aids. Un bambino su cinque è orfano a causa di tale flagello.

«Non è facile parlare di Dio in una situazione del genere – confessa padre Paolo – Modjo è una missione complessa e difficile. Tuttavia facciamo il possibile per rispondere ai problemi della popolazione col nostro lavoro pastorale, di formazione giovanile e opere sociali».

In queste attività, i missionari sono affiancati dalle suore missionarie della Consolata, che gestiscono l’asilo, dispensario medico e un centro di promozione della donna, frequentato da ragazze e madri di famiglia. In esso imparano cucito, economia domestica e a gestire piccoli progetti con cui guadagnare qualche soldo e sostenere dignitosamente la famiglia.
Provvidenziale è pure il lavoro che le suore svolgono nel dispensario, sia nella cura della popolazione della città, sia con campagne di vaccinazioni nei vari villaggi della zona.

La missione, infatti, si sta estendendo anche nelle zone rurali. A Dibandiba, periferia della città, è stata costruita una scuola cappella che raccoglie 250 bambini e giovani della zona; un’altra è in progetto a Ejersa, a 15 km da Modjo: per ora giovani e bambini si radunano all’ombra di un grosso sicomoro.

Di recente, padre Paolo ha visitato anche i villaggi più lontani da Modjo, dove si trovano alcuni discendenti dei cattolici battezzati dal cardinal Massaia, rifugiatisi in questa zona per fuggire alle persecuzioni che, negli anni 1880, l’imperatore Giovanni iv, istigato dal patriarca copto, scatenò contro il grande missionario e la chiesa da lui fondata. Anche questi cristiani hanno fame di Dio.

Benedetto Bellesi