La lanterna resta accesa. Padre Bernardo Sartori, missionario

Italia, Uganda
Francesco Bernardi

L’ultima volta che lo incontro è a Roma, lungo Via San Pancrazio. Un caldo giorno d’estate del 1968. Sono in autobus, quando scorgo sul marciapiedi una veste nera e una barba bianca.

«Ferma, ferma! – grido al conducente del bus -. C’è un’emergenza!». L’autobus si ferma fra lo stupore generale. Le porte a fisarmonica del mezzo si aprono.

Corro da lui, distante circa 70 metri, e lo chiamo: «Padre Bernardo!».

Quando mi vede, esclama: «Varda, varda el fiòl de Marino» (Guarda, guarda il figlio di Marino).

«Cosa fai qui a Roma?», mi chiede.

«Sto studiando teologia».

Conversiamo un po’. Naturalmente in dialetto veneto.

Padre Bernardo Sartori, quando ti incontra, chiunque tu sia, ti fa sentire «unico» nella sua vita. Così è anche per me in questo giorno romano.

Tuttavia, le persone accolte nel suo cuore sono migliaia e migliaia: a Falzé di Trevignano (Treviso), suo paese natale, a Troia (Foggia), dove ha operato come animatore missionario e, soprattutto, in Uganda, che lo vedrà missionario per 49 anni filati.

Padre Bernardo ha una parola speciale «solo per te». Una parola gioiosa.

Alla fine del nostro incontro nella capitale mi prende per mano dicendo: «Méname casa, parché me son pers qua a Roma» (Portami a casa, perché mi sono perso qui a Roma).

Padre Bernardo Sartori dal 2022 è «venerabile». Presto sarà «beato». Un fulgido esempio della Chiesa missionaria.

Quella stupida guerra

Bernardo Sartori nasce il 20 maggio 1897. Una frazione con meno di mille persone, tutta campi di frumento, granoturco, foraggio per vacche e buoi, gelsi per i bachi da seta e filari di viti. Ma spesso la metà dei raccolti è roba del «paròn». I contadini, infatti, in stragrande maggioranza sono fittavoli o mezzadri.

Fra i «paroni» c’è pure un conte. I bambini, quando lo vedono passare per strada fumando il sigaro, lo sbeffeggiano con la cantilena: «Conte coe braghesse onte / conte col capel de paia / conte canaia» (Conte con i pantaloni unti / conte con il cappello di paglia / conte canaglia).

Quei «paroni», con le loro mogli e amanti, sono spesso «canaglie», incuranti della fame e pellagra che affligge i contadini.

Un giorno padre Angelo Pizzolato, frate cappuccino di Falzé, durante un’omelia denuncia: «La nostra gente è rimasta povera a causa di due, tre signorotti».

Povera è pure la famiglia di Bernardo Sartori. Ad esempio: per pagare la retta del seminario diocesano, dove Bernardo studia da prete, i genitori devono togliersi la polenta dalla bocca. Polenta, perché il pane lo mangiano solo i «paroni».

Scoppia la Prima guerra mondiale (1914-1918). È «la grande guerra».

«Un’inutile strage», come lamenta il papa Benedetto XV. Falcia la vita a 10 milioni di persone. I caduti italiani sono 650mila (senza contare i civili) e i mutilati 450mila.

Nel 1917 anche Bernardo Sartori, ventenne, viene arruolato e mandato sul fiume Isonzo.

Una notte le mitragliatrici degli austriaci crepitano furiose a pochi passi da lui, le granate gli piovono intorno come arpie seminando morte. I cadaveri si ammassano al suolo tra urla disperate. Bernardo dice a se stesso: «È finita anche per me».

Poi si inginocchia, stringe la corona del rosario e prega: «Madonna santa, non farmi morire in questa stupida guerra. Io voglio andare fra i neri dell’Africa».

Amico lettore, se ti capita di entrare nella chiesa parrocchiale di Falzé, sosta davanti all’altare della Madonna del Carmine. Fra i vari ex voto «per grazia ricevuta» ne troverai uno firmato «Chierico Bernardo Sartori». Testimonia la sua vittoria in «una stupida guerra».

Da Troia a Ortisei

«Io voglio andare fra i neri dell’Africa».

Quella notte, sotto una tempesta di bombe, Bernardo Sartori promette di diventare missionario. E missionario sarà sulla scia di san Daniele Comboni, fondatore dell’omonimo istituto missionario.

Ordinato sacerdote il 31 marzo 1923, padre Bernardo è pronto per il grande balzo verso l’Africa, ma lo scoprono tisico con i polmoni bucati. La morte lo attende impietosa. Il tubercolotico, però, guarisce, ancora «per grazia ricevuta» dalla Madonna del Carmine di Falzé.

Ora si parte? Non ancora. Nel 1927 il superiore dei Comboniani lo manda a Bovino, in provincia di Foggia, per iniziare un seminario missionario. Però il seminario nascerà nella vicina, gloriosa ed antica Troia, che nulla ha a che fare con la Troia della seducente Elena, descritta dal poeta greco Omero.

Siamo sempre nel foggiano. Qui padre Bernardo e alcuni comboniani fanno i preti, risiedono in una casa (un ex convento) dedicata a «Maria Mediatrice di tutte le grazie». Sennonché «la Mediatrice» non c’è. Mancano pure i quattrini per comprarne un’immagine.

La notizia giunge fino al vescovo Fortunato Farina, che mette mano al suo portafoglio.

Padre Bernardo, in fatto di Madonne, ha gusti fini. Non si accontenta di immagini qualsiasi, magari rabberciate con lo spago. Per Troia, Bernardo esige una Maria Mediatrice pregevole, artistica, nuova di zecca. Soprattutto che parli al cuore dei troiani.

A tal scopo raggiunge Ortisei, in Alto Adige, dove si intagliano statue sacre in legno pregiato.

«Non voglio “una Madonna nordica”, perché io sono missionario nel Sud Italia – esordisce padre Bernardo di fronte all’artigiano altoatesino -. Inoltre, deve essere una Madonna missionaria».

«Si spieghi meglio, reverendo, perché lei sta andando sul difficile», replica l’artigiano dall’accento teutonico.

«La Madonna – spiega padre Sartori – tenga in una mano il piede di Gesù Bambino e con l’altra ne sorregga il braccio, quasi voglia porgerlo ai fedeli visitatori. Insomma, una Madonna che presenti a tutti Gesù salvatore del mondo». Oggi, secondo la mariologia moderna, la Madre del Signore è immagine e inizio della Chiesa, che avrà il suo compimento domani e dopo domani. Nel frattempo, Maria, per il travagliato popolo di Dio, «brilla quale segno di sicura speranza e consolazione» (Lumen Gentium 68). Infine, nel 1965, al termine del Concilio Ecumenico Vaticano II, papa Paolo VI (oggi santo) dichiarerà Maria «Madre della Chiesa». La dimensione mariana è uno dei cardini della spiritualità del nostro missionario.

Maria, Sultana d’Africa

Emoziona il tenore Andrea Bocelli, cieco, quando canta: «Con te partirò. Paesi che non ho mai veduto e vissuto con te, adesso sì li vedrò».

Finalmente anche padre Bernardo Sartori parte. Parte per un paese mai visto. È l’Uganda dei martiri Carlo Lwanga e dei suoi 21 compagni (alcuni anglicani). Parte il 5 novembre 1934 con in cuore tutte le persone cui ha comunicato la sua passione missionaria in Italia.

Quando arriva a Gulu, trova ad attenderlo fratel Arosio, un amico fin dai tempi di Troia.

«Ciao, vecchio. Cosa sei venuto a fare in Uganda?», lo canzona Arosio.

«Sono venuto a costruire chiese per la Madonna», sorride Bernardo.

«Ed io ti aiuterò», conclude Arosio.

«Costruire chiese per la Madonna». Grazie al sostegno dei compaesani di Falzé, degli amici di Troia e di altri benefattori, padre Bernardo costruirà numerose chiese in onore della Madre del Signore.

Ne ricordo quattro: Maria Sultana d’Africa a Lodonga, Maria Madonna di Fatima a Koboko, Maria Regina Mundi a Otumbari, Maria Madre della Chiesa a Arivu.

A Lodonga la vita è particolarmente complessa, perché è controllata in tutto dai musulmani. I colonialisti inglesi, che dominano l’Uganda, ritengono che a Lodonga l’Islam diventerà presto l’unica religione dell’intera tribù dei Logbara. Però padre Sartori erige una barriera con Maria, Sultana d’Africa. Ebbene, l’avanzata islamica si arresta. Nel 1961 i musulmani sono 30mila, e 30mila rimarranno a tutt’oggi, mentre i cattolici aumenteranno. Inoltre, parecchi musulmani abbracceranno il Cristianesimo. Di qui l’affermazione: «L’unico missionario capace di convertire i musulmani è padre Bernardo Sartori».

C’è «una logica soprannaturale» nel missionario: Maria è la porta dell’evangelizzazione (ad Iesum per Mariam). Così la chiesa materiale è il coronamento visibile di un’altra realtà più importante: la nascita della Chiesa viva.

Alla costruzione di chiese padre Bernardo abbina sempre un’altra opera assai più impegnativa e significativa: l’annuncio della «lieta notizia».

Ecco, allora, le interminabili visite alle comunità cristiane a piedi, in bicicletta o con la famosa moto a monocarrello; ecco le interminabili maratone sacramentali, le istruzioni, le penitenze. Il tutto accompagnato da una predicazione appassionata, canti coinvolgenti e una costante promozione sociale e spirituale.

Last but not least, tanta preghiera personale e altrettanta affabilità verso tutti.

Solo così si spiegano le conversioni dei seguaci di Muhammad.

Quello storico mattino

Dal 1971 il missionario vive le drammatiche vicende della bizzarra quanto brutale dittatura di Idi Amin Dada, nonché la sua caduta nel 1979, conseguente alla guerra Uganda-Tanzania.

Nel 1979 l’esercito del Tanzania invade l’Uganda fino alla capitale Kampala. È una dura «ritorsione», giacché i soldati di Amin hanno invaso per primi il Tanzania a Kagera.

Il Tanzania pagherà salatissima, in termini economici, quella invasione di «liberazione», mentre l’Uganda sprofonderà nella guerra civile.

Nella missione di Arivu tanti cristiani di padre Bernardo cercano scampo nel Congo (allora Zaire). Il missionario li segue, profugo tra i profughi.

Nel 1980 ritorna in Uganda e il 28 aprile rimane coinvolto in una sparatoria a Otumbari.

Da giugno a luglio 1982, padre Bernardo è nuovamente profugo in Congo. Instancabile nella pastorale e nell’assistenza alla popolazione abbattuta nel fisico e nel morale.

Ritorna in Uganda, nella missione di Ombaci. Ha 85 anni. È molto stanco.

Ma ogni mattina sosta in chiesa dalle ore 4 alle 8. Come se non bastasse, trascorre notti intere in preghiera.

Pure quel mattino, mentre in cielo si rincorrono le stelle sotto lo sguardo assorto della luna, il missionario entra in chiesa facendosi luce con una lanterna al cherosene.

È storico quel mattino, perché è il mattino di Pasqua del 3 aprile 1983.

Ora padre Bernardo Sartori giace esamine sul pavimento della chiesa al cospetto del Santissimo. È ritornato alla casa del Padre.

La lampada è ancora accesa, segno di una fede che ha vinto la morte.

L’arrivederci del popolo di Uganda al suo missionario è una apoteosi di commozione e riconoscenza senza pari.

La notizia raggiunge la gloriosa Troia, che proclama il lutto cittadino.

Mentre la modestissima Falzé canta l’alleluia pasquale, perché il loro indimenticabile compaesano è risorto.

Francesco Bernardi

 

L’articolo si rifà liberamente al libro «La sfida di un uomo in ginocchio» (padre Bernardo Sartori, missionario comboniano in Uganda), scritto da Lorenzo Gaiga, Emi, Bologna 1985.

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