Sicurezza e cooperazione, facciamo chiarezza
testo di Chiara Giovetti |
A ogni rapimento di personale delle organizzazioni non profit sul campo riemergono una serie di pregiudizi o semplicemente di luoghi comuni legati alla scarsa informazione su un mestiere, quello del cooperante, che in Italia fatica a essere considerato un lavoro vero.
«Alla fine, con i militanti eravamo diventati amici@». Non sono parole di Silvia Romano, la ragazza milanese rapita in Kenya nel novembre del 2018 e liberata nel maggio del 2020 dopo essere stata per 18 mesi prigioniera dei terroristi somali di Al Shabaab, ma quelle – riportate dall’agenzia Adnkronos – di Cosma Russo, dipendente Agip rapito dai ribelli del Movimento per l’emancipazione del delta del Niger (Mend) in Nigeria nel dicembre 2006 insieme ai colleghi Francesco Arena e Roberto Dieghi.
«Torneresti laggiù?»
Quel sequestro si concluse con la liberazione degli ostaggi: il Mend decise di lasciar andare Dieghi nel gennaio del 2007 a causa delle sue condizioni di salute non buone, mentre Arena e Russo furono liberati due mesi dopo, in marzo. Il quotidiano La Repubblica riportando le parole della moglie di Arena ipotizzò che fosse stato pagato un riscatto, ma Eni, il gruppo di cui Agip fa parte, ha sempre smentito con forza.
In una intervista a un giornale on line, Girodivite, Francesco Arena si era detto pronto a ripartire non appena l’azienda gli avesse comunicato la sua nuova destinazione, aggiungendo di non essere interessato a lavorare al petrolchimico di Gela, la sua città d’origine, dove si sarebbe sentito più recluso che nella giungla@.
Il sequestro e la sua conclusione furono seguiti dai media italiani: Stefano Liberti del Manifesto riuscì anche ad andare a intervistare Arena e Russo durante la prigionia e al momento della liberazione erano presenti le telecamere delle Iene e il giornalista Massimo Alberizzi@. Ma la vicenda, una volta terminata con il rilascio, non ebbe lunghi strascichi di polemiche, di discussioni nei talk show e di particolari approfondimenti sui giornali. Nessun commentatore all’epoca accusò i rapiti di essere in combutta con i rapitori per aver detto di questi ultimi che erano stati gentili, né mise in discussione il fatto che un tecnico di un’azienda petrolifera potesse tornare a fare il proprio lavoro in aree pericolose.
Tre anni prima, Simona Pari e Simona Torretta, cooperanti della Ong Un Ponte Per…, rapite a Baghdad da un gruppo di uomini armati che si definivano «Seguaci di Al-Zahawiri», e rilasciate dopo tre settimane, erano state duramente criticate per l’abito tradizionale iracheno che indossavano al loro rientro in Italia, dopo la liberazione, e per aver dichiarato che speravano di poter tornare in Iraq a lavorare@. Il quotidiano Libero le definì «vispe terese», diversi commentatori le accusarono di essere delle ingrate@ e nacque un dibattito – abbastanza scomposto e basato su notizie false – sugli stipendi dei cooperanti@.
Triste copione
A ogni sequestro di operatori della cooperazione si ripete in modo abbastanza simile questo stesso copione: i rapiti vengono accusati di leggerezza, di irresponsabilità o addirittura di connivenza. Se, poi, un sequestrato, una volta libero, dichiara di voler ripartire, questa sua volontà viene vista come un capriccio o addirittura come una provocazione. La stessa intenzione di tornare a fare il proprio lavoro anche in aree a rischio, se è manifestata da un ingegnere dell’Agip, viene invece a malapena commentata.
L’impressione è che molta parte dell’opinione pubblica italiana non veda la cooperazione come una professione, ma come un’attività che c’entra più con il fare del bene a tempo perso. Il fatto che nei dibattiti, sui social come in Tv, questa visione venga contrastata opponendole quella agli antipodi – la retorica della meglio gioventù, dell’Italia migliore, dell’eroismo, del sacrificio, eccetera – non solo complica un dialogo già difficile. ma impedisce alla cooperazione di acquisire il semplice, legittimo. status di lavoro a tutti gli effetti. Non un avventuroso passatempo, né un immolarsi alla causa degli ultimi: un lavoro.
Cooperanti
I cooperanti sono le persone che lavorano per le organizzazioni che fanno cooperazione internazionale per lo sviluppo. Questa cooperazione è un ambito ben preciso, regolamentato da leggi dello stato – la più rilevante delle quali è la legge 125 del 2014 – e presente anche nel nome del ministero che contribuisce a regolarla e gestirla, il Maeci, cioè il ministero per gli Affari esteri e la Cooperazione internazionale. L’altro ente che la regola è l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, Aics, che fra le altre cose tiene l’elenco di quelle che agenzia e ministero riconoscono come organizzazioni in possesso dei requisiti per svolgere attività di cooperazione e per gestire fondi pubblici. Prima della legge 125 si chiamavano Ong, organizzazioni non governative, oggi ci si riferisce a loro con l’acronimo Osc, organizzazioni della società civile, anche se di fatto l’espressione Ong è tuttora di uso comune.
È bene ribadirlo: Africa Milele, l’organizzazione con cui Silvia Romano ha lavorato a Chakama, in Kenya, così come Horryati, l’associazione con cui collaboravano Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, rapite e poi rilasciate in Siria nel 2015, non sono Ong (o Osc) e non hanno un riconoscimento ufficiale da parte del Maeci. Nessuna delle tre ragazze all’epoca del rapimento era, quindi, una cooperante. Un Ponte per…, l’organizzazione di Simona Pari e Simona Torretta, invece è una Ong, così come lo è il Cisp, per cui lavorava nel Sahara occidentale Rossella Urru, rapita insieme a due colleghi nell’ottobre del 2011 e liberata nel luglio del 2012. Care International, l’organizzazione cui apparteneva Clementina Cantoni – sequestrata e poi liberata a Kabul nel 2005 – è una Ong internazionale (per la precisione una famiglia di Ong nazionali fra loro confederate) ma non ha una «filiale» italiana.
Tutto questo significa che le organizzazioni al di fuori dalla lista dell’Aics siano amatoriali e poco serie? No, o almeno non per forza. Ma chiamare cooperante chiunque si trovi in paesi a medio o basso reddito a svolgere attività nell’ambito sociale crea solo ulteriore confusione.
E volontari
I volontari sono un’altra categoria ancora: possono essere persone che operano in progetti di cooperazione nell’ambito del servizio civile internazionale – e in questo caso percepiscono un assegno di 439 euro mensili più un’indennità giornaliera che va dai 13 a i 15 euro a seconda dell’area geografica in cui si svolge il servizio@ – o persone non in servizio civile ma comunque impiegate dalle Osc nell’ambito di un progetto di cooperazione insieme ai cooperanti. Un decreto interministeriale del 2015 fissa la retribuzione mensile per i cooperanti a 1.519,67 euro, e per i volontari in 849,40 euro@.
Per tutto questo personale, la sicurezza sul campo e gli obblighi assicurativi sono stabiliti chiaramente per legge e per contratto.
La parola «volontario» si usa comunemente anche per definire tutti quelli che passano un periodo sul campo – a volte a proprie spese, altre godendo di vitto, alloggio e un minimo di rimborso – per svolgere delle attività che possono o no avere la forma di progetto o semplicemente per conoscere il paese ospitante. È il caso dei campi di lavoro offerti da congregazioni religiose o da associazioni di vario tipo e dimensioni, che di solito prevedono itinerari e attività chiaramente definiti, condizioni di sicurezza adeguate e una copertura assicurativa@.
Regole chiare per la sicurezza
Vi è, inoltre, un mondo di piccole associazioni che operano in modo meno rigoroso, come ha sottolineato su vita.it la deputata Lia Quartapelle, intervenendo nel dibattito sulla sicurezza di cooperanti e volontari@: «Purtroppo però nei Pvs operano non solo Ong con una professionalità consolidata, ma anche tante associazioni, anche molto casalinghe, come sembra essere l’associazione Africa Milele con cui era partita Silvia, che stanno in piedi con la logica del volontarismo e della buona volontà».
Quartapelle, poi, allarga il ragionamento oltre il contesto delle Ong: «Giulio [Regeni] era legato a una università straniera; Greta [Ramelli] e Vanessa [Marzullo] sono partite con un biglietto low-cost e una borsa piena di medicine comprate con soldi raccolti attraverso una colletta. [Luca] Tacchetto era in vacanza, appoggiato alla famiglia della sua fidanzata. Gabriele Del Grande era entrato in Turchia per fare il giornalista con un visto turistico, in quella che è la dura gavetta dei freelance-attivisti». «I soggetti che inviano persone in contesti di rischio», dice la deputata, «devono essere legalmente responsabili per la loro sicurezza»: le Ong sono responsabili del personale che inviano in quanto datori di lavoro, mentre le università, le associazioni e i giornali «non lo sono. Ma devono diventarlo».
«Vanno a cercare se stessi»
Non c’è, nel nostro paese, la cultura del gap year, dell’anno sabbatico, molto diffusa invece nel mondo anglosassone, per cui non solo è normale ma è anche visto generalmente di buon occhio che un ragazzo, appena finito il college o l’università, si prenda un anno per viaggiare, provare diversi lavori, fare volontariato e, in definitiva, farsi un’idea più concreta e realistica di quello che vuole sia il passo successivo nella sua vita.
Forse è anche per la mancanza di questa consuetudine che in Italia sono in molti a liquidare le partenze dei giovani verso paesi del sud del mondo come un non meglio definito, astratto e idealistico viaggio alla ricerca di se stessi. Può esserci del vero in questa lettura, ma non è la sola possibile: un periodo all’estero fa anche curriculum. Che intenda perseguire una carriera nella cooperazione o voglia far valere l’esperienza all’estero in altri ambiti lavorativi, chi include nel proprio profilo un’esperienza di volontariato in Africa, Asia, America Latina, lo fa anche per dimostrare che è in grado di usare una lingua straniera, che è incline a confrontarsi con culture e condizioni diverse da quelle di provenienza e, probabilmente, che è indipendente, capace di informarsi e organizzarsi. Questi sono requisiti che anche nel mercato del lavoro italiano pare comincino ad acquisire più interesse di un tempo@.
«Si può fare del bene anche nel proprio quartiere»
Chi identifica la cooperazione con l’idea di fare del bene non perde occasione, ad ogni rapimento o incidente che coinvolge personale sul campo, per commentare che il bene si può fare anche in Italia.
Ancora una volta, c’è del vero ma non è questo il punto. In un mondo nel quale le persone vanno in vacanza sulle coste italiane ma anche a Zanzibar e in cui le aziende commerciano con altre regioni del proprio paese ma anche con il Vietnam, anche i professionisti del settore sociale possono lavorare nelle periferie abbandonate delle città italiane quanto nelle aree remote dei paesi a basso reddito.
Un cooperante, in definitiva, è un professionista che decide di mettere le proprie competenze in un settore al servizio (stipendiato, certo) di un progetto di cooperazione in un paese che non è il suo, magari dopo aver lavorato nello stesso settore in patria e tornando a farlo alla fine del periodo passato all’estero.
Oggi ci sono anche decine di master universitari che contribuiscono a formare figure professionali con le competenze specifiche del cooperante, ma quello nella cooperazione era un lavoro anche prima dell’avvento di questi master e prima dell’introduzione stessa della parola «cooperante».
L’ambito sanitario ne è un esempio molto chiaro – sono decine, probabilmente centinaia, i medici attivi negli ospedali italiani che si sono impegnati e si impegnano tuttora in progetti di cooperazione sul campo – ma non è il solo. Ingegneri, amministratori, interpreti, giornalisti, contabili sono solo alcuni dei profili professionali che non di rado passano più volte nel corso della carriera da un impiego in un’azienda privata o nel settore pubblico a un lavoro nella cooperazione.
Chiara Giovetti